Bancario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 15/07/2014 Scarica PDF
Prescrizione della ripetizione di 'rimesse solutorie': onere e vicinanza della prova
Aldo Angelo Dolmetta, già Consigliere nella Prima sezione della Corte di Cassazione, già Professore ordinario di Diritto privato nell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.SOMMARIO. 1. Inquadramento del tema. – 2. (Segue): né contatti, né contagi con la revocatoria fallimentare (critica del suggerimento di Tavormina). – 3. I principi dell’onere. - 4. Alla ricerca di improbabili presunzioni (critica di Trib. Mantova, 2 maggio 2014). – 5. Addirittura, una prova negativa (critica di Trib. Mantova, 11 giugno 2014). – 6. Il punto della vicinanza.
1.- Lo scenario di riferimento del tema specifico, che interessa qui, è tra i più noti e vissuti degli ultimi anni. Si naviga all’interno del conto corrente: di preciso, nell’angolo dato dalle rimesse di conto che abbiano ripianato debiti anatocistici insussistenti (per una o per altra ragione; il più delle volte perché rimesse anteriori alla riforma bancaria dell’anatocismo del 2000) e dall’azione di ripetizione d’indebito oggettivo, che poi il cliente sia andato per le stesse a esperire ex art. 2033 c.c.
In questo contesto, la famosissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, 2 dicembre 2010, n. 24418 è intervenuta per distinguere tra rimesse di conto «ripristinatorie» e rimesse «solutorie»[1]: affermando, così, che – per le prime – la prescrizione dell’azione d’indebito inizia a correre dal tempo dell’avvenuta chiusura del conto; per le seconde, per contro, da quello del fatto versamento. Il problema specifico, qui in attenzione, riguarda per l’appunto la gestione processuale – cioè, probatoria – di tale distinzione: sull’identificazione, così, del carattere ripristinatorio o invece solutorio delle rimesse in concreto seguite nel rapporto di conto.
Prima di entrare nel merito della questione appena sintetizzata, peraltro, sembrano non inutili due osservazioni di linea sostanzialmente preliminare. La prima appartiene, essa pure, al novero del notissimo: gran parte della dottrina, in effetti, ha respinto la distinzione sulla decorrenza della prescrizione propugnata dalla Cassazione. Rilevato in modo segnato che – se la rimessa interviene su conto con saldo negativo per il cliente – comunque porta all’estinzione di un debito, la stessa in via correlata ha collocato il dies a quo della prescrizione nella zona temporale della medesima (sul punto v. tra gli altri - e anche per le non irrilevanti differenze che all’interno di questo genere di tesi si sono aperte - i vari contributi pubblicati da Banca, borsa, tit. cred., 2012, II, p. 431 ss.; nonché quello più recente di D’Ippolito, ivi, 2013, II, p. 334 ss.).
La seconda è più articolata e, nel presente contesto, pure un poco più importante. La giurisprudenza di merito sembra avere accolto in blocco la distinzione assunta dalle Sezioni Unite; di frequente, tuttavia, pare proprio non condividerne il succo. Non manca, invero, la manifestazione espressa di perplessità e malesseri; sintomatica appare, tra le altre, la sentenza di Trib. Taranto, 27 giugno 2012 (sempre in Banca e borsa, 2013, II, p. 328 ss.), che – dopo avere censurato il pensiero del Supremo Collegio («la tesi … non si sottrae del tutto a considerazioni critiche») – ha dichiarato di adeguarsi ai dicta di questa unicamente per motivazioni esterne e di ordine «pubblico» (: «nell’ossequio al generale interesse all’uniformità dell’applicazione giurisprudenziale della legge e in adesione al c.d. dovere di fedeltà»; così, in via riassuntiva la massima approntata da Banca e borsa).
Certe altre volte invece, il dissenso sembrerebbe prendere strade meno palesi, se non addirittura occulte: dentro le pieghe della complessiva tematica che compone la materia, cioè. Eventualità che potrebbe rinvenirsi, forse, in talune delle pronunce che si sono spese sul tema della prova della «natura» in concreto (solutoria o ripristinatoria) delle rimesse e su cui il discorso, di conseguenza, non potrà non ritornare (nn. 4 e 5). E da qui, del tutto ovvia, la domanda: se le cose stanno (o stessero) così, non è preferibile – al carsico svuotamento della tesi della Cassazione – un’aperta revisione critica della medesima?
Per chi risponde positivamente a tale interrogativo, com’è il mio caso, la questione della prova della natura in concreto delle rimesse in conto si pone – all’evidenza – in termini assolutamente sganciati dal retroterra su cui lo stesso pure affonda le proprie radici. Si pone, cioè, assumendo in thesi la distinzione tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie come determinante ai fini della decorrenza della prescrizione.
2.- Storicamente, la distinzione tra rimesse «solutorie» e rimesse «ripristinatorie» ha preso rilievo – nell’ambito del nostro diritto applicato – con riguardo speciale alla materia della revocatoria fallimentare dei pagamenti: per il diverso regime che l’orientamento dei giudici (prima la Cassazione; poi, con qualche zona e periodo di resistenza esplicita, il merito) ha ritenuto applicabile - dagli inizi degli anni ’80 (cfr. Cass., 18 ottobre 1982, n. 5413) sino alla riforma del 2005 - alle due situazioni; praticamente salve quelle «ripristinatorie», praticamente condannate quelle «solutorie».
Si potrebbe, allora, ritenere risolto il problema della prova della concreta natura delle rimesse sulla base dei risultati raggiunti con diretto riferimento al punto della revocatoria?
La domanda, invero, non è retorica, neppure nella versione docendi causa. In effetti, una risposta positiva alla stessa traspare – in forma qualificabile come larvata – in uno studio condotto da Valerio Tavormina (sempre in Banca e borsa, 2012, II, p. 471 s.): di fronte all’eccezione di prescrizione formulata dalla banca, annota l’autore, «stando all’elaborazione giurisprudenziale formatasi in tema fallimentare per distinguere tra rispristinatori della provvista ed atti di pagamento per estinguere il debito verso la banca (distinzione ed elaborazione giurisprudenziale che anche le Sezioni Unite, nella più volte citata sentenza n. 24418/2010, espressamente richiamano) sarà il cliente a dover allegare e provare l’esistenza, alla data del versamento, di un’apertura di credito tale da escludere che il versamento stesso abbia natura solutoria».
Come si vede, l’idea è quella del suggerimento d’impressione. Che, si deve peraltro riconoscere, è anche andare a colpire nel segno: cfr. così Bontempi, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, p. 1036, che per l’appunto viene a fare lievitare il trascritto cenno a vera e propria tesi.
Non credo, tuttavia, sia comunque possibile dare un qualche credito a un percorso ricostruttivo fondato sullo spunto in questione. E questo non solo perché la regola fallimentare delle prove – specie in revocatoria – segue dinamiche proprie, a sé peculiari. E neppure solo perché non si riesce a comprendere come venga in concreto applicato il transito probatorio dalla revocatoria fallimentare (dove – riscontra lo stesso Tavormina – è la banca convenuta ad avere l’«onere di provare la natura non solutoria del versamento») all’azione di ripetizione.
Ma prima di tutto perché all’impressione, che il riportato rilievo suscita, non corrisponde nessuna sostanza, ma solo suggestione. Nel sistema vigente, l’onere della prova si fissa sull’allegazione che in concreto risulta formulata dalla parte: un’azione di ripetizione dell’indebito non è un’azione revocatoria, né cosa per qualche verso equivalente a questa, o paragonabile in sé. Senza contare, a portare il discorso su di un livello diverso dal precedente, che la citata sentenza n. 24418/2010 delle Sezioni Unite, - là dove scrive che la distinzione tra rimesse «solutorie» e «ripristinatorie» è «ben nota alla giurisprudenza» - si premura persino di aggiungere che la distinzione stessa è stata «elaborata ad altri fini».
3.- Secondo un ragguardevole numero di pronunce di merito, la questione della prova della natura della rimessa incombe sulla banca chiamata in restituzione: questo perché tale soluzione discende diretta dall’applicazione – si precisa – della regola data dallo «schema di cui all’art. 2697 c.c.» (cfr., tra le altre, Trib. Taranto, 27 giugno 2012, cit., dove pure il virgolettato; Trib. Novara, 1 ottobre 2012; Trib. Prato, 1 marzo 2013, ove pure parecchi altri riferimenti; Trib. Brindisi, 24 giugno 2014; queste ultime tre reperibili tutte su IlCaso.it).
«Posto che la prescrizione non è rilevabile d’ufficio, ma soltanto su eccezione della parte che vi abbia interesse» - si è così rilevato in particolare -, «quest’ultima ha l’onere … di allegare e provare il fatto estintivo ex art. 2697, comma 2, c.c., tipizzando, dunque, tale eccezione secondo una delle varie ipotesi previste dalla legge»; «se nulla la banca ha specificamente osservato circa la natura solutoria dei versamenti effettuati dal correntista durante il rapporto, né ha individuato o allegato detti versamenti e gli effetti che hanno avuto nel saldo finale, allora, la genericità dell’eccezione non rende comprensibile ed individuabile l’eccezione stessa che non può che essere, dunque, dichiarata inammissibile» (cfr. Trib. Brindisi, 24 giugno 2014, cit.).
Il rilevo non fa una piega, a me pare. In un’applicazione secca – asciutta - della regola della prova secondo allegazione, all’attore in ripetizione tocca di dimostrare i fatti pagamenti e la mancanza di titolo dei medesimi (che, nel contesto concreto, sta nella nullità della clausola anatocistica). Alla banca che eccepisce l’intervenuta prescrizione, tocca invece provare i fatti costitutivi che la sollevata eccezione sorreggono e, per conseguenza, pure quelli perimetrali della medesima.
E, di per sé, la complessiva questione della gestione probatoria del giudizio di ripetizione di rimesse anatocistiche dovrebbe chiudersi qui, come per l’appunto ferma sulla linea dell’onere secondo allegazione, che è la linea basica del nostro ordinamento. Per riaprirsi piuttosto - e nell’eventualità - sulla misura delle difficoltà di fatto che il concreto della fattispecie venga in ipotesi a comportare alle parti del giudizio; e, dunque, secondo la prospettiva offerta dalla vicinanza della prova, che nel nostro sistema si pone come regola correttiva di quella scritta nell’art. 2697 c.c.
Sul piano del diritto vivente, tuttavia, il problema della prova della natura della rimessa non è, alla conta dei fatti, chiuso per nulla. Sicché occorre rinviare a passi più lontani l’esposizione di qualche rapido cenno sull’operare della regola di vicinanza in materia (n. 6).
4.1.- Per la verità, la soluzione, per cui tocca alla banca la prova della natura della rimessa, non si trova affermata solo sulla base del ragionamento appena riportato. Un diverso orientamento è infatti sostenuto dall’autorità della sentenza di Cass., 26 febbraio 2014, n. 4518 (seguita in termini, nell’immediato, da Trib. Marsala, 6 maggio 2014, riferita da Contratti, 2014, p. 692 s.), che ricorre al meccanismo della presunzione. Questa, nello specifico, la tesi: «i versamenti eseguiti su conto corrente hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens. Tale funzione corrisponde allo schema causale tipico del contratto. Una diversa finalizzazione dei singoli versamento (o di alcuni di essi) deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione delle singole annotazioni delle poste relative agli interessi passivi anatocistici».
Debbo subito dire che tale itinerario argomentativo non persuade. Mi pare decisamente un fuor d’opera, anzi. E pure in grado di suscitare, o sollecitare, reazioni forti, quando non esasperate. Difatti, in aperta critica di tale pronuncia e in direzione proprio contraria si è mossa la decisione del Trib. Mantova, 3 maggio 2014 (in IlCaso.it). «Con il contratto di conto corrente» - spiega tale decisione - «la banca si impegna unicamente ad offrire al cliente un servizio di cassa»: «nell’utilizzo della provvista propria del cliente ovvero a provvedere per conto del medesimo a pagamenti e riscossioni», non anche «a mettere a disposizione denaro in favore del correntista»; perciò – si conclude sulla base di queste premesse – la prova della «sussistenza di un’apertura di credito incombe, per regola generale (art. 2697 c.c.)», sul cliente.
L’ampiezza della distanza, che corre tra le due riferite pronunce (se non altro), consiglia qualche pur breve riflessione.
4.2.- Prima di tutto, conviene esplicitare per bene che anche la tesi assunta dalla sentenza del Tribunale mantovano si impernia sul meccanismo della presunzione: solo di segno opposto a quella vista invece dalla Cassazione, che presume il conto sia assistito da apertura.
Nella tesi del tribunale in effetti - posto un conto a debito - l’esclusione di un corrente obbligo ex apertura della banca implica di necessità che il «provvedere per conto del [cliente] a pagamenti» trovi la sua base di normalità in operazioni di scoperto di conto ovvero sconfinamento: come altrimenti dare la prova dell’apertura al cliente? Del resto, è riconosciuto anche dagli autori, che ne valorizzano molto la funzione di pagamento, che il c/c «non può stare da solo»[2]: in assenza di una qualche forma, maggiore o minore, di «disponibilità», il conto rimane paralizzato e non funziona (= la banca non provvede affatto). Dunque, la tesi in esame si risolve nel presumere il conto come assistito da sconfinamento.
Ciò posto, a me pare del tutto sicuro che una presunzione – di apertura o invece di sconfinamento – non possa comunque aspirare a reperire spiragli di fondamento nelle norme di legge: siamo in ogni caso fuori, cioè, dal campo della presunzione di cui al comma 2 dell’art. 2728 c.c., anche a voler dare un significato molto lasco ed andante a questa disposizione. In effetti, nel regolare l’operatività in conto corrente, la norma dell’art. 1852 c.c. si limita a registrare che la «disponibilità» del cliente può derivare da «deposito, … apertura di credito o altre operazioni bancarie»: senza assegnare a nessuno la palma del «normale».
Non resta, dunque, che l’eventualità della presunzione semplice di cui all’art. 2729 c.c. Ora, che la pratica offra la presenza tanto di disponibilità da apertura, quanto da sconfinamento, è cosa davvero scontata. Può pure darsi che qui o là un poco prevalga l’uno sull’altro: nella prassi di una certa banca o in quella di una certa zona o anche in ambiti altri. Comunque, da qui a dire che siamo di fronte a «presunzioni gravi, precise e concordanti», come impone la norma dell’art. 2729 c.c., ce ne corre. E tanto.
D’altro canto, né la sentenza della Cassazione, né quella del Tribunale di Mantova offrono un qualche inizio di argomento a questo proposito. Il punto dell’eventuale sussistenza di una praesumptio hominis in materia, anzi, risulta del tutto trascurato.
5.- Un’altra, recentissima, sentenza del Tribunale di Mantova ha fatto sua la tesi secondo cui la prova della natura delle rimessa incombe sul cliente che è attore in restituzione (tale decisione reca gli estremi dell’11 giugno 2014). Svolgendo, peraltro, un itinerario argomentativo diverso (dal precedente dello stesso Tribunale) e propriamente autonomo. Che è questo: nella specie, la banca ha «interesse … che le rimesse avvengano in assenza di affidamenti e, quindi, essendo allo scoperto, siano di natura solutoria»; se la si carica della relativa prova, «si impone alla banca una prova che è del tutto negativa: prova della solutorietà significa infatti prova dell’assenza di un fido, e il principio presenta già numerosi profili critici ponendosi in contrasto con il principio negativa non sunt probanda»[3].
Anche questo ragionamento – va detto con tutta franchezza – non convince per nulla. In verità, sembra che questa sentenza intenda solo giocare con le parole. E’ del tutto manifesto, in effetti, che l’onere della banca - che, chiamata in ripetizione, eccepisce la prescrizione - non è quello di dimostrare che non esiste, in fatto e/o in diritto[4], un’apertura, bensì quello che, nel contesto del concreto rapporto, esiste uno sconfinamento. Una prova di taglio pienamente positivo, quindi.
Ed è appena il caso di aggiungere che – da tempi lontanissimi - lo sconfinamento è strumento proprio e caratteristico dell’operatività bancaria, che ne ha fatto linea di attività di impresa concorrente (o nel caso alternativa) a quella della concessione dell’apertura. Senza contare che l’idea dello sconfinamento come inafferrabile ectoplasma, che è propriamente assunta dalla sentenza qui criticata, è recisamente smentita dalla stessa legge del TUB, che in più luoghi conosce l’operazione di sconfinamento (cfr. gli art. 117-bis, 121 e 125-octies); e la tratta distintamente dall’apertura, ad esempio in punto di commissioni. La differente autonomia dello sconfinamento pure è messa in risalto – per il tema degli interessi – dalla regolamentazione esecutiva della legge sull’usura n. 108/1996.
6.1.- Così facendo, il discorso viene da solo a ritornare verso il tema del rapporto tra regola di vicinanza e prova della natura della rimessa, che già prima aveva avuto modo di affacciare (cfr. la chiusa del n. 3).
Non può dirsi, in verità, che la prova del carattere solutorio della rimessa sia di per sé molto difficile o faticosa per la banca. Basta pensare ai mezzi di cui la stessa fisiologicamente dispone in ragione dell’attività di impresa che viene a esercitare[5].
Da tempo (quanto meno dall’entrata in vigore della legge sulla trasparenza) i moduli contrattuali predisposti dalla prassi bancaria contemplano espressamente - e in via distinta - anche la fattispecie dello sconfinamento, pure fissando le condizioni economiche applicabili: la cosa, tra l’altro, risulta prescritta dalla norma dell’art. 117 TUB. Pure si contano, poi, i fogli informativi imposti dalla Banca d’Italia e più in generale le indicazioni di pubblicità imperativamente richieste dalla norma dell’art. 116 TUB.
E a ciò vanno aggiunte, ancora, le indicazioni degli estratti conti. E così gli scalari di conto; e così anche il «riepilogo competenze» (: «interessi a debito»; «entro fido» … «fuori fido»). Nonché tutte le altre scritture contabili di ordinario tenute dalla banca, secondo prescrizione di legge: libro giornale; libro mastro; libro delle adunanza del comitato esecutivo; e così via discorrendo. Poco – tutto questo - davvero non è.
6.2.- L’aspetto peculiare della tematica in esame, peraltro, è che parlare di prescrizione significa, inevitabilmente, tornare indietro nel tempo. E la vicinanza è regola che guarda anche a questo genere di cose. E’ dunque senz’altro opportuno spendere qualche piccola osservazione al riguardo: pure perché le pronunce, che si sono occupate della nostra questione, non si occupano del rapporto tra la prova e la dimensione del «tempo passato», ma lo trascurano proprio, se non mi inganno.
Ora, il tema della ripetizione dei pagamenti indebiti di conto può – se si colloca la decorrenza della prescrizione dalla chiusura del conto – in effetti tendere, nel suo andare a ritroso, verso dimensioni addirittura nebulose: considerata, in particolare, la prassi italiana di tenere i conti accesi per periodi di tempo lunghissimi. Quindi può concernere – e colpire - rimesse ormai lontanissime nel tempo. Tuttavia, è sicuro che l’azione deve essere intentata entro il decennio dalla chiusura del conto.
Il che, a ben vedere, viene comunque ad assorbire – sotto il profilo della misura di onerosità della prova, che è il punto che qui solo interessa - gran parte del «tempo passato»: per essere precisi, ne riduce il peso a una misura in ogni caso subdecennale[6]. In effetti, sarebbe davvero difficile ritenere coretto agire d’impresa quello di disfarsi della documentazione relativa a un rapporto prima di averlo chiuso. Né può essere seriamente discutibile, a me pare, che quello di conto corrente delinei – lungo le tappe del suo svolgimento temporale - un rapporto unitario, senza cesure, sotto il profilo economico (se non altro). Piuttosto, è da sottolineare come – per le banche – la correttezza dell’agire di impresa si inquadri nel dovere di «sana e prudente gestione», di cui all’art. 5 TUB: che è regola pure ribadita, tra l’altro, con diretto e immediato riferimento all’attività negoziale delle imprese bancarie, secondo quanto prescritto dal successivo art. 127 del medesimo testo unico.
Detto questo, è ancora aggiungere almeno un altro ordine di considerazioni, sempre fermando l’attenzione sulla «permanente vicinanza nel passare del tempo» della banca alla prova[7]. Con riguardo al periodo successivo alla chiusura del conto, in effetti, non dovrebbe potersi in ogni caso trascurare: la durata decennale dell’obbligo di conservazione delle scritture contabili; la lievità del peso della conservazione, una volta divenuta possibile la raccolta (prima) fotografica e (poi) informatica dei relativi libri[8]; l’intrinseco rilievo che, nel contesto del contratto di conto corrente, viene ad assumere la documentazione delle movimentazioni del conto e quindi gli estratti, quali carte riproduttive di sezioni temporali di tale movimentazione.
[1] In entrambi i casi, il conto presenta, nella situazione, saldo a debito: se questo rimane all’interno di un fido, che la banca ha concesso al cliente, la rimessa è «ripristinatoria»; in assenza di fido (perché l’entità del debito ne supera la misura o perché mai dato), la rimessa è «solutoria».
[2] Cfr. Santoro, Il conto corrente bancario, nel Comm. Sclesinger, Milano, 1992, spec. p. 8 ss. Per una diversa prospettiva v., di recente, il mio Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2103, p. 20 s.
[3] In relazione a quanto osservato nella parte terminale del precedente n. 1 (sugli attacchi obliqui della giurisprudenza di merito ai dicta di Cass. n. 24418/2010) è da riportare pure il seguente passo della sentenza in analisi: la banca «onerata dalla prova di assenza di tale … natura ripristinatoria … è l’effetto stridente del criterio adottato dalla Suprema Corte che, pur astrattamente condivisibile, ha creato più problemi di quelli che era chiamata a risolvere».
[4] In effetti, la sentenza fa addirittura cenno – nella stravolta chiave di lettura della «prova negativa» – alla dimostrazione della «nullità dell’apertura» che, senza intervento «riparatore», incomberebbe alla banca.
[5] La vicinanza è nozione che indica, in radice, un particolare rapporto – di facilità di accesso e recupero – tra un soggetto e la prova. Tale rapporto può essere assunto come direttamente fermato su una vicenda processuale in essere, ma anche come riferito al versante sostanziale della relativa fattispecie (e rilevare, allora, non in termini di «essere», ma pure in termini di «dover essere», di agire diligente e professionale, cioè): come solo dotato di potenzialità processuale, dunque. Quasi sempre, in realtà, la posizione di vicinanza si conforma (già) sul piano sostanziale della fattispecie, poi solo materializzandosi nell’eventualità del processo.
In ogni caso, la fattispecie può venire ad articolarsi in maniera assai varia: non solo nel senso che una posizione di vicinanza può essere di più o meno accentuata consistenza e forza; ma anche nel senso che – a contare – è pure la posizione di controparte (nel rapporto sostanziale; in quello processuale): e quindi, la maggiore o minore lontananza che questa vive dalla prova (= misura della difficoltà di prova di controparte). Può anche accadere che le diverse parti della fattispecie si trovino in rapporti equidistanti con la prova: tra le altre, pure questa rientra tra le possibili evenienze della realtà materiale.
Quando la fattispecie attiene ai contratti e prodotti di impresa, peraltro, è del tutto fisiologico che quest’ultima risulti vicina alla prova - posto, se non altro che il riferimento è diretto proprio sul prodotto da essa «creato» -; e che, per la medesima ragione, vicino non si trovi il cliente, che il prodotto si trova ad assorbire. Nel caso del contratto di c/c, che nel presente lavoro sale in particolare interesse, il rapporto della banca con la prova prende poi i toni specifici della vicinanza peculiare. Non è discutibile la rilevanza estrema che – nello svolgimento esecutivo di tale contratto - riveste la documentazione di conto, della medesima la banca possiede senz’altro il «monopolio»: già sul piano fenomenologico del prodotto, in effetti, risulta proprio impensabile che sia il cliente a tenere il conto [e la cosa mostra, da sola, quanto sia superficiale e delusivo ogni accostamento tra il conto bancario e quello ordinario, quand’anche promosso dalla legge (art. 1857 c.c.): cfr. Malvagna, in Dolmetta e Malvagna, Conto corrente bancario, in Trattato dei contratti diretto da Roppo, in via di pubblicazione].
Del resto, la stessa previsione dell’art. 119, comma 4, TUB sarebbe disposizione oggettivamente impensabile, ove non sussistesse in punto di operatività - e pure di c/c, quindi, di quella bancaria prodotto primario – una radicale diversità di posizione tra banca e cliente rispetto alla raccolta delle prove documentali che alla detta operatività per l’appunto attengono.
Per ulteriori indicazioni sulla regola di vicinanza e sul suo atteggiarsi nell’ambito del sistema vigente v. Dolmetta e Malvagna, «Vicinanza della prova» e contratti di impresa, in Studi in onore di Iudica.
[6] Per l’ipotesi in cui il cliente venga, con atti idonei, a interrompere il corso della prescrizione non avrei dubbi sul fatto che pure valgano le considerazioni subito infra esposte nel testo: correttezza di agire di impresa importa che la stessa si tenga preparata ad affrontare quanto meno i giudizi che appaiono ex ante probabili (ed è compito del servizio di compliance occuparsi efficacemente di tanto).
Lo stesso – e a ragione ancora maggiore – è da ripetersi per il tempo successivo all’effettivo avvio dei giudizi.
[7] Naturalmente, la vicinanza della banca alla prova risalta ancor più nella comparazione della sua posizione con quella in cui – sempre rispetto alla prova – si trova il cliente.
[8] Su questi due aspetti v. già Nigro, Le scritture contabili, in Tratt. dir. comm. econ. diretto da Galgano, II, Padova, 1978, spec. p. 240, che tra l’altro molto opportunamente richiama – ai fini dell’individuazione del dies a quo dell’obbligo decennale di conservazione delle scritture contabili – anche la norma dell’art. 2312 c.c. (che, per le scritture sociali, fa decorrere l’obbligo dall’avvenuta «cancellazione della società dal registro delle imprese»).
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