Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 02/09/2021 Scarica PDF
Brevi considerazioni a margine della recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 150 del 2021: il carcere per i giornalisti si, ma solo come extrema ratio
Micaela Lopinto, Avvocato in Brescia
Abstract Ita
Il presente contributo si prefigge l’obiettivo di sintetizzare le principali questioni emerse in una recente sentenza della Corte Costituzionale al fine di evidenziarne la ratio ed i risvolti positivi.
Abstract Eng
The following paper wants to sum up the main doubts arisen after a new judgement of the Constitutional Court, to underline reasons and positive aspects.
1. I punti salienti della recente pronuncia della Corte Costituzionale.
“Con l’ordinanza iscritta al n.140 del r.o.2019 il Tribunale ordinario di Salerno, sezione seconda penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art.10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, del codice penale e dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa). Con l’ordinanza iscritta al n. 149 del r.o.2019 il Tribunale ordinario di Bari, sezione prima penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, in combinato disposto con l’art. 595 cp. nella parte in cui sanziona il delitto di diffamazione aggravata, commessa a mezzo stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a 256 [recte:258] euro, invece che in via alternativa”.
La Corte costituzionale, pertanto, è stata chiamata a pronunciarsi su un tema particolarmente complesso, sotto il profilo dei diritti costituzionali coinvolti: critica, cronaca, satira, libertà di pensiero e di espressione ed, ancora, cronaca giudiziaria e risvolti diffamatori delle informazioni. Quella presentata alla Corte è una richiesta di bilanciamento tra l’esigenza, omnicomprensivamente considerata e tralasciando i risvolti della veridicità, pertinenza e continenza, di tutelare la libertà di espressione del pensiero in tutte le sue forme e la necessità di proteggere chi è “oggetto” della notizia potenzialmente lesiva della sua dignità ed onore, non solamente dalla carica negativa in sé derivante dall’informazione scorretta, bensì anche da potenziali condotte estorsive che possono celarsi dietro l’informazione (si pensi alle “richieste” avanzate per evitare la pubblicazione di informazioni costituenti “scandalo”[1]).
In altri termini, il bilanciamento che la Corte è stata chiamata ad operare è un bilanciamento profondo, volto, da un lato, a garantire tutela all’informazione “utile”, “corretta” e sorretta da quel necessario interesse generale che ne ispira la diffusione; dall’altro, a tenere pur sempre in considerazione i risvolti patologici che una norma generale ed astratta deve essere chiamata a soppesare ed includere nella sua formulazione.
“[Con specifico riferimento al caso concreto, può essere utile chiarire che…]la descrizione dei fatti contestati agli imputati (nelle rispettive qualità di autore dell’articolo e di direttore responsabile del quotidiano) compiuta nell’ordinanza di rimessione è sufficiente a comprendere che essi consistono nella diffusione di una notizia lesiva dell’altrui reputazione […]”.
“[…] La rilevanza delle questioni prospettate sussiste, tuttavia, anche rispetto all’aggravante di cui all’art. 595, terzo comma, cod. pen., che punisce, tra l’altro, la diffamazione compiuta a mezzo della stampa. Per quanto tale aggravante sia destinata, nell’attuale quadro normativo, ad essere assorbita in quella di cui all’art. 13 della legge n. 47 del 1948, che si pone rispetto ad essa quale lex specialis, l’auspicato accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale formulate dal rimettente rispetto a quest’ultima disposizione renderebbe nuovamente applicabile, nel caso di specie, l’aggravante generale di cui all’art. 595, terzo comma, cod. pen., in concorso con quella prevista dal secondo comma, che prevede un inasprimento di pena in ogni ipotesi in cui la diffamazione consista nell’attribuzione di un fatto determinato; con conseguente applicazione, ai fini della commisurazione della pena, dell’art. 63, quarto comma, cod. pen. Donde la rilevanza – in via condizionata all’accoglimento delle questioni sollevate sull’art. 13 della legge n. 47 del 1948 – anche delle questioni sollevate in relazione all’art. 595, terzo comma, cp”.
Il thema decidendum (non solo della sentenza, bensì anche) della presente nota riguarda pertanto anche un secondo tipo di bilanciamento: il bilanciamento tra principio di proporzionalità e ragionevolezza della pena detentiva ed esigenze repressive e sanzionatorie.
A tale particolare riguardo si evidenzia che: “[…]quanto poi, in particolare, all’art. 595, terzo comma, cod. pen., che prevede la reclusione soltanto in via alternativa, il rimettente sottolinea come a suo giudizio già la stessa previsione astratta della pena detentiva – e dunque la sua comminazione legislativa – limiti eccessivamente il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, a prescindere dunque dalla decisione del giudice di applicarla o meno nel caso concreto […]”.
“[Al riguardo può essere utile ricordare come la Corte abbia espressamente statuito che] la sanzione detentiva non possa ritenersi sempre costituzionalmente illegittima nei casi più gravi di diffamazione, la sua necessaria inflizione, prevista dalla disposizione censurata in tutte le ipotesi da essa previste – che abbracciano, in pratica, la quasi totalità delle diffamazioni commesse a mezzo della stampa, periodica e non – conduce necessariamente a esiti incompatibili con le esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e in particolare con quella sua specifica declinazione costituita dalla libertà di stampa, già definita «pietra angolare dell’ordine democratico» da una risalente pronuncia di questa Corte (sentenza n. 84 del 1969)”.
“[…] Come rammentato nell’ordinanza n. 132 del 2020, se è vero che la libertà di espressione – in particolare sub specie di diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti – costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona. Aggressioni illegittime a tale diritto compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità cui si riferisce l’art. 595, terzo comma, cod. pen. – la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e gli altri siti internet, i social media, e così via – possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime. E tali danni sono suscettibili, oggi, di essere enormemente amplificati proprio dai moderni mezzi di comunicazione, che rendono agevolmente reperibili per chiunque, anche a distanza di molti anni, tutti gli addebiti diffamatori associati al nome della vittima. Questi pregiudizi debbono essere prevenuti dall’ordinamento con strumenti idonei, necessari e proporzionati, nel quadro di un indispensabile bilanciamento con le contrapposte esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e del diritto di cronaca e di critica in particolare.[Tra gli strumenti a disposizione per la tutela di un diritto di pari rango rispetto a quello espresso dall’art. 21 Cost] non può in assoluto escludersi la sanzione detentiva, sempre che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica. [Occorre allora domandarsi quali siano le ipotesi in cui, effettivamente, può essere legittimo l’uso della pena detentiva. La Corte Costituzionale risponde anche a questo, chiarendo che possono ricomprendersi tra le ipotesi eccezionali che giustificano la detenzione i casi di] discorsi d’odio e all’istigazione alla violenza, che possono nel caso concreto connotare anche contenuti di carattere diffamatorio; ma casi egualmente eccezionali, tali da giustificare l’inflizione di sanzioni detentive, potrebbero ad esempio essere anche rappresentati da campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi”.
2. La ratio della richiesta di mitigazione della penale.
Esaminati alcuni passaggi salienti, riportando dei brani della sentenza in commento (tecnica che si utilizzerà anche per i successivi paragrafi), appare opportuno ora sottolineare la ratio intrinseca che ha spinto i Tribunali a rivolgersi alla Corte Costituzionale. Il timore dei Tribunali è che l’uso della pena detentiva possa trasformarsi in un’arma idonea a coartare la volontà dei giornalisti, i quali svolgono un innegabile ruolo di guardiani della democrazia, consentendo la diffusione di informazioni che, per quanto scomode o dotate di carica idonea ad incidere in negativo sul pensiero dei lettori, corrispondono ai canoni della veridicità, pertinenza e continenza, sono meritevoli di diffusione e pertanto, meritevoli di vedere, nel bilanciamento di diritti costituzionalmente tutelati, prevalente il diritto “collettivo” alla conoscenza (ed il correlato diritto individuale alla libera manifestazione del pensiero, su cui si regge il diritto collettivo) sul diritto “individuale ed unico” alla tutela della reputazione dei soggetti coinvolti nella notizia.
La preoccupazione manifestata dinanzi alla Corte Costituzionale è quella di veder dilagare una sorta di “metus reverentialis”, simile a quello che nella disciplina dei contratti si riscontra nell’art. 1437 cc., nei confronti dell’attività dei giornalisti, ovvero incutere nella categoria quel timore sufficiente a far riflettere di più prima di pubblicare o meno una notizia conforme ai canoni di legge e deontologici, freno inibitorio purtroppo sfociante in un freno nella diffusione delle informazioni.
Tale timore, tuttavia, per quanto apprezzabile possa essere la scelta di porlo in evidenza, è stato facilmente rimosso dalla pronuncia in commento, la quale ribadisce che, di fatto, l’informazione correttamente fornita è e resta libera, dovendo la pena detentiva essere imposta solamente nei casi eccezionali in cui non è la libertà di espressione del pensiero il diritto prevalente, bensì la reputazione individuale, quando attaccata con modalità, con toni e per finalità che non lasciano dubbio sul bilanciamento di valori in gioco (non a caso, uno degli esempi riportati dalla pronuncia, è proprio l’istigazione all’odio, la quale merita di essere repressa al pari di quanto accade con altri reati affini).
3. La decisione della Corte Costituzionale.
Semplificato il più possibile il quesito sottoposto all’attenzione della Corte, occorre scendere ora più nel dettaglio, anche sotto il profilo tecnico della fase applicativa della pena, ricordando, in primo luogo, i dibattiti che hanno condotto alla formazione della cd. Scuola classica prima, sorta dalle ceneri della crudeltà monarchica e della cd. Scuola positiva poi ed all’abbandono della teoria retributiva della pena, al fine di abbracciare la più garantista e proficua, sotto il profilo degli effetti, teoria della rieducazione. Più precisamente, che si tratti di pena o che si tratti di misure di sicurezza, la dicotomia Scuola classica/Scuola positiva si interseca con il passaggio dalla pena accesa e crudele, alla teoria retributiva per poi giungere alla teoria della rieducazione.
La prima scuola, di cui fu massimo esponente Cesare Beccaria, incentrava il disvalore penale sulla figura del reo; la scuola positiva, di cui uno degli esponenti fu Ferri, guardava oltre il reo, oltre la sua condotta, andando ad osservare le circostanze e l’ambiente in cui esso operava: non stupiscono, allora, norme come quelle “speciali” in materia di agevolazione mafiosa o di aggravanti ambientali mafiose nei delitti corruttivi. Tutto questo segna lo spostamento dalla “retribuzione”, volta ad infliggere al reo la stessa sofferenza che egli stesso ha inflitto ad altri, all’idea di una pena volta a far comprendere come comportarsi, ad offrire un modello che consenta un cambiamento interno ed agevoli una sorta di passaggio dalla “colpa” (circoscritta a quel reato contestato) alla “riapertura del pensiero” verso la condotta che si sarebbe dovuta tenere in quel preciso momento al fine di evitare quel preciso reato, tenendo conto, su impulso della già descritta scuola positiva, anche dell’ “ambiente circostante” ai fini della necessarietà o meno di una misura di sicurezza (o cautelare ex art. 273 cpp.)[2].
Con tali premesse si è ormai consolidato un sistema di commisurazione della pena, sancito dall’art. 133 cp., il quale, non a caso, tiene conto della natura, della specie, dei mezzi, dell’oggetto, del luogo e di ogni altra modalità dell’azione, nonché delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
L’art. 133 cp. non è solamente un “criterio di commisurazione della pena” ma è il frutto, oltre che delle evoluzioni poc’anzi tracciate nei loro tratti indispensabili, anche della ritrosia, manifestata anche negli ultimi anni, nei confronti delle “pene fisse” a tutto vantaggio della formazione di una forbice edittale che tenga conto delle peculiarità del caso concreto e, dunque, rispecchi i principi di riserva di legge, offensività, determinatezza (da intendersi come dimostrabilità in giudizio dei fatti contestati), proporzionalità della pena, ragionevolezza della stessa ed uguaglianza ai sensi dell’art. 3 della Costituzione.
Tale sintesi emerge dalla stesse parole della Corte, la quale ricorda che: “[…]il potere discrezionale che [la legge] attribuisce al giudice nella scelta tra reclusione (da sei mesi a tre anni) e multa (non inferiore a 516 euro) deve certo essere esercitato tenendo conto dei criteri di commisurazione della pena indicati nell’art. 133 cod. pen., ma anche – e ancor prima – delle indicazioni derivanti dalla Costituzione e dalla CEDU secondo le coordinate interpretative fornite da questa Corte e dalla Corte EDU; e ciò anche al fine di evitare la pronuncia di condanne penali, che potrebbero successivamente dar luogo a una responsabilità internazionale dello Stato italiano per violazioni della Convenzione.[…] Ne consegue che il giudice penale dovrà optare per l’ipotesi della reclusione soltanto nei casi di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, rispetto ai quali la pena detentiva risulti proporzionata, secondo i principi poc’anzi declinati; mentre dovrà limitarsi all’applicazione della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, in tutte le altre ipotesi. Il giudice a quo non censura qui la sproporzione della pena detentiva rispetto alla gravità del reato, bensì l’inidoneità della minacciata sanzione detentiva a garantire il pieno rispetto della funzione general preventiva e special preventiva della pena stessa.[…]Mai, tuttavia, nella giurisprudenza di questa Corte, la necessaria finalità rieducativa della pena è stata utilizzata a sostegno di dichiarazioni di illegittimità costituzionale miranti a censurare l’ineffettività di comminatorie edittali rispetto agli stessi scopi preventivi della pena, in considerazione della inapplicabilità della pena in essa prevista. L’art. 27, terzo comma, Cost. è piuttosto pertinente nel quadro di censure miranti a denunciare il carattere manifestamente sproporzionato della pena prevista dal legislatore rispetto alla gravità del fatto di reato; ma che la cornice edittale prevista dall’art. 595, terzo comma, cod. pen. sia manifestamente sproporzionata si è già avuto poc’anzi modo di escludere, nei limiti appena precisati”.
4. I reati “satellite” dell’attività giornalistica: brevi cenni inerenti alle ipotesi estorsive.
A conforto della pronuncia in commento si vuole porre l’accento su un particolare risvolto “patologico” (esistente in qualsiasi attività lavorativa/di studio/di ricerca) dell’esercizio della libertà di espressione del pensiero. L’esistenza di un diritto soggettivo meritevole di tutela erga omnes non esclude, infatti, la possibilità che il suo esercizio possa prestarsi ad integrare gli estremi di un determinato reato: è il caso delle fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni o, nei limiti di quel che interessa in questa sede, dell’estorsione commessa dal giornalista al fine di evitare la diffusione di informazioni e notizie scandalistiche o al fine di evitare di criticare in modo pesante (tanto da incidere sulla sua commerciabilità) un’opera d’arte o un’opera letteraria, dietro pagamento di una somma di denaro[3].
Non deve, pertanto, stupire la scelta di non escludere a priori la pena detentiva, invitando, anzi, il legislatore ad una riforma (e, magari, alla formazione di fattispecie ad hoc con contestuale abolitio criminis totale o parziale di alcune norme degli anni ’30 e del ’48), dal ventaglio di possibilità dell’organo giudicante. Ciò in quanto la qualificazione di un determinato fatto come estorsione, in ragione dei requisiti indispensabili del profitto e dell’ingiustizia non sempre è possibile[4].
Pertanto, a fronte delle non peregrine difficoltà di qualificazione giuridica del fatto o di sussunzione dei casi concreti in determinate fattispecie astratte “collaterali” rispetto all’attività giornalistica, può dirsi opportuna la scelta di non rimuovere la reclusione, seppur (giustamente ed, anzi, obbligatoriamente, vista anche la natura di “extrema ratio” del diritto penale, che ha da tempo abbandonato, lo si ribadisce, anche la funzione retributiva della pena) relegandola al ruolo di “extrema ratio”, di ultima possibilità per reprimere le condotte più aspre ed ictu oculi dotate di un particolare grado di disvalore sociale (delle quali si sono già forniti numerosi esempi) che, inoltre, non possono essere qualificate o come estorsione o come violenza privata ex art. 610 cp (si pensi, al riguardo ed a prescindere, in questa sede, da ogni valutazione inerente la meritevolezza o meno del procedimento penale, dal momento che il “caso” ha solamente valore illustrativo ed esemplificativo a livello casistico, ad una recente sentenza del Tribunale di Milano, Sez. VII, 22 febbraio 2021, che ha interessato un inviato del programma Le Iene).
5. Conclusioni
A conclusione di questo excursus di segmenti di pronuncia, principi generali, criteri di commisurazione della pena, possibili qualificazioni dei fatti come violenza privata o estorsione, si riportano le conclusioni della Corte Costituzionale: “Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 […] deve essere dichiarata in via consequenziale l’illegittimità costituzionale dell’art. 30, comma 4, della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato), il quale prevede che [n]el caso di reati di diffamazione commessi attraverso trasmissioni consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato, si applicano ai soggetti di cui al comma 1 le sanzioni previste dall’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla presente pronuncia. Resterà anche in questo caso applicabile la disciplina prevista dall’art. 595, terzo comma, cod. pen. nei termini sopra indicati. La presente decisione, pur riaffermando l’esigenza che l’ordinamento si faccia carico della tutela effettiva della reputazione in quanto diritto fondamentale della persona, non implica che il legislatore debba ritenersi costituzionalmente vincolato a mantenere anche per il futuro una sanzione detentiva per i casi più gravi di diffamazione (in senso analogo, in relazione al contiguo diritto fondamentale all’onore, sentenza n. 37 del 2019). Resta, però, attuale la necessità, già sottolineata da questa Corte con l’ordinanza n. 132 del 2020, di una complessiva riforma della disciplina vigente, allo scopo di individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica; e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività”.
[1] L’esempio dello scandalo si deve a: G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte speciale, Vol. II, Tomo II, 5° Ed., pp. 153 e ss.
[2] Per un maggiore approfondimento sulle evoluzioni storiche, nonostante il contributo si rivolga ai processi minorili: P. Sàchez-MORENO, La mediazione penale minorile in Spagna – aspetti giuridici e sociologici, § Il processo minorile dal 1948 al 2000, in La rivista - L’altro diritto, 2002 (http://www.adir.unifi.it/rivista/index.htm).
[3] G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale – parte speciale, Zanichelli, 2012.
[4] A titolo esemplificativo, si è posto il problema dell’estorsione in Cass. pen. Sez. II, Sent., ud. 18-01-2013, dep. 08-03-2013, n. 10995, con la quale si è statuito che “[…] corrisponde ad un consolidato orientamento giurisprudenziale il principio che riconduce al concetto di minaccia rilevante ex art. 629 c.p. la prospettazione dell’esercizio di un diritto quando l’agente si proponga di conseguire un profitto ingiusto. E’ l’ingiustizia del profitto che si riflette sull’azione integrando la minaccia idonea a raggiungere l’effetto di coartazione della volontà del soggetto passivo come richiesto dall’art. 629 c.p. Occorre osservare che l’art. 629 c.p. richiede il requisito dell’ingiustizia solo con riferimento all’elemento del profitto e non anche con riferimento al danno […].[…]La tempistica dei contatti tra P. e C. e tra costui e T. esclude che C. abbia agito per finalità di informazione. Infatti: P. trasmise la seconda tranche del servizio a C. nella tarda mattinata di lunedì, non appena rientrato a casa dall’appostamento mattutino consacrato dalle immagini del calciatore in uscita dall’abitazione dell’occasionale accompagnatrice, e nella stessa tarda mattinata C., con le ricordate modalità C., ricevuto l’intero servizio, telefonò a R.F., legata a G.G., compagno di squadra di T., affinché G. avvertisse T. che aveva un “problema” per via delle fotografie, invitandolo a chiamare C. se non voleva che le fotografie fossero pubblicate, si mise in contatto con T., offrendogli in vendita l’intero servizio al prezzo di 25.000 Euro, ciò senza avere previamente contattato alcun giornale o direttore di giornale[…]”.
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