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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 07/12/2024 Scarica PDF
L’embrione «ha in sé il principio della vita»
Giampaolo Morini, Avvocato in LuccaSommario: 1. Introduzione; 2. Il diritto alla vita: in particolare, la tutela del concepito; 3. Art. 14 L. 40/2004: il numero di embrioni; 4. Art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004; 5. L’embrione «ha in sé il principio della vita»; 6. La dignità dell’embrione.
1. Introduzione
Al di là della stringatezza del riferimento specifico dell'art. 31 all'infanzia e all'adolescenza, non c'è dubbio che il quadro costituzionale rilancia l'immagine dei minori come soggetti titolari di diritti fondamentali, quelli che l’art. 2 riconosce ad ogni uomo, nella concretezza e nella peculiarità delle sue dimensioni esistenziali.
Tutti gli uomini sono titolari di diritti fondamentali in condizioni di eguaglianza e di pari dignità sociale. Sebbene l'età non rientri espressamente tra le categorie di applicazione della clausola antidiscriminatoria, possiamo certamente sostenere che essa sia una di quelle condizioni personali in relazione alle quali sono vietate, dal 1° co. dell’art. 3 Cost., discriminazioni irragionevoli.
Senza contare che ormai, il principio antidiscriminatorio in ragione dell'età costituisce un principio generale del diritto comunitario (C. Giust. CE, 22.11.2005, C-144/04, Mangold).
Il diritto comunitario e, in particolare, l'articolo 6, n. 1, della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazioni e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale, quale quella controversa nella causa principale, la quale autorizza, senza restrizioni, salvo che esista uno stretto collegamento con un precedente contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato con lo stesso datore di lavoro, la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato qualora il lavoratore abbia raggiunto l'età di 52 anni. È compito del giudice nazionale assicurare la piena efficacia del principio generale di non discriminazione in ragione dell'età disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale, anche quando il termine di trasposizione della detta direttiva non è ancora scaduto.
Tale principio trova inoltre specifica collocazione e disciplina nell' art. 21, Carta dei diritti fondamentali dell'UE, dopo Lisbona inserita nei Trattati e dotata di efficacia vincolante.
Non discriminazione
1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.
2. Nell'ambito d'applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità.
Invero, la condizione dei minori come soggetti "deboli" amplifica l'esigenza di protezione nei loro confronti, accentuando la rilevanza del mandato costituzionale contenuto nella norma qui in esame. Il «pieno sviluppo della persona», che l’art. 3, 2° co. Cost., identifica come obiettivo fondamentale delle politiche di eguaglianza sostanziale, riguarda appunto, con alcune peculiarità legate alla situazione esistenziale non del tutto coincidente, sia l'adulto che il minore [1].
Allo stesso modo, i diritti (in particolare i diritti civili e quelli sociali) sono riconosciuti ai minori in misura sostanzialmente analoga a quanto avviene per i soggetti in età adulta, con le differenziazioni imposte dalla condizione particolare del minore.
Tra i diritti che la Costituzione assicura al minore c'è innanzitutto il diritto alla vita, che investe in modo particolare la condizione del concepito.
Nella sentenza C. Cost., 18.2.1975, n. 27, che in un certo senso pone le premesse assiologiche della L. n. 194/1978 sull'interruzione volontaria della gravidanza, la Corte non a caso richiama anche l'art. 31, 2° co., Cost., nel sottolineare che la situazione giuridica del concepito rientra nella sfera di applicazione della clausola di protezione dei diritti inviolabili dell'uomo («pur con le caratteristiche sue proprie»), oltre ad essere destinatario della protezione che l'ordinamento riserva alla maternità[2].
È costituzionalmente illegittimo - in riferimento agli artt. 31 comma 2 e 32 Cost. - l'art. 546 c.p. "nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l'ulteriore gestazione implichi danno o pericolo grave, medicalmente accertato, nei sensi di cui in motivazione, e non altrimenti evitabile per la salute della madre", anche se non ricorrono tutti gli estremi dello stato di necessità previsto dall'art. 54 c.p.
Più nettamente la successiva sentenza C. Cost., 10.2.1997, n. 35 ha parlato di un «diritto alla vita del concepito» (per più ampie riflessioni sul punto, si rinvia sub art. 32 Cost.).
È inammissibile la richiesta di referendum per l'abrogazione della l. 22 maggio 1978 n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza) - avente ad oggetto il seguente quesito: "Volete voi l'abrogazione degli art. 1, 4, 5, 6, lett. b), limitatamente alle parole: "tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro"; 7, comma 1, limitatamente alla parole: "del servizio ostetrico - ginecologico dell'ente ospedaliero in cui deve praticarsi l'intervento, che ne certifica l'esistenza. Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti. Il medico è tenuto a fornire la documentazione sul caso e a comunicare la sua certificazione al direttore sanitario dell'ospedale per l'intervento da praticarsi immediatamente", e comma 2 ("Qualora l'interruzione della gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna, l'intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure previste dal comma precedente e al di fuori delle sedi di cui all'art. 8. In questi casi, il medico è tenuto a darne comunicazione al medico provinciale"); 8; 9 comma 1, limitatamente alle parole: "alle procedure di cui agli art. 5 e 7 ed", e comma 4, limitatamente alle parole: "l'espletamento delle procedure previste dall'art. 7 e", nonché alle parole: "secondo le modalità previste dagli art. 5, 7 e 8"; 10 comma 1, limitatamente alle parole: "nelle circostanze previste dagli art. 4 e 6, nonché alle parole: "di cui all'art. 8", e comma 3, limitatamente alle parole: "dal comma 2 dell'art. 5 e"; 11 comma 1 ("L'ente ospedaliero, la casa di cura o il poliambulatorio nei quali l'intervento è stato effettuato sono tenuti ad inviare al medico provinciale competente per territorio una dichiarazione con la quale il medico che lo ha eseguito dà notizia dell'intervento stesso e della documentazione sulla base della quale è avvenuto, senza fare menzione dell'identità della donna"); 12; 13; 14; 15 comma 2, limitatamente alle parole: "e 5"; 19 comma 1 ("Chiunque cagiona l'interruzione volontaria della gravidanza senza l'osservanza delle modalità indicate negli art. 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni"), comma 2 ("La donna e punita con la multa fino a lire 100.000"), comma 3, limitatamente alle parole: "o comunque senza l'osservanza delle modalità previste dall'art. 7", comma 5 ("Quando l'interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l'osservanza delle modalità previste dagli art. 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile") e comma 7 ("Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal comma 5"); 22 comma 3 ("Salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, non è punibile per il reato di aborto di donna consenziente chiunque abbia commesso il fatto prima dell'entrata in vigore della presente legge, se il giudice accerta che sussistevano le condizioni previste dagli art. 4 e 6") l. 22 maggio 1978 n. 194, recante "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza"? - in quanto - posto, da un lato, che non sono abrogabili disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, tra le quali vanno annoverate quelle la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione; e, dall'altro, che la richiesta referendaria è formulata, attraverso un ritaglio del testo vigente, in modo da dare all'abrogazione il senso palese di una pura e semplice soppressione di ogni regolamentazione legale (e non solo di una irrilevanza penale) dell'interruzione volontaria della gravidanza nei primi novanta giorni, riconducendo tale vicenda ad un regime di totale libera disponibilità da parte della singola gestante, anche in ordine alla sorte degli interessi costituzionalmente rilevanti in essa coinvolti - ciò che la Costituzione (art. 2 e 31 comma 2) non consente di toccare mediante l'abrogazione, sia pure parziale, della l. n. 194 del 1978 è quel nucleo di disposizioni che attengono alla protezione della vita del concepito quando non siano presenti esigenze di salute o di vita della madre, nonché quel complesso di disposizioni che attengono alla protezione della donna gestante: della donna adulta come della donna minore d'età, della donna in condizioni di gravidanza infratrimestrale come della donna in condizioni di gravidanza più avanzata.
Com'è noto, infine, che il concepito sia soggetto titolare di diritti, è espressamente confermato anche dall'art. 1, L. n. 40/2004, che disciplina la procreazione medicalmente assistita.
2. Il diritto alla vita: in particolare, la tutela del concepito.
Il primo dei diritti riconosciuti al fanciullo è il diritto alla vita, ritenuto inerente ad ogni essere umano. L'art. 6, Conv. New York lo pone in apertura, come presupposto imprescindibile per il godimento di tutti gli altri diritti ed il Comitato, nei suoi General Comment, gli attribuisce il valore di norma fondamentale all'interno della Convenzione sui diritti del fanciullo.
Tra gli aspetti più controversi e delicati legati all'applicazione di tale disposizione vi è la questione della tutela del concepito. Come ricordato sopra in relazione all' art. 1, Conv. New York e alla definizione di fanciullo, in sede di negoziato non prevalse la posizione volta a specificare il concetto di bambino come «ogni essere umano dal momento del suo concepimento fino al raggiungimento della maggiore età».
Così, alcuni Stati si affrettarono a chiarire con apposite dichiarazioni che intendevano interpretare ed applicare la norma come riferita anche ai nascituri (Argentina, Guatemala, Ecuador, Santa Sede); altri precisarono che la lettura congiunta degli artt. 1 e 6 non avrebbe ostacolato l'applicazione delle norme interne sull'interruzione volontaria di gravidanza [cfr. le riserve della Cina e del Lussemburgo e le dichiarazioni di Francia, Tunisia e Regno Unito. Sull'argomento vedi[3].
Quest'ultimo orientamento è stato in parte suffragato dalla giurisprudenza internazionale ed interna. In ambito internazionale, può ricordarsi anzitutto la pronuncia della Commissione Interamericana dei diritti dell'uomo nell'affaire Baby Boy del 1981. Nel caso di specie la Commissione interamericana, pur ricordando l'importanza della tutela del concepito, considerò conforme all'American Declaration of Rights and Duties of Man del 1948, che all'art. 1 protegge il diritto alla vita senza riferirsi al momento del concepimento, la legislazione dello Stato del Massachusetts sull'aborto.
La Commissione, in particolare, rigettò l'interpretazione proposta dai ricorrenti (nel caso di specie, i membri di un'organizzazione statunitense contro l'aborto) secondo la quale la norma della Dichiarazione del 1948 andava letta alla luce dell'art. 4, Convenzione americana sui diritti dell'uomo del 1978, che testualmente prescrive la tutela del diritto alla vita «in general, from the moment of conception».
In particolare e premesso che gli Stati Uniti non erano vincolati da quest'ultima convenzione, avendola solo firmata e non ratificata, la Commissione esaminò ugualmente i lavori preparatori relativi all'art. 4, Convenzione americana, precisando che i redattori del testo avevano scelto di non includere una protezione assoluta del diritto alla vita sin dal momento del concepimento. L'espressione "in general", inserita nel testo dell'art. 4, lo confermava[4].
La giurisprudenza CEDU ha adottato soluzioni similari. Si ricordano due decisioni, su questioni dichiarate manifestamente infondate, dell'allora Commissione europea dei diritti umani e della Corte europea dei diritti dell'uomo, rispettivamente nei casi R. H. v. Norway del 1992 (Appl. n. 17004/90) e Boso v. Italy del 2002 (Appl. n. 50490/99). In entrambi i casi si trattava di verificare la compatibilità delle legislazioni interne in tema di interruzione volontaria della gravidanza con l’art. 2 CEDU, relativo al diritto alla vita.
La Commissione sottolineò, nel primo caso, che la legislazione norvegese fosse conforme alla CEDU in quanto rientrante nel margine di apprezzamento dello Stato e, pertanto, non sottoponibile al vaglio della Corte; nel secondo la Corte chiarì che il caso di specie rientrava nelle previsioni della legge italiana sull'interruzione volontaria di gravidanza ed era pertanto conforme al disposto dell’art. 2 CEDU. La Corte precisò inoltre che la legge italiana individuava un giusto equilibrio tra gli interessi della donna, da una parte, e quelli dello Stato nella protezione del nascituro, dall'altra. In un altro caso (Paton v. UK, Appl. n. 8416/78) la Commissione rilevò che l'espressione "everyone" contenuta nell' art. 2 CEDU non andava riferita anche al nascituro.
La giurisprudenza italiana si è mossa in direzione altalenante. La Corte costituzionale in due sentenze del 1981 ha avallato la giurisprudenza internazionale (C. Cost., 25.6.1981, n. 108 e C. Cost., 25.6.1981, n. 109), confermando la legittimità costituzionale della legge sull'interruzione volontaria di gravidanza.
In direzione opposta si è mossa la Corte di Cassazione che progressivamente ha riconosciuto una tutela sempre maggiore al concepito[5]. In particolare, va segnalata la sentenza del 2009 con la quale la Suprema Corte ha riconosciuto al nascituro una soggettività giuridica provvisoria, relativa nel caso di specie al diritto a nascere sano e alla risarcibilità dei danni subiti a seguito della somministrazione di un farmaco durante il periodo della gestazione che aveva provocato gravi malformazioni al neonato (C. civ., Sez. III, 11.5.2009, n. 10741):
Deve affermarsi, stante la soggettività giuridica di X quale concepito, il suo diritto a nascere sano ed il corrispondente obbligo dei sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento che per il nascituro è condizionato, quanto alla titolarità, all'evento nascita ex art. 1, comma 2, c.c., ed azionabile dagli esercenti la potestà) per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in ordine alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sia del dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso. Non avrebbe invece quest'ultimo avuto diritto al risarcimento qualora il consenso informato necessitasse ai fini dell'interruzione di gravidanza (e non della mera prescrizione di farmaci), stante la non configurabilità del diritto a non nascere (se non sano).
Anche il legislatore italiano si è mosso nel solco della giurisprudenza di legittimità. La legge italiana sulla fecondazione medicalmente assistita (L. 19.2.2004, n. 40) riconosce espressamente all' art. 1 i diritti del concepito.
I giudici di merito hanno tuttavia interpretato le norme della legge, in particolare quelle relative alla diagnosi preimpianto, alla luce degli artt. 2 e 32 Cost. Tale lettura costituzionalmente orientata ha portato a dichiarare ammissibili le diagnosi preimpianto di tipo osservazionale.
Fermo il divieto assoluto di effettuare diagnosi preimpianto a scopi eugenetici, la giurisprudenza ha ammesso la possibilità di effettuare tale diagnosi se strumentale all'accertamento di eventuali malattie dell'embrione, in modo da assicurare un'adeguata informazione a coloro che hanno fatto accesso alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita. Si veda C. Cost., 8.5.2009, n. 151:
Sono manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, censurato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost., nella parte in cui non consente, dopo la fecondazione dell'ovulo, la revoca della volontà all'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, di cui il rimettente chiede la declaratoria di incostituzionalità al solo fine di dare coerenza al sistema.
Per una ricostruzione della giurisprudenza che tiene conto anche della sentenza della Corte costituzionale sopra citata che ha dichiarato parzialmente illegittime alcune norme della L. 19.2.2004, n. 40 [6].
Sempre con riferimento alla tutela del concepito, parte della dottrina ha poi rilevato la difficoltà di addivenire a soluzioni univoche in caso di gravidanze forzate a seguito di crimini di guerra, come puniti ai sensi dell’art. 7, Statuto istitutivo della Corte penale internazionale (17.7.1998), ratificato dall'Italia con L. 12.7.1999, n. 232 [7].
Su questo aspetto preme segnalare che il Protocollo del 2003 alla Carta africana dei diritti umani, relativo ai diritti delle donne in Africa, entrato in vigore il 25 novembre del 2005 e ratificato da 29 Stati del continente africano, meglio noto come Protocollo di Maputo, prevede all'art. 14, par. 2, lett. c) che gli Stati debbano adottare misure appropriate per proteggere i diritti riproduttivi delle donne, autorizzando l'aborto in caso di abusi sessuali, incesto, stupro e nel caso in cui la prosecuzione della gravidanza metta in pericolo la salute della donna o del feto.
3. Art. 14 L. 40/2004: il numero di embrioni.
La norma in rubrica è stata oggetto di discussione relativamente al comma 2 dell'art. 14, laddove imponeva la creazione di non più di tre embrioni ai fini di un loro unico e contemporaneo impianto, tale precisazione era ritenuta in contrasto con i precetti costituzionali di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost., in quanto determinava la reiterata sottoposizione della donna a trattamenti che, in quanto invasivi e a basso tasso di efficacia, sarebbero stati lesivi del principio di rispetto della dignità umana, in spregio a quanto previsto dall'art. 2 Cost.
La disposizione in esame avrebbe, inoltre, creato disparità di trattamento fra situazioni che eguali fra loro non avrebbero richiesto trattamenti differenziati, in violazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all'art. 3 Cost., oltre a violare il diritto fondamentale alla salute proclamato dall'art. 32 della Cost., determinando il forte rischio di reiterata sottoposizione della donna a trattamenti ad alto tasso di pericolosità per la sua salute fisica e psichica.
D’altro canto, la assoluta libertà di produzione sovrannumeraria di embrioni avrebbe potuto determinare, a sua volta, una situazione che, pur se inserita all'interno dei ragionevoli presupposti normativi di cui agli artt. 1, 4 e 5 della legge, rischiava di essere pur sempre foriera di problematiche anche sotto il profilo etico, giuridico, ed anche gestionale ed economica (basti pensare che le Linee guida, sia nella loro versione originaria sia in quella attuale, prevedono che «gli embrioni che verranno definiti in stato di abbandono saranno crioconservati in maniera centralizzata con oneri a carico dello Stato»): per tali ragioni la questione fu posta al vaglio della Corte Costituzionale in merito alla legittimità dell'art. 14 della legge n. 40 del 2004 nel senso sopra indicato.
La Corte Costituzionale con la sentenza 151/2009 riconosce nella norma un
limite alla tutela apprestata all'embrione, poiché anche nel caso di limitazione a soli tre del numero di embrioni prodotti, si ammette comunque che alcuni di essi possano non dar luogo a gravidanza, postulando la individuazione del numero massimo di embrioni impiantabili appunto un tale rischio, e consentendo un affievolimento della tutela dell'embrione al fine di assicurare concrete aspettative di gravidanza, in conformità alla finalità proclamata dalla legge. E dunque, la tutela dell'embrione non è comunque assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione.
La corte coglie con precisione che il numero di embrioni indicato dalla norma, non solo è incoerente sul piano scientifico ma anche sul piano logico; una limitazione tout court non solo non tiene conto delle condizioni degli embrioni ma neppure della condizione soggettiva della donna creando un’alea che non trova coerenza nel dettato costituzionale, si legge infatti:
deve rilevarsi che il divieto di cui al comma 2 dell'art. 14 determina, con la esclusione di ogni possibilità di creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, e comunque superiore a tre, la necessità della moltiplicazione dei cicli di fecondazione (in contrasto anche con il principio, espresso all'art. 4, comma 2, della gradualità e della minore invasività della tecnica di procreazione assistita), poiché non sempre i tre embrioni eventualmente prodotti risultano in grado di dare luogo ad una gravidanza. Le possibilità di successo variano, infatti, in relazione sia alle caratteristiche degli embrioni, sia alle condizioni soggettive delle donne che si sottopongono alla procedura di procreazione medicalmente assistita, sia, infine, all'età delle stesse, il cui progressivo avanzare riduce gradualmente le probabilità di una gravidanza.
La Corte intuisce che il limite legislativo finisce per favorire il ricorso (possibile) alla reiterazione di detti cicli di stimolazione ovarica, ove il primo impianto non dia luogo ad alcun esito con conseguente aumento dei rischi di insorgenza di patologie che a tale iperstimolazione sono collegate;
per altro verso, determina, in quelle ipotesi in cui maggiori siano le possibilità di attecchimento, un pregiudizio di diverso tipo alla salute della donna e del feto, in presenza di gravidanze plurime, avuto riguardo al divieto di riduzione embrionaria selettiva di tali gravidanze di cui all'art. 14, comma 4, salvo il ricorso all'aborto. Ciò in quanto la previsione legislativa non riconosce al medico la possibilità di una valutazione, sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, del singolo caso sottoposto al trattamento, con conseguente individuazione, di volta in volta, del limite numerico di embrioni da impiantare, ritenuto idoneo ad assicurare un serio tentativo di procreazione assistita, riducendo al minimo ipotizzabile il rischio per la salute della donna e del feto.
La giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto l'accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l'arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali (sentenze n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002).
La previsione della creazione di un numero di embrioni non superiore a tre, in assenza di ogni considerazione delle condizioni soggettive della donna che di volta in volta si sottopone alla procedura di procreazione medicalmente assistita, si pone, in definitiva, in contrasto con l'art. 3 Cost., riguardato sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza, in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a situazioni dissimili; nonché con l'art. 32 Cost., per il pregiudizio alla salute della donna – ed eventualmente, come si è visto, del feto – ad esso connesso.
La Corte ha dunque proceduto con la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 2, della legge n. 40 del 2004 limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre».
4. Art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004.
L’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004 permette di accedere alla PMA «solo a coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi»: una delle questioni che sono state affrontate in giurisprudenza e sulla ammissibilità e legittimità della revoca del consenso.
C’è che ha ritenuto che la denunciata irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione violerebbe, gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., anche in relazione all’art. 8 CEDU, compromettendo il diritto all’autodeterminazione in ordine alla decisione di non diventare genitore e quello al rispetto della vita privata e familiare. I sostenitori di questa tesi riterrebbero, lesi gli artt. 3 e 13, primo comma, Cost., perché consentire alla donna la scelta dell’impianto malgrado il sopravvenuto dissenso dell’uomo, irragionevolmente lo costringerebbe a diventare genitore contro la sua volontà.
Premesso che pare, nel nostro ordinamento, ma ancor di più a livello culturale svanisca a momenti, il senso di responsabilità e la consapevolezza che un embrione non è un oggetto di cui poter disporre in base alla volubilità del momento, anche la logica, non solo giuridica sembra bersaglio dell’incoerenza: è naturale che il consenso è stato prestato da entrambi i partner altrimenti l’embrione non esisterebbe, e non si comprendono né i richiami normativi dell’assurda tesi tanto meno quelli morali.
Anche l’appello all’art. 3 Cost. invocato come violato sotto il profilo dell’eguaglianza, poiché risulterebbe sacrificata soltanto la libertà individuale dell’uomo non pare degna di nota. Certo che può verificarsi anche l’ipotesi in cui la donna, si rifiuti, nonostante l’iniziale consenso da essa espresso alla PMA, il trasferimento in utero dell’embrione, che non potrebbe mai esserle imposto, ma sul punto si aprono ben altra questione sulle quali per il momento è necessario soprassedere.
Non vi sono dubbi che il padre non possa imporre l’impianto nella donna che può legittimamente revocare il consenso, così come il padre non può più revocare il consenso una volta venuto ad esistenza l’embrione: questi punti sono al momento assodati in giurisprudenza. È infatti possibile che dopo il concepimento dell’embrione venga meno l’affectio coniugalis.
Il Decreto del Ministro della salute 1° luglio 2015 (Linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita) riconosce il diritto all’impianto indipendentemente dal consenso dell’uomo, stabilendo che «[l]a donna ha sempre il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati»: dal che un’ulteriore ragione di inammissibilità delle questioni.
Un qualunque riconoscimento in capo all’uomo circa la scelta dell’impianto dell’embrione, non solo farebbe nascere in capo allo stesso un diritto potestativo, prerogativa solo della legge, ma comprometterebbe così la sua salute psicofisica della donna compromettendo le finalità della stessa legge n. 40 del 2004, diretta a privilegiare la procreazione e a tutelare l’embrione. Sarebbe peraltro anche errato sostenere che la legge n. 40 del 2004 inizialmente non consentisse la crioconservazione dell’embrione.
Al contrario, essa sin dalla formulazione originaria la ammetteva in caso di impossibilità dell’impianto per grave, documentata e imprevedibile causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna, sicché l’eventualità che l’impianto possa avvenire anche a notevole distanza di tempo dalla fecondazione sarebbe stata ben presente al legislatore quando ha stabilito l’irrevocabilità del consenso dopo tale momento.
Sussiste dunque un principio di responsabilità, in merito al «diritto della donna a divenire madre» e sulla tutela dell’embrione, che non è suscettibile di affievolimento se non in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale, come il diritto alla salute della donna stessa.
L’art. 8 della legge n. 40 del 2004 – che disciplina lo stato giuridico dei nati a seguito di PMA – esprime la «assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A. La norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell’accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro, sotto il peculiare profilo del con seguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all’interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l’accesso a tale diversa modalità procreativa»[8] - Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 15 maggio 2019, n. 13000:
Il citato art. 8 della Legge n.40/2004 recita "1. I nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell'articolo 6". Pertanto, in caso di nascita in Italia conseguente a una fecondazione omologa post mortem l'Ufficiale di stato civile competente forma l'atto di nascita con indicazione delle generalità di entrambi i genitori attribuendo al nato il cognome del padre defunto, a condizione che chi rende la dichiarazione di nascita possa attestare che il defunto, in vita, aveva dato il consentito all'accesso alle tecniche insieme alla moglie o alla convivente e aveva autorizzato l'una o l'altra all'impiego post mortem del proprio seme crioconservato.
La norma che stabilisce l’irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione dell’ovulo si è trovata a operare in un contesto profondamente diverso da quello definito ab origine dalla legge n. 40 del 2004. Questa prevedeva, infatti, che il trasferimento in utero degli embrioni prodotti, che non potevano essere creati in numero superiore a tre (art. 14, comma 2), doveva avvenire entro l’arco temporale dei pochissimi giorni del ciclo della loro sopravvivenza: l’ipotesi della loro crioconservazione, in linea generale vietata (art. 14, comma 1), costituiva quindi un’evenienza del tutto eccezionale, consentita solo «per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione» e in ogni caso l’impianto si sarebbe dovuto realizzare «non appena possibile» (art. 14, comma 3).
5. L’embrione «ha in sé il principio della vita».
Con sentenza n. 161 del 24 luglio 2023, la Corte Costituzionale ha ricordato che, in linea con la giurisprudenza sovranazionale e convenzionale, l’embrione «ha in sé il principio della vita» (Corte Cost. n. 84 del 2016), vita umana, in quanto «la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano».
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, grande sezione, in causa C-34/10, sentenza 18 ottobre 2011, Brustle contro Greenpeace eV ha stabilito che
(…) il termine embrione debba essere inteso in senso ampio concludendo che, nel momento in cui un ovulo umano venga fecondato, esso debba essere considerato embrione. Inoltre, la Corte ha stabilito che il termine embrione deve comprendere anche ogni ovulo umano non fecondato nel cui nucleo è stata trapiantata una cellula umana matura, così come un ovulo umano non fecondato la cui divisione e ulteriore sviluppo siano state stimolate per partenogenesi.
La nozione di “embrione umano”, ha affermato il giudice del rinvio, deve ricevere una qualificazione unitaria ed armonica in tutto il contesto europeo, senza che siano lasciati margini alla discrezionalità dei singoli stati membri, e, dunque, nel caso specifico, senza doversi ritenere vincolati alla definizione di embrione di cui all’art. 8 n. 1 dell’ESchG (legge sulla protezione degli embrioni).
A garanzia della dignità ed integrità dell’uomo - principi sanciti nell’art. F paragrafo 2, del Trattato sull’Unione europea, nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, da cui si evince l’esclusione di ogni possibilità di pregiudizio - la nozione di “embrione umano” va intesa in senso ampio, allargato, afferma la Corte, e dunque riferibile non solo all’ovulo umano fecondato, ma anche all’ovulo non fecondato in cui è impiantato il nucleo di una cellula umana matura ovvero indotto a dividersi e svilupparsi tramite partenogenesi. Questo perché, argomenta la Corte, anche se tali organismi non sono stati oggetto di fecondazione, gli stessi “per effetto della tecnica utilizzata per ottenerli, sono tali da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano come l’embrione creato mediante fecondazione di un ovulo”.
Innanzitutto, viene confermato il rispetto dei diritti fondamentali, quale nucleo costituzionale identitario dell’Unione e fonte di legittimazione della stessa, nel solco di quanto affermato col Trattato di Amsterdam e sviluppatosi con la Carta di Nizza. Il riferimento alla dignità - inteso quest’ultimo quale diritto ricompreso nella nomenclatura dei diritti fondamentali, secondo quella categorizzazione, contenuta nella Carta di Nizza, che equipara sul piano giuridico-formale tutti i diritti, senza distinzione di rango, e li raggruppa in sei categorie di valore - viene qui esteso all’embrione, ed in tal stregua, da un lato esprime l’idea perseguita dalla Corte di “mettere al riparo dalla mercatizzazione una sfera intrinsecamente indecidibile”[9], con chiaro riferimento all’idea kantiana dell’“uomo come fine”, dall’altro, tuttavia, pone in luce un complesso processo di mutamento della concezione stessa dei diritti. In merito a quest’ultimo punto, sembrerebbe emergere una crisi dell’intima connessione tra diritto ed affermazione dei poteri democratici che ne garantiscono effettività e salvaguardia, quasi venisse in discussione la garanzia dei diritti come “assetto istituzionale nel quale i titolari dei diritti sono compartecipi di quel potere politico che dei diritti è il potenziale fattore di rischio”[10]
È essenziale ricordare che l’embrione viene infatti generato a motivo della speranza che una volta trasferito nell’utero dia luogo a una gravidanza e conduca alla nascita, per cui «quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riduci bile a mero materiale biologico»[11]. La sua «dignità», quindi, è «riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.», dovendo essere pertanto tutelata anche ove si sia al cospetto di embrioni soprannumerari o malati (sentenza n. 229 del 2015).
Come ricorda la Corte Costituzionale, chiarisce che
È certamente vero, peraltro, che la tutela dell’embrione non è comunque assoluta e del resto «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute [psicofisica] proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare» (sentenza n. 27 del 1975). valutazione del legislatore», «alla luce degli apprezzamenti ti correnti nella comunità sociale» (sentenza n. 221 del 2019), ferma restando la sindacabilità da parte di questa Corte delle scelte operate, al fine di verificare che con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (sentenza n. 162 del 2014). (Omissis)
Indubbiamente la giurisprudenza costituzionale è da sempre occupata di bilanciare la «necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione» (sentenza n. 151 del 2009) e con quella «del diritto alla salute della donna» (sentenza n. 96 del 2015).
Per la Corte,
… dunque, si considerino la tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell’embrione crioconservato, che potrebbe attecchire nell’utero materno, risulta non irragionevole la compressione, in ordine alla prospettiva di una paternità, della libertà di autodeterminazione dell’uomo, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
La Corte Costituzionale precisa che
La Procreazione Medicalmente Assistita, infatti, «mira a favorire la vita» (Corte Cost. n. 162 del 2014), volendo assistere la procreazione – cioè la nuova nascita – e non la (sola) fecondazione, per cui non è precluso che la relativa disciplina possa privilegiare, anche nella sopraggiunta crisi della coppia, la richiesta della donna che, essendosi fortemente coinvolta, come si è visto, nell’interezza del la propria dimensione psicofisica, sia intenzionata, anche dopo che sia decorso un rilevante periodo di tempo dalla crioconservazione, all’impianto dell’embrione. Tale conclusione non è d’altro canto preclusa dal rilievo dell’indubbio interesse del nato grazie alla PMA a una stabile relazione con il padre, che si potrebbe ritenere ostacolata dalla sopravvenuta separazione dei genitori. Altro è la dissolubilità del legame tra i genitori, altro è l’indissolubilità del vincolo di filiazione, che è comunque assicurata, nella legge n. 40 del 2004, dagli artt. 8 e 9. Del resto, ha concluso la Consulta, la considerazione dell’ulteriore interesse del minore a un contesto familiare non conflittuale non può essere enfatizzata al punto da far ritenere che essa integri una condizione esistenziale tal mente determinante da far preferire la non vita.
Nel sistema normativo iniziale, era ben difficile che le condizioni soggettive che dovevano necessariamente essere presenti al momento dell’accesso alla PMA (art. 5, comma 1) ovvero l’essere la coppia composta da persone coniugate o conviventi potesse mutare al momento dell’impianto in utero. La norma che stabiliva la definitiva irrevocabilità, a seguito dell’avvenuta fecondazione dell’embrione, del consenso prestato, peraltro preceduta ex art. 6, commi 1, 2, 3, primo e secondo periodo, e 5, da un rigoroso percorso diretto a garantire la piena informazione e responsabilizzazione dei richiedenti nonché un periodo, «non inferiore a sette giorni», per poter esercitare uno “ius poenitendi” pareva per il legislatore del 2004 sufficiente.
Questo assetto normativo, non aveva tuttavia previsto la possibilità di una sopravvenuta complicazione psicofisica della donna, ed è per tale ragione che la legge n. 40 del 2004 stabiliva il generale divieto di crioconservazione degli embrioni. Per tale ragione con la sentenza n. 151 del 2009 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre», e dell’art. 14, comma 3, «nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come stabilisce tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna».
Precisando che la «tutela dell’embrione non è comunque assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione», detta sentenza ha rimarcato che il numero massimo di embrioni da creare e l’unico e contemporaneo impianto, da un lato, comportavano «la necessità della moltiplicazione dei cicli di fecondazione», con «l’aumento dei rischi di insorgenza di patologie che a tale iperstimolazione sono collegate»; dall’altro, determinavano «un pregiudizio di diverso tipo alla salute della donna e del feto, in presenza di gravidanze plurime, avuto riguardo al divieto di riduzione embrionaria selettiva di tali gravidanze». La «logica conseguenza» della decisione è stata quella di derogare «al principio generale di divieto di crioconservazione», data la necessità del «congelamento con riguardo agli embrioni prodotti ma non impiantati per scelta medica» diretta a evitare un «pregiudizio della salute della donna» (ancora sentenza n. 151 del 2009).
Con la sentenza n. 96 del 2015 la Corte Costituzionale è intervenuta sugli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1 che non consentivano il ricorso alla PMA alle coppie che, benché fertili, fossero tuttavia portatrici di «gravi patologie genetiche ereditarie», accertate da apposite strutture pubbliche, «suscettibili di trasmettere al nascituro rilevanti ano malie o malformazioni» e rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza). Il divieto di accesso alla PMA derivante dalle suddette norme risultava, infatti, contraddittorio rispetto alla previsione (art. 6, comma 1, lettera b) che invece consente a tali coppie di perseguire «l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali».
Tale divieto è stato quindi giudicato lesivo dell’art. 32 Cost., perché non permetteva di far acquisire “prima” alla donna un’informazione tale da consentirle di evitare di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute. Il vulnus così arrecato al diritto alla salute della donna non aveva, peraltro, «un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro, il quale sarebbe comunque esposto all’aborto». Tale decisione ha, pertanto, ritenuto che la normativa denunciata costituiva il risultato di un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco. Anche per effetto di questa sentenza il divieto di crioconservazione ha subìto, di fatto, una ulteriore deroga, perché i tempi e i modi della diagnosi preimpianto risulta no, allo stato delle conoscenze scientifiche, incompatibili con il breve arco temporale in cui è possibile impiantare gli embrioni senza congelarli.
In definitiva, il rapporto regola-eccezione relativo al divieto di crioconservazione originariamente impostato dalla legge n. 40 del 2004 ha subito un radicale cambiamento di rotta per cui la crioconservazione, e con essa anche «la possibilità di creare embrioni non portati a nascita» (sentenza n. 84 del 2016) non è più eccezione. Anche se l’art. 14, comma 3, continua a prevedere la formula «da realizzare non appena possibile», di fatto la forbice temporale tra il consenso prestato alla PMA e il trasferimento in utero si è dilatato senza un vero e proprio limite.
Mentre prima dell’intervento della Corte l’impianto doveva avvenire nel breve spazio di pochissimi giorni dalla fecondazione, ovvero dal momento in cui il consenso prestato dalla coppia divenisse irrevocabile, è oggi possibile che la richiesta dell’impianto degli embrioni crioconservati venga manifestata dalla donna (in virtù del proprio stato psicofisico) non solo a distanza di molto tempo da quel momento, ma anche in presenza di condizioni soggettive assai diverse da quelle che necessariamente dovevano esistere in concomitanza all’accesso alle tecniche in discorso.
I diritti che sono venuto quindi potenzialmente in conflitto sono da un lato la tutela della salute psicofisica della donna, la sua libertà di autodeterminazione a diventare madre, la libertà di autodeterminazione dell’uomo a non divenire padre; la dignità dell’embrione; i diritti del nato a seguito della PMA.
La Corte Costituzionale, ha già affermato che il divieto di soppressione dell’embrione «non ne comporta […] l’impianto coattivo nell’utero della gestante» (sentenza n. 229 del 2015). La situazione in cui versa la donna è dunque profondamente diversa da quella dell’uomo: ed è da escludere una violazione del principio di eguaglianza: secondo il costante orientamento della Corte Costituzionale, si è in presenza di una violazione dell’art. 3 Cost. solo «qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili» (ex plurimis, sentenze n. 71 del 2021 e n. 85 del 2020; nello stesso senso sentenze n. 13 del 2018 e n. 71 del 2015).
In merito invece, alla libertà di autodeterminazione dell’uomo, in merito alla irrevocabilità del consenso prevista dal censurato art. 6, comma 3, ultimo periodo, che lo vede costretto «a diventare genitore contro la sua volontà» la questione non può che essere infondata alla luce del bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti, insito nella norma censurata, che secondo la Corte non supera la soglia della irragionevolezza.
È indubbia l’espansione della tecnica della crioconservazione con la conseguente possibilità di una scissione temporale tra la fecondazione e l’impianto. Questa scissione, per effetto della norma censurata, ha inevitabili ripercussioni sulla libertà dell’uomo di autodeterminarsi, quando, per il decorso del tempo, sia venuta meno quell’affectio familiaris sulla quale si era, in origine, fondato il comune progetto di genitorialità. Infatti, in questa situazione, la volontà della donna di procedere comunque all’impianto dell’embrione costringe quella libertà a subire tale evento.
Da sottolineare che l’autodeterminazione dell’uomo matura in un contesto in cui egli è reso edotto del possibile ricorso alla crioconservazione, come introdotta dalla giurisprudenza costituzionale, e anche a questa eventualità presta, quindi, il suo consenso.
L’art. 6 della legge n. 40 del 2004 reca, infatti, un’articolata disciplina dell’obbligo informativo prodromico alla prestazione del consenso, «in modo tale da garantire il formarsi di una volontà consapevole e consapevolmente espressa» (comma 1, ultimo periodo), anche in merito alle «conseguenze giuridiche» derivanti dall’applicazione delle tecniche di PMA (comma 1, primo periodo), volontà che è manifestata «per iscritto congiuntamente al medico responsabile della struttura, secondo modalità definite con decreto dei Ministri della giustizia e della salute, adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400» (comma 3, primo periodo).
Dunque «[i] nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6», e che l’art. 9 preveda un duplice divieto: da un lato, quello di disconoscimento della paternità nel caso della PMA eterologa, così configurando «una ipotesi di intangibilità ex lege dello status» (ordinanza n. 7 del 2012), e, dall’altro, quello di anonimato della madre; il consenso prestato dall’uomo diviene irrevocabile dal momento della fecondazione dell’ovulo, comportando una specifica assunzione di responsabilità riguardo alla filiazione, che si traduce nella attribuzione al nato dello status filiationis.
6. La dignità dell’embrione.
La Corte Costituzionale, in linea con la giurisprudenza sovranazionale e convenzionale, ha precisato che l’embrione «ha in sé il principio della vita» (sentenza n. 84 del 2016). Vita da intendersi quale vita umana, in quanto «la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano» (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, in causa C-34/10, sentenza 18 ottobre 2011, Brustle contro Greenpeace eV). L’embrione viene infatti generato a motivo della speranza che una volta trasferito nell’utero dia luogo a una gravidanza e conduca alla nascita, per cui «quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riduci bile a mero materiale biologico»[12].
La sua «dignità», quindi, è «riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.», dovendo essere pertanto tutelata anche ove si sia al cospetto di embrioni soprannumerari o malati (sentenza n. 229 del 2015). È certamente vero, peraltro, che la tutela dell’embrione non è comunque assoluta e del resto «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute [psicofisica] proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare» (sentenza n. 27 del 1975).
Tuttavia, va anche considerato che sinora la giurisprudenza costituzionale l’ha limitata solo nella direzione del la «necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione» (sentenza n. 151 del 2009) e con quella «del diritto alla salute della donna» (sentenza n. 96 del 2015).
[1] Passaglia, I minori nel diritto costituzionale, 2010.
[2] Si vedano anche D'Aloia, Torretta, La procreazione come diritto della persona, in Canestrari, Ferrando, Mazzoni, Rodotà, Zatti (a cura di), Il governo del corpo, II, in Rodotà, Zatti (diretto da), Trattato di biodiritto, Milano, 2011, 1346.
[3] Maffei, La tutela internazionale dei diritti del bambino, in Pineschi (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani, Milano, 2006, 237-242; Paz Garibo, La convenzione internazionale sui diritti del fanciullo: diritto cosmopolita? in Ragion Pratica, 2009, 32, 158 ss.
[4] Per un commento critico alla sentenza vedi Shelton, Abortion and the Right to Life in the Inter-American System: the Case of Baby Boy, in Human Rights Law Journal, 1981, 309 ss.
[5] Ballarani, La Cassazione riconosce la soggettività giuridica del concepito: indagine sui precedenti dottrinale per una lettura "integrata" dell'art. 1 c.c., in DFP, 2009, 1180 ss.
[6] v. Ferrando, Fecondazione in vitro e diagnosi preimpianto dopo la decisione della Corte costituzionale, in NGCC, 2009, 11, 521 ss.; Boschiero, L'intervento della Consulta sulla legge 40 del 2004: considerazioni introduttive, in D'Amico, Pellizzone (a cura di), I diritti delle coppie infertili. Il limite dei tre embrioni e la sentenza della Corte costituzionale, Milano, 2010, 128-133
[7] Franchi, La Convenzione delle Nazioni Unite 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, in Comm. Zaccaria, Padova, 2008, 2568
[8] In tal senso: Trib. Santa Maria Capua Vetere, ordinanze 27 gennaio 2021 e 11 ottobre 2020; Tribunale ordinario di Perugia, ordinanza 28 novembre 2020; Tribunale ordinario di Lecce, ordinanza 24 giugno 2019; Tribunale ordinario di Bologna, ordinanza 16 gennaio 2015.
[9] A. Cantaro, Europa Sovrana, La Costituzione dell’Unione tra guerra e diritti, Ed. Dedalo, 2003, p. 111.
[10] Op. Cit. A. Cantaro, cit., p. 100.
[11] Sentenze n. 84 del 2016 e n. 229 del 2015; in senso analogo, Corte EDU, grande camera, sentenza 27 agosto 2015, Parrillo contro Italia, dove si è affermato: «human embryos cannot be reduced to “possessions” within the meaning of that provision».
[12] Sentenze n. 84 del 2016 e n. 229 del 2015; in senso analogo, Corte EDU, grande camera, sentenza 27 agosto 2015, Parrillo contro Italia, dove si è affermato: «human embryos cannot be reduced to “possessions” within the meaning of that provision»
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