Bancario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 04/06/2012 Scarica PDF
Commenti alle «disposizioni applicative» dell'art. 117-bis Tub proposte dalla Banca d'Italia
Aldo Angelo Dolmetta, già Consigliere nella Prima sezione della Corte di Cassazione, già Professore ordinario di Diritto privato nell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.Le presenti
note si riferiscono al «documento per la consultazione» elaborato dalla Banca
d'Italia ai fini dell'adozione da parte del CICR delle «disposizioni
applicative» delle regole contenute nell'art. 117-bis TUB (come pure riflesse
nell'art. 27-bis decreto legge n.1/2012, secondo la versione assunta per
effetto della legge n. 62/2012, e completate dall'art. 1 della detta legge n.
62/2012, nonché dall'art. 27 sempre del decreto legge n. 1/2012, quale
modificato dalla legge n. 27/2012) e dall'Autorità poi reso pubblico nel corso
del mese di maggio (www.bancaditalia.it - Ricerca: 117-bis -
Documento per la consultazione). Esse si inseriscono nella procedura di
consultazione pubblica di tale documento dalla medesima Banca d'Italia avviata
a norma dell'art. 4 del Regolamento «recante la disciplina dell'adozione degli
atti di natura normativa o di contenuto generale della Banca d'Italia
nell'esercizio delle funzioni di vigilanza bancaria e finanziaria», ai sensi
dell'art. 23 della legge sul risparmio.
Com'è naturale, si tratta di osservazioni di taglio assai sparso e senza
pretese di un qualche tipo di completezza. Tutte, peraltro, muovono dalla
preoccupazione che l'elaborato proposto dall'Autorità possa - in ragione di
certe sue peculiari previsioni ovvero pure per taluni suoi silenzi - dare adito
a letture operative non conformi ai dettami espressi dall'accennato blocco
legislativo. Con tutte le prevedibili conseguenze negative che una simile
situazione è idonea comportare: così in termini di esercizio della funzione
imprenditoriale di compliance; e così anche per l'incremento del rischio di
decisioni difformi (dalla prassi bancaria, in quanto appunto non corretta) da
parte della autorità giudiziaria - ovvero, o pure, dai paragiudici dell'ABF -,
che ne viene a derivare.
Ambiguità della norma dell'art. 2, comma 2 (: «le commissioni applicate a linee
di credito ... sono disciplinate dall'art. 117-bis del TUB, dall'art. 27-bis,
comma 1, del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, e dalla presente
deliberazione solo quando riguardano i servizi indicati al comma 1»), in
relazione all'art. 2, comma 1, lett. a (: «alle aperture di credito») e
all'art. 1, lett. a. (: «definizioni»; «... "apertura di credito": il
contratto previsto dall'art. 1842 del codice civile»)
In effetti, la costruzione normativa appena indicata sembra aprire
l'eventualità anche di letture operative volte a sottrarre dalla disciplina
vincolistica di cui agli artt. 117-bis e 27- bis talune operazioni di
«concessione di linee di credito»: in quanto asserite come diverse da quella
consistente nell'apertura di credito.
Il riferimento di ambiguità in via segnata va all'avverbio «solo», contenuto
nel comma 2, e va - insieme - alla definizione del contratto di apertura nei
termini di mero rinvio alla relativa norma del codice civile. Questa
impostazione fa correre il rischio che l'espressione «apertura di credito» sia
intesa come limitata a una data e specifica operazione negoziale, quale
denominata talora nella prassi e nella tecnica bancaria. E che dalla stessa -
da questa «forma tecnica», cioè - vengano tenute allora distinte delle
operazioni (nella realtà normativa per contro omologhe) chiamate con nomi
diversi: quale ad esempio quella realizzata a mezzo dei c.d. anticipi su
fattura.
La Relazione illustrativa dell'articolato afferma (p. 3) che «l'ultimo comma
dell'articolo chiarisce che l'ambito di applicazione dell'art. 117-bis e
dell'art. 27-bis, comma 1, del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, coincidono
nonostante impieghino termini diversi per indicare il contratto cui si
applicano». Ora, è vero che i verba usati dalle due norme sono diversi
(«apertura di credito», nella prima; «concessione di linee di credito», nella
seconda, che a rigore è pure quella da giudicare successiva nel tempo). Questa,
però, non è una buona ragione per (fare correre il rischio di) ridurre, quando
non dimidiare, la portata innovativa della riforma; tanto più che il plesso
legislativo in questione, se di certo non consegna al CICR poteri di misura
riduttiva, per contro viene a fondare in capo a tale Autorità un potere di
ordine estensivo (cfr. il periodo finale del comma 4 dell'art. 117-bis, il cui
rilievo sistematico non può davvero essere sottovalutato).
Del resto (e, volendo, pure soprattutto), non risulta che - con riferimento al
contesto legislativo in discorso - abbia senso ipotizzare una differenza di
significato tra la formula «concessione di linee di fido» e la formula
«apertura di credito»: ovvero che si ponga, al riguardo, una ragione oggettiva
per distinguere tra le formule stesse. In realtà, la locuzione «apertura» si
manifesta qui univocamente assunta (e già dalla norma dell'art. 117-bis) come
schema generale di riferimento dei negozi costitutivi della «disponibilità di
credito». Come uno dei lati cioè della coppia antinomica «concessione di fido -
concessione di danaro a credito»: secondo le figure madre formate, per
l'appunto, dall'apertura e dal mutuo. Come si vede, il discorso involge senz'altro
l'intero ambito del negozi credendi causa.
Insufficienza della norma dell'art. 2, comma 1, lett. e. (: «la presente
deliberazione ... si applica ... agli sconfinamenti a valere su carte di
credito»)
La Relazione illustrativa dell'articolato (p. 3) giustifica l'effettuata
opzione di «non estendere l'applicazione» della normativa in questione agli
«affidamenti a valere su carte di credito» sulla base dei seguenti rilievi:
«non risultano attualmente applicati oneri riferiti esclusivamente a questo servizio;
l'eventuale scorporo della quota delle commissioni ad esso imputabile e
l'applicazione su questa della nuova disciplina potrebbe - da un lato - non
accrescere ma diminuire la trasparenza e comparabilità dei costi complessivi
delle carte; dall'altro, determinare un innalzamento degli oneri complessivi a
carico del cliente qualora gli intermediari introducessero la commissione per
la messa a disposizione dei fondi».
Detti rilievi non portano, tuttavia, a potere condividere la soluzione accolta
dall'elaborato: la stessa, a quanto pare, supera la misura dei poteri dalla
legge assegnati all'Autorità (sull'inesistenza di poteri di ordine riduttivo v.
sopra). In realtà, la soluzione prospettata sembra potere indurre gli
intermediari a introdurre - in un futuro più o meno prossimo - delle
commissioni di remunerazione dei relativi affidamenti: proprio confidando nel
fatto che - secondo il testo della delibera - le stesse rimarrebbero sottratte
alla disciplina vincolistica degli artt. 117-bis e 27-bis.
D'altro canto, si deve segnalare anche (: a prescindere, cioè, dai rilievi del
precedente capoverso) che l'attuale prassi di non immettere commissioni non
potrebbe comunque giustificare - ad esempio, sotto il profilo della parità di
trattamento (tra intermediari) - l'uso futuro di adottare delle commissioni non
conformi al regime comune.
Inadeguatezza, e per certi versi ambiguità, della norma dell'art. 4, comma 2,
lett. b. (: «la commissione di istruttoria veloce ... non eccede i costi
mediamente sostenuti dall'intermediario per svolgere l'istruttoria, secondo
quanto previsto dal comma 3»)
Questo punto dell'elaborato - dedicato a svolgere la prescrizione legislativa
della necessaria «commisurazione ai costi» della «commissione di istruttoria
veloce» apponibile agli sconfinamenti (comma 2 dell'art. 117-bis) - propone più
ordini di rilievi e perplessità.
Il più immediato dei quali attiene alla constatazione che la normativa
predisposta non fa alcun cenno in ordine alla tipologia delle attività di cui
alla copertura dei costi. Tanto meno la stessa viene a selezionare in
proposito; e così crea l'impressione che qualunque attività possa essere svolta
nel senso che qualunque spesa possa essere caricata all'interno della
commissione: quand'anche si tratti, ad esempio, di spesa inutile ovvero
voluttuaria. In questa prospettiva, la detta normativa a me pare nel merito
inadeguata: tenuto conto, altresì, che la medesima nozione di «istruttoria
veloce» (rapida, cioè) meriterebbe, per sé sola, qualche opportuna
considerazione (in linea di principio, dovrebbe trattarsi di attività di
semplice aggiornamento, posto che, ai sensi del comma 2 dell'art. 117-bis, il
riferimento è comunque agli sconfinamenti già previsti - già ipotizzati, se non
altro - in sede contrattuale). Inadeguatezza che - non è inopportuno
puntualizzare - sembra fissarsi sia dal punto di vista del significato
(protettivo) dell'intervento legislativo, sia anche da quello della conformità
al canone della buona fede oggettiva.
Per la verità, anzi, l'intervento dell'Autorità neppure precisa (tra
l'articolato e la relazione) che - nell'arco delle voci conteggiabili -
comunque non potrebbero essere ricompresi i c.d. costi generali. Per quanto
l'estraneità dei medesimi (per definizione non riferibili, appunto, al
servizio) dovrebbe andare de plano, non è difficile pensare che un'esplicita
indicazione in tale direzione gioverebbe alla correntezza della pratica.
Un altro ordine di rilievi concerne la posizione della clientela in punto di
conoscenza dei «costi mediamente sostenuti dall'intermediario» (art. 4, comma
2, lett. b.); come pure in relazione alla statuizione per cui «la
quantificazione [dei] costi dell'istruttoria veloce ... è formalizzata e
adeguatamente motivata» (comma 3, lett. b.). Come è evidente, il tema riguarda
il back della clausola negoziale di ribaltamento delle spese di «istruttoria
veloce» (: fermandosi sulla formazione dei costi, poi da ribaltare).
Non è chiaro, in specie, se le cennate prescrizioni si rivolgano al solo «foro
interno» delle imprese intermediarie o se, invece, coinvolgano pure la
clientela. Ora, non parrebbe dubbio che - nella successiva sede della verifica
e (in ipotesi) della contestazione - il cliente abbia diritto a essere
ragguagliato sulla media dei «costi sostenuti dall'intermediario» (aggiornata
al tempo della richiesta avanzata dall'intermediario), sul tipo di costi in
concreto ribaltati e sulla effettiva realtà della loro misura (nel caso estremo
ex art. 210 c.p.c.): in effetti, non si può trascurare che, se non rispetta le
regole fissate dalla normativa di legge, la richiesta di commissione veloce,
che l'intermediario avanzi, risulta indebita (e, ricorrendone tutti i
presupposti, dovrebbe integrare - a me pare - anche gli estremi della condotta
sanzionata ex art. 144, comma 3-bis, del testo unico). Però, è anche evidente
che - ad esempio ai fini della «comparabilità» prescritta dalla legge -
l'informazione preventiva è tutt'altro genere di cosa.
Ciò posto, dalla lettura complessiva della disposizione emerge ancora un dubbio
più generale o, volendo, più radicale (dubbio che pure è alimentato dalla somma
dei rilevi appena formulati). Un conto è discorrere di costo medio: il
riferimento, qui, è pur sempre a delle spese, solo calcolate in modo grossolano
ovvero forfetario. Ma la previsione in questione sembrerebbe prestarsi pure a
letture di taglio alquanto diverso: tese, in definitiva, a fare transitare la
«medietà» dalla materia dei costi reali a quella della corrente richiesta che
la singola impresa intermediaria rivolge, di solito, ai propri clienti. Il che,
tra l'altro, stravolgerebbe il senso della riforma (il problema non è,
all'evidenza, quello della parità di trattamento tra clienti).
Inadeguatezza, e per certi versi ambiguità, della norma dell'art. 4, comma 3,
lett. a. (: «... ai fini della quantificazione e dell'applicazione della
commissione di istruttoria veloce, gli intermediari definiscono ... procedure
interne ... che individuano i casi in cui, a fronte di una richiesta di
sconfinamento, è svolta un'istruttoria veloce. La commissione viene applicata
esclusivamente nei casi in cui le procedure prevedono lo svolgimento di
un'istruttoria veloce»)
Il discorso relativo alla frequenza concreta dell'effettuazione
dell'«istruttoria veloce» riprende, per più lati, la sostanza delle
osservazioni svolte con riguardo al tema del montante della commissione. Sono
sufficienti, dunque, cenni brevissimi.
L'elaborato lascia campo completamente aperto all'autonomia del singolo
intermediario circa l'individuazione dei casi in cui espletare - ovvero
ripetere o attualizzare - l'istruttoria veloce. Nessuna indicazione risulta
data alla prassi: non di necessità, non di opportunità, non di un limite
qualunque. Ora, una simile scelta va, a me pare, contro la filosofia della
riforma; e rischia altresì di essere percepita (dall'operatività, appunto) come
una sorta di «autorizzazione preventiva», per così dire. Laddove, per contro,
il nostro sistema vigente di certo non tollera gli abusi (a parte tutto il
resto).
Pure in tema di informazione della clientela va ripresa la sostanza delle
osservazioni effettuate circa la misura conformativa della commissione. In
specie non è chiaro, qui, se la griglia delle situazioni, che richiedono lo
svolgimento dell'istruttoria, debba essere comunicata preventivamente al
cliente oppure no. La circostanza che la materia delle commissioni sia oggi
improntata (tra l'altro) alla regola di comparabilità inclina decisamente la
risposta verso il suo segno positivo.
Rimane ancora un'osservazione da stendere. Rileva la Relazione all'elaborato
che il «comma 3 lettera a) stabilisce la presunzione che l'istruttoria veloce
sia stata effettuata se così è previsto da procedure interne adeguatamente
formalizzate» (p. 5). Per la verità, la presenza di una simile presunzione
sembrerebbe un po' dubbia a stare al tenore di tale disposizione; più che una
presunzione di compimento, la parte finale della formula normativa parrebbe
esprimere un limite oggettivo: nel senso che l'istruttoria compiuta fuori dai
casi previsti dalle procedure interne non è comunque ribaltabile sul cliente. A
parte questo, peraltro potrebbe essere non inutile che l'operatività venga resa
consapevole del carattere meramente interno - dei rapporti tra Vigilanza e
intermediari (senza alcun riflesso sul piano giudiziale, in particolare) - di
una simile, ipotetica presunzione.
Insufficienza della norma dell'art. 5, comma 1 (: «per assicurare ...
comparabilità dei costi previsti dagli articoli 3 e 4 si applicano le
disposizioni della Banca d'Italia in materia di "trasparenza delle
operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra
intermediari e clienti" ... e del D.M. 3 febbraio 2011, n. 117»)
La disposizione potrebbe apparire un po' troppo sbrigativa (se non quasi
«silente»): posto soprattutto che la regola di comparabilità dovrebbe essere
intesa, nel presente contesto, specialmente come possibilità - per il cliente -
di mettere a confronto le offerte e proposte provenienti dalle diverse, e
varie, imprese operanti sul mercato.
E, se non sbaglio, il plesso normativo richiamato dalla disposizione in
discorso non si occupa in modo peculiare di simile regola. Così, in
particolare, il n. 3 della sezione II delle vigenti Istruzioni di trasparenza
(«fogli informativi e foglio comparativo dei mutui») si limita a richiedere -
per i «contratti di mutuo garantito da ipoteca per l'acquisto dell'abitazione
principale» - un elenco di «tutti i prodotti della specie offerti
dall'intermediario ...».
Ancora a proposito della norma dell'art. 5, comma 1(: «per assicurare ...
trasparenza dei costi previsti dagli articoli 3 e 4 si applicano le
disposizioni della Banca d'Italia in materia di "trasparenza delle
operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra
intermediari e clienti" ... e del D.M. 3 febbraio 2011, n. 117»)
Pure in relazione al profilo della trasparenza la disposizione dell'art. 5,
comma 1, risulta formulata in termini di eccessiva sbrigatività. Non si può
invero trascurare che le vigenti Disposizioni di Vigilanza in materia di
trasparenza tra le altre cose contemplano, e regolano, la defunta commissione
di massimo scoperto.
Ora, un richiamo così in blocco come quello dell'art. 5 - un richiamo senza
limitazioni di nessun tipo - potrebbe anche confondere l'operatività: portata
magari a preferire, nel confronto, la vecchia regola espressa dalla Vigilanza
rispetto alla nuova regola portata dalla legge.
Ambiguità della norma dell'art. 5, comma 5 (: «i contratti in corso sono
adeguati ... conformemente a quanto previsto dall'art. 118 del TUB»)
Per la verità, il testo della disposizione sembrerebbe, a prima vista,
limitarsi a semplificare il testo di legge. Peraltro, la Relazione di
accompagnamento afferma che l'«esigenza di adeguarsi alla nuova disciplina in
materia di remunerazione ... costituisce per gli intermediari un giustificato
motivo, ai sensi dell'art. 118 del TUB, per avvalersi della facoltà di
modificare unilateralmente le condizioni dei contratti in essere». Ora, così
discorrendo la stessa fa intendere di ritenere che la tematica in questione
vada inserita nell'alveo sostanziale delle modificazioni in pejus del contratto
in essere.
Una simile prospettiva non sembra porsi in linea con il dettato normativo
dell'art. 27 (questa la versione finale della norma di diritto transitorio: «i
contratti ... sono adeguati ... con l'introduzione di clausole conformi alle
disposizioni di cui all'art. 117-bis ... ai sensi dell'art. 118»). Va infatti
considerato, in proposito, da un lato che la norma di legge non opera alcun
riferimento al «giustificato motivo» della norma dell'art. 118, a differenza di
quanto faceva invece la legge n. 2/2009, nel suo art. 2-bis, comma 3 ( a
diretto proposito della commissione di massimo scoperto); dall'altro, che essa
- in luogo di parlare di «modifica» - si limita a considerare l'introduzione di
clausole apposite, che pretende essere conformi al nuovo sistema.
Ciò dovrebbe significare che il richiamo alla norma dell'art. 118 va letto in
termini di mera modalità strutturale per il transito al nuovo regime
(comunicazione da parte dell'intermediario - eventuale recesso da parte del
cliente): e questo anche se il vecchio contratto non prevedeva sorta di
«clausole di remunerazione», purché la clausola introdotta rispetti i dettami
della nuova legge.
Fissato questo step, l'inopportunità (o comunque l'ambiguità) della riportata
frase della Relazione si apprezza, per vero, anche sotto un altro aspetto. Si
avvertono voci della pratica intese ad affermare che la riforma legislativa di
cui al nuovo art. 117-bis costituirebbe - essa medesima - giustificato motivo
per modificare altre previsioni contrattuali di carico economico: in sintesi
concreta, per alzare il tasso degli interessi praticati. Laddove, per contro, è
stato proprio il segno di questa riforma portare verso nuove forme di
equilibrio nei contratti bancari (per quanto in termini alquanto parziali): sì
che la pretesa lesione degli equilibri preesistenti non risulta giustificativa
di nessuna modifica.
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