Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 25/11/2021 Scarica PDF
Usucapione ed azione di rivendicazione. Note a margine della sentenza della Corte di cassazione, II Sez. Civile, N. 28865 del 19 Ottobre 2021
Micaela Lopinto, Avvocato in BresciaSOMMARIO: Il caso; Le motivazioni della Corte; Il punto critico; Conclusioni; Giurisprudenza; Dottrina essenziale.
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IL CASO
Con notevole (anzi, quasi esclusivo) ausilio della pronuncia in commento si vogliono in poche righe (pur dovendo, in alcuni contesti e per amor di sintesi, rielaborare alcuni punti ed aspetti) riassumere le circostanze (di fatto ma incidentalmente anche di diritto) in cui si inserisce il caso concreto. Ebbene, la Corte d’appello di Z aveva confermato la sentenza del Tribunale con la quale era stata accolta la domanda di rivendicazione di un fondo proposta dalla società X nei confronti del sig. Y. Al riguardo la Corte aveva rilevato quanto segue: 1.) “Y aveva in precedenza richiesto l’accertamento dell’usucapione in proprio favore ex art. 1159 bis cc.; 2.) Che, proposta l’opposizione contro l’istanza da parte della società, la stessa era stata rigettata con sentenza d’appello, confermata in sede di legittimità; 3.) Che, in considerazione della pregressa vicenda giudiziale, si giustificava l’applicazione dei principi di giurisprudenza di legittimità sull’attenuazione dell’onere della prova in tema di azione di rivendicazione, quando il convenuto abbia opposto alla pretesa dell’attore l’acquisto per usucapione in proprio favore; 4.) In base a quegli stessi principi, l’onere della prova a carico della società si esauriva perciò nella dimostrazione del proprio titolo di acquisto; 5.) Tali considerazioni rendevano secondaria la questione, sollevata dall’appellante, di quale fosse stato l’atteggiamento del convenuto nel presente giudizio; 6.) Il primo giudice aveva fondatamente ritenuto che il diritto di proprietà della società non fosse stato specificatamente contestato, ma, seppure così non fosse stato, rimanevano impregiudicate le conseguenze, sul piano dell’onere della prova, imposto all’attore in rivendicazione, dall’avere il convenuto infondatamente affermato nel precedente giudizio di avere acquistato la proprietà dei fondi per usucapione”.
In questa sede, ancora di ricostruzione del fatto, può essere opportuno precisare, con più attenzione, che il giudizio instaurato per l’accertamento dell’acquisto della proprietà per usucapione si era, in linea di massima, esaurito con il disconoscimento dell’acquisto a titolo originario da parte dell’attuale ricorrente. Ancora, l’esito infruttuoso del giudizio di usucapione promosso dal ricorrente non determinava alcun alleggerimento dell’onere della prova della proprietà per la società attrice, odierna controricorrente, non potendo l’accertamento della insussistenza dell’intervenuta usucapione da parte del ricorrente dirsi “spendibile” nell’ambito della azione di rivendicazione.
La società X, attrice in rivendicazione, non poteva, solo in ragione della sussistenza di un precedente giudizio con soccombenza della controparte, considerarsi legittimata a provare solo il proprio titolo, senza risalire all’acquisto a titolo originario, a maggior ragione se si considera che la stessa attrice, controricorrente nel giudizio in commento, aveva allegato a fondamento del proprio diritto dominicale, solamente una relazione notarile.
Proseguendo, ancora, occorre ricordare che il ricorrente aveva contestato alla Corte la mancata verifica della prova, da parte della attrice, del possesso del fondo in capo al convenuto (elemento indispensabile per un esito fruttuoso della azione di rivendicazione che legge la legittimazione passiva anche alla luce del rispetto del solo principio possideo quia possideo).
La società X, resistente in controricorso, invece, insisteva nelle proprie difese, affermando che in sede di rivendicazione aveva dato prova del proprio diritto a mezzo della (si è detto, ritenuta insufficiente sotto un profilo probatorio) relazione notarile e ribadiva la contraddittorietà della affermazione secondo la quale sarebbe comunque necessaria una prova piena (riassumibile nell’adempimento della cd. probatio diabolica tipica della azione di rivendicazione che impone di risalire a catena gli acquisti fino a dar prova dell’esistenza di un acquisto a titolo originario) dal momento che lo stesso ricorrente, come si è già in precedenza chiarito, era risultato soccombente nel giudizio con cui aveva tentato di dimostrare l’intervenuta usucapione a proprio vantaggio; giudizio che, di fatto, l’aveva poi visto completamente soccombente.
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In questa sede, operando una prima riflessione personale, si può subito rilevare, da un lato, l’esistenza di elementi (la cui attualità deve essere comunque oggetto di verifica) validi ai fini della affermazione della sussistenza del possesso del convenuto e dunque della sua legittimazione passiva, deducendoli proprio dal giudizio da egli stesso intentato al fine di farsi riconoscere un acquisto a titolo originario (l’usucapione) il quale si basa proprio sul possesso. Dall’altro l’impossibilità di utilizzare un “giudizio passato” per alleggerire un requisito basilare (la probatio diabolica, per l’appunto) che caratterizza ed, anzi, proprio distingue, il peculiare processo per rivendicazione da altri giudizi affini.
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LE MOTIVAZIONI DELLA CORTE
Così sommariamente ricostruito il processo, si vuole ora porre l’accento su due questioni fondamentali, che, in parte, saranno affrontate ed approfondite a livello teorico e dottrinale anche nel successivo paragrafo:
1.) Legittimazione passiva nell’ambito dell’azione di rivendicazione;
2.) Onere della prova nell’ambito del medesimo giudizio sorgente in capo alla parte attrice;
Al fine di rispondere ai quesiti indiretti scaturenti dalle questioni, può essere utile riportare alcuni brani della pronuncia in esame.
Sotto il profilo delle condizioni generali per il vittorioso esperimento della azione di rivendicazione, la pronuncia in commento ricorda che: “legittimato passivamente all’azione di rivendica ex art. 948 cc., qualunque sia il titolo di acquisto invocato dall’attore, è chiunque di fatto possegga o detenga il bene rivendicato e sia in grado quindi di restituirlo.[…]E’ indubbio che il possesso del bene rivendicato, costituendo uno degli elementi dell’azione di rivendicazione, deve essere provato con gli altri dall’attore (Cass. n. 5398 del 1985). E’ stato anche chiarito che se il convenuto nega la propria qualità di possessore non propone un’eccezione in senso stretto, ma una semplice difesa che non esime l’attore dalla dimostrazione che sussiste nel convenuto la legittimazione passiva, costituita, appunto, dalla sua qualità di possessore, che è condizione dell’azione di rivendica”.
Ebbene, richiamando alla mente alcune considerazioni personali espresse in fatto, le stesse trovano conferma anche nell’ambito della parte motiva della pronuncia, non perché pregevoli, bensì semplicemente perché di intuitiva evidenza. La Corte afferma, infatti, la illogicità della considerazione secondo la quale la parte attrice in un giudizio avente ad oggetto una domanda di accertamento di intervenuta usucapione possa poi, in veste di convenuta nel giudizio di rivendicazione, negare di essere nel possesso del medesimo bene immobile in relazione al quale aveva invocato l’avvenuto acquisto a titolo originario a proprio vantaggio.
Ancora, si condivide pienamente in questa sede l’affermazione secondo la quale “il ricorrente, per fondare l’onere della prova dell’attore di dare specifica dimostrazione del possesso del fondo, avrebbe dovuto dedurre in modo specifico sul punto, assumendo, per esempio, un sopravvenuto mutamento rispetto al momento di introduzione del precedente giudizio di usucapione.[…]Il possesso del fondo, era perciò un fatto che poteva ritenersi acquisito e che correttamente la Corte d’appello ha ritenuto tale”. Non si comprende, infatti, come si possa considerare non provato il possesso, quando lo stesso soggetto legittimato passivo ex art. 948 cc., e, dunque, legittimato anche sono in ragione del principio possideo quia possideo, possa dolersi della mancata prova del suo possesso e, dunque, del requisito della legittimazione passiva, se egli stesso aveva invocato il predetto elemento al fine di acquisire un titolo di proprietà.
Così affrontata la prima questione fondamentale, si può ora esaminare la seconda questione, ovvero la questione inerente all’onere probatorio ed al suo eventuale alleggerimento. Ebbene, al riguardo la Suprema Corte ha avuto modo di ricordare, anche qui in linea generale, che:“[…]l’affermazione di carattere generale è che nel giudizio di revindica l’attore deve provare di essere divenuto proprietario della cosa rivendicata risalendo anche attraverso i propri danti causa fino ad un acquisto a titolo originario o dimostrando che l’attore stesso o alcuno dei suoi danti causa abbia posseduto il bene per il tempo necessario ad usucapirlo [probatio diabolica].Pertanto il rivendicante, per assolvere l’onere probatorio gravante a suo carico, deve dimostrare: 1.) o che egli è fornito di un valido titolo derivativo proveniente, direttamente o tramite i suoi autori, da un soggetto cui possa attribuirsi la qualità di dominus nel senso precisato, di legittimo titolare della proprietà del bene in contestazione, per averlo acquistato a titolo originario; 2.) o che egli stesso possa vantare un acquisto a titolo originario, per avere posseduto il bene per il tempo necessario all’usucapione. A tal fine potrà eventualmente sommare il proprio possesso al possesso dei precedenti danti causa.[…] Sull’onere della prova nell’azione di rivendicazione, la giurisprudenza, con indirizzo assolutamente costante, afferma che la prima e fondamentale indagine che il giudice del merito deve compiere concerne l’esistenza, la validità e la rilevanza del titolo dedotto dall’attore a fondamento della pretesa, e ciò prescindendo da qualsiasi eccezione del convenuto, giacche, investendo essa uno degli elementi costitutivi della domanda, la relativa prova deve essere uno degli elementi costitutivi della domanda, la relativa prova deve essere fornita dall’attore e l’eventuale insussistenza deve essere rilevata dal giudice anche d’ufficio. Si tratta di un onere fondamentale ed assoluto, tanto che il convenuto in rivendicazione non è a sua volta tenuto a fornire alcuna prova e può trincerarsi dietro il possideo quia possideo, e, se adduce qualche prova o qualche suo diritto sulla cosa, ciò non deve mai tornare a suo pregiudizio, non implicando, di per sé, rinuncia alla posizione vantaggiosa derivantegli dal possesso e non esonerando l’attore dalla prova a suo carico”.
Il punto critico, pertanto, non inerisce ai profili generali riguardanti l’onere probatorio, sul quale dottrina e giurisprudenza pacificamente concordano. Infatti, le difficoltà ineriscono esclusivamente al profilo dell’alleggerimento del predetto onere probatorio. Riassumendo le differenti posizioni emerse al riguardo, può essere utile ricordare come non sussista una “regola generale”, tant’è che gli stessi casi concreti, isolatamente considerati, sono di scarso supporto nel dirimere la questione, dal momento che anch’essi si “biforcano” in due divergenti orientamenti, così riassumibili:
1.) Secondo un primo orientamento, il rigore della prova non sarebbe attenuato dalla mera proposizione di una domanda o eccezione di usucapione da parte del convenuto e troverebbe applicazione il principio a mente del quale la mancata prova del titolo della proprietà da parte del convenuto nell’azione di rivendicazione non può costituire motivo per l’inversione dell’onere della medesima che incombe sempre sul rivendicante.
2.) Secondo un diverso orientamento, invece, l’opposizione di un acquisto per usucapione, il cui dies a quo (però) sia successivo a quello del titolo di acquisto del rivendicante, comporta che il thema disputandum sia costituito dall’appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell’invocata usucapione e non già all’acquisto di esso da parte dell’attore. In base a tale orientamento, dovendo il tema della prova coincidere con quello del decidere, l’onere probatorio, imposto all’attore in rivendica, può ritenersi assolto per l’effetto del fallimento dell’avversa prova della prescrizione acquisitiva, e, viceversa, in sede di rivendica, il convenuto non potrebbe svincolarsi dal principio possideo quia possideo invocando un difetto di legittimazione passiva, posto che, se così facesse, finirebbe con il negare la sua stessa domanda di intervenuta usucapione.
I due orientamenti, come detto, risentono delle peculiarità dei casi concreti dai quali hanno avuto origine. Pur tuttavia, nulla esclude che possano dirsi estrapolabili dei principi generali, valevoli per ogni circostanza, così riassumibili:
a.) Nella rivendicazione l’attore deve fornire la prova rigorosa della proprietà, dimostrando un titolo di acquisto originario o, nel caso di titolo derivato, risalendo fino al dante causa che abbia acquistato a titolo originario, senza che alcun onere gravi sul convenuto, il quale può trincerarsi sul commodum possessionis, limitandosi ad eccepire il principio possideo quia possideo,
b.) Mancando la prova positiva della proprietà, l’attore in rivendica soccombe, anche se il convenuto non dimostra la sua proprietà a sostegno del proprio possesso;
c.) Non basta che sia data la prova di un titolo preminente a quello del convenuto, quando questo titolo non sia attributivo del diritto della proprietà;
d.) Si devia da tale ragione se il convenuto abbia fatto delle ammissioni, per esempio quando l’acquisto della proprietà sia un fatto pacifico tra le parti o il convenuto si affermi avente causa dello stesso autore da cui l’attore deriva il suo diritto, o quando si riconosca che il dante causa è comune o il convenuto riconosca la proprietà in capo ad alcuno dei danti causa dell’attore;
e.) Deve ribadirsi che non si rinviene, nella giurisprudenza della Corte, un principio in base al quale la domanda o l’eccezione di usucapione comporta, per ciò solo, il riconoscimento del dominio dell’attore o dei suoi aventi causa, attenuandosi di conseguenza il rigore dell’onere probatorio a carico del rivendicante;
f.) Essendo l’usucapione un titolo di acquisto a carattere originario, la sua invocazione non suppone alcun riconoscimento a favore della controparte. E’ fatta salva l’ipotesi che l’usucapione, così come dedotta dal convenuto, non sia in contrasto con la proprietà dell’attore o di uno dei suoi danti causa: il che si verifica quando il convenuto abbia comunque riconosciuto che il rivendicante o uno dei danti causa dell’attore era proprietario del bene all’epoca in cui assume di avere iniziato a possedere;
g.) Vale in altre parole, anche in relazione all’usucapione opposta dal convenuto nel giudizio di rivendicazione, la regola generale che l’attore si può giovare delle ammissioni del convenuto, il quale abbia riconosciuto l’esistenza del diritto stesso fino ad un dato momento e ad un determinato acquisto.
In conclusione, la Corte ha emanato il seguente principio di diritto:“[…] essendo l’usucapione un titolo d’acquisto a carattere originario, la sua invocazione, da parte del convenuto con l’azione di rivendicazione, non suppone, di per sé, alcun riconoscimento idoneo ad attenuare il rigore dell’onere probatorio a carico del rivendicante, il quale, anche in caso di mancato raggiungimento della prova dell’usucapione, non è esonerato dal dover provare il proprio diritto, risalendo anche attraverso i propri danti causa fino ad un acquisto a titolo originario o dimostrando che egli stesso o alcuno dei suoi danti causa abbia posseduto il bene per il tempo necessario ad usucapirlo. Il rigore probatorio rimane tuttavia attenuato quando il convenuto, nell’opporre l’usucapione, abbia riconosciuto, seppure implicitamente, o comunque non abbia riconosciuto, seppure implicitamente, o comunque non abbia specificamente contestato, l’appartenenza al bene al rivendicante o uno dei suoi danti causa all’epoca in cui assume di avere iniziato a possedere […]”.
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IL PUNTO CRITICO
Appare evidente, sin dalla parte motiva della pronuncia, come momento catartico del caso concreto sia proprio la scelta sul se attribuire rilievo oppure no a fattori capaci di incidere sul meccanismo della probatio diabolica. Non ci si vuole, in questa sede, dilungare eccessivamente sui profili teorici dell’azione, stante il carattere esaustivo delle motivazioni della pronuncia in commento. Pur tuttavia, alcune riflessioni dottrinali meritano di aggiungersi alla lista delle nozioni fornite, più che altro per la natura sottile che le caratterizza. Ebbene, la posizione della parte attrice, come ricorda autorevole dottrina (A. Gambaro, p. 398 e ss.) è l’elemento caratterizzante della domanda di rivendicazione: “la prova della proprietà deve essere assoluta così come è assoluto il diritto che costituisce l’unica base della domanda. […] il termine assolutezza sta a significare la situazione di appartenenza più intensa che possa sussistere rispetto a quel bene”. Ancora, come ricorda altra dottrina (M. C. Bianca, p. 414 e ss., nonostante il richiamo a Natucci quale voce contraria, nota 24, § 210) l’onere probatorio è inteso in modo rigoroso a carico del rivendicante: non basta il titolo derivativo, poiché un tale titolo non dimostra l’acquisto della proprietà (ancor meno una relazione notarile, effettivamente esibita in giudizio dalla parte attrice). Potrebbe, infatti, sussistere un acquisto a non domino a monte, i cui requisiti meriterebbero apposita ed ulteriore (rispetto al processo avente ad oggetto la domanda di cui trattasi) verifica. Non stupisce, pertanto, apprezzando così le parole degli Autori, che la giurisprudenza non abbia dato peso al precedente giudizio avente ad oggetto l’accertamento della intervenuta usucapione con esito infausto ai fini dell’alleggerimento della prova di parte attrice.
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CONCLUSIONI
A conclusione dell’indagine svolta appare evidente che i principi fondamentali dell’azione di rivendicazione non sono scalfiti dalle peculiarità dei casi concreti. Non sussiste, in linea di massima, nessuna “deroga giurisprudenziale” evidente o, comunque, degna di nota ai presupposti di cui all’art. 948 cc.
Giurisprudenza
Corte di Cassazione n. 28865 del 19 Ottobre 2021, in Ilcaso.it, massima ufficiale e testo per esteso disponibile al seguente indirizzo web: https://www.ilcaso.it/sentenze/ultime/26160
Dottrina essenziale
M. C. BIANCA, La proprietà, Vol. 6, Giuffré, Milano, 1999, pp. 121 e ss;
A. GAMBARO, La proprietà, Giuffré, Milano, pp. 86 e ss.
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