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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 02/12/2009 Scarica PDF
Obbligazioni pecuniarie: interessi legali e maggior danno. I principi posti dalla Cassazione, S.U. civ., sentenza n. 19499 del 16 luglio 2008
Roberto Marcelli, Consulente FinanziarioSommario: 1. Premessa; 2. La Sentenza della Cassazione, Sezioni unite civili, 16 luglio 2008, n. 19499; 3. Considerazioni e riflessioni; 4. Sintesi e conclusioni.
1. Premessa
Come è noto l'art. 1224 regola il danno nelle obbligazioni pecuniarie. Nelle
obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro sono dovuti, dal giorno
della mora, gli interessi legali. Al creditore che dimostra di aver subito un
maggior danno spetta l'ulteriore risarcimento.
Mentre nelle obbligazioni di valore il giudice procede automaticamente alla
rivalutazione delle somme spettanti, nelle obbligazioni di valuta vale il
principio nominalistico: il debitore è liberato pagando l'esatto ammontare
"nominale"1. Nelle prestazioni pecuniarie viene riconosciuto al
creditore non soddisfatto solo gli interessi legali che, per altro, non possono
essere liquidati d'ufficio ma devono essere oggetto di una specifica richiesta.
Nel caso in cui sia configurabile un "maggior danno", eccedente gli
interessi legali, ne deve essere fornita specifica prova: in particolare, il
rischio di svalutazione assume rilievo solo come eventuale "maggior
danno", per la misura che sopravanza il tasso legale. Il creditore
pertanto, attraverso un esplicito petitum e specifici elementi di prova può
richiedere distintamente, il capitale originario, gli interessi legali e, con
adeguati elementi di prova, il maggior danno: quest'ultimo viene riconosciuto
esclusivamente per la parte non ricoperta dagli interessi legali2.
Nel corso degli anni '70 e '80, la notevole lievitazione del tasso di
inflazione aveva determinato una marcata divergenza di quest'ultimo dal tasso
legale: a fronte di un tasso legale del 5%, l'inflazione aveva raggiunto punte
nell'intorno del 20%.
Sul riconoscimento del maggior danno, come tutela rimediale aggiuntiva, la
giurisprudenza aveva assunto posizioni diverse, più flessibili, sino a che la
Cassazione a Sezioni Unite aveva stabilito il principio che il fenomeno
inflattivo non poteva consentire un automatico adeguamento dell'ammontare del
debito, ma rimaneva in capo al debitore l'onere di dimostrare il maggior danno
ex art. 1224, 2° comma, c.c. (Cassazione S.U. n. 2368/86). La natura della
prova veniva per altro connessa, in via presuntiva, alla qualità e condizione
della categoria di appartenenza del creditore (Cassazione S.U. n. 3776/79;
Cassazione n. 2013/90; più recentemente Cassazione n. 18450/07 e n. 19927/07).
Il legislatore interveniva prima nel '90, elevando al 10% il tasso legale, poi
nel '96, riducendo di nuovo al 5% il tasso legale ma demandandone l'adeguamento
al Ministro dell'Economia "sulla base del rendimento medio annuo lordo dei
titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso
di inflazione registrato nell'anno".
Il Ministro dell'Economia è intervenuto più volte: il tasso di intesse legale è
stato via via adeguato, contemperando i tassi di mercato con i tassi di
inflazione.
Negli anni '90 e '00, il ridimensionamento dell'inflazione si è accompagnato ad
una parallela flessione dei tassi di interesse: il tasso legale è risultato per
lo più superiore al tasso di inflazione, facendo venir meno i timori di un
degrado monetario dei debiti pecuniari in contestazione.
Tuttavia il tasso legale è stato mantenuto su livelli apprezzabilmente
inferiori ai livelli di tasso espressi dal mercato finanziario. Il maggior
rendimento, corrisposto negli ordinari impieghi di denaro, è venuto così a
costituire un incentivo economico all'inadempimento contrattuale: i lunghi
tempi di definizione delle vertenze giudiziarie, congiuntamente alla
capitalizzazione semplice associata alla mora legale, oltre che al risarcimento
del maggior danno, hanno reso non trascurabile i riflessi economici dipendenti
dai tassi, con ricadute in termini di incremento del contenzioso civile e di
parallelo ostacolo all'ordinato svolgimento dei rapporti economici.
Sulla problematica è recentemente intervenuta la Cassazione in Sezioni riunite,
con la sentenza n. 19499/08. Abbandonando i criteri presuntivi collegati alla
categoria del creditore, la sentenza si pone l'obiettivo di un miglior
accostamento del risarcimento al danno, intervenendo sulla differenza, lucrata
dal debitore, tra quello che è agevolmente in grado di ricavare dal denaro non
versato al creditore durante la mora debendi e quello che dovrà al creditore
quando adempirà la propria obbligazione, mirando, per tale via, ad ottenere un
effetto di disincentivazione dell'inadempimento, con sinergici riflessi sul
numero e durata dei giudizi e, più in generale, sull'ordinato svolgimento dei
rapporti economici.
Le modifiche introdotte con la sentenza appaiono tuttavia di scarso rilievo
economico e di debole effetto disincentivante. Il diritto riconosciuto, a
titolo di maggior danno, risulta per lo più di contenuto economico irrisorio,
con il risvolto non trascurabile di precludere, in via presuntiva, forme alternative
di riconoscimento del maggior danno.
2. La Sentenza della Cassazione, Sezioni unite civili, 16 luglio 2008, n. 19499
La Sentenza della Cassazione parte dall'osservazione che "la più comune e
prudente forma di investimento del denaro ha una redditività superiore al tasso
dell'interesse legale, con la conseguenza che, per il debitore di
un'obbligazione pecuniaria, in linea di massima continua a poter essere
economicamente conveniente non adempiere tempestivamente, così lucrando la
differenza tra quello che è agevolmente in grado di ricavare dal denaro non
versato al creditore durante la mora debendi e quello che dovrà al creditore
quando adempirà la propria obbligazione.".
A riprova di tale considerazione, si riportano i rendimenti dei titoli di Stato
accostati al tasso legale, per evidenziare come il tasso di rendimento lordo
delle più comuni forme d'investimento free-risk risulti apprezzabilmente più
elevato del tasso di interesse legale.
Si sottolinea che, nell'intenzione del legislatore, l'effetto di
disincentivazione dell'inadempimento (e, di riflesso, la positiva ricaduta
della diminuzione del contenzioso civile e sulla semplificazione del processo)
è appunto collegato ad una soluzione che renda il debitore consapevole del
fatto che la promozione di una causa da parte del creditore insoddisfatto si
risolverebbe, comunque, nel riconoscimento a suo favore di un maggior importo
corrispondente quantomeno all'utile economico minimo che il debitore ha tratto
o che avrebbe potuto trarre dalla conservazione, medio tempore, del denaro che
doveva dare e che non ha dato.
Si richiama inoltre il primario rilievo che il legislatore del '96,
nell'attribuire al Ministro dell'Economia il compito di adeguare il tasso
legale, ha espressamente conferito al parametro di riferimento, costituito dal
rendimento medio lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici
mesi, attribuendogli in tal modo un significativo apprezzamento della normale
redditività del denaro. Tale apprezzamento viene compiutamente utilizzato dalla
Cassazione nel fornire una coerente interpretazione dell'art. 1224, comma 2,
c.c.
Superando le distinzioni di categoria - riportate in precedenti sentenze - al
creditore di somme di denaro non corrisposte dal debitore in mora si riconosce
un maggior danno - ex art. 1224, comma 2, c.c. - corrispondente alla differenza
tra il tasso di rendimento netto (dedotta l'imposta) dei titoli di Stato di
durata non superiore a dodici mesi e quello degli interessi legali (se
inferiori)3. Il riconoscimento, per una prova che si presenta particolarmente
complessa e costosa, interviene in via presuntiva, come rimedio equitativo ex
art. 1226, sulla fondata presunzione che il denaro non è quasi mai destinato
alla mera conservazione improduttiva, ma viene normalmente investito in forme
di impiego remunerative.
Nella sentenza si ribadisce infine che, così come rimane ferma la possibilità
per il debitore di provare che, dal proprio ritardo nell'adempimento, il
creditore non ha subito un danno, anche per il creditore, che abbia subito un
danno maggiore del rendimento dei titoli di Stato, potrà essere sufficiente la
produzione di documentazione dalla quale si evinca che, ad esempio, durante la
mora del debitore, egli aveva fatto ricorso al credito bancario, con la
dimostrazione dei relativi costi.
Nella formulazione conclusiva la sentenza stabilisce i seguenti principi di
diritto:
"- nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari
dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224 c.c., comma 2
(rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non
convenzionali che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via
presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo
ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una
delle categorie a suo tempo individuate - nella eventuale differenza, a
decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento
medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed
il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi dell'art.
1284 cod. civ., comma 1;
- è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha
subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore a quella
differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma
dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata;
- il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a
quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito,
quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa
documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse
corrisposto per il ricorso al credito bancario sia che invochi come parametro
l'utilità marginale netta dei propri investimenti;
- in entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se,
in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia
presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito
bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero
che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale
estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma
sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa".
3. Considerazioni e riflessioni
La sentenza in parola apporta, senza dubbio, elementi di trasparenza,
semplificazione e chiarezza nei presidi posti a tutela dei diritti economici
del creditore, ma, nonostante gli obiettivi enunciati, non sembra introdurre
modifiche agli equilibri economici tali da indurre sostanziali disincentivi
all'inadempimento.
La sentenza presenta talune discrasie che, nei riflessi economici, vanificano
in buona parte gli intenti perseguiti; incorre, in particolare, in
un'incongruenza che potrebbe aver indotto deduzioni distorte nella disamina del
problema.
Infatti, nel rilevare l'apprezzabile divario fra il rendimento medio dei titoli
di Stato e il tasso legale, ne riporta i rispettivi valori dal 1991 al 2008, ma
i rendimenti assunti per i titoli di Stato si riferiscono al Rendistato4,
indice elaborato dalla Banca d'Italia esclusivamente sulla base delle
quotazioni dei BTP di durata superiore a dodici mesi, al lordo dell'imposizione
fiscale5. Al contrario, nei principi giuridici riportati a conclusione della
sentenza si fa riferimento ai titoli di durata non superiore a dodici mesi,
richiamati nei poteri di adeguamento attribuiti dalla legge al Ministero
dell'Economia, assumendoli tuttavia al netto dell'imposizione fiscale.
Di fatto il Rendistato, cogliendo il rendimento medio di mercato relativo a
titoli di media-lunga scadenza, presenta - salvo particolari circostanze
congiunturali - rendimenti normalmente maggiori di quelli che si riscontrano
nel segmento a breve termine. Fisiologicamente la curva dei rendimenti presenta
una pendenza positiva, premiando con tassi più elevati gli impieghi a più lungo
termine.
Nella Tavola seguente sono riportati i valori del Rendistato riportati in
sentenza, nonché i rendimenti dei titoli di Stato di durata non superiore a
dodici mesi (BOT) 6.
Se, per il maggior danno, si fosse assunto a riferimento il Rendistato - che
risulterebbe per altro più consono alla durata media dei giudizi -
effettivamente il divario con il tasso legale risulterebbe significativo ed il
contenuto economico del maggior danno potrebbe assumere, a seconda del periodo
interessato, una misura moderata ma tangibile. Assumendo invece a riferimento i
rendimenti dei titoli di Stato pari o inferiori a dodici mesi (BOT) - siano
essi rilevati sul mercato o in asta - il divario con il tasso legale, risulta
modesto e frequentemente negativo.
Mentre nel confronto con il Rendistato, si rileva in sentenza un solo anno
(1994) nel quale il tasso legale sopravanza il rendimento dei titoli di Stato,
nel confronto con il rendimento lordo dei BOT, per ben sette anni, quest'ultimo
risulta inferiore al tasso legale. Anche il divario complessivo, nell'arco di
quasi un ventennio, si riduce apprezzabilmente: da 26,3% del Rendistato al
9,63% del BOT.
Il divario con il tasso legale si riduce ulteriormente se per i BOT si assume
il valore netto in luogo del valore lordo.
Nel confronto del rendimento netto dei BOT con il tasso legale si riscontrano
dieci anni nei quali il rendimento netto dei BOT è inferiore al tasso legale,
contro i 9 nei quali è superiore. Negli anni in cui lo scostamento
del rendimento dei BOT dai tassi legali è positivo, il divario è per lo più
assai modesto: ne risulta un contenuto economico del maggior danno,
riconosciuto in via presuntiva, che, a seconda del periodo considerato, o è
nullo, oppure è di misura irrisoria.
Come si rileva dal grafico il tasso legale, mentre risulta - ad eccezione del
'94 - sistematicamente inferiore al Rendistato, si muove abbastanza accostato
al rendimento netto dei BOT, intersecandosi più volte nel periodo considerato:
ad anni nei quali è inferiore seguono anni nei quali risulta superiore in
un'alternanza ricorrente. Nel periodo considerato i rendimenti netti dei BOT
presentano, come detto, rispetto al tasso legale più scostamenti negativi che
positivi.
La circostanza che in sentenza siano riportati, per tutto il periodo dal 1991
al 2008, i tassi del Rendistato accostati ai tassi legali, potrebbe indurre,
sia la parte che il giudice, a far riferimento alle rispettive differenze per
la determinazione del maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, c.c.7. Al
contrario, secondo i principi di diritto ribaditi nella stessa sentenza,
occorre far riferimento ai titoli di Stato di durata pari o inferiore a dodici
mesi, vale a dire il valore medio dei rendimenti netti dei BOT.
In definitiva, nella determinazione del maggior danno, ex art. 1224 c.c., i
tassi da impiegare anno per anno, secondo i principi dettati dalla sentenza,
saranno dati dai valori qui di seguito riportati.
Occorre osservare che la sentenza parte dalla considerazione che "la
promozione di una causa da parte del creditore insoddisfatto si risolverebbe,
comunque, nel riconoscimento a suo favore di un maggior importo corrispondente
quantomeno all'utile economico minimo che il debitore ha tratto o che avrebbe
potuto trarre dalla conservazione, medio tempore, del denaro che doveva dare e
che non ha dato" e aggiunge "il risarcimento va sempre
tendenzialmente adeguato al danno effettivamente subito, nei limiti in cui tale
risultato sia perseguibile".
Mentre si precisa il riferimento al rendimento netto dei titoli di Stato -
anche se la legge 662/96, che demanda al Ministero dell'Economia l'adeguamento
del tasso legale, ne richiama il rendimento lordo - si trascura di considerare
che l'utile economico minimo che trae il debitore dall'impiego nei titoli di
Stato si incrementa, in una sorte di regime di capitalizzazione composta,
potendo reimpiegare periodicamente le cedole percepite. La circostanza non è di
scarso rilievo per periodi che si protraggono nel tempo e/o nell'eventualità di
tassi elevati.
Come si può rilevare dalla Tavola, il maggior importo derivante dal
reinvestimento delle cedole, già dopo pochi anni, sopravanza ampiamente il
beneficio che consegue dall'impiego dei rendimenti netti dei titoli di Stato di
durata pari o inferiore a dodici mesi (BOT). 100
lievitano, nel periodo riportato in tabella, a 200,50 con il
tasso legale, a 207,78 con il tasso maggiore fra
legale e BOT, a 282,45 se la rivalutazione avviene
in via composta. Pertanto il margine riconosciuto al creditore in via
presuntiva, per il maggior danno, risulta pari, per l'intero periodo
considerato, all'8,9% (7,28 di 81,95) del maggior beneficio lucrato complessivamente
dal debitore con il reimpiego di cedole annuali; tale modesto beneficio si
riduce ulteriormente considerando gli ultimi anni.
La sentenza della Cassazione trascura l'effetto del reimpiego delle cedole8,
soffermandosi esclusivamente sulla differenza fra il tasso legale e il
rendimento dei titoli di Stato.
Pur tralasciando i diversi e più consistenti benefici, che al debitore derivano
quando l'inadempimento è impiegato come forma integrativa o sostitutiva del
credito bancario - la cui prova è di regola preclusa al creditore - anche
considerando gli usuali impieghi free-risk, il riferimento di calcolo indicato
in sentenza, risulta talmente lasco che solo una quota assai modesta dei
benefici lucrati dal debitore viene, in via presuntiva, trasferito al creditore.
Occorre infine non trascurare il tasso di inflazione: se al momento si mantiene
su livelli assai modesti - presidiati con particolare attenzione dalla BCE -
pur tuttavia risulta nell'ultimo anno superiore al rendimento BOT e potrebbe in
prospettiva sopravanzare il tasso legale. Gli adeguamenti del Ministero
dell'Economia, ai sensi della legge 662/96, sono adottati in via preventiva:
non si può escludere che l'effettivo tasso di inflazione si discosti da quello
stimato preventivamente, superando il tasso legale.
Nel corso dell'argomentazione, la sentenza riconosce l'opportunità che il
maggior danno sia posto in corrispondenza della differenza fra il rendimento
dei titoli di Stato - o fra il tasso di inflazione se superiore - e il tasso
legale, ma nei principi di diritto enunciati in conclusione si fa esclusivo
riferimento al solo rendimento dei titoli di Stato.
4. Sintesi e conclusioni
Con la sentenza in argomento vengono apportate significative modifiche ai
principi giurisprudenziali dettati in passato:
vengono abbandonati i criteri presuntivi ricollegati alle categorie dei
creditori, riconoscendo, in un regime generalizzato e in via presuntiva, a
qualunque creditore il maggior danno, stabilito nella differenza fra il tasso
di rendimento netto annuo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici
mesi e il tasso legale;
vengono meglio puntualizzate le possibilità, sia del debitore che del
creditore, di fornire la prova rispettivamente di un minore o maggior danno.
Il provvedimento induce apprezzabili elementi di semplificazione, riconoscendo
su richiesta, in via generale e presuntiva, il maggior danno di cui all'art.
1224, comma 2, c.c.
Tuttavia, in considerazione dei valori assunti nell'ultimo ventennio dai
rendimenti dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e, ancor
più, di quelli assunti più recentemente, il principio giuridico fissato dalla
Cassazione non appare suscettibile di realizzare un tangibile accostamento del
risarcimento al danno e costituire un disincentivo ad una proliferazione degli
inadempimenti che la sentenza invece si propone di perseguire.
Il valore del rendimento netto dei BOT risulta frequentemente inferiore al
tasso legale e quest'ultimo è anch'esso troppo spesso inferiore agli usuali
benefici economici che il debitore può ricavare dall'impiego delle somme non
riconosciute.
E' singolare la circostanza che la Cassazione, prima impiega il Rendistato come
indicatore del rendimento lordo derivante dalle più comuni forme di
investimento free-risk, per evidenziarne il maggior livello rispetto al tasso
legale, poi adotta il rendimento netto dei titoli di Stato di durata non
superiore a dodici mesi, per stabilire il maggior danno da riconoscere in via
presuntiva9.
Volendo presidiare e tutelare l'ordinato svolgimento dei rapporti economici,
non si può trascurare la circostanza che l'inadempimento costituisce spesso una
forma implicita di finanziamento, al quale l'operatore economico scarsamente
patrimonializzato ricorre per surrogare ed integrare il ricorso al credito
bancario. In tali occorrenze il beneficio conseguito dal debitore è assai più
ampio di quello che la sentenza riconosce con la mora e il maggior danno.
I maggiori margini economici che derivano al creditore, nel vedersi
riconosciuto - tra mora e maggior danno - il tasso più elevato fra quello
legale e quello dei BOT, risultano alquanto modesti: i valori riportati nelle
precedenti Tavole ne danno un'esatta misura.
Anche quando il debitore non è un operatore economico che ricorre al credito
bancario, conserva un margine di beneficio economico, con il protrarsi della
mora, commisurato al reinvestimento del fruttato dei BOT, che - per i tempi
prolassati della giustizia e/o per tassi elevati - può sopravanzare ampiamente
quanto riconosciuto, in via presuntiva, dalla sentenza in parola: un debito del
'90 di 100, comporterebbe ad oggi, dopo un ventennio circa, con la mora, un
montante di 200,5 e un maggior danno di 7,78, mentre con il reimpiego dei
rendimenti conseguiti dai BOT, il capitale di 100 del
debitore lieviterebbe sino ad un valore di 282,45 nel '09. Per periodi
inferiori le proporzioni non mutano sensibilmente.
Tali circostanze, non certamente trascurabili, considerato il ricorso ad
argomentazioni sociali, oltre che giuridiche, avrebbero potuto sospingere la
Cassazione ad assumere una posizione più coraggiosa.
Volendosi anche limitare all'utile economico minimo che il debitore ha tratto o
avrebbe potuto trarre dalla conservazione, medio tempore, del denaro che doveva
dare e che non ha dato, si sarebbe potuto lasciare al creditore, per il maggior
danno, in via generale e presuntiva, quanto meno il Rendistato, a cui la stessa
sentenza ha fatto ricorso per motivare il proprio intervento innovativo.
Con tale parametro di riferimento si sarebbe pervenuti a valori sempre
moderati, ma più tangibili di un maggior accostamento del risarcimento al danno
effettivamente subito. Con la soluzione prospettata, invece, il diritto al
maggior danno rischia di divenire, a seconda del periodo, privo di contenuto o
di misura irrisoria. Con il risvolto, non trascurabile, di precludere, in via
presuntiva, alternative diverse di riconoscimento del maggior danno.
Rimane rimessa alla valutazione del Giudice - nell'esame delle prove prodotte
dal creditore che domandi, a titolo di maggior danno, una somma superiore alla
differenza indicata in sentenza - una corretta considerazione dei riflessi
economici sopra descritti, che, seppur esclusi da una via generale e
presuntiva, ricorrono pressoché sistematicamente nelle fattispecie di
inadempimento. Dovrebbe risultare per il creditore di agevole praticità
produrre documentazione bancaria, attestante gli oneri bancari, nel frattempo
subiti, e conseguire, per tale guisa, più che l'utile economico minimo tratto
dal debitore, il maggior costo effettivamente subito nel periodo della mora.
Cosicché, in definitiva, un efficace presidio e disincentivazione ai fenomeni
di proliferazione dei casi di inadempimento, rimane rimesso all'opera del
Giudice stesso.
1) La distinzione fra le due categorie di obbligazioni viene individuata nella
circostanza che le obbligazioni "di valuta" hanno per oggetto sin
dall'origine una somma di denaro, anche se non esattamente quantificabile,
mentre le obbligazioni "di valore" si qualificano per un oggetto
della prestazione diverso dal denaro e quest'ultimo rappresenta solo un
sostituto della prestazione.
2) Nelle obbligazioni di valore, invece, la rivalutazione viene cumulata agli
interessi legali. In tali obbligazioni infatti si persegue la reintegrazione
del creditore nella stessa situazione patrimoniale nella quale si sarebbe
trovato se il danno non fosse stato prodotto. Di riflesso la rivalutazione
viene a costituire la commisurazione, in termini monetari attuali, del valore
perduto dal creditore e gli interessi legali il compenso del danno da lucro
cessante subito a causa del ritardo nella corresponsione della somma a titolo
di risarcimento.
Un analogo cumulo di interessi e rivalutazione è previsto anche per i crediti
da lavoro, ancorché abbiano una natura di crediti "di valuta". La
disciplina speciale di questi crediti è prevista dall'art. 429 c.p.c.
3) Le conseguenze della riferibilità al futuro dell'intervento adeguatore del
Ministro dell'Economia, vengono così sopportate non già dal creditore
insoddisfatto, ma dal debitore che versi in quella situazione di qualificato
ritardo nell'adempimento, qual è la mora (ex art. 1219 c.c.).
4) La Banca d'Italia calcola giornalmente il rendimento effettivo a scadenza di
un campione di titoli di Stato a tasso fisso quotati sul Mercato
Obbligazionario Telematico (di seguito MOT). Il rendimento medio di tale
campione viene denominato "Rendimento dei titoli pubblici" o
"Rendistato". Il paniere su cui si calcola il Rendistato è composto
da tutti i Buoni del Tesoro Poliennali (BTP) quotati sul MOT e aventi vita residua
superiore ad un anno. Sono esclusi i BTP indicizzati all'inflazione dell'area
euro. I BTP sono titoli di Stato a medio-lungo termine a tasso fisso, emessi
con cinque scadenze: 3, 5, 10, 15 e 30 anni. Gli interessi vengono corrisposti
con cedola semestrale posticipata; il rimborso avviene alla pari in unica
soluzione alla scadenza.
Il paniere dei titoli dei quali vengono elaborati i rendimenti è aperto:
vengono inseriti tutti i BTP emessi man mano che sono ammessi alla quotazione
ufficiale; ne sono automaticamente esclusi quelli la cui vita residua scende al
di sotto di un anno..
5) I valori riportati in sentenza si riferiscono per altro, non al valore medio
annuo, ma al valore al 31 gennaio dell'anno. Sono presenti inoltre due rifusi,
uno relativo al Rendistato del 31 gennaio '92 (si riporta 12,876% in luogo di
12,73%) ed uno relativo al tasso legale del '08 (3,8% in luogo di 3,5%).
6) I dati sono stati tratti dalla base informativa, riportata dalla Banca
d'Italia sul sito alla pagina: http://bip.bancaditalia.it/4972unix/homebipentry.htm?dadove=corr&lang=ita
Dati di complemento, parimenti indicativi, possono essere reperiti sul sito del
Ministero dell'Economia agli indirizzi:
http://www.dt.mef.gov.it/it/debito pubblico/ link
rapidi/archivio dati storici.html
http://www.dt.mef.gov.it/it/debito_pubblico/dati_statistici/rendimenti_composti_lordi_all_esmissi
one.html
7) Nel Foro 2008, Parte prima, a pag. 2795 - nel commento alla Sentenza della
Cassazione, si riporta: "Ogni creditore, a prescindere dalla sua
appartenenza all'una o all'altra categoria, ha diritto a vedersi riconoscere in
via presuntiva (e salva prova contraria, di cui si dirà fra un momento) un
risarcimento corrispondente alla differenza, a decorrere dalla data
d'insorgenza della mora, tra rendimento medio annuo dei titoli di Stato ed il
saggi odi interesse legale corrente per l'anno in esame. Sembra di capire
allora che, se l'inadempienza si è protratta, assumiamo, dal 1° gennaio 2001 al
31 dicembre 2004, sarà dovuto, secondo i dati forniti dalla sentenza e salva
deduzione del carico d'imposta (12,50 per cento, che evitiamo di computare per
non perderci in una selva di conti), un maggior danno dell'1,428 per il 2001,
dell'1,512 per l'anno successivo, dello 0,672 per il 2003 e dell'1,31 per
l'ultimo anno di mora (da notare come, in tutto il periodo considerato, il
saggio legale d'interesse sia risultato superiore al tasso d'inflazione).
Risultato commendevole, si dirà, ne conveniamo. Ma, a rigori, non sufficiente a
propiziare la deterrenza nei confronti dell'opportunismo dilatorio del
debitore. Si deve immaginare, infatti, che sempre restando nel solco del
'minimo utili economico', il nostro avrebbe reinvestito non la sola sorte
capitale, ma anche i frutti derivanti dall'investimento. La capitalizzazione di
questi proventi, tanto più incisiva quanto più prolungata nel tempo, gli
avrebbe permesso, una volta di più, di trarre profitto dall'inadempimento ad
oltranza. Fatto trenta, tanto valeva, allora, chiudere gli occhi e fare
trentuno.".
8) Per i BOT è più corretto parlare di reimpiego del fruttato.
9) Anche il riferimento al valore netto del rendimento evidenzia una posizione
prudenziale e minimale. Mentre per il debitore l'interesse percepito viene, in
un'attività societaria, sottoposto a imposta d'acconto, recuperata in sede di
tassazione a bilancio, per il creditore il maggior danno ex art. 1224, 2°
comma, c.c. non è automaticamente esente da tassazione. La Corte di Cassazione,
con la sentenza n. 11682 del 21 maggio 2007 ha, infatti, ribadito il principio
che le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio costituiscono
reddito imponibile nei limiti in cui abbiano la funzione di reintegrare un
danno concretatosi nella mancata percezione dei redditi. Pertanto, in sede
tributaria, occorre accertare caso per caso quale sia la reale funzione
economico-finanziaria degli interessi, e non deve trarre in inganno il loro
profilo risarcitorio, posto che il risarcimento può riguardare sia una perdita
patrimoniale (non tassabile perché non determina alcun incremento di
ricchezza), sia un mancato guadagno (nel qual caso il profilo risarcitorio non
basta a escludere la rilevanza fiscale del provento).
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