Societario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 08/12/2019 Scarica PDF
Cancellazione della società e «sopravvenienza» di crediti
Aldo Angelo Dolmetta, già Consigliere nella Prima sezione della Corte di Cassazione, già Professore ordinario di Diritto privato nell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.Sommario. – 1. Il problema – 2. Cancellazione, estinzione, successione. – 3. I rapporti di debito (cenno di inquadramento). – 4. I rapporti di credito: le Sezioni Unite del 2013. – 5. (Segue): le successive pronunce della Corte. – 6 (Segue): la posizione della dottrina (cenno di sintesi). – 7.- (Segue): iscrizione a bilancio e mere «pretese». – 8. (Segue): cancellazione della società e remissione del debito ex art. 1236 c.c.
1. Il problema.
Una società a responsabilità limitata conviene in giudizio una banca, per chiedere la restituzione delle somme da questa percepite sulla base di clausole nulle, perché «uso piazza» e perché frutto di capitalizzazioni trimestrali degli interessi appostati in conto. Il Tribunale di Bari accoglie la domanda. La Corte di Appello conferma.
Tra il primo e il secondo grado del giudizio la società si cancella dal registro delle imprese. La controversia giunge in cassazione.
La banca sostiene allora che l’avvenuta cancellazione dal registro, comportando estinzione della società, determina anche la rinuncia al credito azionato e che, comunque, i soci non hanno titolo per intervenire di persona nel giudizio di legittimità. Costituitisi «nella qualità di successori a titolo universale» della società, i soci affermano invece che, intervenuta la cancellazione, si verifica una successione nel rapporto controverso e che, perciò, il ricorso della banca avrebbe dovuto essere rivolto nei loro confronti.
Investita del ricorso, la Corte constata che la questione sottopostale ha una «significativa rilevanza nomofilattica» - va diretta a incidere, cioè, sulle future prassi degli operatori - e propone rilevanti questioni di diritto circa gli effetti sostanziali della cancellazione della società, altresì con riflessi e implicazioni peculiari di ordine processuale. Il tema richiede dunque approfondimenti particolari: la questione va pertanto rimessa all’esame della pubblica udienza ai sensidell’art. 375 c.p.c. (il riferimento è a Cass., 13 settembre 2019, n. 22911, la cui ordinanza interlocutoria in specie sottolinea, inter alia, l’esigenza di indagare sui rapporti tra il «piano di diritto sostanziale dell’estinzione del credito, per effetto dell’estinzione per cancellazione della società» e la «lettura in chiave successoria della vicenda estintiva della società»).
In effetti, quella così prospettata viene a formare una questione di notevole importanza, anche perché nella pratica capita di frequente (spesso, per controversie relative a operazioni bancarie, come quella sopra richiamata) e anche perché è densa di conseguenze operative.
2. Cancellazione, estinzione, successione.
Per meglio orientare le brevi note che seguono, conviene ricordare che la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese determina - secondo quanto è scritto nel codice civile (art. 2495) - l’«estinzione del società», che viene correntemente intesa come fenomeno di vera e propria estinzione del relativo soggetto giuridico (non di semplice, nel caso eventuale, degradazione verso altre e minori figure; cfr. Cass. 21 agosto 2018, n. 20840: la cancellazione «priva la società della capacità di stare in giudizio», fuori dai casi previsti dagli artt. 10 legge fall. e 28 d.lgs. n. 175/2014, letti del resto quali ipotesi raffiguranti addirittura delle mere «fictiones iuris»).
Secondo l’orientamento della Cassazione, peraltro, lo stesso tipo di vicenda avviene pure - «per ragioni di ordine sistematico» (Cass. SS.UU., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071, 6072) - per il caso delle società di persone, che siano state iscritte nel registro delle imprese: salva qui restando, peraltro, la prova che, nei fatti, la società abbia continuato a «operare – e dunque a esistere – pur dopo l’avvenuta cancellazione» (così, tra le più recenti v. Cass., 25 maggio 2017, n. 13183, che pure richiama le norme degli artt. 2312 e 2324 c.c.; l’orientamento di equiparazione risale a Cass., SS.UU., 22 febbraio 2010, nn. 4060, 4061, 4062).
In definitiva, si tratta di tema che investe, per sé, l’intero orizzonte delle forme societarie, con l’eccezione delle società irregolari e di fatto (che peraltro risulta scendere diretta dall’ordine naturale delle cose: Cass., 28 marzo 2917, n. 7964. Secondo la pronuncia di Cass., 21 maggio 2018, n. 12528, peraltro, il fenomeno è ancora più vasto, la cancellazione delle associazioni riconosciute dal registro delle persone giuridiche comportando analoga vicenda estintiva).
All’estinzione del soggetto-società, che si assume essere istantanea (Cass., 9 ottobre 2018, n. 24853), dovrebbe seguire che titolari dei rapporti, che eventualmente siano ancora in essere, divengono – per «successione a titolo universale sui generis», si dice (così l’opinione dominante, non mancando però in dottrina tentativi di ricostruzioni dommatiche più sofisticate: per richiami v. Mondini, in Le società per azioni. Commentario, diretto da Abbadessa e Portale, 2016, sub art. 2495) - i singoli soci, quali condebitori o invece concreditori (o anche, nel caso, quali comunisti). Anche se, per la verità, di rapporti pendenti non dovrebbero essercene, posto che le norme degli artt. 2492 e 2311 c.c. stabiliscono che il bilancio finale di liquidazione (quale presupposto della cancellazione) avviene - deve avvenire - una volta «compiuta la liquidazione»; o quanto meno dovrebbe trattarsi, sempre ragionando in linea del tutto teorica, di ipotesi proprio marginali, sostanzialmente confinate a casi di successive «scoperte» ovvero di «dimenticanze» attuali.
3. I rapporti di debito (cenno di inquadramento).
A livello di identificazione delle fattispecie, per i debiti non si pongono problemi particolari: la successione opera per tutti i debiti comunque rimasti non estinti.
Per le società di capitali, i soci rispondono (in solido) nei limiti di quanto ciascuno ha riscosso in sede di bilancio finale di liquidazione. Non si tratta - può essere non inopportuno precisare – di una limitazione del debito, bensì di una semplice limitazione di responsabilità; i beni dei singoli soci non sono aggredibili se non nei limiti del riscosso: nel caso di sopravvenienza di beni nuovi (in sé rivolta nei confronti dell’ente ormai estinto), questi ultimi risultano dunque aggredibili dai creditori sociali (cfr. Cass., 24 maggio 2019, n. 14309). In questa prospettiva, poi, è corretto ritenere che la mancata percezione di alcunché da parte dei soci nell’ambito del bilancio finale di liquidazione non comporta il venire meno (né della legittimazione, né) dell’interesse ad agire del creditore sociale: «la possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono di escludere l’interesse» del creditore sociale «a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire» (Cass., 16 giugno 2017, n. 15035; Cass., 7 aprile 2017, n. 9094).
Per le società di persone, i soci subentrano illimitatamente (fatto salvo, naturalmente, il caso degli accomandanti). Salta, più nel dettaglio, il medio protettivo che è costituito dal patrimonio della società ai sensi della norma dell’art. 2304 c.c.: in via correlata, i soci – così abbandonata l’originaria posizione di garanti ex lege del debito della società (cfr. l’art. 2266 cod. civ.; per spunti, v. Cass., 26 febbraio 2014, n. 4528) - risultano adesso debitori in proprio (oltre che in solido tra loro).
Per entrambe le ipotesi, la legge aggiunge ex novo la responsabilità del liquidatore per il caso che il mancato pagamento prima della cancellazione sia dipeso dalla colpa di questi (ad avviso di Cass., 27 febbraio 2014, n. 4699, la responsabilità del liquidatore sarebbe «gradata» rispetto a quella dei soci; più corretta appare, tuttavia, la soluzione della solidarietà, che si è affermata nella giurisprudenza di merito: Trib. Milano, 16 ottobre 2019, in Giur. imprese). Tale responsabilità non sembra eliminare, o comunque attenuare in termini significativi, le complicazioni e disagi che - nel sistema delle società di capitali – la cancellazione viene, in sé stessa, a produrre per i creditori sociali (e certo non solo per il fatto di dovere agire nei confronti di più soggetti: per il rilievo che è onere del creditore sociale dare la prova del se e del quanto eventualmente percepito dal socio v. Cass., 22 giugno 2017, n. 15474; Cass., 6 dicembre 2019, n. 31933).
4. I rapporti di credito: le Sezioni Unite del 2013.
Non altrettanto lineare appare la situazione relativa all’identificazione dei rapporti di credito. Se si osserva l’attuale giurisprudenza della Suprema Corte – e nell’attesa di suoi eventuali svolgimenti ulteriori (cfr. sopra, nel n. 1) -, viene infatti a delinearsi un’alternativa di tratto per così dire «istituzionale» tra crediti che trapassano ai soci e crediti che invece si estinguono: per l’effetto dell’estinzione della società e per il mezzo di una (sorta di ritenuta) «rinuncia», questi ultimi (nella ravvisata sussistenza di questo secondo caso potrà eventualmente seguire, ricorrendone gli estremi, il sorgere di un credito risarcitorio in capo ai soci, e pure ai creditori sociali, nei confronti del liquidatore che abbia al riguardo tenuto un comportamento «colposo»).
A delineare la distinzione sono state le già richiamate pronunce del 2013 delle Sezioni Unite, nn. 6070, 6071, 6072 (per certi versi anticipatoria di quest’orientamento viene considerata la decisione di Cass., 16 luglio 2010, n. 16758). Che hanno per l’appunto enunciato il seguente principio di diritto: «qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale» si trasferiscono «ai soci in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerto o illiquidi la inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato».
All’enunciazione del principio ha fatto riscontro – va altresì segnalato, per portare il discorso a un livello di maggiore analisi – un plesso motivazionale che sembra muoversi tra due poli diversi, tra loro di per sé non prossimi: da un lato, quello della mancata inclusione del «credito in estinzione» nel bilancio finale di liquidazione (polo che, ovviamente, tende a salire verso livelli di estinzione automatica); dall’altro, quello della «conoscenza» della sussistenza del credito (polo che comunque si volge, al di là delle più coniugazioni di cui risulta passibile, a scendere verso la verifica in concreto della fattispecie).
«E’ possibile» - annotano le Sezioni Unite - che la stessa scelta della società di cancellarsi dal registro senza tener conto di una pendenza non ancora definita, ma della quale il liquidatore aveva (o si può ragionevolmente presumere che avesse) contezza sia da intendere come una tacita manifestazione di rinunciare alla relativa pretesa»; quando si «tratta di un bene o di un diritto che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, in quel bilancio avrebbero dovuto senz’altro figurare, e che sarebbero perciò stati suscettibili di ripartizione tra i soci …, un’interpretazione abdicativa della cancellazione appare meno giustificata». Comunque, la rinuncia «può postularsi agevolmente quando si tratti di mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, cui ancora non corrisponda la possibilità d’individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto … onde un tal diritto non avrebbe neppure potuto ragionevolmente essere iscritto nell’attivo del bilancio»; «ad analoghe conclusioni può logicamente pervenirsi nel caso in cui un diritto di credito, oltre che magari controverso, non sia neppure liquido: di modo che solo un’attività ulteriore … avrebbe potuto condurre a renderlo liquido, in vista del riparto tra i soci».
5. (Segue): le successive pronunce della Corte.
I successivi, non pochi, interventi della Corte si sono divaricati lungo due diverse direttrici: una centrale; l’altra, non tanto contrapposta, quanto piuttosto discosta e di sicuro un po’ carsica.
L’indirizzo dominante, dunque, si è orientato nel senso dell’automatismo, di leggere nel fatto stesso della cancellazione, cioè, un atto rinunciativo di crediti. In questo contesto la punta più accentuata è rappresentata da Cass., 15 novembre 2016, n. 23269, per cui l’avvenuta cancellazione della società «diviene espressione di una volontà di rinuncia tacita ai diritti litigiosi o illiquidi» (e qui è pure da segnalare, inter alia, il transito dalle «mere pretese» al credito litigioso tout court). Tra le altre pronunce, indirizzate nel medesimo soldo, si possono ricordare Cass. 24 dicembre 2015, n. 25974; Cass. 29 luglio 2016, n. 15782; Cass., 19 luglio 2018, n. 19302; Cass., 19 giugno 2019, n. 16511; Cass. 12 ottobre 2012, n. 17500.
L’altro, e minoritario, indirizzo si è diretto, secondo diverse accentuazioni e sfumature, nel senso di prendere in considerazione tutti i dati proposti in concreto dalla fattispecie. Così Cass., 26 agosto 2014, n. 18250 ha rilevato che il fatto della cancellazione può al più formare una «presunzione di rinuncia», come tale superabile dalla prova contraria. Cass., 25 ottobre 2016, n. 21517 ha osservato che la prosecuzione del giudizio da parte del liquidatore non è comportamento coerente con l’esistenza di una rinuncia. Sulla stessa linea si è posta Cass., 6 aprile 2018, n. 8582, che pure ha sottolineato come, nel caso concreto, si si trovasse di fonte a una cancellazione non volontaria, bensì di ufficio. Cass., 9 ottobre 2018, n. 24788, poi, ha segnalato la forte differenza che può fare, al riguardo, la conoscenza, o meno, del credito sopravveniente al tempo della cancellazione della società.
6. (Segue): la posizione della dottrina (cenno di sintesi).
Con questo arco tematico è dunque destinata a confrontarsi la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi in pubblica udienza a seguito dell’ordinanza di rimessione di cui si è detto nell’avvio delle presenti note (Cass., 22911/2019).
A sottolineare l’importanza peculiare di tale tema - e il potenziale rilievo della futura pronuncia - sta, d’altro canto, la constatazione che l’orientamento, che attualmente è dominante nella Corte (numero 5, secondo capoverso), risulta criticatissimo dalla dottrina (cfr., anche per i riferimenti, Mondini, op. cit.). E per più versanti: secondo quanto si passa appunto a dar conto.
Dopo avere in limine osservato, peraltro, che il detto orientamento dà un poco l’impressione, in effetti, di mescolare insieme il piano del dover essere (cfr. sopra, nell’ultimo capoverso del n. 2) e quello dell’essere: non v’è dubbio, invero, che l’effettivo riscontro di una rinuncia alligni su quest’ultimo piano. Sì che, alla fine, l’orientamento in discorso appare attraversato – si potrebbe anche pensare - da una sorta di «strisciante» intendimento di taglio sanzionatorio (non è forse un caso che le Sezioni Unite del 2013 abbiano parlato, al riguardo, di scelta di liquidatore e soci di «privilegiare una più rapida conclusione del procedimento estintivo» rispetto all’accertamento e riscossione dei pretesi crediti).
Con la conseguenza, un po’ paradossale per la verità, di venire a incidere in via diretta pure sulla posizione dei creditori della società estinta, che in tal modo perdono a monte, per così dire, la stessa possibilità di soddisfare il proprio diritto sull’eventuale consistenza delle dette pretese (salvo a non volere ipotizzare l’esperibilità, da parte di questi, di un’azione revocatoria addirittura nei confronti della richiesta di cancellazione della società, non essendo certamente idonea, al riguardo, la revoca della rinuncia, posto che questa, nella prospettiva dell’orientamento giurisprudenziale in questione, si pone come effetto automatico della cancellazione e non essendo ovviamente concepibile la revoca della mancata inclusione in bliancio; la strada della revoca della rinuncia è proposta da Calabretta, Cancellazione società di capitali dal registro imprese e rimedi per i creditori sociali, in diritto.it, 24 maggio 2018).
7. (Segue): iscrizione a bilancio e mere «pretese».
In dottrina si è rilevato, al riguardo, che quella della «mera pretesa» - al di là dell’origine, che appare senz’altro pretoria – è nozione piuttosto vaga, nella sua stessa consistenza concettuale (nei fatti, le formule «crediti incerti» e «crediti illiquidi» esprimono categorie eterogenee), e dai confini assai incerti. Idonea a ricomprendere nel suo seno tutti i crediti comunque litigiosi (avviata o meno che sia stata la controversia; v. nel secondo capoverso del n. 5); a essere anzi dilatata, nello specifico contesto in discorso, sino a venire riferita a tutte le posizioni attive non iscritte nel bilancio di liquidazione. Sì che riesce allora difficile intendere i distinguo formulati dalle Sezioni Unite nelle pronunce del 2013 (cfr. sopra, nel n. 5).
E’ noto, d’altra parte, che – secondo i principi contabili – in bilancio (di esercizio, come di liquidazione) vanno iscritti anche i crediti illiquidi e pure quelli incerti, secondo la linea del presumibile valore di realizzo. Posta una una simile prospettiva, la mancata inclusione del credito nel bilancio finale sembrerebbe (forse) sembrare espressiva di una valutazione (da parte del liquidatore e dei soci che non contestano le risultanze di bilancio) di compiuta insussistenza del credito: ciò che, tuttavia, verrebbe senz’altro a escludere la contemporanea qualificazione in termini di rinuncia, che di per sé suppone un opposto convincimento (che il credito rinunciando esista, cioè).
Una simile impostazione, d’altro canto, tenderebbe ad assegnare all’inclusione in bilancio addirittura il peso di fatto «costitutivo» - i.d.: di permanente sussistenza - del credito. Laddove è sicuro che l’esistenza di un credito ben può risultare anche aliunde: come ha precisato la pronuncia di Cass., 17 febbraio 2006, n. 3530, «il credito di una società posta il liquidazione, relativo al rimborso IVA, non è condizionato all’esposizione del credito stesso nel bilancio finale della società».
E ancora: per restare all’interno del «credito incluso in bilancio» occorre che lo stesso sia fatto oggetto di specifica appostazione, con connessa valutazione ad hoc, o basta invece che sia fatto oggetto di menzione (con indicazione del rapporto che gli fa da titolo) nel corpo della nota integrativa? Senza contare, poi, che nel diritto vigente la sussistenza di «giudizi pendenti», se non impedisce la chiusura del fallimento (art. 118 comma 2 legge fall.), nemmeno ne comporta l’estinzione.
8. (Segue): cancellazione della società e remissione del debito ex art. 1236 c.c.
Secondo il disposto dell’art. 1236 c.c., la remissione – cioè, la rinuncia al credito - «estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore»: il suo verificarsi suppone, dunque, l’esistenza di un comportamento specificamente diretto nei confronti del singolo, particolare creditore. Ciò che riesce davvero difficile leggere nella mera circostanza della mancata inclusione di una pretesa creditoria nel bilancio finale di liquidazione. Né potrebbe avere luogo - rispetto alla fattispecie remissoria di cui all’art. 1236 – andare a discorrere di possibilità di una comunicazione rivolta a pubblico non identificato e non determinato.
A parte questo (e a parte l’ipotesi della cancellazione d’ufficio, in sé stessa estranea alla problematica in esame) la stessa ipotizzabilità di una rinuncia non sembra conciliabile con il caso dell’ignoranza dell’esistenza del diritto al tempo della confezione e approvazione del bilancio finale di liquidazione: posto, se non altro, che la remissione è atto negoziale. Appare assai arduo, in effetti, rintracciare una volontà dismissiva nei confronti di un diritto che non si sa neppure di avere. E questo anche nel caso in cui l’ignoranza sia frutto di negligenza o di disinteresse.
Ora, la giurisprudenza della Cassazione ammette che la remissione del credito possa essere ravvisata anche in un comportamento concludente del creditore (c.d. rinuncia tacita): un conto è, tuttavia, la presenza in concreto di un comportamento concludente, un altro la prova per presunzioni ex art. 2729 c.c. (per il rilievo che rinunce non si presumono cfr. Cass., 5 febbraio 2018, n. 2739). Soprattutto, «per leggere in termini di rinuncia un comportamento non sorretto da scritti o da parole o da altri codici semantici qualificati, occorre comunque che lo stesso faccia emergere una volontà oggettivamente e propriamente incompatibile con quella di mantenere in essere il diritto» (Cass., 3 ottobre 2018, n. 24139; Cass., 14 luglio 2006, n. 16125).
Più delicato, naturalmente, il caso in cui la mancata inclusione sia effetto non già di ignoranza (più o meno colpevole), ma di consapevolezza, se non proprio di una apposita scelta. In proposito, peraltro, si potrebbe pure osservare che la consapevolezza, o anche la scelta, hanno a loro oggetto non già la dismissione del credito, ma unicamente l’omessa menzione dello stesso dal bilancio finale: secondo l’orientamento dalla Suprema Corte, un comportamento solo omissivo non può integrare gli estremi di una rinuncia tacita, che sia valida ed efficace ex art. 1236 cod. civ., dato che il comportamento omissivo si manifesta, in sé stesso, «tutt’altro che inequivoco e, anzi, particolarmente ambiguo» (cfr. Cass., n. 24139/2018; Cass., n. 2739/2018; Cass., 13 gennaio 2009, n. 460).
[*] Il lavoro sviluppa degli spunti presenti in un articolo apparso su Il Sole-24ore del 18 novembre 2019, dal titolo «Società estinte, uno spiraglio per i crediti fuori bilancio».
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