Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 04/09/2021 Scarica PDF
"Dolce morte" e "morte estrema". Rivisitazione penalistica della tipicità e dell'antigiuridicità nei casi Welby, Englaro, DJ Fabo nonchè nelle ipotesi di violenza sportiva e morte da attività estrema
Micaela Lopinto, Avvocato in BresciaSommario: Abstract; 1. Premessa; 1.1 Il ruolo del principio di tipicità nel diritto penale; 2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019; 3. Un passo indietro: il rilievo penale, secondo la giurisprudenza, dei casi Welby, Englaro, Dj Fabo molto prima della sentenza n. 242 del 2019; 4. Segue: dolce morte e violenza sportiva. Rilevanza nel diritto penale delle attività violente; 5. Riflessioni conclusive sui rapporti tra “dolce morte” e “morte estrema” prima della sentenza n. 242 del 2019 e possibili scenari futuri.
Abstract Ita
Il presente contributo, frutto di una riflessione prettamente penalistica, pertanto scevra da ogni rilievo di diversa natura, vuole individuare dei punti di contatto tra la risposta offerta dall’ordinamento nelle controverse ipotesi di “dolce morte” e la risposta offerta in ipotesi di condotte sportive violente. In particolare, si vuole porre l’accento su come, tanto nell’uno quanto nell’altro caso, a prescindere dai risvolti dei casi Welby, Dj Fabo ed Englaro post sentenza n. 242 del 2019, si sia scelto in passato di incidere non sulla tipicità/offensività delle condotte, bensì sulla antigiuridicità delle stesse, escludendola tanto nell’ipotesi di minima agevolazione nel compimento di condotte volte a porre fine al bene-vita, quanto nelle ipotesi in cui, pur vertendosi in contesti sportivi di violenza necessaria, il bene-vita abbia subito una lesione atipica. Forti di questo parallelo, frutto di riflessioni passate, si proveranno a prospettare degli scenari giurisprudenziali futuri tanto nelle ipotesi di dolce morte quanto nelle ipotesi di morte estrema.
Abstract Eng
By an analysis just of the main criminal traits of the question, the following paper focuses on some cardinal points between the answer of the legal system about three particular cases of euthanasia and the answer of the same system in case of sportsmanlike violence. Particularly, this research wants to underline the italian legal system often solved the cases in the same way (as a matter of fact, according to the best case law and doctrinal studies, in both cases judges, in the past, often applied typical or atypical excuses), without considering the consequence about cases like Welby, Dj Fabo and Englaro after the suggestion of the Constitutional Court to issue a new law to regulate the matter and the issuing of the judgement n. 242/2019. In the end, by this comparison among past reflections, the author will be showing two possible scenarios about the cases of euthanasia and the cases of violent death (extreme sports).
1. Premessa.
Prima di esporre alcune riflessioni, come già indicato in abstract, appare doveroso perimetrare l’indagine che si intende svolgere. Come è noto, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 207 del 2018, aveva dato al Parlamento un anno di tempo per un intervento normativo che, tuttavia, non vi è stato. Pertanto si è giunti all’emanazione della sentenza n. 242 del 2019, con la quale si è optato per una declaratoria di incostituzionalità (seppur circostanziata) dell’art. 580 cp, utilizzando la non meglio precisata espressione “[…]nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 [agevola l’esecuzione del proposito di suicidio…]” senza chiarire in modo più preciso la corretta qualificazione giuridica della “esclusione” (le tesi sul campo sono due: esclusione della tipicità o esclusione della antigiuridicità e, si sa, a prescindere dalle teorie bipartite, tripartite o quadripartite del reato, l’esclusione della tipicità comporta l’assoluzione per insussistenza del fatto; l’esclusione della punibilità per applicazione di una causa di giustificazione comporta l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, pertanto occorrerà attendere degli “assestamenti giurisprudenziali e dottrinali” sul tema[1]). Premesso questo dato fondamentale, con queste poche righe si vuole tornare indietro di qualche anno, evidenziando l’applicazione delle cause di giustificazione nella risoluzione dei casi di “dolce morte” al fine di utilizzare le affinità che si possono riscontrare tra questi casi ed i casi di violenza sportiva per prospettare una futura soluzione anche ai problemi che la giurisprudenza ha dovuto affrontare di recente in materia di cd. “morte estrema”.
1.1 Il ruolo del principio di tipicità nel diritto penale.
L’intero sistema del diritto penale denota una forte frammentarietà. Più precisamente, tale caratteristica del sistema penale emerge dallo stesso uso della tecnica di costruzione di fattispecie a modalità vincolata. La scelta del “come”, “quanto” e “perché” incriminare una determinata condotta trasformandola in una fattispecie incriminatrice astratta incontra una serie di delicati limiti costituzionali (garanzia della libertà individuale in primis) e risente dell’influsso dei corollari del principio di legalità: tassatività, determinatezza, riserva di legge e, si può aggiungere in questa peculiare sede, principio di offensività. Tipicità ed offensività rappresentano l’uno la ragione giustificatrice dell’altro: la tipicità senza offensività concreta si traduce in una assoluzione per insussistenza del fatto; la tipicità senza offensività astratta (o, peggio, senza determinatezza) si espone ai dubbi di legittimità costituzionale. Pertanto, in presenza di condotte che siano sia tipiche sia offensive in astratto ed in concreto, l’unico rimedio possibile, qualora non difetti neppure l’elemento soggettivo, consiste nel “giocarsi la carta dell’antigiuridicità”.
2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019.
Con particolare riferimento al noto caso Dj Fabo, giova ricordare come la Corte d’assise di Milano abbia sollevato dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 580 del cp, che prevede il reato di istigazione o aiuto al suicidio, sotto due distinti profili. Precisamente:
1) sotto il profilo del perimetro applicativo della disposizione censurata, lamentando che essa incrimini le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio;
2) sotto il profilo del contrasto della norma in esame, a parere dei giudici rimettenti, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), i quali, nel salvaguardare il diritto alla vita ed il diritto al rispetto della vita privata, comporterebbero che l’individuo abbia il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà e che l’intervento repressivo degli Stati in questo campo possa avere soltanto la finalità di evitare rischi di indebita influenza nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili.
La Corte, condividendo preoccupazioni che, di fatto, hanno trovato forte riscontro dottrinale e giurisprudenziale e che, per tale motivo, non si intendono in questa sede riaffrontare, ha decretato che: “[…] L’art. 580 cp. deve essere dichiarato, dunque, costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32 secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza – agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente […]”.
3. Un passo indietro: il rilievo penale, secondo la giurisprudenza, dei casi Welby, Englaro, Dj Fabo molto prima della sentenza n. 242 del 2019.
Quantomeno negli anni passati, dal momento che la locuzione utilizzata dalla sentenza n. 242 del 2019 è al momento oscillante tra esclusione della tipicità ed esclusione della antigiuridicità ed è oggetto di studio, la risposta della giurisprudenza nei casi di “dolce morte”, e, precisamente, nei casi Welby ed Englaro, è stata di esclusione della antigiuridicità.
Per il caso Welby, al fine di risolvere il quesito sulla responsabilità del medico che, di fatto, aveva provveduto all’interruzione delle cure vitali (tralasciando le controverse questioni inerenti i rapporti tra causalità attiva e causalità omissiva che, in questo caso più che mai, si confondono) si applicò l’art. 51 cp., evidenziando la circostanza secondo la quale nessuno può essere costretto (al di fuori dei cd. TSO, trattamenti sanitari obbligatori) a sopportare il peso di una terapia non più voluta, nel rispetto, dunque, del dettato di cui all’art. 32 Cost.
Per il caso Englaro, più in particolare, si cercò perfino di giustificare il decesso ricostruendo la volontà della paziente e garantendo ai genitori/al nuncius di esprimerla all’esterno, dando la possibilità anche al soggetto in fine vita di esprimere la propria volontà, seguendo le cd. logiche del best interest del paziente, evitando così l’immediata condanna sotto un profilo penale al medico che aveva effettivamente reso possibile la realizzazione della volontà del malato grave.
4. Segue: dolce morte e violenza sportiva. Rilevanza nel diritto penale delle attività violente.
La tecnica della applicazione della scriminate dell’adempimento del dovere, utilizzata al fine di escludere la punibilità delle condotte di agevolazione materiale minima nella interruzione della vita di chi versa in condizioni di profonda sofferenza psichica, con patologie irreversibili, per le quali non è prevista nessuna forma di miglioramento bensì solo un lento decorso e deterioramento progressivo (nonché la stessa soluzione offerta nella recente sentenza della Corte costituzionale, volendo in questa sede aderire alla tesi secondo la quale dietro la locuzione più volte riportata “[…]nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 [agevola l’esecuzione del proposito di suicidio…]” si celi, in verità più che un motivo di esclusione della tipicità, una causa di esclusione della antigiuridicità), presenta uno “strano” punto di contatto con la scelta di escludere l’antigiuridicità di condotte violente in contesti sportivi, mediante le cd. scriminanti atipiche o tacite del cd. “rischio consentito[2]”, le quali consentono di scriminare le offese non volute (quindi colpose) che superano la normale soglia di dolore che può essere inflitta durante giochi violenti come il pugilato. Si tratta di scriminanti che trovano fondamento nell’esigenza di bilanciamento giurisprudenziale tra una offesa non voluta in un contesto violento e la lesione inflitta al soggetto che, nel bene o nel male, ha prestato un implicito consenso allo svolgimento di una attività che è in grado, nei limiti imposti dall’art. 5 cc., di incidere nella propria sfera giuridica. Lo stesso bilanciamento, che, in fondo, si fa nel “fine vita”. Può sembrare un controsenso, ma l’esclusione dell’antigiuridicità nel diritto sportivo e nel settore medico del “fine vita” parte da tre punti di contatto comuni: il consenso del paziente/il consenso dei giocatori, la lesione del bene vita maggiore di quella tollerata (morte nel primo caso, lesioni nel secondo caso), l’esclusione dell’antigiuridicità delle condotte (del medico o dell’altro giocatore) che cagionano la lesione.
Appurata l’esistenza di punti di contatto tra due settori che, apparentemente, sembrano essere antitetici, non foss’altro per “causa”, sanitaria non voluta l’uno, di volontaria esposizione a dei rischi l’altro, può porsi ulteriormente l’accento sulla ratio della esclusione della antigiuridicità nella esecuzione materiale, ragionando sulle condotte di istigazione al suicidio che possono derivare da giochi che impongono lo svolgimento di attività estreme, spesso diffusi tramite le piattaforme internet, blog ed ogni altro strumento idoneo a garantire il raggiungimento di una pluralità di persone. Se è pacificamente giustificabile, sotto un profilo penale, l’esclusione dell’antigiuridicità nei casi sinteticamente riportati di “eutanasia” (fermi restando i dubbi post sentenza del 2019 e fermo restando il riferimento esclusivo alle agevolazioni delle volontà già saldamente formate) e di violenza sportiva, non deve stupire l’incriminazione, sia sotto il profilo dell’istigazione, sia sotto il profilo di una eventuale (e meno probabile) esecuzione materiale delle condotte di “istruttori” che impongono ad allievi il compimento di attività estreme che, in verità, richiederebbero un addestramento fisico adeguato, quali, ad esempio, il lanciarsi lungo una strada trafficata[3].
L’esempio serve per comprendere appieno il meccanismo che sorregge l’esclusione dell’antigiuridicità nei casi di “dolce morte” e “violenza sportiva”: in entrambi i casi ciò che viene in considerazione è l’esclusione di antigiuridicità di condotte che, nel contesto in cui sono inseriti (terapeutico e di gioco che già ammette l’atto potenzialmente lesivo) sono tollerate poiché corrispondenti l’uno al best interest del paziente, meritevole di tutela anche ai sensi dell’art. 8 CEDU, l’altro invece al consenso reciproco dei partecipanti al gioco.
Il caso del gioco estremo, invece, specie se aggravato dall’adescamento dei minori, impone chiaramente di operare una riflessione di partenza diversa: il gioco estremo collide già di per sé solo con le ipotesi di colpa generica, suscita immediatamente il dubbio che siano state violate delle regole cautelari, poste a presidio della linea di confine tra rischio consentito e rischio non consentito, rende istintiva la ricerca degli elementi della previsione e volizione del dolo dell’istigazione qualora l’attività imposta, se rivolta nello specifico a soggetti privi delle competenze di addestramento o di discernimento (minori) idonee non solo a svolgere l’attività ictu oculi pericolosa ma anche a comprenderne in pieno il disvalore.
E’ evidente, fin dalle sole premesse, l’estrema difficoltà nell’applicazione di eventuali scriminanti anche atipiche e rende, anzi, più semplice, invece, comprendere la ratio degli sforzi ricostruttivi della giurisprudenza nell’applicazione dell’art. 51 cp. nel caso Welby e della scriminante atipica del cd. “rischio consentito” nel caso di condotta sportiva che, senza dolo, sconfina in una lesione. I due settori in cui operano le cause di giustificazione consentono istintivamente di entrare in una sfera di “tolleranza” della coscienza sociale, a differenza delle attività estreme espletate, nella migliore delle ipotesi, in totale assenza di cautele o del rispetto dei criteri di prudenza, perizia e diligenza di cui all’art. 43 cp tanto da imporre la ricerca di omissioni colpose e di posizioni di garanzia (anche a mezzo delle discusse tesi delle assunzioni volontarie); nella peggiore, su istigazione dolosa.
5. Riflessioni conclusive sui rapporti tra dolce morte e morte estrema prima della sentenza n. 242 del 2019 e possibili scenari futuri.
Le ricostruzioni sin qui operate e l’esempio della “attività estrema” consentono di fare un piccolo passo in avanti nella risoluzione delle questioni giuridiche in materia di dolce morte sotto un profilo, lo si ripete, prettamente penalistico e, pertanto, privo di ogni genere di rilievo di altre branche delle scienze etiche e sociali.
La circostanza (che sembra elementare ma, da un punto di vista penalistico, non lo è affatto) secondo la quale la “dolce morte” debba essere diversificata, forti delle considerazioni svolte in materia di scriminanti atipiche sportive, dalla “morte estrema” impone, da un lato, di spingere verso la qualificazione della “locuzione dubbia” della sentenza della Corte Costituzionale come carenza di tipicità, al fine di innalzare il livello di protezione della capacità di autodeterminazione del paziente, dall’altro, di interrogarsi sulla legittimità di questa seconda ipotesi (morte estrema, si è detto). Il nostro ordinamento giuridico tutela, più di qualsiasi altro, il bene “vita”: se il reato non si estinguesse con la morte del reo, il suicidio sarebbe certamente incriminato ed è per sopperire a questo inconveniente che l’ordinamento conosce norme come l’art. 579 cp. e l’art. 580 cp.
Pertanto, se da un lato sono facilmente comprensibili le ritrosie passate, nonostante le sollecitazioni intervenute da parte della stessa Corte Costituzionale al Parlamento affichè venisse emanata una legge idonea a disciplinare la questione del “fine vita”, ad ammettere la legittimità di pratiche che consentono, in presenza di ferree determinazioni dei malati in stati irreversibili, di porre fine alla vita di una persona, non può non notarsi come strida con tali principi costituzionali e penalistici così garantisti l’ammissibilità de plano di pratiche di gioco veramente estremo che, lo si ribadisce, se svolte da minori in condizioni fisiche, psichiche e di addestramento non consone, possono condurre molto facilmente ad un esito infausto della acrobazia.
Il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione vuole che casi simili siano trattati in modo eguale e casi diversi in modo diverso, pertanto non stupisce la virtuosa tendenza ad escludere l’applicabilità di fattispecie come l’art. 580 cp, per il momento solo sotto il profilo della antigiuridicità (ma, probabilmente si tenderà a qualificare la locuzione sotto il profilo della tipicità) e la tendenza giurisprudenziale, per contro, a ravvisare molto più facilmente gli estremi dell’istigazione al suicidio o, ove possibile, gli estremi delle fattispecie omissive di omicidio, nella fortunata ipotesi in cui (specie dopo la sentenza Vannini) si riesca a ricostruire una posizione di garanzia.
[1] Per un approfondimento più specifico sulla dubbia natura giuridica di cui si è fatto in questa sede solo cenno: F. CIRILLO, Nuovi diritti e nuovi doveri nelle questioni di fine vita? (a margine della sent. n. 242 del 2019), in Osservatorio Costituzionale, Fasc. 3/2020, 2 giugno 2020,https://www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/2020_3_27_Cirillo.pdf. Ha affrontato il tema, precedentemente, anche: P. BERNARDONI, Ancora sul caso Cappato: qualche considerazione sulla "non punibilità" dell'aiuto al suicidio introdotta dalla Corte costituzionale, in Riv. Sistema penale, 25 Febbraio 2020, www.sistemapenale.it, disponibile al seguente indirizzo https://sistemapenale.it/it/scheda/bernardoni-assise-cappato-non-punibilita-aiuto-al-suicidio-dopo-corte-costituzionale.
[2] Sul punto si legga anche, su questa rivista, a completamento della breve indagine svolta in questa sede ed, ancora, a completamento ed integrazione del lavoro precedentemente svolto: M. LOPINTO, Nullità cd. virtuali di protezione e cause di giustificazione atipiche: l’atipicità civile e penale, in ilCaso.it: https://opinioni.ilcaso.it/uploads/news/file/39bc8-lopinto-10-04-21.pdf.
[3] Un esempio, tra tanti può essere quello offerto dalla Cass. Sez. V penale, sentenza del 22 dicembre 2017 n. 57503.
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