Bancario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 03/01/2012 Scarica PDF
La funzione di compliance nella vigilanza bancaria
Aldo Angelo Dolmetta, già Consigliere nella Prima sezione della Corte di Cassazione, già Professore ordinario di Diritto privato nell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.SOMMARIO: 1. Rischio di non conformità alle regole e autonomia di impresa. - 2. Funzione di compliance e attività bancaria. - 3. Le Istruzioni della Banca d'Italia. - 4. Funzione di compliance e «certezza del diritto».
1. Rischio di non conformità alle regole e autonomia di impresa
La funzione di compliance non appartiene al novero degli istituti conosciuti
dal codice civile o comunque frequentati dalle analisi della nostra letteratura
giuridica1. Pure la stessa - che fino a pochi anni fa rimaneva ignorata a
livello di nomen - riveste grande importanza.
Funzione di compliance significa attività (: la funzione, appunto) volta a
sistemare in via preventiva il rischio di comportamenti dell'impresa (con
l'ampliamento, peraltro, che si vedrà all'inizio del n. 2.) non conformi alle
norme. Alle norme in genere, per la verità; per il contesto che qui interessa
in modo immediato, alle norme giuridiche in specie. Di queste ultime, tutte: le
norme di eteronomia, come pure quelle di autonomia. Dunque, prima di tutto, la
compliance si preoccupa che le norme di autonomia siano conformi alle norme di
eteronomia; e, in via ulteriore, che le altre tipologie di comportamenti umani
seguano pure conformi alle fissate norme, tanto di (verificata) autonomia,
quanto di eteronomia.
Come si vede, se il nomen è recente, la sostanza prima - e oggettiva - del
fenomeno non lo è per nulla. Al fondo sta, in definitiva, una valutazione
comparativa tra vantaggi e costi, che da sempre risulta essere componente
interna delle decisioni (dirette e indirette) relative all'offerta
imprenditoriale dei beni/servizi: per il lato della proposta del
«pacchetto-prodotto» da immettere sul mercato; come pure per il lato della
realizzazione esecutiva del medesimo.
Per fare un esempio ordinario: per sua natura, una clausola negoziale di
esonero da responsabilità viene a ridurre il carico della prestazione, perché
questa può essere frutto di comportamenti negligenti dell'impresa; e riduce il
carico dell'inadempimento, perché lo stesso non genera, per l'appunto, una
responsabilità risarcitoria. Tuttavia, l'effettività o meno dei relativi
vantaggi va rapportata, per l'impresa, con il divieto di clausole di esonero
che il sistema di legge scritta in ipotesi disponga (così, la norma dell'art.
1229 c.c.).
Che, in realtà, non è poi un confronto che si esaurisce lì, ma - posto il
divieto - si misura e consuma con una serie di variabili piuttosto ricca. Così,
con l'interpretazione che la giurisprudenza venga a dare del divieto sia un
punto di diritto (l'«ordine pubblico» di cui al comma 2 dell'art. 1229, per
dire; o l'arco strutturale della clausole che violano il disposto del comma 1),
sia in punto di fatto (comportamenti che integrano gli estremi della colpa
grave); con le diverse interpretazioni presenti, pure, a seconda dei «gradi»
dei giudici (cfr. la Corte di cassazione); con la tipologia delle conseguenze
negative che l'ordinamento lega alla violazione del divieto (dall'invalidità
dell'atto al rimedio solo risarcitorio, alle sanzioni amministrative); con la
probabilità statistica che una clausola di violazione del divieto (o un
comportamento che sconfini nella colpa grave) venga effettivamente sottoposta a
sindacato (giudiziale o amministrativo che sia): in sé, come pure in relazione
al numero complessivo delle operazioni che l'offerta (comprensiva di quella
clausola) è andata a gestire.
E così via. Tra le altre cose, la sussistenza di una situazione normativa volta
a proteggere, per un dato settore, le imprese operanti in termini di stabilità
e chiusura di accesso tende naturaliter a deprimere la rilevanza della
compliance: non foss'altro perché il mercato risulta connotato dalla mancanza
di alternative in concreto disponibili.
Si è appena rilevato che le imprese hanno sempre valutato, nel confronto coi
vantaggi, il rischio del mancato rispetto delle norme; e nel loro interno
deciso se, come e quanto correrlo ovvero diversamente correre ai «preventivi
ripari» a mezzo dello svolgimento di azioni di compliance. Quello che è emerso
negli ultimi anni, in una con il nomen in questione, è la distinzione -
l'isolamento, meglio - di quest'attività dall'insieme indistinto dei tratti
caratterizzanti l'offerta imprenditoriale di beni/servizi.
Con il contestuale sopravvenire pure dell'idea - davvero lontana dal pensiero
classico della borghesia liberale - che, forse, le decisioni sul correre o meno
il rischio di non conformità alle regole non dovessero rimanere incluse tra i
fatti esclusivi dell'autonomia di impresa, non venissero a risolversi senza
residui in un affare privato di chi le imprese controlla e amministra. Un
duplice passaggio di impostazione, dunque.
2. Funzione di compliance e attività bancaria
Quella relativa alla funzione di compliance è problematica che si pone per
tutte le imprese (non solo per esse, però; in realtà, il tema è idoneo ad
acquistare dimensione autonoma in relazione a tutte le strutture organizzative;
si pensi, così, alle pubbliche amministrazioni): quale che ne sia l'oggetto
dell'attività, il metodo produttivo, il livello dimensionale. Nel concreto,
l'isolamento della funzione in quanto tale viene riscontrata, in specie, con
l'introduzione della «regolamentazione di carattere generale» sulla
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche di cui al d. lgs. 8
giugno 2001, n. 2312. Nell'oggi, in particolare, la considerazione distinta e
autonoma (rispetto agli altri tratti caratteristici della relativa offerta
imprenditoriale) della compliance è fenomeno che coinvolge tutti e tre i
settori base del comparto «finanziario» (dando a quest'inaffidabile parola il
senso generico di attività non industriale, né commerciale): quello bancario,
quello assicurativo (Regolamento Isvap, 26 marzo 2008, n. 20), quello di
svolgimento dei servizi di investimento (Regolamento Consob e Banca d'Italia,
29 ottobre 2007)3. In questa sede è bene circoscrivere l'attenzione al primo degli
indicati settori.
A proposito dell'ambito bancario prima di qualunque altra cosa vanno
sottolineati, a me pare, due ordini di profili che si pongono sulla linea della
fattispecie (intesa, qui, come vicenda contrapposta alla regolamentazione
disciplinare della compliance).
Il campo operativo evidenzia, in effetti, una notevole inclinazione per la fuga
in avanti: in termini, proprio, di tecnicismo giuridico. Per visualizzare la
circostanza, basta porre mente alla storia delle cassette di sicurezza. Che,
come risaputo, è una cronaca di inseguimenti: con le banche a presentare, volta
dopo volta, clausole di forma tecnica nuova; e la giurisprudenza a ricordare
ogni volta che il passaggio tra il vietato esonero da responsabilità e la
consentita delimitazione dell'oggetto contrattuale suppone un adeguato
spostamento sostanziale dell'autonomia4. Ma la storia delle cassette è
emblematica; essa, di certo, non rappresenta un episodio isolato. Osservando il
panorama delle garanzie bancarie, nel 1985 attenta dottrina annotava: «non è difficile
..., operando uno sguardo d'insieme, cogliere qui un'evoluzione generale per
cui le banche si sforzano di elaborare nuovi e sempre più perfezionati
strumenti di garanzia che poi gli organi delle procedure concorsuali tentano,
in misura maggiore o minore, di vanificare; con la conseguente necessità per le
prime di operare nuovi sforzi di elaborazione e così via»5.
L'altro profilo, a cui si faceva cenno, attiene al punto del rischio di non
conformità. Al riguardo si suole rilevare, in genere, che lo stesso viene a
ripartirsi in «rischio legale» (perdite derivanti da violazioni di legge o
regolamento, responsabilità contrattuale o extra, controversie «altre») e in
«rischio reputazionale» (flessione di profitti frutto di una percezione
negativa dell'immagine della banca da parte del mercato)6. Anche il sistema
bancario - come quelli delle altre imprese - corre questi rischi, ovviamente.
Con una peculiarità, peraltro, che sembra opportuno sottolineare.
L'attività delle banche è sottoposta a uno statuto eteronormativo di
particolare rigore rispetto agli altri (agli statuti delle «comuni» imprese,
cioè). Si ritiene sussistano regole - di legge, come di vigilanza - che ne
disciplinino in maniera particolarmente stringente (o potenzialmente tale)
l'azione. Ciò porta reputazione, sicuro; ma non solo questo. Porta anche
legittimo affidamento dei terzi: sull'effettiva correttezza dei comportamenti
in concreto tenuti dai soggetti così vigilati. Qui la reputazione diventa -
ovvero crea, per così dire - il rischio legale.
La materia della c.d. concessione abusiva del credito sta sviluppando una
simile prospettiva. Questa l'articolazione dei passaggi: il processo di
erogazione del credito è coperto, nell'ordinamento vigente, da una disciplina
eteronoma di professionalità; se l'impresa cliente viene effettivamente
affidata, dunque, essa è - dovrebbe proprio essere - «economicamente valida»:
visto il reticolo normativo del credito, i creditori non bancari fanno legittimo
affidamento sui risultati dell'istruttoria bancaria. L'erogazione del credito
viene a fungere, insomma, da qualificata «attestazione di meritevolezza del
credito»: con la conseguenza che la negligente concessione finisce per
risultare fonte di responsabilità (extracontrattuale) della banca nei confronti
dei terzi7.
Ma fenomeno per qualità non dissimile tende a verificarsi, a me pare, pure
nell'ambito della raccolta (per fermarsi, qui, all'altra attività
«identificativa», nel nostro ordinamento, dei soggetti banca). Si pensi, in
questa direzione, alle obbligazioni bancarie e al loro confronto con quelle
emesse dalle società di diritto comune. E' opinione corrente in letteratura,
come pure tra gli operatori, che la raccolta bancaria sia soggetta a «una penetrante
vigilanza di tipi"prudenziale", diretta al rispetto del principio
cardine della gestione "sana e prudente"». Non meno comune è il
riscontro che i limiti posti alle emissioni obbligazionarie di diritto comune
dall'art. 2412 c.c. non svolgano alcuna funzione preventiva di solidità e
stabilità dell'emittente (al di là dei meandri e interrogativi tecnici che,
numerosi, propone il comma 2 di questa disposizione)8. Da un lato, quindi,
obbligazioni dotate di peculiare «solidità»: sotto la vigilanza prudenziale
dell'Autorità istituzionale deputata, nel sistema vigente, al controllo di
stabilità degli intermediari (la Banca d'Italia, appunto: art. 5, comma 2,
TUF); dall'altro, obbligazioni per definizione diverse, perché prive di
«regolamentazione e ... controlli diretti a proteggere [gli] investitori» (come
per contro ha prescritto il testo dell'art. 3 della Seconda Direttiva)9. Posta
questa situazione, non basta davvero l'(ingiustificata) esenzione dalla tutela
dei sistemi di garanzia disposta dall'art. 96-bis (comma 4, lett. b) TUB, per
affermare che le obbligazioni bancarie sono una «forma di raccolta non tipica
dell'attività bancaria»10. Vengono in forte risalto, piuttosto, i penetranti
poteri di vigilanza di cui al plesso normativo degli artt. 51 ss. TUB, come
pure sub specie implementati dal disposto dell'art. 12 sempre del testo unico.
Come si vede, il tema della compliance finisce per lambire, nei suoi ultimi
svolgimenti in punto di responsabilità risarcitoria, le stesse Autorità di
vigilanza: nel caso, la Banca d'Italia11.
3. Le Istruzioni della Banca d'Italia
3.1.- Nel luglio del 2007 la Banca d'Italia ha emanato delle apposite norme
regolamentari per la materia della compliance. Secondo quanto pare, alla radice
storica dell'intervento stanno l'Accordo di Basilea del 2004, alcune
disposizioni della Direttiva CEE n. 73/ 2006 (10 agosto 2006), nonché il
ripetuto verificarsi nella prassi di «zone di opacità, specie legate al
collocamento di prodotti finanziari»12.
Sotto il profilo strutturale, il detto intervento - che fa leva sulla norma
dell'art. 53, comma 1 lett. d., TUB - viene dichiaratamente a considerare la
compliance come «parte integrante del sistema dei controlli interni delle
banche» (n. 4, p. 4), così affiancandola, su uno sfondo che comprende anche il
collegio sindacale, ai «controlli sulla gestione dei rischi» e all'«attività di
revisione interna» (internal audit; il documento forma, per la precisione, un
addendum esterno del capitolo 11, sez. II, Titolo IV delle attuali Istruzioni
di Vigilanza per le banche).
Nel merito, le Istruzioni puntano all'obiettivo che gli intermediari
costituiscano un distinto ufficio interno - «permanente e indipendente» (p. 3)
e con nomina di apposito responsabile (p. 2) - in via precipua deputato: alla
«identificazione nel continuo delle norma applicabili alla banca»; alla
«proposta di modifiche e procedurali finalizzata ad assicurare adeguato
presidio dei rischi di non conformità identificati»; alla «predisposizione di
flussi informativi»; alla «verifica dell'efficacia degli adeguamenti
organizzativi ... suggeriti».
Al di là di questo plesso strutturale «di principio», peraltro, le Istruzioni
affidano «nel contempo alle banche piena discrezionalità nella scelta delle
soluzioni organizzative più idonee ed efficaci» in materia (p. 1).
3.2.- Per la verità, anzi, le Istruzioni sembrerebbero lasciare all'autonomia
delle singole banche piena discrezionalità anche in ordine alla definizione del
margine di rischio di non conformità (ovvero la decisione della sua misura
effettiva) che le stesse intendono affrontare nel concreto della loro attività.
Quanto meno, su questo punto - che all'evidenza è quello fondamentale della
materia - le Istruzioni rilasciano sicuramente un forte spazio di ambiguità.
Certo, non mancano richiami a una «cultura aziendale improntata a principi di
onestà, correttezza ... rigoroso rispetto delle prescrizioni normative» e a
corsi di «formazione del personale» (pp. 1 e 5); si tratta, peraltro, di
enunciazioni che, francamente, non riescono a superare la soglia della vaghezza
e genericità (dei «buoni propositi», forse). D'altro canto, dal contesto
complessivo del documento si ricava che la «gestione del rischio di non
conformità» deve essere semplicemente «consapevole» (p. 4); è questo a contare,
non anche che la gestione sia orientata13. Come pure si ricava che la decisione
del consiglio di amministrazione di «approvare le politiche di gestione del
rischio» non è destinata a incontrare paletti o confini (p. 3).
Si delinea così il sospetto (se non altro) che l'intervento della Banca
d'Italia sia, nella realtà, assai meno innovativo di quanto a prima vista
potrebbe apparire. E sia un po' deludente: in definitiva, le Istruzioni non
sembrano abbandonare l'ottica tradizionale del rischio di difformità (an e
quomodo) come questione il cui merito rimane di spettanza esclusiva delle scelte
di impresa; questo intervento dell'eteronomia parrebbe produrre, per gran parte
almeno, un semplice rimbalzo all'autonomia. Il momento dell'obbligatorietà,
imposto dalle Istruzioni, sembrerebbe in definitiva esaurirsi nella
prescrizione di un indipendente e dedicato ufficio.
Secondo quanto parrebbero confermare (se non m'inganno) le parole di
un'autorevole esponente dell'Autorità: «è rimessa all'esclusiva responsabilità
dei soggetti vigilati la definizione nel concreto di strutture e assetti di
governo societario ... La responsabilità primaria di delineare l'architettura
complessiva del sistema di controllo e gestione dei rischi è rimessa agli
organi aziendali di vertice»14. Resta da chiedersi, naturalmente, se le scelte
di compliance nei fatti compiute da questi vertici aziendali siano da ritenere
espressione di decisione di merito imprenditoriale - così seguendo una linea
che la giurisprudenza quasi sempre dichiara di non potere sindacare - o se, per
contro, appartengano a zone giuridiche valutabili in termini di diligenza e
responsabilità civile.
3.3.- Del resto, le dette Istruzioni della Banca d'Italia manifestano, a me
pare, anche altre carenze: di ordine strutturale, se si vuole, ma non per
questo meno importanti. Spicca, lungo l'asse del relativo testo della
Vigilanza, la compiuta assenza di tre parole, che per contro fanno parte della
cifra di base della materia: giurisprudenza; clausola contrattuale; diligenza
della banca.
Tantissime volte, per la verità, il documento ricorre alla parola «norme»; inter
alia, per distinguere tra quelle di eteroregolamentazione (leggi e
regolamenti)» e quelle di «autoregolamentazione» (p. 4). Ora, queste ultime
sono identificate negli «statuti, ... codici di condotta, codici etici» (pp. 2
e 4). Nessun cenno, proprio, alle norme contrattuali: tanto meno riguardo alla
loro confezione (predisposizione dei contenuti e offerta sul mercato) e
riguardo al rispetto delle medesime nella fase di esecuzione. Uno iato, un
vuoto di diritto? Dice il documento che le «norme più rilevanti ... riguardano
... la trasparenza nei confronti del cliente» (p. 2): ma a cosa si intenderebbe
riferire?
Con formula vecchiotta il documento predica, poi, l'esigenza di andare oltre la
«lettera delle norme», per raggiungerne lo «spirito». Come si vede, l'intento
rimane generico: la richiesta, meglio, è quella di non assumere comportamenti
meramente formali o burocratici. Con la forte probabilità di dare vita,
altresì, a un intervento depistante: non a caso si è osservato, in proposito,
che lo spirito della legge sta nelle parole dell'interprete, sì che rimane in
ogni caso da conoscere a «quale interprete (o a quale interpretazione) si
faccia in questo caso riferimento, posto che la possibilità di una
interpretazione presuppone logicamente anche la possibilità anche di
interpretazioni alternative»15.
Ora, al di là del non irrilevante problema del «dove» individuare in concreto
questo «spirito» normativo (per un cenno, per vero molto legato ai contenuti
dell'osservazione che si sta qui svolgendo, v. nel n. 4.2., alla fine del primo
capoverso), il fatto è che le norme di legge, come di contratto, vivono nelle
interpretazioni giurisprudenziali e nell'evoluzione del relativo pensiero.
Semplificando solo un poco: parlare delle norme senza far cenno della giurisprudenza
è come tagliare una mela in due. E buttare via una delle due parti.
All'obiettiva importanza che l'attività bancaria (strutture organizzative e
dipendenti compresi) sia improntata a livelli di alta diligenza professionale
si è già accennato sopra (nel n. 2). Qui è da sottolineare come la prescrizione
di una regola di particolare diligenza, o professionalità, non supponga per sé
la preesistenza di un determinato, alto, standing operativo a livello fattuale;
piuttosto lo cerchi: ne chieda il raggiungimento nell'ottica della prescrizione
per l'efficienza del servizio imprenditoriale prestato.
Per contro, il punto del documento che va più vicino al tema sembra essere il
seguente: «eventuali codici etici o altri standard applicabili alla banca» (p. 5;
cfr. pure p. 1). Ora, questo riferimento all'«etica» potrebbe forse leggersi -
al di là dell'inquietudine forte che la parola viene subito a suscitare nei
giuristi di laica positività - come un criptico rinvio ai codici di
autoregolamentazione. Se così fosse, allora il documento predisposto dalla
Vigilanza sembrerebbe muovere in una direzione proprio diversa da quella della
professionalità: ben noto è il «pericolo» che l'autoregolamentazione sia
strumento utilizzato «per "appiattire verso il basso" il livello di
diligenza» degli operatori16.
4. Funzione di compliance e «certezza del diritto»
4.1.- Nella contingenza di una normativa di settore connotata dalla
instabilità17, la prescrizione di verificare nel continuo le regole applicabili
- se evoca responsabilità - non esprime un paradosso, ma un obiettivo primario.
Tanto più se fossero vere le voci che narrano di banche che, sul finire del
2011, non avrebbero ancora adeguato la loro normativa contrattuale alle
prescrizioni del decreto n. 141/2010.
Ma il discorso non può morire lì. In una situazione socio-economica appena
appena evoluta, è compito precipuo della funzione di compliance quello della
«gestione» del diritto vivente: di transitare anche dall'applicabile
all'applicato. Il richiamo è qui - immediato - al punto della «certezza del
diritto»: secondo una concezione peraltro non mitologica, secondo quanto ancor
oggi molto diffuso non solo negli ambienti operativi, bensì di laica
razionalità.
Le imprese hanno bisogno di prevedibilità di comportamenti, sì da potere
programmare correttamente - in modo non delusivo - i loro percorsi produttivi.
Fermato il bisogno, ne deriva un'alternativa. O tutto resta fermo, immoto:
secondo una concezione mitologica che, tra le mille altre cose, sconta anche la
mistificazione storica del diritto c.d. «naturale». Oppure le imprese
concorrono, esse pure, ad adeguarsi al divenire e ai cambiamenti: si pongono
nella prospettiva della ragionevole previsione del futuro.
Scartata non foss'altro per impossibilità la prima linea, resta la seconda. A
proposito della quale non è fuori luogo rimarcare, inoltre, come la dialettica
corrente tra giudici e, altresì, quella tra costoro e la dottrina - con tutta
la dinamica evolutiva che a ciò consegue in termini di lettura del fatto, come
in termini di lettura delle norme (dalle clausole generali in là) - costituisce
un valore aggiunto non rinunciabile18. Fattore non solo di democrazia e di
circolazione delle idee, ma di crescita oggettiva di un sistema. Per non
parlare, poi, dei vigenti valori costituzionali.
4.2.- Dagli anni '80 a oggi il diritto bancario - anche quello delle operazioni
- è molto cambiato: secondo una linea sì spezzata, ma non stoppata nel
complessivo suo trend di crescita. E, secondo una ragionevole previsione del
futuro, continuerà a cambiare: lungo una presumibile prospettiva di tensioni e
fratture interne (si pensi anche solo, per fare degli esempi, alle tematiche di
moda nel 2011, da quella della prescrizione dell'azione di ripetizione per le
rimesse anatocistiche a quella dei presupposti di ammissibilità del jus
variandi bancario). E' onere delle imprese bancarie tenere conto di tanto: più
di ogni altra cosa a questo serve, cioè, la funzione di compliance.
La via della conformità alle norme (scil.: di un'oculata gestione del rischio
di non conformità) è la prudenza; dentro questa via, dunque, non può non
rientrare - non può non essere centrale, meglio - l'attenta considerazione e
stima delle soluzioni interpretative meno favorevoli alle imprese bancarie (e
v. pure, in proposito, le indicazioni di cui alla superiore nota 13). Su questa
linea e su questo orizzonte non può che stare - per il contesto che qui rileva
- lo «spirito» delle norme19.
Ogni volta che in giurisprudenza si è delineato un mutamento di peso (interessi
uso piazza; anatocismo; commissione di massimo scoperto; ...), il milieu ha
levato un coro di proteste. Anni e anni di affidamento delusi. Ove pur
ipoteticamente errata la soluzione precedente, comunque la stessa aveva guidato
la prassi; per ciò stesso - si è detto - avrebbe dovuto continuare. A me pare,
invero, che questa finisca per essere una maniera di scaricare su altri le
proprie responsabilità. Di recente, autorevole dottrina ha scritto che la
«colpa di una situazione che in definitiva lede un bene primario del mercato
finanziario» qual è la «sicurezza», è «ravvisabile nella magistratura, che
finisce, ma talora ambisce, a svolgere un ruolo suppletivo, e spesso
ideologizzato, dei silenzi del legislatore»20. In realtà, la grave affermazione
sembra coniugare linee ideologiche non condivisibili con il misconoscimento
dell'art. 101, comma 2, Cost. La giurisprudenza non è una rendita di posizione.
Piuttosto è da rilevare come quello della compliance sia lavoro difficile; e
pesante. Va dunque aiutato. Si pensi, in proposito, alla funzione che
potrebbero - o dovrebbero - svolgere le associazioni di categoria: al
giovamento ritraibile21. Si pensi, ancor più, al compito che in materia sarebbe
opportuno assumesse la Banca d'Italia. In termini di chiarezza di espressione,
anche (come non è accaduto, per dire, quanto alle Istruzioni sulla compliance).
In termini di rispetto dei ruoli, altresì. E' decisamente importante, così, che
la prassi resti pienamente edotta e consapevole che le soluzioni della Vigilanza
sono istituzionalmente soccombenti nei confronti delle decisioni sciolte caso
per caso dalla magistratura.
Per anni e anni la Banca d'Italia ha accreditato e alimentato l'idea che a
formare l'usura non concorresse tutta una serie di rilevanti oneri economici.
Ma in materia di usura la Vigilanza ha la sola funzione di compiere
accertamenti statistici, di «fotografare» andamento di tassi: non di
interpretare la legge. Come ha rilevato l'importante sentenza di Cass. pen., 19
febbraio 2010, n. 262, il «chiaro tenore letterale» dell'art. 644, comma 4,
c.p. assicura che pure la commissione di massimo scoperto fa parte della base
di calcolo per la determinazione dell'usura. Come ha ribadito la recente
pronuncia di Trib. Alba, 18 dicembre 2010 ugualmente avviene per il premio
dell'assicurazione per il rischio morte del mutuatario che ceda a una banca il
quinto della sua pensione. Si noti: secondo il calcolo propugnato dalla
Vigilanza, il finanziamento non sarebbe stato usurario; nella specie, il
pensionato - a fronte di un incasso di 1.850,79 euro - avrebbe dovuto
restituire, secondo quanto viene riferito, una somma complessiva di 20.400,00
euro22.
1) Sta cominciando, peraltro, a formarsi un apparato bibliografico. Tra i primi
scritti v. Falcone, La "compliance" nell'attività bancaria e nei
servizi di investimento, in Dir. banca, 2008, I, p. 221 ss.; Greco, La
compliance nelle attività e nei servizi bancari: i problemi aperti, ivi, 2009,
I, p. 633 ss.; A. Candian e Tita, La compliance delle imprese assicurative nel
quadro europeo tra Solvency II, Eiopa e direttiva Omnibus II, in Dir. econ.
ass., 2011, n. 3; Guastella e Panebianco, Mifid e gestione strategica del
cambiamento nei processi di compliance, in Dir. prat. soc., 2009, fasc. 7. Per
i temi specificamente sviluppati nel presente lavoro sono da tenere in
particolare considerazione anche le conferenze di Tarantola, La funzione di
compliance nei sistemi di governo e controllo delle imprese bancarie e
finanziarie, Milano, 4 ottobre 2007 e La trasparenza sostanziale nei rapporti
tra banche e clienti: la visione della Banca d'Italia, Roma, 6 giugno 2011 (i
testi delle due conferenze si trovano pubblicati sul sito della Banca
d'Italia).
2) Cfr., in particolare, Falcone, op. cit., p. 224.
3) A cui si è aggiunta di recente la Comunicazione di Banca d'Italia e di
Consob in tema di ripartizione di competenze tra compliance e internal audit
nella prestazione dei servizi di investimento (8 marzo 2011). Su tale
Comunicazione v. Colonna, La comunicazione congiunta Banca d'Italia-Consob in
materia di ripartizione delle competenze tra compliance e internal audit: prime
riflessioni, in Resp. amm., 2011, p. 155 ss.
4) Sulla vicenda v. i resoconti di Cavalli e Callegari, Lezioni di diritto
bancario, Bologna, 2008, p. 205 ss.; e di Fauceglia, I contratti bancari, nel
Tratt. dir. comm. diretto da Buonocore, p. 499 ss.
5) Angelici e Bussoletti, Garanzie bancarie proprie e improprie e procedure
concorsuali, in Giur. comm., 1985, I, p. 788.
6) Cfr. ancora Falcone, op. cit., p. 224 s.
7) Sul tema v. da ultimo Pinto, La responsabilità da concessione abusiva del
credito fra unità e pluralità, in Giur. comm., 2011, II, p. 1161 ss. (ove pure
la formula riportata nel testo e ampi riferimenti).
8) Su questi punti v., tra gli altri, Galletti, «Elasticità» della fattispecie
obbligazionaria: profili tipologici delle nuove obbligazioni bancarie, in BBTC,
1997 I, p. 244 (da cui la frase trascritta); Blandini, Profili cartolari dei
titoli obbligazionari emessi da banche, ivi, 1996, I, p. 820 ss.; Giannelli,
Commento all'art. 2412 c.c., in Comm. riforma società diretto da Marchetti,
Obbligazioni. Bilancio a cura di Notari e Bianchi, Milano, 2006, p. 87;
Spagnuolo, Tityoli bancari di raccolta del risparmio, in Tratt. dir. priv.
diretto da Rescigno, 13**, ed. 2, Milano, 2008, p. 503 ss.
9) Bussoletti, La raccolta del risparmio tra il pubblico, in Dir. banca, 1996,
I, p. 12: «se si aderisce alla tesi che la direttiva autorizzava le eccezioni
al divieto generalizzato a condizione che la tutela dei risparmiatori fosse
equivalente a quella bancaria, questa situazione non ricorre nei casi di
raccolta obbligazionaria delle società per azioni e delle società in
accomandita per azioni, casi che pure sono espressamente esonerati dal nostro
legislatore».
10) E' la tesi di Cercone, Il recepimento della direttiva CEE 94/19, in La
nuova legge bancaria a cura di Ferro-Luzzi e Castaldi, IV, Milano, 1998, p.
177; sulla stessa linea parrebbe anche Spagnuolo, op. cit., p. 529.
Nota Mecatti (Commento all'art. 96-bis in Testo unico bancario. Commentario a
cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina e Santoro, Milano, 2010, p.
780) come l'esclusione delle obbligazioni bancarie dal sistema di tutela sia da
stimare «una delle più controverse».
11) Ragguagli recenti sulla responsabilità civile da torto delle Autorità di
vigilanza in Sulle nozioni di «banca» e di «trasparenza»: spunti dal d.lgs. n.
141/2010, in Dir. banca, 2011, I, p. 230 s., nota 28.
12) La frase trascritta appartiene ad Antonucci, Diritto delle banche, ed. 4,
Milano, 2009, p. 249.
13) E' noto che l'Accordo di Basilea II assegna, tra le altre cose, rilevanza
primaria alla «certezza giuridica», locuzione che viene adoperata per esprimere
il seguente concetto: «tutta la documentazione impiegata in materia di
transazioni assistite da garanzie reali, compensazioni di posizioni di
bilancio, garanzie personali e derivati su crediti deve essere vincolante per
tutte le parti e legalmente opponibile in ogni giurisdizione interessata. Le
banche devono avere effettuato tutti gli adeguati accertamenti di legge al
riguardo, in modo che le loro conclusioni poggino su una solida base giuridica,
e condurre all'occorrenza ulteriori verifiche per assicurare che la
documentazione mantenga nel tempo la sua validità legale (il corsivo è
aggiunto).
Dunque, nel contesto delle sue regole - per definizione ispirate al criterio
della prudenza (come chiave di base per la solidità e stabilità delle imprese
partecipanti al sistema) - l'Accordo include, tra i momenti prioritari
dell'azione imprenditoriale, il criterio della prudenza tecnico-giuridica. E se
non m'inganno, ciò significa richiedere sia il solido rispetto delle «precise»
regole di legge, sia il rifiuto di soluzioni operative intrinsecamente
avventurose o che in un dato momento storico risultino, alla luce del diritto
applicato dei diversi Paesi, oggettivamente incerte.
14) Così Tarantola, La funzione, cit., p. 7.
15) Sempre Falcone, op. cit., p. 229.
16) Il condivisibile giudizio è di Falcone, op. cit., p. 233.
17) Secondo un fenomeno che non accenna a scemare: cfr. ora il nuovo art.
117-bis TUB («remunerazione onnicomprensiva degli affidamenti e degli
sconfinamenti nei contratti di conto corrente e di apertura di credito»), come
introdotto dall'art. 6-bis del d. l. n. 201/2011, convertito in legge il 22
dicembre 2011 (il testo della disposizione si può leggere, per l'intanto, in Il
Sole 24 ore, 23 dicembre 2011).
18) E non solo per l'intrinseca inettitudine di sistemi basati sulla
vincolatività del precedente (che non sia meramente relativa). Per spunti cfr.
il mio Una riforma difficile e un libro utile, prefazione a Demarchi, Il nuovo
rito civile. II. Il giudizio di cassazione e i provvedimenti speciali, Milano,
2006, p. XVII s.
19) Nella sua conferenza del giugno 2011 (La trasparenza, cit., p. 10)
Tarantola ha rilevato che la compliance è «fondamentale per individuare sia le
aree di criticità sia le azioni da intraprendere per accrescere la qualità dei
rapporti con i clienti. Queste funzioni devono farsi interpreti dello spirito
della normativa, sia per quanto riguarda la tutela del cliente sia con
riferimento al presidio dei rischi legali e da reputazione. Un ausilio al loro
lavoro può provenire dalle decisioni dell'Arbitro Bancario Finanziario ...».
L'affermazione richiede, a me pare, (quantomeno) la necessità di una chiosa:
l'importanza dell'esperienza che sta vivendo l'ABF, cioè, non può davvero fare
dimenticare il rilievo primario della giurisprudenza (per così dire) ordinaria,
né l'esigenza che i due ordini decisori (dei giudici e dei paragiudici) vengano
di continuo a confrontarsi tra loro.
20) Così Ferro-Luzzi, Introduzione in AA.VV., Nuove regole per le relazioni tra
banche e clienti. Oltre la trasparenza? , Torino, 2011, p. 18.
21) Può non essere inutile riportare, in proposito, qualche passo del
provvedimento AGCM n. 17046, 10 luglio 2007 relativo alla Circolare ABI 7
agosto 2006, n. 23, sulle modifiche dell'art. 118 TUB portate dal decreto
Bersani del 2006: «gli approfondimenti svolti in sede ABI sono presi come utile
punto di riferimento dalle singole banche nella predisposizione delle circolari
interne indirizzate alle strutture operative (n. 149); «in sede ABI è emersa
una forte resistenza a fronte di modifiche normative ... volte a ridimensionare
l'evidente asimmetria, a tutto vantaggio delle banche, del rapporto
banca/cliente» (n. 151); «in merito al giustificato motivo, si deve rilevare
che la Circolare risulta dare una lettura volta ad una definizione dei
suoi"confini" interpretativi molto ampi, così indirizzando le banche
aderenti a politiche commerciali dove, di fatto, qualunque variazione
unilaterale da esse decisa rientra tra le cause che ne giustificano l'adozione
(n. 153); «l'Associazione ha dato ... una lettura volta quindi a dare una
ragionevole certezza alle associate circa l'assenza di rischi di confronti
competitivi ... (n. 155); le comunicazione dell'ABI danno agli associati la
«consapevolezza che ... vi sia comunque l'assenso dell'Associazione, maturato
... l'accordo dei principali gruppi bancari (n. 158).
22) Le somme trascritte nel testo si leggono nella bella nota di Cottino, Non
tutta l'usura ha matrici criminali, in Giur. it., 2011, p. 865 ss. La citata
sentenza di Trib. Alba si trova anche su Il.Caso.it, n. 6564 (ma in materia v.
pure Trib. Busto Arsizio-Saronno, 3 febbraio 2011, Il.Caso.it, n. 6111). Sulla
sentenza della Cassazione v. Marcelli, Le commissioni di massimo scoperto e le
soglie d'usura. La cassazione penale ridimensiona la Banca d'Italia,
Il.Caso.it.
La materia della cessione del quinto della pensione continua, per la verità, a
lanciare segnali di forte allarme: v. ora la fattispecie concreta decisa
dall'ABF n. 2051/2011 (pure su Il.Caso.it): si raccolta qui di un «netto
erogato» pari a 13.804,14 a fronte di un
«importo lordo» pari 26.520,00. Ai bordi del doppio, come si
vede. 6.908,46 vanno a tre intermediari, il resto dello scarto è fatto da «tasso nominale del 4,80%, spese di istruttoria, premio assicurativo, oneri
fiscali e altre spese».
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