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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 12/05/2021 Scarica PDF
La ricostruzione del nesso causale nella responsabilità del medico per nascita malformata: focus sulla sentenza n. 3893 del 2016
Micaela Lopinto, Avvocato in BresciaSommario: Abstract.; 1.- Premessa: il caso concreto; 2.- La ricostruzione del nesso causale nell’ambito del diritto civile: tratti salienti; 3.- L’incidenza sulla causalità delle malattie pregresse del feto;4.- La tesi della causalità “frazionata”: il caso isolato della sentenza n. 975 del 16 Gennaio 2009; 5.- Le critiche: la motivazione della sentenza n. 3893 del 2016; 6.- Riflessioni conclusive.
Abstract
Il presente contributo si prefigge l’obiettivo di riassumere le principali riflessioni giurisprudenziali che sono sorte in ordine alla ricostruzione del nesso di causalità materiale e di causalità giuridica qualora vi sia concorso di una malattia pregressa unitamente alla condotta del medico curante nella nascita malformata.
1.- Premessa: il caso concreto
L’analisi dei numerosi profili civilistici che ruotano attorno al terreno della “responsabilità medica” può assumere sfumature di particolare interesse qualora, nella ricostruzione del nesso causale, si renda necessario valutare o escludere l’incidenza di patologie pregresse, specie quando le predette patologie acquisiscono la più specifica veste di “fattori naturali”. Il caso che ha consentito di riflettere con più attenzione su tale delicata e specifica tematica riguarda un neonato che, a seguito di condotta medica, è nato con una invalidità pari al 100% a causa di “ipossia da travaglio”, ma che presentava già una sindrome di Down non diagnosticabile in fase prenatale.
2.- La ricostruzione del nesso causale nell’ambito del diritto civile: tratti salienti
Al fine di comprendere fino a che punto le cause naturali pregresse in generale e la sindrome di Down nel dettaglio possono incidere sulla causalità, occorre comprendere come la predetta causalità venga ricostruita. Al riguardo occorre ricordare come il codice civile non contenga norme che consentono di ricostruire la cd. causalità materiale, ovvero quel nesso causale che lega il fatto all’evento. Per sopperire a tale mancanza l’ordinamento giuridico ricorre alle norme penalistiche e, precisamente agli artt. 40 e 41 cp., ricostruendo la causalità alla luce del criterio della condicio sine qua non dell’evento, sia pure con l’attenuazione discendente dalla regolarità causale e con un livello di certezza che si ferma alle logiche del più probabile che non sotto il profilo probatorio processuale. Sempre mutuando i criteri penalistici, occorrerà ricordare come non incidano e, dunque, non siano idonee ad interrompere il nesso causale, le concorrenti cause preesistenti o simultanee. Lo sono, per contro, le esposizioni volontarie delle vittime a pericoli, e più in generale, quelle cause sopravvenute “eccezionali”, idonee ad inserire nella causalità un fattore di rischio autonomo (“escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”, art. 41 comma secondo cp.). Una volta ricostruita la causalità materiale, soprattutto ai fini risarcitori, <<[…]occorre ricostruire [anche] il nesso di causalità giuridica, ovvero il segmento del nesso causale che collega l’evento lesivo alle conseguenze dannose che da essa scaturiscono, siano esse patrimoniali o non patrimoniali. [L’analisi di ambo le forme di causalità ai fini risarcitori] passa attraverso l’art. 1227 cc., il quale, al comma primo, ancora inerente la causalità materiale, impone di ridurre il risarcimento se il fatto colposo del creditore/danneggiato ha concorso a cagionare il danno; al comma successivo, inerente la causalità giuridica, esclude il risarcimento per i danni che il creditore, usando l’ordinaria diligenza, avrebbe potuto evitare. Tale ricostruzione, alla luce dell’art. 1223 cc., mira a ristorare il creditore/danneggiato, da un lato, di “tutte” le conseguenze effettivamente subite in virtù del principio di integralità del risarcimento, dall’altro, delle “sole” conseguenze effettivamente imputabili al comportamento [scorretto]. Tale ultimo inciso nasce da una ulteriore regola che l’organo giudicante è chiamato a rispettare nell’accertamento e quantificazione del danno, la cd. teoria differenziale, che parte della dottrina ritiene sia racchiusa nell’art. 1221 cc.[1], altra parte, maggioritaria, [...] rinviene direttamente nell’art. 1223 cc. Secondo tale teoria, l’integrità del ristoro deve emergere da un raffronto tra la situazione patrimoniale del soggetto prima dell’evento lesivo e dopo l’evento lesivo. Occorre, in altri termini, che la quantificazione del danno sia finalizzata a garantire un ripristino dello status quo ante; la posizione patrimoniale del soggetto deve essere identica a quella anteriore all’illecito e non inferiore né tantomeno superiore[2]>>.
3.- L’incidenza sulla causalità delle malattie pregresse del feto
Individuati, seppur in estrema sintesi, i principi ed i criteri che sorreggono la ricostruzione del nesso ai fini risarcitori, si può evidenziare come non si siano quasi mai ravvisati molti dubbi in dottrina in ordine alla irrilevanza dei fatti naturali pregressi. Pertanto si può dire che il problema ha interessato più che altro il terreno giurisprudenziale, con una serie di argomentazioni che richiamano alcuni principi sottesi all’art. 2055 cc., il quale – per comodità lo si vuole ricordare – chiarisce che <<se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno. Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali>>. La norma sancisce una sorta di principio di “personalità della quota” graduato in base al quantum di colpa imputabile al soggetto chiamato ad effettuare la prestazione risarcitoria.
4.- La tesi della causalità “frazionata”: il caso isolato della sentenza n. 975 del 16 Gennaio 2009
Sommando le considerazioni svolte nei precedenti paragrafi, si dovrebbe esser portati a ritenere che, tanto sotto il profilo della causalità materiale, quanto sotto il profilo della causalità giuridica (ma sul punto si tornerà più avanti in modo più approfondito),la preesistente sindrome di Down, non diagnosticabile, non dovrebbe incidere sotto il profilo dell’addebito causale nel giudizio risarcitorio intentato nei confronti del medico, dal momento che egli, con la sua condotta, ha cagionato una patologia definibile “ipossia da travaglio” che possiede, da sola, una carica invalidante pari al 100%, con conseguente perdita totale della capacità lavorativa del minore. La predetta prospettazione, pur essendo stata accolta dalla sentenza n. 3893 del 2016, è stata in un primo momento confutata. Le critiche prendono le mosse dalle argomentazioni sostenute nella pronuncia n. 975 del 16 gennaio 2009, della quale, tuttavia, si deve evidenziare il carattere, ad oggi, minoritario. Più precisamente e provando ad illustrare le argomentazioni giuridiche rimaste isolate applicandole al caso concreto, si potrebbe evidenziare come la circostanza che la sindrome di Down non possa in alcun modo essere addebitabile al medico[3] non costituisce motivo valido per considerarla irrilevante ai fini ricostruttivi del nesso causale e, conseguentemente, ai fini risarcitori. Ciò in quanto, a ben vedere, la patologia in questione rappresenta pur sempre un <<effetto invalidante>> e questo effetto <<preesisteva alla causa>> ovvero alla condotta (del medico) efficiente e causativa dell’ipossia. Pertanto, più che essere un fattore irrilevante, la stessa acquisirebbe la valenza di “concausa” idonea a diminuire la responsabilità del sanitario.<<Ci si chiede perché mai il personale medico operante nella fase del parto debba vedere diminuito il proprio grado di responsabilità solo ove la sindrome suddetta possa essere causalmente, e giuridicamente, imputata alla condotta di altro personale medico (o di altro soggetto in genere), e non anche, come nel caso di specie, in cui tale sindrome non fosse oggettivamente prognosticabile e pertanto, nessuno ne abbia a rispondere>>.L’obiettivo è, in un’ottica equitativa[4], quello di <<evitare che il personale operante possa essere chiamato a rispondere di danni derivanti da causa preesistente e indipendente il suo operato…[scorporando] dal 100% di invalidità permanente … quella porzione imputabile solo alla concausa naturale della sindrome di Down[5][e, dunque, non imputabile a colpa del medico operante, sulla falsariga delle logiche dell’art. 2055 cc., richiamato nel precedente § 3]>>. Per quanto apprezzabile, tuttavia, il predetto ragionamento incontra il limite della stessa teoria della condicio sine qua non. Rimuovendo mentalmente la condotta del medico l’evento “ipossia” non si sarebbe verificato, a nulla rilevando la pregressa malattia, la quale cagiona il diverso evento (hic et nunc considerato) “sindrome”. Pertanto, al più può dirsi incidente sotto il profilo della quantificazione equitativa del danno ex art. 1226 cc., come correttamente statuito dalla sentenza del 2016, di cui si dirà nel successivo paragrafo, sia pure con alcune argomentazioni che possono essere esposte in termini lievemente differenti. La tesi della frazione (50%) di nesso di causalità ascrivibile all’evento naturalistico non imputabile alla condotta medica è e resta un principio dettato da “equità”. Per quanto sempre apprezzabile nell’intento, appare, per i motivi poc’anzi esposti, assoggettabile ad alcune censure sotto un profilo più tecnico, salvo poi recuperarne l’essenza in altra sede, ovvero in sede determinativa del danno. Se, infatti, non si riesce, come si è provato a fare, a “frazionare la causalità”, o comunque, se non si ritiene di dover aderire alla predetta tesi, niente esclude che si possa ridurre il risarcimento in sede equitativa ex art. 1226 cc. Il quesito, pertanto, è squisitamente giuridico, ma non costituisce un effettivo problema sotto il profilo sostanziale.
5.- Le critiche: la motivazione della sentenza n. 3893 del 2016
Volendo ripercorre alcuni passaggi della sentenza del 2016, che, come detto, accoglie la tesi della irrilevanza della causa pregressa/sindrome, si può evidenziare come la condotta del medico rappresenti una “autonoma causa efficiente eccezionale ed atipica”, una di quelle “cause” che, ai sensi dell’art. 41 comma secondo cp., già evidenziato, è in grado di costituire una serie causale autonoma, un nuovo fattore di rischio eccezionale, dotato di autonomo rilievo causale, capace, pertanto, di acquisire valenza causativa dell’intero danno indipendentemente dalla preesistente patologia. Sulla base di tali argomentazioni si può affermare che il medico deve essere chiamato al risarcimento per l’intero e cioè, ai sensi dell’art. 1223 cc.[6], non solo delle conseguenze immediate e dirette ma anche di quelle mediate ed indirette che possono scaturire dalla condotta (e solo da questa) che ha causato l’ipossia.
6.- Riflessioni conclusive
Resta pertanto, in conclusione, da valutare se e come possa incidere la causa pregressa sotto il profilo puramente quantitativo, da intendersi come “tassello” successivo rispetto alla ricostruzione anche della causalità giuridica. E’ proprio su questo aspetto che si può svolgere una precisazione. Nella parte motiva della sentenza, in parte coerentemente in parte diversamente rispetto a tutte le ricostruzioni offerte nei precedenti paragrafi, si chiarisce che la pregressa sindrome di Down deve essere valutata non sul piano della causalità giuridica ma in quello della determinazione dell’ambito del danno risarcibile. Sin qui, non si ravvisano, rispetto a tutto quanto riportato, differenze sotto un profilo ricostruttivo. L’unica particolarità, rispetto a quanto chiarito nel § 2, si rinviene nel passaggio in cui si afferma che l’art. 1223 cc.<<non pone infatti una regola in tema di nesso di causalità ma si risolve nell’indicazione di un mero criterio di delimitazione dell’ambito del danno risarcibile causalmente ascritto alla condotta qualificata dalla colpa del soggetto responsabile non essendovi necessariamente coincidenza tra danno arrecato e danno risarcibile[7]>>.La Corte, pertanto, esclude la rilevanza dell’art. 1223 cc. nella ricostruzione del nesso causale. Il passaggio, tuttavia, deve essere letto nel senso della esclusione della rilevanza nella ricostruzione della causalità materiale, costituendo fatto notorio la circostanza secondo la quale la norma in questione costituisce espressione, assieme al secondo comma dell’art. 1227 cc. della causalità giuridica, ovvero di quel “pezzetto” di nesso causale che seleziona, una volta ricostruito il nesso tra il fatto e l’evento, le conseguenze dannose scaturenti dall’evento stesso[8]. Svolta questa precisazione, appare semplice aderire anche al senso intrinseco del passaggio, che consente, forse più che altro a mezzo del più volte citato art. 1226 cc., di ritornare allo stesso punto della sentenza n. 975 del 16 gennaio 2009, se non a mezzo di una causalità frazionata al 50%, almeno sotto il profilo di una riduzione del quantum risarcitorio in sede di individuazione dei criteri per la sua liquidazione.
[1] PAOLO CENDON, Commentario al codice civile, artt. 1173- 1320, Giuffrè, pp. 798 e ss.: <<la Cassazione ha ribadito che il principio desumibile dall’art. 1221 cc… si fonda su una inferenza di tipo ipotetico/differenziale tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente realizzatasi …>>.
[2] M. LOPINTO, La compensatio lucri cum damno tra problematiche dottrinali e recenti soluzioni soluzioni giurisprudenziali, in Diritto.it, Novembre 2018.
[3] Almeno nel caso oggetto di interesse, non si è posto il problema dell’errore diagnostico e, dunque, della lesione della libertà di autodeterminazione in termini abortivi per la gestante, dal momento che la malattia appariva non diagnosticabile ex ante.
[4] A medesime logiche equitative sembra essersi ispirata la sentenza n. 28987 del 2019, in materia di quantificazione del danno in sede di azione di rivalsa per i danni cagionati dal medico al paziente in via esclusiva (Cassazione civile, Sez. III, 11 Novembre 2019, n. 28987, Pres. Travaglino. Est. Porreca, in IlCaso.it, Sez. Giurisprudenza, 22860 - pubb. 12/12/2019).
[5] Tutte le citazioni sin qui riportate sono tratte dalla sentenza n. 3893 del 2016, p. 7 e ss., Est. L. A. Scarano.
[6] Sul punto, M. LOPINTO, La compensatio lucri cum damno tra problematiche dottrinali e recenti soluzioni soluzioni giurisprudenziali, in Diritto.it, Novembre 2018, p. 2.
[7] Si riporta un brano più ampio della sentenza: <<[…]Deve in particolare ribadirsi che la valutazione equitativa attiene propriamente non già all’accertamento del nesso di causalità bensì alla determinazione dell’ammontare del danno risarcibile (art. 1226 cc.).Solo all’esito dell’accertamento della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta (dolosa o) colposa e il danno evento lesivo, in occasione del diverso e successivo momento della delimitazione dell’ambito del danno risarcibile e della determinazione del quantum di risarcimento, la considerazione del pregresso stato patologico del creditore/danneggiato può invero valere a condurre ad una limitazione dell’ammontare dovuto dal debitore/danneggiante. Va altresì posto in rilievo che, dovendo la relazione materiale designante il derivare di un evento da una condotta (dolosa o) colposa essere correttamente qualificata come nesso di causalità (non già meramente materiale bensì) giuridica, quantomeno in ragione dell’essere essa rilevante per il diritto (come invero sostanzialmente adombrato già dalla suindicata Cass. n. 15991 del 2011), il diverso ed autonomo (successivo) momento della determinazione del risarcimento dovuto attiene in realtà propriamente non già al piano della <<causalità giuridica>> bensì a quello dei criteri di delimitazione dell’ambito del danno risarcibile, come risulta confermato anche dalla segnalata interpretazione che riceve l’art. 1223 cc. Tale norma non pone infatti una regola in tema di nesso di causalità ma si risolve nell’indicazione di un mero criterio (da utilizzarsi unitamente a quelli posti agli artt. 1225, 1226, 1227, 2056 cc.) di delimitazione dell’ambito del danno risarcibile (cfr., già Cass., 15/10/1999, n. 11629) causalmente ascritto alla (cagionato dalla) condotta qualificata dalla colpa del soggetto responsabile non essendovi necessariamente coincidenza tra danno arrecato e danno risarcibile. Al riguardo, va osservato, la stessa richiamata Cass. n. 15991 del 2011 fa a tale significato in realtà sostanzialmente riferimento laddove evoca la “selezione dei pregiudizi risarcibili”>>. Ad ogni modo, che si voglia leggere l’art. 1223 cc. come segmento di causalità giuridica – o, aderendo ad una visione (o meglio ad una sfumatura, perché di questo si tratta) lievemente diversa – che lo si voglia definire letteralmente come <<mero criterio di delimitazione dell’ambito del danno risarcibile>> è questione di poco momento ai fini della risoluzione del caso. Lo stesso, infatti, ha reso necessario un notevole sforzo per mitigare la rigidità del sistema civile.
[8] Sul punto: A. TORRENTE – P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Giuffrè, 2007, p. 819 e ss.
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