Bancario


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 16/02/2023 Scarica PDF

Il conflitto di interessi nell'attività bancaria. Art. 136 T.U.B.

Giampaolo Morini, Avvocato in Lucca


Sommario: 1. Il conflitto di interessi nell’attività bancaria: inquadramento dell’istituto. 2. L’art. 136 TUB. 3. La validità delle deliberazioni: requisiti. 4. Le operazioni che i soggetti i quali svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo in enti creditizi non possono compiere. 5. Il d.lgs. 14 dicembre 1992 n. 481. 6. L’art. 2391 c.c. 7.  Il conflitto di interessi all’interno del gruppo plurifunzionale. 8. Chi viola il disposto della norma in esame incorre in responsabilità penale. 9. La vendita di titoli presenti nel portafoglio dell’intermediario

 

 

1. Il conflitto di interessi nell’attività bancaria: inquadramento dell’istituto.

In passato, la fattispecie del conflitto di interessi, era regolato dall’art. 38 della legge bancaria del 1936 (r.d.l. 12 marzo 1936, n. 375, e successive modificazioni e integrazioni), relativamente alle operazioni poste in essere dalla bancario con la banca di appartenenza ovvero, ai sensi dell’art. 38, non era consentito agli amministratori, liquidatori, direttori e membri degli organi di sorveglianza delle aziende di credito (divieto, esteso dall’art. 42 l.b. agli esponenti degli istituti di credito) di contrarre obbligazioni di qualsiasi natura e di compiere atti di compravendita, direttamente o indirettamente, con l’istituto amministrato, diretto o sorvegliato, fatto salvo il rispetto delle particolari formalità previste dalla norma stessa, consistenti nella deliberazione unanime del consiglio di amministrazione e nel voto favorevole di tutti i componenti l’organo di controllo.

Il divieto previsto dall’art. 38 l.b. era ritenuto, relativo, in quanto poteva essere superato osservando scrupolosa delle formalità prescritte[1]; in altre parole, non era esclusa la possibilità di compiere le operazioni di cui all’art. 38, ma la si era circondata di particolari cautele[2].

Il modello adottato nell’art. 38 l.b. era denominato di «divieto condizionato», o come da altri definito «permesso condizionato», i soggetti indicati dalla norma non potevano contrarre obbligazioni se non a determinate condizioni, dunque, le operazioni non erano «vietate», ma «permesse»[3].

Successivamente, con l’emanazione del d.lgs. 14 dicembre 1992, n. 481[4], la materia delle obbligazioni degli esponenti aziendali con l’ente di appartenenza veniva regolata dall’art. 36 del decreto stesso, che, al comma 1, riproduceva il contenuto dell’abrogato art. 38. L’art. 36[5], tuttavia, utilizzava un criterio di tipo funzionale.

Il sistema della vecchia legge bancaria si ispirava a criteri di specializzazione e quindi priva di una disciplina unitaria per l’intero settore creditizio; l’adozione di diversi modelli normativi, pur sempre di divieto, ma di diverso rigore[6], creava notevoli disparità di trattamento tra i soggetti preposti alla gestione e al controllo dei vari enti, con riferimento a condotte omogenee.

La situazione normativa necessitava quindi di una riforma del sistema, tanto più che nella mutata realtà socio-economica si andava progressivamente attenuando la distinzione tra categorie di enti, che avevano gradatamente perduto molti dei loro elementi differenziali[7].

Tale obbiettivo veniva perseguito con il citato decreto 481/1992, che introduceva il principi di despecializzazione, adeguandosi anche alla normativa CEE, che non prevedeva vincoli di specializzazione, e allineandosi con le norme vigenti nella maggior parte degli Stati membri; ne è conseguita l’eliminazione delle disparità di trattamento esistenti tra esponenti di diversi enti, in quanto incompatibili con i predetti principi cui si è ispirato il decreto, con l’introduzione, per tutti gli intermediari del settore, di una disciplina organica e unitaria della fattispecie dell’assunzione di obbligazioni da parte degli esponenti aziendali, senza distinzioni tra categorie di enti, che, ad opera del decreto, vengono fatti tutti rientrare nella generale denominazione di «enti creditizi».

Nonostante l’identità di contenuto tra il comma 1 del vecchio art. 38 l.b., e l’art. 36 d.lgs. 481/1992, quest’ultimo ha occupato un ambito di applicazione molto più ampio in quanto intervenuto in un momento successivo all’introduzione in Italia del modello del gruppo creditizio plurifunzionale (avvenuta ad opera della l. 30 luglio 1990, n. 218), estendendo a quest’ultimo, la disciplina del conflitto di interessi, arricchendola dell’osservanza di specifiche formalità (accanto all’autorizzazione del consiglio di amministrazione e al voto favorevole dei membri dell’organo di sorveglianza della società contraente, è richiesto, infatti, anche l’assenso della capogruppo, come ulteriore condizione per superare il divieto).

Il comma 2 dell’art. 36 dichiarava, infatti, applicabili le disposizioni di cui al comma 1 anche a chi svolgeva funzioni di amministrazione, direzione e controllo in una società del gruppo per le operazioni poste in essere con la società di appartenenza o con altre società o ente creditizio del gruppo.

La normativa citata equiparava dunque alle banche le società facenti parte del gruppo, le quali, pertanto, erano sottratte alla disciplina codicistica, più rigida: gli esponenti di società inserite nell’ambito di un gruppo creditizio non erano, pertanto, soggetti al divieto assoluto posto dalla norma del codice civile, ai sensi della quale sarebbe stato ad essi definitivamente impedito di compiere le operazioni previste dalla legge, ma ad essi si applicava il disposto del comma 2 dell’art. 36, avente, in sostanza, natura permissiva di tali operazioni.

Un primo risultato di grande spessore e contenuto è stato già attinto in questa evoluzione con il vero e proprio rinnovamento delle strutture organizzative dell’impresa bancaria, che è stato realizzato dalla legge 30 luglio 1990 n. 218, e con l’attuazione data alla seconda direttiva comunitaria in materia di armonizzazione delle legislazioni bancarie (d.lgs. 14 dicembre 1992 n. 481).

La legge 30 luglio 1990 n. 218 ha operato in duplice direzione.

Su di un piano più generale, è il primo provvedimento di legge che si è proposto di disciplinare il “gruppo”, sia pure con esclusivo riferimento al gruppo bancario.

Con specifico riguardo a questo contesto ha tentato, come si è detto anche nel paragrafo precedente, di offrire una soluzione originale all’antico problema della specializzazione funzionale nell’esercizio dell’attività bancaria, proponendo un “modello di banca ... che non si limiterà alla tradizionale funzione di intermediatrice tra il pubblico dei risparmiatori e quello dei fornitori di credito, ma che estenderà la propria operatività sino a includere in essa una variegata e più completa gamma di servizi”. In sostanza, un modello organizzativo che, a livello strategico, si profila come idoneo a raggruppare una pluralità di imprese, anche ad operatività diversificata, collegate appunto da un interesse di gruppo e, se del caso, attrezzate ad avvalersi, a livello operativo, di comuni terminali.

Inoltre, nel “convincimento” che occorresse procedere “nell’ammodernamento delle strutture finanziarie del nostro Paese e della relativa legislazione “per raggiungere” un adeguato quadro normativo che ne agevoli il perfezionamento e ne accerti, in un quadro di trasparenza, la rispondenza delle operazioni progettate alle esigenze di “razionalizzazione del sistema creditizio”, la legge 218/1990 ha riorganizzato la “presenza pubblica nel nostro apparato creditizio”[8], all’uopo predisponendo gli strumenti normativi per la conversione in S.p.A. degli enti creditizi pubblici. In sostanza, il modello della società per azioni viene proposto, in questa riorganizzazione delle strutture bancarie conseguente all’abbandono delle forme organizzative pubblicistiche, quale modello esclusivo - a parte la forma delle società cooperative per le banche cooperative - dell’impresa bancaria; e addirittura rimangono spazi a che venga prospettata una specifica caratterizzazione della società per azioni bancaria onde eleggerla come tipo a se, proprio dell’organizzazione dell’impresa bancaria[9].

E se ciò è, dichiaratamente, “al fine di superare i limiti dell’attuale configurazione giuridica degli istituti di credito pubblici”, la scelta non rimane circoscritta al superamento della dicotomia banca privata banca pubblica, ma travolge del tutto la preesistente, articolata tipologia degli enti creditizi.

Il legislatore, infatti, nel portare alle sue coerenti conseguenze l’elezione della forma giuridica a suo tempo operata dall’art. 30, primo comma, r.d.l. 12 marzo 1936 n. 375, ha colto l’occasione per teorizzare che “la forma societaria risulta la più idonea per l’esercizio dell’attività di impresa. 

Tale soluzione si raccomanda inoltre per la maggiore snellezza operativa che il modello societario consente di ottenere, nonché per la maggiore certezza in tema di responsabilità degli amministratori, per la superiore trasparenza nei confronti dei terzi e per la rilevantissima funzione che il principio dell’interesse sociale può giocare allo scopo di preservare la società da finalità ad essa esterne. 

Va considerato inoltre che la società per azioni costituisce il modello istituzionale più simile a quelli presenti sui mercati internazionali e che la sua diffusione universale le consente un continuo adeguamento all’evoluzione del mercato”[10].

La l. 218/1990 rende già pienamente configurabili quelle che saranno le strutture operative poi consolidate dal T.U.: all’articolata tipologia di enti creditizi[11] si sostituiscono solo tre tipi di imprese bancarie, la s.p.a., la banca popolare (art. 29 T.U.), la banca di credito cooperativo (art. 33 del T.U.).

Queste ultime due costituite, come detto, secondo le forme della società cooperative. 

La materia delle predette obbligazioni degli esponenti aziendali è attualmente regolata dall’art. 136 del  t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1o settembre 1993, n. 385), entrato in vigore il 1°  gennaio 1994, che mutua integralmente il testo del citato art. 36, ma contiene un’importante precisazione in ordine alla questione dell’eventuale incidenza di una pluralità di astensioni sull’«unanimità» richiesta per le deliberazioni degli organi della società contraente; viene affermata al comma 1, l’inderogabilità di una deliberazione unanime, precisa: «fermi restando gli obblighi di astensione previsti dalla legge».

L’art. 136 t.u. elimina, così, i dubbi che potevano sorgere in passato, in mancanza di un espresso chiarimento a livello normativo, sulla configurabilità dell’unanimità dei consensi in presenza dell’astensione anche di qualche altro consigliere o sindaco, oltre a quella di colui che ha dichiarato l’interesse personale nell’operazione de qua.

 

2. L’art. 136 TUB.

Rientrano nella previsione dell’art. 136, comma 1°, quindi, incompatibili con l’unanimità richiesta:

1.        l’astensione di altri eventuali soggetti personalmente interessati alla medesima operazione; in questo caso l’astensione è dovuta, proprio per la presenza dell’interesse personale;

2.        l’astensione di chi sia solo in potenziale conflitto di interessi ai sensi dell’art. 2391 c.c., senza un personale interesse; anche in quest’ultima ipotesi, infatti, l’astensione è obbligatoria e l’obbligo nasce dall’art. 2391 c.c. e risale a un’oggettiva possibilità di conflitto derivante da particolari situazioni del soggetto che si astiene. Pertanto, le molteplici astensioni conseguenti alla coesistenza di diversi conflitti di interessi in relazione alla medesima operazione, con riferimento all’art. 136 t.u. per qualche soggetto e all’art. 2391 c.c. per altri, non incidono sulla richiesta unanimità e non inficiano l’eventuale deliberazione assunta, in quanto derivano tutte da obblighi di legge e non risalgono ad un giudizio sull’operazione de qua.

Gli artt. 36 d.lgs. 481/1992 e 136 t.u.b. non collimano, tuttavia in ordine alle operazioni per le quali è necessaria l’osservanza delle formalità prescritte: mentre l’art. 36 si riferisce alle obbligazioni di qualsiasi natura e agli atti di compravendita posti in essere, direttamente o indirettamente, con la società di appartenenza o altra società o un ente creditizio del gruppo, l’art. 136 t.u. ripete il riferimento a tali operazioni solo per quanto concerne i rapporti con la banca o società di appartenenza, mentre limita i rapporti con altra banca o con altre società del gruppo alle sole «operazioni di finanziamento».

Quanto al conflitto di interessi all’interno del singolo ente creditizio, la relativa disciplina è rimasta immutata e vi è concordanza anche tra le Istruzioni di vigilanza emanate di volta in volta dalla Banca d’Italia; pertanto, la giurisprudenza e la dottrina formatesi sotto il vigore dell’art. 38 l.b. sono perfettamente riferibili anche al disposto degli artt. 36, comma 1o, d.lgs. 481/1992 e 136, comma 1, t.u.

La finalità della norma in esame è quella di evitare conflitti di interessi tra enti creditizi e persone ad essi preposte, impedendo, in questo modo, che il soddisfacimento degli interessi personali dei soggetti indicati dalla norma contrasti con l’esigenza di garantire una sana amministrazione degli enti stessi[12]: trattandosi, infatti, dei massimi esponenti centrali dell’ente, che, in virtù delle cariche di vertice da essi ricoperte, hanno rilevante peso nelle decisioni aziendali, il legislatore ha voluto scongiurare un’eventuale strumentalizzazione dell’ente stesso per il profitto personale di tali soggetti.

L’art. 136, volto alla tutela della consistenza patrimoniale dell’azienda di credito e, tramite essa, alla tutela dell’interesse dei depositanti[13], vieta di compiere qualsiasi operazione in cui l’esponente bancario sia direttamente o indirettamente controparte della banca, dunque qualsiasi operazione in cui possa insorgere un conflitto di interessi.

L’art. 136 utilizza una tecnica diversa rispetto a quella adottata dal codice civile per gli amministratori di società, agli artt. 2391 e 2631. Si ritiene, infatti, pur non essendo pacifico in dottrina, che il divieto contenuto nel codice civile sia operativo solo se si verifichi un concreto conflitto di interessi, ovvero solo se risulti che l’amministratore abbia fatto effettivamente prevalere l’interesse personale a scapito di quello sociale, e ciò anche quando egli assuma personalmente la posizione di controparte nell’operazione, perché anche in questo caso occorre verificare l’astratta contrapposizione di posizioni e se essa abbia influito concretamente sull’esercizio del diritto di voto[14]. 

Diversamente, l’art. 136 vieta di compiere qualsiasi atto con la banca, indipendentemente dall’effettivo contenuto e dalle modalità concrete dell’atto stesso: il divieto scatta sulla base della mera contrapposizione formale di posizioni, quindi anche nell’ipotesi in cui le condizioni dell’atto si rivelino vantaggiose per la banca[15].

L’operatività del divieto, viene meno in presenza dell’autorizzazione del consiglio di amministrazione, accompagnata dal voto favorevole di tutti i componenti l’organo di controllo. Quanto alle modalità della prima condizione, la norma prescrive che la deliberazione venga adottata all’unanimità; secondo quanto dispongono le Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia, perché ci sia unanimità, è sufficiente che essi intervengano in numero tale da rispettare il quorum richiesto per la validità della deliberazione e che tutti i presenti, senza alcuna astensione, eccetto quelle   dovute, sulla   base   di   obblighi   previsti  dalla  legge [16], votino  a  favore dell’operazione[17].

 

3. La validità delle deliberazioni: requisiti.

La dottrina si è posta la questione se, nel computo del quorum richiesto per la validità della deliberazione, debba essere compresa anche la persona interessata all’operazione; a tale interrogativo si è data risposta affermativa, argomentando generalmente dal principio desumibile dall’art. 2373 c. c., ai sensi del quale le azioni del socio, cui non è consentito partecipare alla votazione perché in conflitto di interessi con la società, sono computate ai fini della regolare costituzione dell’assemblea, anche se taluno sottolinea che ragioni di opportunità consiglierebbero di evitare che tali deliberazioni vengano adottate con un numero così esiguo di partecipanti da rendere necessario comprendere nel computo delle presenze anche l’interessato; tuttavia, in questo caso, l’eventuale rinvio della deliberazione conseguirebbe non ad un’impossibilità giuridica, ma a considerazioni di opportunità pratica [18].

Come puntualizzano le Istruzioni di vigilanza, l’unico organo competente a deliberare sull’autorizzazione dell’operazione è normalmente il consiglio di amministrazione, non essendo legittimato a ciò un organo delegato (comitato esecutivo o amministratore delegato), per quanto vaste siano le sue competenze[19], se queste ultime siano frutto di delega e non di autonomo potere radicato in norme di legge o di statuto[20].

In aggiunta all’unanimità dei consensi dei membri presenti al consiglio di amministrazione, si richiede, come ulteriore condizione perché la situazione di conflitto non rilevi, l’assenso di tutti i componenti l’organo di sorveglianza.

Quanto alle modalità di manifestazione di tale parere, la legge non richiede che esso sia espresso contestualmente alla deliberazione dell’organo amministrativo (nel qual caso risulterebbe nello stesso verbale del consiglio): devono esprimere parere favorevole non soltanto i membri presenti alla seduta del consiglio che autorizza l’operazione, ma «tutti» i componenti l’organo di controllo, come si desume dall’esplicita dizione della legge[21].

Gli assenti possono, quindi, esprimere il proprio voto anche in seguito e il loro assenso non può essere presunto, ma deve, al contrario, essere sempre documentato: la Banca d’Italia dispone che l’approvazione dell’assente vada formalizzata in un documento scritto, che deve essere conservato agli atti dell’ente, e debba risultare nel verbale relativo alla successiva riunione del consiglio.

L’assenso richiesto dalla legge deve provenire da «tutti i membri effettivi dell’organo di controllo», in quanto ai supplenti spetta solo di sostituire i membri effettivi nelle ipotesi di vacanze non temporanee che si determinino nel corso dell’esercizio, come puntualizza la Banca d’Italia, seguita anche dalla dottrina, o, come precisa qualche autore, da tutti i membri dell’organo di controllo che, in quel momento, svolgono funzioni effettive, cioè non solo dai sindaci effettivi ma anche da quei supplenti che sostituiscono componenti effettivi, temporaneamente o definitivamente impediti.

A consiglieri e sindaci, ai quali congiuntamente e in via esclusiva è attribuito il potere di autorizzare le operazioni vietate dalla legge, spetta di valutare se la singola operazione, pur rientrando nello scopo sociale, sia in qualche modo rischiosa per l’ente; non sono fissati precisi criteri di valutazione cui gli organi autorizzanti debbano attenersi nel decidere sull’opportunità di stabilire il rapporto e l’unico principio pare essere quello della «convenienza» dell’operazione per l’ente stesso.

Mentre, però, nell’ipotesi di obbligazioni dirette, l’interesse personale dell’esponente aziendale, con il conseguente pericolo presunto per la banca, non ha bisogno di essere accertato, per le obbligazioni indirette è il consiglio di amministrazione che deve verificare la sussistenza di tale interesse.

Di conseguenza, per le obbligazioni dirette è sempre necessaria l’adozione di una delibera di autorizzazione del consiglio di amministrazione, il cui giudizio verte solo sull’opportunità e sulla rischiosità dell’operazione; quando si tratti, invece, di obbligazioni indirette, al consiglio spetta non solo tale giudizio, ma anche di valutare se nell’operazione ricorra o meno un’obbligazione indiretta e, dunque, se la delibera debba essere assunta con le formalità previste dall’art. 136, piuttosto che nella forma ordinaria.

Tale accertamento, come ricordano le Istruzioni della Banca d’Italia, va condotto con l’astensione del consigliere che si presume interessato, secondo il principio generale espresso dall’art. 2391 c.c., per il quale l’amministratore che è interessato all’operazione deve astenersi dal partecipare alla relativa deliberazione.

 

4. Le operazioni che i soggetti i quali svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo in enti creditizi non possono compiere.

La formula adottata dal legislatore per indicare le operazioni che i soggetti i quali svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo in enti creditizi non possono compiere è molto vasta: essa si estende a tutte le obbligazioni in genere e anche, in particolare, ai negozi di compravendita.

Dottrina e giurisprudenza sono divise nel valutare se l’espressione «contrarre obbligazioni» si riferisca all’instaurazione di qualunque rapporto giuridico tra la banca e l’esponente aziendale, ivi comprese le obbligazioni a carico della banca.

L’interpretazione restrittiva ricomprende nel divieto solo quei rapporti dai quali derivino obbligazioni a carico dell’esponente nei confronti dell’ente creditizio.

A giudizio dei sostenitori di tale tesi, quindi, l’espressione non indica un qualsivoglia rapporto giuridico, ma si riferisce solo alle operazioni che comportino un rischio per l’azienda di credito; rischio derivante dalla posizione debitrice assunta dall’esponente (l’ipotesi tipica è il mutuo).

La distinzione tra operazioni vietate e operazioni consentite si fonda, appunto, sulla presenza o meno dell’elemento del rischio: poiché la norma mira alla tutela della consistenza patrimoniale dell’ente, non vi sarebbe motivo per vietare operazioni che non comportino alcun pericolo per il patrimonio dell’ente stesso.

La conseguenza che discende da questa impostazione è che nulla osta ai rapporti unilaterali in cui l’esponente aziendale assuma la veste di creditore, mentre sono sempre vietati i rapporti bilaterali, in cui egli non può non essere anche debitore dell’ente di appartenenza.

Al contrario, secondo la tesi estensiva, l’espressione «contrarre obbligazioni» sta ad indicare l’instaurazione di qualsiasi rapporto giuridico di carattere patrimoniale; è, quindi, comprensiva tanto delle ipotesi in cui la banca sia soggetto attivo del rapporto, quanto di quelle in cui sia soggetto passivo.

Rientrano, dunque, nel divieto anche le obbligazioni a carico dell’ente creditizio (come il deposito o il conto corrente), che di per sé non comportano un pericolo per l’ente stesso.

A tale interpretazione consegue, contrariamente a quanto rilevato dalla tesi restrittiva, che rientrano in ogni caso nel divieto normativo non solo le obbligazioni bilaterali, ma anche quelle unilaterali, chiunque sia la parte su cui gravi il comportamento dovuto.

Entrambe le tesi si fondano sulla lettera della legge, ma divergono per la diversa interpretazione che esse danno, in particolare, del medesimo termine.

Pare evidente che la divergenza nasce dal fatto che ciascuna di esse attribuisce un diverso significato al termine «obbligazione»: nella tesi restrittiva, il termine è usato per indicare la posizione passiva del soggetto obbligato; in quella estensiva, invece, «obbligazione» è intesa nel senso di un rapporto giuridico tra due parti, in virtù del quale grava, su una di esse o su entrambe, l’obbligo di eseguire una determinata prestazione.

Ad avviso di chi scrive, la tesi restrittiva è l’unica che appaia fondata sotto il duplice profilo dell’interpretazione letterale della norma e della ratio che ne è a base.

Se l’evoluzione dell’ordinamento bancario, soprattutto a partire dall’ultimo scorcio degli anni quaranta, viene considerata con riguardo all’interpretazione che ai suoi istituti ed alle sue norme è stata data dalla giurisprudenza, evento sicuramente più rilevante è da ritenere la sentenza delle SS.UU. penali della Cassazione 29 maggio - 7 luglio 1987, che ha definitivamente riconosciuto all’attività bancaria natura di attività imprenditoriale, che si svolge secondo schemi negoziali ed è assoggettata a disciplina di diritto privato.

Nella evoluzione della legislazione bancaria italiana, e non solo italiana, rilievo del tutto peculiare ha assunto il complesso di normative che si sono formate nella sede comunitaria.

Oltre alle due grandi direttive di coordinamento delle legislazioni bancarie, la direttiva 12 dicembre 1977 n. 780, della quale si è già detto e la direttiva 15 dicembre 1989 n. 646, che costituisce argomento centrale di questi paragrafi, la legislazione bancaria del nostro e degli altri Paesi aderenti alla Comunità è stata interessata da un complesso ormai rilevante di disposizioni, il cui insieme già costituisce un sistema organico di norme per la disciplina armonizzata del settore nei nostri Paesi; presupposto necessario, questo, per il mercato unico bancario, entrato in vigore il 1° gennaio 1993[22]

La citata direttiva 13 giugno 1983 n. 350 ha regolato la vigilanza su base consolidata degli enti creditizi; la direttiva 20 dicembre 1985 n. 611, modificata dalla direttiva 220/ 88, ha coordinato le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative in materia di investimento collettivo in valori mobiliari (fondi comuni); la direttiva 8 dicembre 1986 n. 635, anche modificando la precedente direttiva 350/1983, ha riguardato i conti annuali ed i conti consolidati delle banche e degli altri istituti finanziari; la direttiva 17 aprile 1989 n. 299 ha perseguito un “ravvicinamento delle norme vigenti nei principali Paesi in materia di allineamento dei fondi propri”; la direttiva 18 dicembre 1989 n. 647, “considerando... che l’adozione di norme comuni di solvibilità sotto forma di un coefficiente minimo avrà come effetto di prevenire le distorsioni di concorrenza e di rafforzare il sistema bancario comunitario”, ha dettato disposizioni relative al coefficiente (minimo) di solvibilità degli enti creditizi; la direttiva 6 aprile 1992 n. 30 ha notevolmente esteso, tra l’altro allargandolo ai gruppi bancari e a tutte le attività definite nell’allegato alla seconda direttiva di armonizzazione delle legislazioni bancarie, il campo di applicazione della citata direttiva 13 giugno 1983 n. 350 e si è integralmente sostituita ad essa; la direttiva 21 dicembre 1992 n. 121, nel presupposto che sia pregiudizievole un’eccessiva concentrazione dei fidi per la solvibilità degli enti creditizi, ha disposto una disciplina “vincolante applicabile a tutti gli enti creditizi della Comunità” per la vigilanza ed il controllo dei grandi fidi degli enti creditizi; la direttiva 30 maggio 1994 n. 19, anche sovrapponendosi ad una precedente “raccomandazione” del Consiglio CEE (22 dicembre 1986), ha predisposto una base di norme per regolare i sistemi di garanzia dei depositi. 

L’elencazione che precede rende evidente come lo sforzo delle istanze comunitarie per un ordinamento comune del settore bancario si sia concretizzato soprattutto negli anni a partire dal 1989.

Esso è venuto così a coincidere temporalmente con la conclusione dell’evoluzione dell’ordinamento italiano verso l’affermazione della natura imprenditoriale delle banche e verso l’apertura del nostro sistema al mercato, alla concorrenza, alla competitività[23].

Anche se non specificamente riguardante il settore bancario, è importante ricordare qui, per i suoi collegamenti con il diritto comunitario (cfr., ampiamente, Donativi, Impresa e gruppo nella legge antitrust, Milano 1996), per le sue connotazioni e la sua stessa impostazione la legge (c.d. antitrust) 10 ottobre 1990 n. 28 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato).

Il momento fondamentale nel passaggio al nuovo ordinamento è segnato dall’attuazione data alla seconda direttiva del Consiglio C.E. (15 dicembre 1989 n. 646) relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio (art. 25 legge n. 142 del 1992 e decreto legislativo n. 481 dello stesso anno). 

In verità, per quanto riguarda l’Italia, il lungo cammino che nel frattempo era stato percorso dall’ordinamento, dalle istituzioni e dagli operatori contribuisce a spiegare come l’impatto di detta direttiva con la nostra legislazione, non richiedesse, sul piano strettamente giuridico e con riferimento all’adempimento degli obblighi comunitari, modificazioni radicali né particolarmente incisive della normativa allora vigente.

In buona sostanza, la sua recezione avrebbe imposto, soltanto da un punto di vista formale, la soppressione dell’autorizzazione per l’apertura di dipendenze (apertura, infatti, in gran parte già liberalizzata) con il corollario della soppressione per gli enti creditizi non nazionali ma di origine comunitaria del c.d. fondo di dotazione e l’impegno, analogamente a tutti gli altri Stati membri, di vigilare a che le attività ammesse a beneficiare del riconoscimento reciproco potessero essere esercitate in tutti gli Stati della Comunità allo stesso modo che nello Stato d’origine. 

Nonostante ciò, dalla seconda direttiva e dalla sua attuazione è derivato, come è stato posto in evidenza, “il passaggio dalle modifiche puntuali alla trasformazione organica” della nostra legislazione bancaria: “essa significò (infatti) la nascita di una legge bancaria europea sovraordinata alle legislazioni nazionali.

Ciò fu fatto attuando nel settore bancario i due fondamentali principi dell’integrazione comunitaria affermati nel libro bianco del 1985: l’armonizzazione minima, cioè una piattaforma di regole prudenziali comuni, e il mutuo riconoscimento, cioè l’accettazione da parte di ogni Paese delle norme dell’ordinamento d’origine della banca ospitata”[24].

In sostanza, la “seconda direttiva” e ancor più il decreto legislativo delegato, che detta direttiva ha recepito nel nostro ordinamento, costituiscono al medesimo tempo gli antecedenti immediati del testo unico e l’occasione della quale si è avvalso il legislatore per completare e rendere organico quel processo di riforma del sistema bancario e del suo ordinamento che, nella sintesi dianzi delineata dei fatti salienti occorsi negli ultimi decenni, si è visto essersi gradualmente sviluppato. 

Esplicitamente proponendosi come lo strumento essenziale per la realizzazione del mercato interno decisa con l’Atto unico del 1985 e programmata nel c.d. libro bianco della Commissione, la seconda direttiva aveva avuto di per se il merito, come espressione di volontà comunitaria, di gettare le basi per una disciplina armonizzata dell’attività di intermediazione bancaria in tutto il mercato comunitario, svolta in condizioni di piena competitività tra gli operatori, quale che fosse la loro nazionalità d’origine[25]

L’effetto forse più rilevante - da ricollegare, però, direttamente all’adesione piena allo spirito della direttiva nel suo complesso, più che a sue singole disposizioni o a singole disposizioni del provvedimento legislativo di sua attuazione - è che, sul piano dei rapporti in sede comunitaria, essa ha comportato l’accettazione anche da parte italiana dei due principi fondamentali, tra loro correlati, che sono alla base del mercato unico bancario.

Anzitutto, le banche aventi sede nella comunità possono esercitare in tutti gli Stati le attività loro statutariamente proprie, purché esse rientrino nella definizione dettata dal suo art. 1, sostanzialmente conforme a quella tradizionale dell’ordinamento italiano, e le attività svolte siano comprese nell’elenco ad esso articolo allegato (v. ora art. 1, comma 2, lett. f) del T.U. 385/1993).

In secondo luogo, le responsabilità in materia di vigilanza sulla solidità finanziaria e in particolare sulla solvibilità delle singole banche, dovunque l’attività venga esercitata, competono alle autorità dello Stato d’origine, dove cioè la banca ha la sua sede sociale (home country control). È stata così realizzata nei fatti la voluta situazione di piena competitività tra banche nazionali e banche degli altri Paesi aderenti[26].

Se poi la si colloca nel momento storico in cui fu pronunciata - momento particolarmente ricco di studi in materia bancaria e finanziaria, e già fecondo di progetti di modifica e di ristrutturazione del settore e delle istituzioni in esso operanti, segnato da significative aperture al nuovo sul piano legislativo e ancor più dagli impulsi che venivano dalla legislazione comunitaria - nella medesima decisione, adottata al più elevato livello della giurisdizione penale, si può ben rinvenire anche il riflesso dell’acquisizione da parte dell’ordinamento della consapevolezza che il nuovo regime che si viene a configurare per le banche, ormai operanti in condizioni di competitività sul mercato nazionale e in quello internazionale, sarebbe stato incompatibile con moduli organizzativi e istituzionali non propri o non più appropriati.

Sotto questo profilo, anzi, appare corretto porre la sentenza del 1987, unitamente alle riflessioni che da tempo si svolgevano per una più armonica architettura della struttura e dell’organizzazione bancaria nel Paese v. Libro Bianco della Banca d’Italia, Ordinamento degli enti pubblici creditizi, Roma 1981[27], tra i punti di partenza per la successiva elaborazione della nuova figura di banca, quale si affermerà poco dopo con la l. 218/ 1990 e con lo stesso Testo Unico[28].

Come la giurisprudenza e la dottrina più attente ai processi evolutivi del sistema bancario[29] hanno posto in evidenza, questa concezione ordinamentale di banca sin dall’inizio emergeva, coerente, dai principi che informano la disciplina dell’esercizio delle attività economiche ivi compresa, tra queste, l’attività bancaria nonché dai principi generali dell’ordinamento (art. 2195 c.c.) e della stessa legislazione di settore[30]

Nell’ampio mercato europeo che si è visto da tempo venir progressivamente costruito, ed è ora ben delineato, diviene ius receptum, in sede giurisdizionale non meno che sul piano operativo e nella ratio che ispira le riforme legislative, che l’attività bancaria non può più essere considerata assoggettabile ad un regime singolare, costretta in formule organizzative che in qualunque modo possano sottrarla alle regole della competitività, della concorrenza; rimane, e date le sue caratteristiche non può essere altrimenti, attività preordinata all’assolvimento di una funzione centrale nell’economia, ma è pur sempre inserita a pieno titolo nel mercato, opera sul mercato, con gli strumenti e secondo i modi tipici del mercato.

In questa rassegna retrospettiva degli eventi che più hanno segnato il cammino percorso dalla giurisprudenza nell’interpretazione dell’ordinamento bancario nella sua graduale evoluzione non possono, però, non essere posti in rilievo - oltre l’indiretta affermazione della costituzionalità della procedura di liquidazione coatta amministrativa[31] - il riconoscimento della tutela assicurata al risparmio raccolto tra il pubblico e all’esercizio dell’attività bancaria[32].

Tale riconoscimento ha anticipato, sul piano penale, la più articolata protezione oggi assicurata dal T.U. contro ogni forma di abusivismo bancario (artt. da 130 a 133) e, sul piano delle misure amministrative, l’assoggettamento a liquidazione coatta amministrativa anche delle cc.dd. banche di fatto[33]

 

5. Il d.lgs. 14 dicembre 1992 n. 481.

Quanto al più volte citato decreto legislativo 14 dicembre 1992 n. 481, che ha recepito nella nostra legislazione la seconda direttiva, in questa sede non può andarsi oltre la mera indicazione degli elementi che sembrano qualificanti delle scelte nell’occasione compiute dall’ordinamento. È rimasta ferma la tradizionale nozione di attività bancaria, che si riassume, come sotto altro profilo si è già anticipato, nel congiunto esercizio delle attività di raccolta del risparmio e di impiego in operazioni di credito; attività che continua ad essere riservata (art. 2, comma 2), unitamente alla (sola attività di) raccolta di risparmio tra il pubblico (art. 3, comma 2), esclusivamente alle imprese bancarie. Si è però ammesso, analogamente a quanto già avveniva negli ordinamenti di altri Paesi comunitari, che le banche possano svolgere, purché previste nei rispettivi statuti, le attività che beneficiano del mutuo riconoscimento tra i Paesi comunitari (v. ora art. 1, comma 2, lett. f del T.U.). 

Sono state stabilite, inoltre, riserve di attività a favore di talune categorie di operatori finanziari specializzati: S.I.M., società di gestione di fondi comuni, SICAV (art. 5, comma 2). 

Tutto ciò, da un lato, ha ampliato notevolmente il novero dei servizi che possono essere prestati dalle banche (e nei quali vengono a risultare compresi gran parte di quelli che erano stati evidenziati dall’innovazione finanziaria) ed è suscettibile, quindi, di incidere sulla stessa configurazione dell’attività da esse esercitata; dall’altro, ha accresciuto tra gli intermediari la competitività, introducendo nel sistema nuovi operatori e nuove categorie di operatori, comunque concorrenti delle banche per una parte almeno delle loro attività (art. 5). 

L’eliminazione della specializzazione operativa degli enti creditizi ha reso superata una delle caratteristiche che può essere considerata tipica del sistema creditizio italiano già anteriormente alla legislazione del 1926[34]. Tale caratteristica, che aveva trovato un preciso fondamento sistematico nella legislazione del 1936 (artt. 5 e 41 e segg.), si è poi largamente affermata nella prassi operativa degli anni successivi[35].

Il superamento di detta caratteristica ha consentito che le imprese bancarie, dopo che la legge 218/90 aveva offerto loro il modello organizzativo del gruppo polifunzionale, potessero adottare anche il più diffuso modello organizzativo della banca universale.

Il che ha collocato gli operatori bancari italiani, finalmente, in una situazione, prima desueta, di piena competitività con i concorrenti appartenenti ad altri ordinamenti, e non solo per quanto attiene alle operazioni ed ai servizi che possono essere forniti alla clientela. 

La possibilità di prescindere dalla specializzazione nel credito segna, infatti, un forte impulso per la razionalizzazione e l’ammodernamento del sistema sul piano operativo, oltre che sul piano organizzativo, ponendo inoltre i presupposti perché, anche per tal via, le imprese bancarie possano recepire i progressi consentiti dalle nuove tecniche dell’operatività finanziaria e dalla tecnologia.

Determinate forme di provvista, ivi compresa anche la raccolta di risparmio mediante obbligazioni emesse dalle banche e quindi sottratte alla disciplina dettata dal codice civile, vengono estese a tutti gli operatori bancari, secondo una disciplina uniforme.

Per contro, anche le operazioni di credito che un tempo erano riservate agli istituti specializzati, vengono consentite a tutti gli operatori bancari, beninteso nel rispetto delle disposizioni di legge che le disciplinano, alla sola, ovvia, condizione che siano previste nei rispettivi statuti[36].

È stato soppresso ogni intervento autorizzativo sulla distribuzione territoriale delle banche (è sostanzialmente scomparso, quindi, il controllo sulla competenza territoriale degli operatori bancari; ma, per le banche di credito cooperativo, v. art. 35 T.U.) e, fermo il principio dell’autorizzazione, è stato consentito l’accesso all’attività bancaria a tutti gli operatori che si costituiscano nelle forme giuridiche richieste e posseggano i previsti requisiti. Il principio dell’home country control crea il presupposto perché l’insediamento bancario sia consentito alle banche comunitarie in tutto il territorio C.E. 

Infine, si è individuata nella società per azioni la forma di organizzazione elettiva dell’impresa bancaria; e ciò si è fatto riconfermando una scelta che era già evidente nella legislazione del 1936 (art. 30, primo comma) e portando a coerenti conseguenze la logica che aveva ispirato la legge Amato-Carli.

Accanto alla forma della società per azioni si è lasciata sopravvivere unicamente, ma non può essere considerata un’eccezione, considerata la sostanziale coincidenza degli elementi portanti della struttura e del funzionamento, la società cooperativa. Alle tante categorie di banche, quasi su misura per ciascuna categoria di utenti dei servizi bancari o per ciascun tipo di credito, quali sono elencate, rispettivamente, negli artt. 5 e 41 della legge del 1936, si sono così sostituite esclusivamente le società per azioni e le società cooperative (banche popolari e banche di credito cooperativo). 

Ovviamente, la natura privata dell’attività si riflette anche sul regime nel quale operano le imprese che la esercitano[37].

Questa sentenza - presto seguita da altre sostanzialmente conformi, sì che l’orientamento può ormai dirsi consolidato (Corte Cost. 10 - 17 marzo 1988, n. 309; Cass. SS.UU. penali 28 febbraio - 7 luglio 1989, sentenze nn. 1 e 4) - ha segnato il ribaltamento della precedente, prevalente giurisprudenza, come espresso nella sentenza 10 ottobre 1981, pure delle SS.UU. penali della Cassazione.

Quest’ultima, dopo oltre trent’anni di incertezza e contrastanti pronunce prevalentemente dei giudici di merito, aveva ricondotto, invero, l’attività operativa delle banche negli impropri schemi pubblicistici del pubblico servizio, sia pure inteso nella riduttiva nozione di pubblico servizio in senso oggettivo; nozione ormai da tempo identificata dalla dottrina amministrativa[38].

È da notare, però, che la dottrina di settore, della quale avevano ampiamente tenuto conto i giudici del 1981, nel riferire talvolta tale nozione anche all’attività bancaria, aveva perseguito la finalità dichiaratamente opposta di evitare agli esponenti delle banche l’applicabilità delle norme penali sugli incaricati di pubblico servizio, correttamente ritenendo che quel risultato si potesse ottenere solo con una non consentita estensione delle norme penali.

Alla tesi della natura pubblicistica dell’attività bancaria, va ricordato, si era sempre opposta la dominante dottrina, sia prima[39] che dopo la citata sentenza dell’ottobre 1981[40]

In sostanza, si era venuta a determinare una divaricazione tra prevalente giurisprudenza e prevalente dottrina; quest’ultima, invero, aveva tenuto ben fermo che il modulo originario dell’ente creditizio era sicuramente quello imprenditoriale privato, come tale costruito e disciplinato dalla legge bancaria, calibrato sulle forme societarie, espressamente previsto per le aziende di credito dall’art. 2195 c.c.[41].

Alla sentenza 29 maggio - 7 luglio 1987 delle SS.UU. penali della Cassazione va pertanto riconosciuto il merito di aver segnato il punto d’arrivo della precedente elaborazione, anche legislativa, sul delicato tema della natura giuridica dell’attività bancaria.

Con essa la giurisprudenza ha posto finalmente termine a un dibattito ben più che trentennale e ha preso definitivamente atto che, come affermato nell’esordio stesso del d.p.r. 350/1985, “l’attività di raccolta del risparmio tra il pubblico sotto ogni forma e di esercizio del credito ha carattere d’impresa, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti che la esercitano”.

Sotto il primo profilo, infatti, mi sembra meritevole di particolare rilievo la circostanza che il divieto di contrarre obbligazioni sia letteralmente rivolto solo all’esponente aziendale e non anche alla banca, con ciò già evidenziandosi che il legislatore ha inteso vietare soltanto l’assunzione di un’obbligazione passiva in capo all’esponente e non analoga obbligazione passiva in capo all’azienda.

Sotto il secondo profilo, poi, è palese che la norma ha voluto tutelare la banca da possibili situazioni di danno che l’esponente bancario potrebbe porre in essere valendosi della propria particolare qualifica all’interno dell’azienda.

Nell’interpretazione, quindi, entrambi i profili vanno tenuti presenti e portano a concludere che una mera obbligazione passiva a carico della banca resta fuori dall’ambito applicativo della norma.

Invero, l’art. 136 t.u. ha a fondamento la stessa ratio, consistente nella necessità di evitare un rischio per l’ente, dell’art. 2624 c.c. ed è evidente che sono esclusi dalla previsione di quest’ultimo articolo del codice civile i depositi presso la società di appartenenza: tale norma, prevedendo espressamente solo prestiti e garanzie, ha voluto colpire solo le fattispecie in cui l’esponente aziendale sia soggetto passivo del rapporto.

È stato sostenuto che, nel caso in cui l’esponente aziendale abbia contratto le obbligazioni con l’azienda di credito prima di essere investito della carica, ci si trovi al di fuori del divieto di cui agli articoli in esame.

Non avrebbe senso sottoporre nuovamente al giudizio del consiglio di amministrazione e dei membri del collegio sindacale dei rapporti in corso che già in passato sono stati considerati convenienti per l’ente, tanto più che, nel momento in cui sono sorti, il soggetto non poteva ancora approfittare di una posizione di potere.

A mio avviso, peraltro, tale interpretazione può essere accolta solo se si tratta di rapporti che nel tempo non mutino né relativamente ai presupposti, né in termini di condizionamenti applicati (si pensi, per esempio, a un mutuo ipotecario a tasso fisso con scadenza determinata).

Viceversa, non mi sembra accoglibile la tesi per il caso di rapporti che mutino nel tempo o che, giunti a scadenza, debbano essere rinnovati, perché, in tale ipotesi, l’esponente può servirsi della propria posizione di potere non solo nell’instaurare rapporti con l’ente, ma anche nello svolgimento di rapporti già intercorrenti con esso.

In giurisprudenza, a proposito del contratto di apertura di credito bancario, si è sostenuto che il reato si configuri anche nel caso in cui, una volta stipulato il contratto, non segua alcun atto di utilizzo.

Quest’ultimo, infatti, non è condizione per la perfezione del contratto, che è perfetto nel momento in cui la banca comunica al cliente l’accettazione della sua richiesta; è da quel momento, infatti, che sorge per la banca l’obbligo di messa a disposizione delle somme per il periodo pattuito.

Ed è, in generale, nel momento della delibera di affidamento, sempreché non correttamente assunta, che si identifica il momento consumativo del reato, rimanendo irrilevanti i momenti degli utilizzi delle somme.

Tuttavia, mi sembra si debba precisare che il momento di consumazione del reato si identifica con quello dell’utilizzo nel caso che quest’ultimo sia stato abusivamente attuato senza alcuna delibera preventiva o abbia superato il limite dell’affidamento regolarmente concesso.

La fattispecie criminosa in esame può concretizzarsi anche quando, scaduto il termine prestabilito, si procede alla «rinnovazione» dell’apertura di credito; si ha, infatti, in questo caso, una nuova richiesta da parte del soggetto e una nuova accettazione da parte dell’ente.

Il momento del non regolare «rinnovo», al pari di quello della delibera di affidamento, è il momento consumativo del reato.

Secondo l’espressione testuale della norma, sono oggetto del divieto le «obbligazioni di qualsiasi natura», quindi sia le obbligazioni che hanno origine da operazioni bancarie o finanziarie, sia quelle derivanti da altro genere di operazioni, al di là di ogni distinzione.

Come rilevano le stesse Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia, si ritiene che la norma non sia applicabile nelle ipotesi di servizi bancari, non comportanti erogazione di credito, resi dall’ente creditizio ai propri esponenti aziendali con le modalità in uso, cioè alle condizioni standardizzate praticate alla clientela o ai dipendenti: non ha qui alcun rilievo la qualificazione soggettiva dell’esponente aziendale e non esiste possibilità di conflitto di interessi, che, anzi, non è rilevabile nemmeno in astratto.

Come hanno chiarito per la prima volta le Istruzioni di vigilanza relative all’art. 36 d.lgs. 481/1992, rientrano tra le obbligazioni vietate anche gli incarichi professionali, per i quali in passato si discuteva se rientrassero o no nel disposto dell’art. 38 l.b., in quanto di essi non si faceva espressa menzione.

Ad avviso di chi scrive, dato che anche l’art. 38 parlava di «obbligazioni di qualsiasi natura», è da ritenere che anche in passato il divieto fosse comprensivo di tali obbligazioni.

L’esigenza di evitare di affidare incarichi professionali ad esponenti dell’ente è avvertita, in particolare, dalla Banca d’Italia, a proposito di affidamenti «in forma sistematica ed esclusiva» ed è giustificata con motivi di opportunità.

Si ritiene che rientrino nel divieto anche le obbligazioni assistite da garanzie, reali o personali; esse, infatti, non possono essere escluse a priori dal divieto, ma spetta semmai al consiglio di amministrazione di verificare se l’operazione è assistita da garanzie sufficienti, ai fini della concessione o meno della relativa autorizzazione.

Anzitutto, infatti, non si può affermare a priori che un’operazione è sufficientemente garantita, ma occorre un giudizio che non può non spettare al consiglio di amministrazione; inoltre, escludendo dall’oggetto del divieto le operazioni assistite da garanzie, si introdurrebbe un’eccezione che non è prevista dalla legge.

Non è mancato, tuttavia, chi, sostenendo la liceità delle operazioni non comportanti rischio per l’ente creditizio, ha ravvisato tale mancanza di pe ricolo (e, a fortiori, di danno) nelle operazioni che siano assistite da sufficienti garanzie reali o personali (o da cessione di credito pro solvendo o da mandato all’incasso) e ha dubitato, quindi, che tali operazioni rientrino nel divieto.

In realtà, neppure in tal caso potrebbe ravvisarsi una mancanza di pericolo per l’ente creditizio, perché la garanzia offerta potrebbe poi rivelarsi o divenire insufficiente, fermo peraltro rimanendo che occorrerebbe comunque, in sede di affidamento, valutare la congruità delle garanzie e, per il rischio stesso che tale valutazione comporta, non potrebbe evitarsi l’intervento del consiglio di amministrazione, unico abilitato ai sensi della norma de qua a valutare il rischio complessivo dell’operazione e, quindi, anche quello connesso con la prestazione della garanzia.

È, inoltre, vietato a chi è preposto alla gestione o al controllo di enti creditizi, «compiere atti di compravendita» con l’ente gestito o controllato.

Il divieto è indipendente dal ruolo assunto dall’ente nell’ambito del negozio, sussistendo sia quando l’ente assuma la veste di venditore, sia nelle ipotesi in cui sia compratore, perché in entrambi i casi il conflitto di interessi influisce sull’atto di compravendita, viziando alla base l’equilibrio economico tra le due prestazioni fondamentali del negozio.

Secondo quanto rilevano le Istruzioni di vigilanza, si ritiene che non rientrino nella previsione normativa le operazioni di compravendita di valuta e valori mobiliari negoziati nei mercati regolamentati, quando tali operazioni vengano effettuate alle condizioni standardizzate adottate normalmente con la clientela, a condizione che, se si tratti di acquisto, venga anticipato il prezzo e, nel caso di vendita, i titoli siano preventivamente consegnati.

La ragione dell’esclusione sta nella mancanza di rischio per l’ente: le modalità di attuazione di tali operazioni escludono ogni pericolo per il patrimonio sociale.

 

4. L’art. 136 t.u. vieta di compiere qualsiasi operazione in cui l’esponente sia «direttamente» o «indirettamente» controparte della banca, perché in entrambi i casi vi è il rischio che la persona interessata faccia prevalere il proprio personale interesse su quello dell’ente.

Per comprendere, dunque, in quali situazioni i soggetti indicati dalla norma siano tenuti a seguire la particolare procedura prevista dall’art. 136, è necessario interpretare la dizione della legge, individuando il significato degli avverbi «direttamente» e «indirettamente».

Non sorgono problemi nell’individuazione dell’attività negoziale posta in essere «direttamente»: a parte l’ipotesi dell’esponente aziendale che sia personalmente controparte della banca cui è preposto,  nel qual caso è la stessa persona interessata a contrarre l’obbligazione, si ha assunzione diretta in tutti quei casi in cui vi sia un rapporto tale tra soggetto obbligato o contraente e uno o più esponenti aziendali, per cui questo o questi ultimi siano tenuti a rispondere personalmente ed illimitatamente delle obbligazioni del primo.

Tale ipotesi è espressamente prevista dalle Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia come soggetta al divieto e alla procedura predisposta per la sua rimozione.

Essa ricorre in determinati casi, indicati dallo stesso organo di vigilanza, in cui colui che è preposto a cariche di gestione o di controllo non è personalmente controparte della banca, ma controparte è una società di cui egli sia socio.

La responsabilità che deriva a carico dell’esponente bancario per le obbligazioni assunte dalla società contraente è connessa al tipo di società (società semplice o in nome collettivo) o alla posizione assunta dal socio nell’ambito della società (qualità di socio accomandatario o di azionista unico nelle società di capitali).

La responsabilità illimitata e solidale che deriva all’esponente aziendale, anche se attenuata dal carattere sussidiario della stessa, giustifica la denominazione di obbligazione diretta e la conseguente adozione, in ogni caso, della procedura contemplata dall’art. 136 t.u.

L’interpretazione dell’espressione «indirettamente» ha suscitato, invece, numerosi dubbi e questo, anzi, è forse il punto che ha causato i maggiori problemi interpretativi nella definizione della fattispecie normativa.

Si parla di obbligazioni indirette (o di atti di compravendita compiuti indirettamente) in tutti quei casi in cui le operazioni vengono effettuate attraverso lo strumento dell’interposizione di persona; rientrano in tale previsione sia le ipotesi di interposizione fittizia, sia quelle di interposizione reale.

Nelle prime, vi è simulazione soggettiva, in quanto l’obbligazione nei confronti della banca è assunta da un soggetto, diverso dall’esponente bancario, apparentemente in nome e per conto proprio, mentre, in realtà, egli è un semplice prestanome e il dominus o vero interessato è l’esponente aziendale.

Nell’interposizione reale, invece, l’obbligazione è assunta da un soggetto legato all’esponente aziendale da un rapporto fiduciario o di mandato senza rappresentanza, il quale contrae realmente l’obbligazione in nome proprio, ma agisce per conto e nell’interesse dell’esponente bancario, essendo solo lo strumento o la società di comodo di cui l’esponente si serve per non risultare come controparte dell’ente cui è preposto.

Le delineate ipotesi rientrano senz’altro tra le obbligazioni indirette di cui parla la norma.

Ne è dimostrazione il fatto che, nell’ipotesi di operazione compiuta tramite interposizione fittizia, una volta accertata la simulazione, l’obbligazione viene imputata direttamente all’esponente aziendale, mentre nell’ipotesi in cui venga utilizzato lo strumento dell’interposizione reale, il soggetto interposto assume l’obbligazione in nome proprio ma per conto e nell’interesse dell’esponente bancario, al quale ha l’obbligo di trasferire la situazione giuridica acquisita; è, quindi, indirettamente titolare dell’obbligazione il mandante o fiduciante, che può chiedere in qualsiasi momento che gli venga trasferita anche formalmente la titolarità dell’obbligazione.

In entrambi i casi, dunque, i risultati dell’operazione si producono conclusivamente in capo all’esponente aziendale, che è l’effettivo dominus negotii e l’interposizione è solo lo strumento utilizzato per pervenire a tale deviazione degli effetti del negozio.

Non vi è dubbio, quindi, che la stipulazione indiretta consista nel contrarre attraverso un terzo, di modo che il negozio, apparentemente (simulatamente o fiduciariamente) concluso tra banca e terzo, risponda in realtà ad un interesse personale dell’esponente aziendale; in altre parole, mentre le obbligazioni dirette sono assunte in proprio dall’esponente bancario, nell’assunzione indiretta si inserisce una terza persona che fa da schermo, al fine di mantenere celata all’esterno la realtà della stipulazione.

Sottoponendo al divieto anche le obbligazioni indirette, si è voluto, infatti, impedire ai soggetti indicati dalla norma di divenire debitori della banca non solo sotto il profilo formale, ma anche sul piano meramente sostanziale.

Si pone tuttavia il problema se, per l’esponente bancario, sussistano altri modi di assumere obbligazioni indirette, cioè altre ipotesi di condotta punibile.

Ed è proprio nell’individuazione di tali ipotesi che si sono posti i maggiori problemi interpretativi; è il caso in cui soggetti del negozio siano la banca e una società, della quale l’esponente della banca stessa possieda azioni o quote.

Diverse sono le opinioni che sono state espresse al riguardo sotto il vigore dell’art. 38 l.b., che si differenziavano per il maggior o minor grado di rigore.

Il dubbio è, ora, risolto dalle Istruzioni dell’organo di vigilanza relative all’art. 36 d.lgs. 481/1992, che ha esplicitamente accolto, come criterio per l’applicabilità di tale articolo all’ipotesi di obbligazioni contratte da società, il criterio del controllo della società affidata da parte dell’esponente della banca, criterio che, peraltro, già in passato era seguito dalla maggior parte della dottrina e della giurisprudenza.

La soluzione prescelta si giustifica per il fatto che la posizione di controllo assicura all’esponente bancario la «padronanza giuridica o di fatto» della società di capitali contraente; egli, cioè, è in grado di determinare concretamente l’operato di tale società, la quale costituisce il paravento che permette la soddisfazione dell’interesse personale dell’amministratore.

Non serve rilevare, in contrario, che quest’ultimo formalmente non entra nella relazione intersoggettiva e che effettivo contraente è la società, dotata di una distinta personalità giuridica, perché tale osservazione cade di fronte alla considerazione che bisogna guardare alla sostanza delle cose, senza fermarsi agli aspetti formali; pertanto, il divieto posto dalla legge è da intendere violato ogni volta risulti che, dietro il compimento dell’operazione, si nasconda, in realtà, un interesse personale dell’amministratore, che si serva della posizione di predominio economico di cui gode nell’ambito della società per conseguire un beneficio personale.

D’altro canto, la genericità dell’espressione «indirettamente» usata dal legislatore esprime l’intenzione di colpire la sostanza dei rapporti, al di là della forma giuridica assunta.

La posizione di controllo va determinata ai sensi dell’art. 27 l. 10 ottobre 1990, n. 287; pertanto, è rilevante ai fini dell’applicabilità del divieto anche il c.d. «controllo congiunto», conseguito tramite la condotta concorrente di più soci, sulla base di patti di sindacato o accordi regolanti l’esercizio del voto o anche, secondo alcuni, sulla base di collegamenti di fatto, che permetta a tali azionisti, anche nell’ipotesi in cui essi siano uti singuli titolari di una piccola percentuale di azioni, di raggiungere complessivamente una quota rilevante del capitale sociale, che consenta di influenzare le decisioni della società.

Si ritiene applicabile la norma ex art. 136 t.u. anche quando «la partecipazione al capitale della società sia indiretta nel senso che la partecipazione si riferisce ad altra società che controlla il capitale della affidata», secondo la c.d. «transitività» del controllo, per cui è da intendere controllata dall’esponente bancario la società controllata da società a sua volta controllata dall’esponente stesso.

La posizione dell’azionista che detenga il controllo risulta, poi, rafforzata quando, alla partecipazione al capitale sociale, si aggiunge la titolarità di cariche direttive o di controllo nell’ambito della società, il che facilita la strumentalizzazione degli interessi societari a suo beneficio.

In realtà, a ben vedere, mi sembra che il problema interpretativo ruoti intorno a un punto fondamentale: se, nell’applicazione della norma de qua, debba prevalere la lettera o lo spirito della norma stessa.

Nel primo caso, infatti, non mi sembra dubbio che l’esistenza di una società di capitali, di cui l’esponente bancario non abbia la titolarità al 100% e per la quale egli non presti alcuna garanzia, impedisca di porre in capo all’esponente stesso le obbligazioni o gli atti di compravendita compiuti dalla società con la banca che egli amministra, dirige o controlla. Infatti, attraverso il principio della limitazione della responsabilità al capitale della società, risulta del tutto impossibile confondere le obbligazioni contratte da quest’ultima con quelle facenti capo a un suo azionista, anche rilevante.

Solo nel caso, invece, che si consideri prevalente il criterio interpretativo basato non sulla lettera, ma sullo spirito della norma, che certo mira ad evitare fra l’esponente e la banca un conflitto di interessi potenzialmente dannoso per quest’ultima, si può guardare, di là dal soggetto in capo al quale sorge l’obbligazione, all’interesse che l’esponente bancario indubbiamente può avere alla conclusione del negozio fra la banca e la società di cui egli ha il controllo.

La giurisprudenza, le Istruzioni di vigilanza e la maggior parte della dottrina evidentemente danno maggior peso, appunto, allo spirito della legge.

Passando, ora, a considerare l’ipotesi in cui l’esponente bancario assuma un’obbligazione in nome e per conto di terzi, si possono senz’altro escludere dal divieto le obbligazioni contratte in reale rappresentanza altrui: il contrarre «in rappresentanza» di un terzo esprime, infatti, un concetto molto diverso dall’ipotesi colpita dalla legge del contrarre «attraverso» un terzo.

Di conseguenza, rimane al di fuori dell’area di operatività del divieto l’ipotesi dell’esponente bancario che sia anche preposto alla gestione di una diversa società e contragga obbligazioni con la banca in nome e per conto di tale società.

Mentre, infatti, se la società contrae con la banca per conto di un proprio amministratore, si tratta certamente di un’obbligazione indiretta di quest’ultimo, qualora invece sia l’amministratore della società, nella veste di organo della stessa, a contrarre con la banca, non si può dire che egli contragga in proprio obbligazioni con l’ente creditizio, perché gli effetti del negozio non ricadono nella sua sfera giuridica.

A maggior ragione esula dal campo di applicazione dell’art. 136 t.u. la mera coincidenza di cariche sociali, di cui un soggetto sia investito contemporaneamente nella banca e nella società contraente.

In passato, tuttavia, tale questione era controversa, essendosi posto il problema se l’appartenenza della stessa persona ai consigli di amministrazione sia della banca sia della società affidata desse vita ad un interesse personale dell’amministratore, nel momento in cui le due società entravano in rapporto tra loro e, quindi, se si potesse o meno parlare di un’obbligazione assunta «indirettamente» dall’amministratore.

Ma, come è stato osservato, non può sorgere un’obbligazione a carico dell’amministratore che sia legato alla società unicamente da un rapporto di gestione; nel caso in cui l’amministratore di banca sia contemporaneamente amministratore della società contraente senza possederne azioni o quote, l’obbligazione è contratta esclusivamente e definitivamente solo dalla società di capitali.

Se, poi, alla coincidenza di cariche si aggiunge la partecipazione al capitale della società amministrata, in tal caso non vi è soltanto un rapporto di gestione tra la società e il suo amministratore e la partecipazione azionaria comporta che dall’operazione sorga un’obbligazione indiretta dell’amministratore, nei limiti del capitale investito; soltanto allora saranno, pertanto, applicabili le citate disposizioni di legge, nei limiti, che si sono prima delineati, connessi alla detenzione del controllo in ambito societario.

Così dispongono le stesse Istruzioni di vigilanza, che, nel ribadire l’inapplicabilità della norma in esame alla mera coincidenza di cariche, specificano: «purché non congiunta ad una posizione di controllo».

Si pone, infatti, la necessità di verificare se in realtà l’esponente bancario si nasconda dietro la persona giuridica rappresentata, se quest’ultima, cioè, sia uno schermo, uno strumento, che celi un effettivo interesse dell’esponente stesso.

D’altra parte, se abbiamo visto consentito l’agire in reale rappresentanza altrui, il divieto stabilito dalla legge vige in ogni caso di rappresentanza simulata, quando, cioè, risulti che, al di là delle apparenze, si nasconda un interesse personale del rappresentante.

Il fatto che la partecipazione al capitale della società contraente sia rilevante, ai fini dell’applicabilità delle norme in esame, solo se connessa ad una posizione di controllo non vuol dire che l’eventuale interesse dell’esponente bancario, ad esempio nel caso di partecipazione inferiore a quella di controllo, rimanga irrilevante; in tale ipotesi sono, infatti, applicabili, sempreché ne ricorrano i presupposti, gli artt. 2391 e 2631 c.c., che prevedono una responsabilità civile e penale se in concreto, tenuto conto del contenuto e delle modalità del negozio, l’esponente abbia fatto prevalere il proprio interesse, ad esempio quale azionista di minoranza della società affidata, sull’interesse della banca.

Poiché, poi, nella previsione di tali articoli del codice civile, rientrano anche le ipotesi in cui il soggetto persegua un interesse per conto di terzi, la responsabilità dell’esponente bancario sorge anche nel caso in cui egli sia consigliere della società affidata ma non anche azionista della stessa e abbia perseguito in concreto, in una determinata operazione, l’interesse della società a scapito di quello della banca; pertanto, i summenzionati articoli del codice civile sono applicabili, come dispongono le stesse Istruzioni dell’organo di vigilanza, alla fattispecie della mera coincidenza di cariche sociali e sono fonte di responsabilità per l’esponente aziendale, nel caso che ricorra un interesse conflittuale in concreto.

 

6. L’art. 2391 c.c..

Il divieto per l'amministratore di agire in conflitto d'interessi è previsto dall'art. 2391, 1° comma, c.c., il quale dispone che l'amministratore, che in una determinata operazione ha, per conto proprio o di terzi, interesse in conflitto con quello della società, deve darne notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale, e deve astenersi dal partecipare alle deliberazioni riguardanti l'operazione stessa ed è sanzionato dai successivi due commi che, in caso di inosservanza, dispongono, rispettivamente, il risarcimento delle perdite che siano derivate alla società dal compimento dell'operazione e l'annullabilità della delibera nel caso che il voto dell'amministratore sia risultato determinante. Il divieto è inoltre rafforzato da sanzione penale, ai sensi dell'art. 2631 c.c.

Il conflitto d'interessi si verifica quando l'amministratore sia portatore di due distinti interessi tra loro contrapposti: il primo concerne la realizzazione di un comportamento favorevole all'amministratore stesso o ad un terzo; il secondo concerne la realizzazione di un comportamento favorevole alla società; evidentemente, affinché sussista la situazione di conflitto, è necessario che la realizzazione di uno dei due interessi comporti il sacrificio dell'altro[42].

Incombe sull'amministratore che si trova in conflitto d'interessi l'obbligo di dare in ogni caso notizia dell'esistenza del conflitto e la sua responsabilità sussiste anche nell'ipotesi in cui, trattandosi di deliberazione all'ordine del giorno, egli si limiti semplicemente a disertare la riunione.

Il precetto di legge è tassativo: amministratori e sindaci devono avere notizia del conflitto, perché questo costituisce per troppe ragioni un elemento importante per decidere se effettuare o meno un'operazione relativamente alla quale un membro del consiglio si trova in una posizione antagonista con la società [43].

La comunicazione può essere fatta nella forma che l'amministratore ritiene più idonea e deve comunque essere inserita a verbale.

Il divieto di partecipare alla deliberazione si intende limitato al diritto di voto, non anche alla partecipazione alla riunione e alla discussione che precede la delibera.

Non c'è, infatti, ragione, una volta che sia stata resa nota agli altri partecipanti la particolare posizione in cui si trova l'amministratore, di impedirgli di esprimere la sua opinione in ordine all'operazione[44].

Assume rilievo il conflitto, cioè la divergenza, sostanziale e non puramente formale[45], tra interesse dell'amministratore e interesse della società.

L'amministratore quindi deve avere un interesse, per conto proprio o di terzi, ad un'operazione diretta verso uno scopo confliggente con l'interesse della società.

Per verificare se l'amministratore in una data operazione ha violato il proprio obbligo di agire senza conflitto d'interessi, il giudice dovrà da un lato accertare se l'amministratore aveva per conto proprio o di terzi un interesse a quella operazione; dall'altro se le condizioni dell'operazione erano tali da danneggiare la società o di non consentirle di trarne tutte le possibili utilità[46].

L'esistenza del conflitto deve essere verificata concretamente, non deve basarsi semplicemente sull'accertamento di posizioni potenzialmente conflittuali, tanto che potrebbe negarsi l'esistenza di una divergenza d'interessi anche in casi in cui l'amministratore sia esso stesso controparte dell'operazione.

La dimostrazione del conflitto d'interessi deve giungere a provare che l'amministratore ha in concreto fatto prevalere il proprio interesse personale, danneggiando conseguentemente la società amministrata[47].

L'eventuale deliberazione viziata da conflitto d'interessi può essere impugnata, entro tre mesi, dai sindaci, dagli amministratori assenti o dissenzienti[48] e, sembra di dover interpretare integrando la norma, anche dagli amministratori consenzienti che non erano a conoscenza del conflitto d'interessi.

La legittimazione non spetta invece ai soci[49], poiché il socio, rispetto al negozio posto in essere a seguito della deliberazione viziata da conflitto d'interessi, è terzo e non parte, in quanto l'eventuale pregiudizio si verifica in via diretta sulla società e solo in via mediata sul socio[50].

L'impugnazione per ottenere l'annullamento della delibera è consentita se alla società può derivare un danno dalla delibera assunta e se il voto dell'amministratore che avrebbe dovuto astenersi è risultato determinante per la delibera.

La prova del danno è a carico di chi impugna la deliberazione del consiglio d'amministrazione, deducendo a fondamento dell'azione il conflitto d'interessi con la società di uno dei componenti, e consiste nella dimostrazione della specifica natura del conflitto[51].

L'art. 2391 c.c. si riferisce espressamente alle delibere del consiglio d'amministrazione, ma implicitamente riguarda anche i casi in cui la decisione è assunta dall'amministratore unico o dal consigliere delegato, che hanno la facoltà di deliberare senza ricorrere ad un'espressa delibera collegiale[52].

Tuttavia il rimedio disposto dall'art. 2391 c.c. in caso di inosservanza delle disposizioni previste per le deliberazioni assunte in conflitto d'interessi, cioè l'impugnazione da parte degli altri amministratori e dei sindaci, non è applicabile quando l'organo amministrativo è composto dall'amministratore unico e non sia previsto il collegio sindacale, in quanto mancano i soggetti attivi legittimati all'impugnazione.

In tale ipotesi si deve ricorrere ai principi generali della rappresentanza e, nella fattispecie, all'art. 1394 c.c. il quale dispone che il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi col rappresentato può essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo. La tesi, che ha trovato generalmente credito in giurisprudenza[53], può apparire a prima vista poco coerente, in quanto la figura dell'amministratore appare diversa da quella del rappresentante comune, perché la posizione del primo, in virtù del rapporto di immedesimazione esistente tra la società ed i suoi organi esterni, si confonde con la società medesima, per cui mancherebbe quella duplicità di soggetti che è la base fondamentale del conflitto di interessi di cui all'art. 1394 c.c.

Tuttavia ciò è sostenibile soltanto per il rapporto d'ufficio che lega l'amministratore alla società in quanto, solo sotto questo profilo, quando agisce l'organo, agisce la società, senza distinzione tra rappresentante e rappresentato.

Ma diversa è invece la conclusione se si guarda al rapporto di gestione che sussiste tra amministratori e società, che è un vero e proprio rapporto intersoggettivo.

Pertanto se la decisione è presa in situazione di conflitto d'interessi, sussistendo la duplicità dei soggetti - rappresentato e rappresentante - si verificano tutte le condizioni di cui all'art. 1394 c.c.

Di conseguenza l'impugnazione prevista dall'art. 2391 c.c. è ammissibile in tutti i casi in cui si sia verificata una delibera (viziata da conflitto di interessi), entro il termine di decadenza di tre mesi, mentre l'art. 1394 c.c. trova attuazione nelle situazioni in cui il vizio ha interessato operazioni compiute dall'amministratore unico, per l'esecuzione delle quali non vi è necessità di una delibera consiliare e la relativa annullabilità, (se il conflitto di interessi era conosciuto o riconoscibile dal terzo) è sottoposta al termine di prescrizione quinquennale previsto dall'art. 1442 c.c.

Al caso dell'amministratore unico deve essere equiparata, per analogia, l'ipotesi dell'amministratore delegato per le operazioni rientranti nei limiti della delega, che non richiedono per la loro attuazione una delibera consiliare.

L'annullabilità dell'operazione è disciplinata anche in questo caso dalle disposizioni sulla rappresentanza e, in caso di conflitto di interessi, diventa operante esclusivamente l'art. 1394 c.c.[54].

Entrambi, amministratore unico e amministratore delegato, se ritengono opportuna per la società l'effettuazione dell'operazione, possono porre rimedio al rischio di annullabilità dell'atto che stanno ponendo in essere in conflitto di interessi, dichiarando il proprio stato prima di concludere l'atto: nell'ipotesi di amministratore unico, non esistendo il consiglio di amministrazione, l'atto dovrà essere deliberato dall'assemblea dei soci (e determinato in tutti i suoi elementi, in modo da escludere qualsiasi possibilità di conflitto), nell'ipotesi di amministratore delegato questi provvederà ad informare gli altri amministratori, cosicché sarà il consiglio di amministrazione, con l'astensione dell'amministratore in conflitto, a deliberare l'atto per il quale sussisteva il conflitto di interessi[55].

La presenza di un corrispettivo inadeguato per una prestazione della società, può evidenziare un ragionevole fumus di esistenza di conflitto di interessi a carico dell'amministratore che ha compiuto l'operazione.

Sul piano probatorio, tuttavia, nella maggior parte dei casi, è difficile motivare l'impugnazione.

La dimostrazione da fornire è duplice.

In primo luogo si dovrà evidenziare l'inadeguatezza del corrispettivo, ed è sempre difficile quantificarlo con certezza in quanto può essere fortemente influenzato da considerazioni soggettive. Infatti un giudizio di congruità dovrebbe basarsi non soltanto sul "prezzo" convenuto, ma su tutte le condizioni dell'operazione (comprendendo le modalità di pagamento, di finanziamento, di eventuali opzioni, facilitazioni e simili).

Inoltre il corrispettivo ritenuto congruo deve essere inquadrato nella reale situazione della società e nel suo effettivo interesse a concludere l'operazione a quelle condizioni.

La seconda prova, concernente l'interesse dell'amministratore divergente da quello della società, risulta parimenti complessa.

Bisognerebbe infatti accertare che l'amministratore ha ricevuto dal terzo contraente una ricompensa personale per la conclusione dell'operazione, che rivelerebbe in re ipsa l'interesse personale dell'amministratore, oppure che l'operazione fosse stata conclusa con una società nella quale l'amministratore avesse, per conto proprio o di terzi, un interesse diretto.

In tale ultima ipotesi - esclusa la possibilità di considerare la circostanza di per sé stessa decisiva - deve essere fornita la prova dell'interesse divergente della società.

Negli altri casi, quando le conclusioni si valgono soltanto di presunzioni, è sempre lasciata aperta la strada alla difesa dell'amministratore, basata sull'asserzione che si sia trattato di un errore di valutazione o di gestione, e come tale non sindacabile dal giudice, anche se la circostanza, soprattutto se macroscopica o ripetuta, non depone favorevolmente in un giudizio di diligenza dell'opera dell'amministratore[56].

L'unico rimedio consentito, nel caso che il sospetto sia tale da scuotere la fiducia su cui è basato il rapporto amministratore-società, è quello della revoca per giusta causa che può essere invocata per difetto di diligenza.

La definizione di gruppo è più vasta di quella che, giuridicamente, gli può essere attribuita.

Il gruppo, in senso economico, può essere definito come una pluralità di imprese giuridicamente autonome, ma collegate sul piano organizzativo con lo scopo di raggiungere al meglio gli obiettivi e interessi comuni, sfruttando le sinergie che si sviluppano attraverso la cooperazione intersocietaria.

Da un punto di vista giuridico, mancando nel nostro ordinamento una definizione testuale di gruppo[57], si deve fare riferimento alle ipotesi previste dall'art. 2359 c.c. che individua le società componenti il gruppo sulla base del controllo e considera società controllate:

1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;

2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria;

3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.

Ai fini dell'applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta: non si computano i voti spettanti per conto di terzi.

Sono considerate collegate le società sulle quali un'altra società esercita un'influenza notevole. L'influenza si presume quando nell'assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa.

Le fattispecie individuate dalla legge per circoscrivere l'area del gruppo alle ipotesi di controllo azionario o di influenza dominante, non comprendono tutte le ipotesi possibili, che si estendono anche ai frequenti casi di direzione unitaria.

Ai fini della valutazione di come possa rilevare all'interno del gruppo l'eventuale conflitto di interessi, deve essere presa in considerazione l'accezione più vasta di gruppo, inteso come centro di obiettivi comuni.

In tale contesto le singole imprese che formano il gruppo sono frequentemente viste come indistinte componenti, utili alla progettazione e alla realizzazione di interessi comuni che assumono rilevanza assorbente degli interessi individuali delle singole entità.

Nella quasi totalità dei casi il gruppo nasce da un'esigenza di organizzazione dell'attività in più settori operativi che tuttavia debbono rimanere assoggettati ad una direzione unitaria, capace di perseguire una politica del "gruppo" e pertanto un interesse del "gruppo" stesso, come tale spesso non coincidente ed omogeneo con l'interesse delle singole imprese partecipi: tale interesse viene gestito dalla capogruppo[58].

Il riconoscimento dell'esistenza a livello economico di una realtà unica, costituita dal gruppo di imprese, è di grande importanza nella complessa struttura e nelle relazioni infragruppo che si vengono a creare, sia sotto il profilo dei rapporti tra capogruppo e imprese controllate, sia sotto il profilo dei rapporti delle controllate tra loro, sia, soprattutto, per l'individuazione di quale interesse debba perseguire l'amministratore della singola società.

Concludere che il compito dell'amministratore sia il perseguimento dell'interesse esclusivo dell'impresa che amministra fino a disinteressarsi dell'interesse del gruppo (nell'ambito del quale ricopre a volte presso altre società una carica corrispondente) sembra una posizione troppo distante dalla realtà economica.

Infatti la capogruppo tende a nominare propri amministratori nei consigli delle società controllate, con l'obiettivo di perseguire fini comuni, e sinergie di gruppo, per mezzo di politiche unitarie.

Di fatto l'interesse della società si può contrapporre all'interesse del gruppo. L'esistenza di potenziali conflitti di interessi ha nei gruppi societari frequenti occasioni di manifestarsi.

Il controllo e la relativa influenza dominante esercitata dalla capogruppo possono porre in atto rapporti privi della necessaria alterità contrattuale e la presenza, nei consigli di amministrazione di società diverse, delle stesse persone a ricoprire la carica di amministratore moltiplica le occasioni di delibere prese nella potenziale condizione di conflitto di interessi.

Volendo applicare i principi generali del conflitto di interessi a siffatte situazioni, si rischierebbe o di paralizzare la gestione della controllata e della controllante o di affidare (contro la volontà delle assemblee) a terzi estranei al gruppo la conduzione delle società[59].

Infatti, nel caso che la maggioranza del consiglio di una partecipata sia uguale alla maggioranza del consiglio della capogruppo o addirittura i due consigli si identifichino in tutti i loro componenti, l'astensione ripetuta per i frequenti e necessari rapporti intragruppo renderebbe la gestione delle singole entità ingovernabile, a meno di affidare le delibere alle votazioni degli amministratori terzi che, quando presenti in consiglio, ricoprono posizioni marginali, raramente deputate a determinare le politiche gestionali della società.

La giurisprudenza ha per lo più ritenuto che l'interesse di gruppo non debba prevalere sull'interesse delle singole società[60].

Pertanto, in nome dell'interesse di gruppo, non è ammesso sacrificare il legittimo interesse della singola società.

Perché il potenziale pericolo rappresentato dal conflitto di interessi non si verifichi è perciò necessario che l'amministratore, anche nell'ambito del gruppo, tenga conto dell'interesse prevalente della società amministrata, anche se mediato o indiretto, purché giuridicamente rilevante[61] e operi come se la stessa, anziché essere parte integrata di un interesse più generale di gruppo, sia autonoma, scegliendo le opportunità e fissando le condizioni più confacenti al raggiungimento dell'oggetto sociale. In caso contrario il conflitto di interessi non può essere negato, in quanto viene in esistenza alla condizione obiettiva del verificarsi di un danno, indipendentemente dal soggetto che, come controparte, abbia potuto trarre i corrispondenti vantaggi, fosse esso pur anche un'entità dello stesso gruppo[62].

L'esigenza di conciliare l'interesse tutelato dalla norma, costituito dall'interesse dei soci e dei terzi con la realtà economica, connaturata alla realtà dei gruppi, impone un'attenta rilettura della norma.

Prima di tutto bisogna rilevare che l'art. 2391 c.c. richiede all'amministratore in conflitto di interessi di darne notizia agli altri amministratori e ai sindaci. Si dà notizia di un fatto non noto. 

Nel caso del gruppo, se l'operazione è fatta con una consociata, con tutta evidenza gli altri amministratori e sindaci già conoscono la situazione di potenziale conflitto di interessi.

Essendo il fatto noto, non si può darne notizia e pertanto l'adempimento sembra superfluo: inoltre la legge richiede l'astensione.

La norma è nata prima della recente diffusione dei gruppi di imprese, diventati ormai la realtà normale del mondo imprenditoriale e forse dovrebbe essere integrata, per effetto delle mutate condizioni ed esigenze economiche.

Tuttavia, anche nella sua versione attuale, deve essere considerato che essa richiede l'astensione in caso di conflitto tra gli interessi dell'amministratore e quelli della società.

Pertanto decisiva deve essere vista la circostanza che l'amministratore che conduce affari con un'altra società del gruppo, nella quale ricopre la stessa carica, si comporti in modo da realizzare le ulteriori condizioni caratterizzanti previste dalla norma (cioè il danno per la società).

Se, cioè, la condotta pur potenzialmente in conflitto d'interessi, risulta, nei fatti, rispettosa dell'interesse della singola società, nei gruppi dove la posizione dell'amministratore di entrambi i contraenti non è una scelta, magari maliziosa, dell'amministratore e in quanto tale da palesare agli altri, senza diritto di intervento nella relativa decisione, ma una condizione di fatto, nota e voluta nell'interesse del gruppo e delle singole entità che lo compongono, è assai dubbio che sussista un reale conflitto tutte le volte che, nell'interesse del gruppo, non è pregiudicato l'interesse della singola società.

Alla luce di tali conclusioni, appare una linea di demarcazione individuabile per fissare quali operazioni possano essere legittimamente concluse, tra le quali rientrano normalmente:

- le operazioni commerciali, operate alle condizioni normali di mercato;

- le forniture di servizi, quando non ottenibili a condizioni migliori;

- i finanziamenti concessi sulla base dei migliori tassi ottenibili da altri finanziatori.

In tali operazioni l'operato degli amministratori risulta indenne da censure, riuscendo anzi a conciliare i due contrastanti interessi, entrambi oggetto di riconoscimento e di protezione giuridica: l'esigenza di perseguire una politica di gruppo e l'interesse dei soci (anche di minoranza) delle singole società a vedere realizzato l'autonomo interesse di queste ultime e la conservazione delle garanzie dei terzi.

La soluzione del problema secondo questo principio, che discrimina tra operazioni compiute nel reciproco interesse di gruppo e operazioni dannose, sembra più rispondente allo spirito della norma che non i tentativi applicati a volte nella pratica di conferire procure prestabilite anche nel contenuto, che aderiscono alla lettera della legge ma ne disapplicano il contenuto sostanziale, traducendosi di fatto in manovre elusive.

Ben più gravi (e solo esse contrarie agli interessi protetti) risulterebbero le conseguenze di atti intragruppo, compiuti senza il rispetto delle condizioni esemplificate sopra, anche se formalmente non censurabili sotto l'aspetto legale del conflitto di interessi.

Pertanto sembra che la conclusione accoglibile debba essere quella sostanziale anziché quella meramente formale, circoscrivendo la responsabilità degli amministratori ai casi in cui, con colposi comportamenti omissivi o commissivi, si siano prestati ad essere meri esecutori della volontà della controllante e abbiano provocato un danno alle società amministrate e conseguentemente ai soci di minoranza delle medesime e, in caso di sopravvenuta incapienza del patrimonio netto in taluna di esse, ai rispettivi creditori sociali[63].

 

7. Il conflitto di interessi all’interno del gruppo plurifunzionale.

Il problema del conflitto di interessi assume una connotazione particolare all’interno del gruppo plurifunzionale.

In primo luogo, esso può sorgere in relazione a due differenti categorie di rapporti infragruppo: quelli posti in essere dall’esponente di una banca o società del gruppo, personalmente, con la banca o società di appartenenza o con altra banca o società del gruppo, e quelli intercorrenti tra banche o società del gruppo, posti in essere dall’esponente aziendale quale rappresentante della banca o società di appartenenza.

I rapporti appartenenti alla prima categoria sono regolati dal comma 2° dell’art. 136 t.u., che dichiara applicabile la disciplina delle obbligazioni degli esponenti aziendali di cui al comma 1o a chi svolge funzioni di amministrazione, direzione o controllo «presso una banca o società facenti parte di un gruppo bancario», sia pure integrandola con previsioni specifiche in ordine alla procedura da osservare per sottrarsi al divieto normativamente previsto.

Oltre alle formalità già previste dal comma 1, che devono essere espletate dalla società o banca contraente, si richiede, infatti, l’assenso della capogruppo; secondo quanto dispongono le Istruzioni di vigilanza, quest’ultimo non deve essere deliberato necessariamente dal consiglio di amministrazione, potendo essere deliberato anche da organi o amministratori delegati dal consiglio stesso, secondo i criteri da esso stabiliti.

Finché manchi una delle condizioni richieste, l’operazione non può essere compiuta.

Non è certa, tuttavia, l’individuazione delle operazioni per le quali sia necessario il rispetto delle specifiche formalità previste dalla legge.

Sotto il profilo funzionale, infatti, mi sembra che la norma sia da interpretare nel senso che la procedura più complessa di cui al comma 2 dell’art. 136 dovrebbe essere seguita anche nel caso di rapporti intercorrenti tra l’esponente bancario e la banca di appartenenza, qualora quest’ultima faccia parte di un gruppo bancario; tuttavia, sulla base della lettera della norma, l’assenso della capogruppo sembrerebbe richiesto solo per le operazioni poste in essere dall’esponente aziendale «con la società» di appartenenza, oltreché per le operazioni trasversali, mentre i conflitti interni tra banca ed esponente bancario sarebbero in ogni caso soggetti alla disciplina di cui al comma 1o, anche se la banca sia inserita in una realtà di gruppo.

Il punto rimane, comunque, dubbio anche se, trattandosi di una norma penale, l’argomento letterale non sembra superabile.

A parte le specifiche previsioni normative, per la fattispecie in esame vale quanto già detto a proposito delle obbligazioni contratte dall’esponente bancario.

Da questa prima categoria di rapporti infragruppo occorre distinguerne un’altra, costituita dai rapporti che si instaurano tra le società del gruppo, nei quali l’esponente aziendale opera non personalmente ma nella veste di rappresentante sociale; in questo caso, non si applica l’art. 136 t.u., in quanto il conflitto non riguarda un interesse personale dell’esponente aziendale, ma consiste nella contrapposizione degli interessi delle due società.

Il citato articolo è applicabile solo quando l’esponente aziendale di una delle due contraenti detenga una posizione di controllo nell’altra società, determinata ai sensi dell’art. 27 l. 10 ottobre 1990, n. 287.

Solo in questo caso, infatti, l’esponente è in grado di influire in modo determinante sulle decisioni della società, incidendo concretamente sul suo operato e, pertanto, servendosi della propria posizione per realizzare un suo interesse personale.

Lo stesso può dirsi per l’ipotesi della coincidenza di cariche sociali, che è ipotesi normale nell’ambito dell’organizzazione di gruppo e per la quale, pertanto, il problema del compimento dell’operazione con o senza l’osservanza delle formalità di cui all’art. 136 è stato particolarmente avvertito.

Come si è già detto, la mera coincidenza di cariche sociali è esclusa dalle ipotesi capaci di dar vita ad un conflitto di interessi ai sensi dell’art. 136, proprio per la mancanza di quell’interesse personale che ne giustificherebbe l’individuazione; pertanto, nell’ipotesi in cui l’esponente di una banca o di una società del gruppo, in qualità di rappresentante della stessa, compia operazioni con un’altra società del gruppo, nella quale anche rivesta cariche amministrative o di controllo, non devono essere espletate le formalità prescritte dalla citata norma del t.u.

Solo nel caso in cui alla coincidenza di cariche si aggiunga una posizione di controllo, sempre ai sensi dell’art. 27 l. 287/1990, sarà doverosa l’applicazione della predetta disposizione.

Può accadere, poi, che nell’ipotesi particolare ricorra un interesse conflittuale in concreto, che scaturisca, di fatto, dalla coincidenza di cariche sociali, quando del conflitto tra gli interessi di due distinte società del gruppo si faccia portatore chi sia membro del consiglio di amministrazione di entrambe le società: si pensi al caso di rapporti tra controllante e controllata e del consigliere che sostenga gli interessi della prima per realizzarli a scapito degli interessi della controllata, nel consiglio di amministrazione di quest’ultima. In questa ipotesi, la disposizione applicabile non è quella ex art. 136 t.u., per la mancanza di un interesse personale dell’esponente aziendale, ma è quella dell’art. 2391 c.c., che comporta l’obbligo di astensione dell’esponente dal partecipare alla deliberazione per l’esistenza oggettiva del conflitto.

La coincidenza di cariche sociali è espressione della stessa logica di gruppo, in quanto rispondente all’unitarietà del disegno imprenditoriale; pertanto, una disciplina troppo rigida avrebbe avuto l’effetto di paralizzare l’operatività dell’intero complesso organizzativo.

L’esistenza di un’integrazione economica tra l’attività della controllante e le attività delle controllate impedisce di considerare la società controllante come istituzionalmente in conflitto di interessi per ogni operazione infragruppo.

Pertanto, nella valutazione degli interessi delle società controllate inserite in una realtà di gruppo, non ci si può fermare alla considerazione della singola operazione: quando questa, considerata isolatamente, sia svantaggiosa per la società, occorre valutare se si tratti di un costo fine a se stesso (e in questo caso vi è conflitto di interessi) o di un sacrificio necessario in un’ottica di gruppo e che venga pienamente compensato dai vantaggi che derivano alla società dall’appartenenza al gruppo stesso.

È consentito sacrificare l’interesse della controllata, in occasione di una singola operazione, solo quando il risultato negativo che ne derivi alla società sia passaggio obbligato per la realizzazione di un interesse di gruppo.

La problematica relativa al conflitto di interessi non può, ovviamente, ricevere la stessa impostazione se riferita al diverso sistema della banca universale; sistema introdotto in Italia dal d.lgs. 481/1992, che ha abolito il vincolo per gli enti creditizi di esercitare le attività differenziate, cioè non strettamente bancarie, solo indirettamente, nell’ambito di un’organizzazione di gruppo, ed ha attribuito alla singola banca la possibilità dell’esercizio diretto di tali attività, consentendole di operare a tutto campo nel settore creditizio latamente inteso.

La banca universale non presenta quella pluralità di soggetti che è caratteristica del gruppo e che è potenziale causa dell’insorgere di situazioni di conflitto, essendo una struttura unitaria, dal punto di vista sia economico, sia giuridico.

Di conseguenza, non si verificano, al suo interno, quelle situazioni di conflitto che presuppongono necessariamente una molteplicità di soggetti: non può parlarsi di conflitto di interessi tra chi svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo e un’altra società, diversa da quella di appartenenza, né di conflitto tra due distinte società, né può verificarsi l’ipotesi della coincidenza delle cariche sociali.

Pertanto, le ipotesi di conflitto di interessi riferibili alla banca universale, unico soggetto di diritto, sono certamente meno numerose di quelle che si sono viste verificabili all’interno del gruppo plurifunzionale e, anzi, si limitano alle sole ipotesi di conflitto che possono sorgere in una banca tout court, cioè non inserita in un più ampio complesso organizzativo di gruppo.

Di conseguenza, la disciplina applicabile è quella dettata dall’art. 136, comma 1o, t.u., relativa alle obbligazioni assunte dagli esponenti bancari nei confronti dell’ente di appartenenza.

 

8. Chi viola il disposto della norma in esame incorre in responsabilità penale.

L’illecito relativo rientra nella figura dei reati propri, che possono essere posti in essere esclusivamente da determinati soggetti qualificati.

Esso si presenta come un reato doloso, per la cui sussistenza è richiesto, nell’agente, l’elemento soggettivo della coscienza e volontà di contrarre senza le prescritte autorizzazioni (o perché non sono state richieste o perché gli organi competenti non le hanno concesse); si ritiene generalmente che non sia necessario un dolo specifico di frode, ma che sia sufficiente un dolo generico.

Non è pacifico, invece, se il reato di cui all’art. 136 t.u. sia un reato di danno o un reato di pericolo e, in quest’ultimo caso, se di pericolo presunto o effettivo; comunque, secondo l’interpretazione prevalente e, a mio avviso, più rispondente alla volontà del legislatore, quale appare dalla precisa dizione della norma, sembra preferibile configurare il reato in esame come un reato di pericolo presunto.

Manca, infatti, un qualsiasi riferimento normativo ad un danno per il patrimonio sociale, in una materia (quella dei reati societari) in cui l’elemento del pregiudizio, se non è previsto espressamente, non può essere ritenuto necessario per la sussistenza del reato.

Tale argomento letterale viene invocato a sostegno dell’assunto che il reato in questione sarebbe un reato di pericolo.

Il fatto, però, che il divieto ex art. 136 non sia assoluto induce alcuni autori ad escludere che il pericolo di danno richiesto come elemento della fattispecie di reato consista in un pericolo presunto, cioè insito nell’operazione stessa, che mal si concilierebbe con il potere di autorizzazione attribuito al consiglio di amministrazione e ai sindaci e volto a far venir meno l’operatività del divieto stesso.

Anche la tesi del pericolo effettivo viene, però, criticata facendo leva sulla lettera della legge, perché la formula adottata dal legislatore non contiene alcuna menzione di un pericolo concreto per il patrimonio sociale.

Secondo le teorie del reato di danno e del reato di pericolo effettivo, la responsabilità penale verrebbe meno di fronte ad un accertamento ex post di inesistenza di un qualsiasi danno o pericolo di danno per la banca.

È evidente la componente equitativa che si riscontra in tali orientamenti: essi sono diretti ad escludere la perseguibilità penale dei fatti dai quali non siano derivati concretamente un danno o un pericolo per la banca e tanto più di quei fatti che siano stati addirittura vantaggiosi per l’ente.

Il reato di cui all’art. 136, invece, in quanto reato di pericolo presunto, si fonda su una presunzione di conflitto di interessi, che comporta un rischio, anch’esso presunto, per la banca.

Pertanto, poiché nei reati di pericolo presunto la presunzione non ammette prova contraria e il reato si perfeziona con il mero compimento della condotta vietata, a nulla vale un accertamento ex post dell’inesistenza di un qualsiasi pericolo di danno per l’azienda: tale accertamento non elimina la presunzione di conflitto di interessi e la conseguente incriminazione.

Il legislatore ha, infatti, configurato un reato formale o di pura condotta, per la cui esistenza, cioè, si richiede la mera violazione del precetto legale, indipendentemente dal concretarsi di un evento dannoso o pericoloso per l’azienda, e nemmeno la dimostrazione che l’operazione sia stata vantaggiosa per la banca varrebbe, dunque, ad escludere il reato.

Si è pervenuti, così, a sanzionare l’osservanza scrupolosa delle forme, prescindendo dai risultati dell’attività, anche se, chiaramente, questi sono stati considerati in fase prenormativa, quando si è ritenuto di dover vietare l’attività che ne è causa, e predisponendo, così, una vera e propria «difesa avanzata» del patrimonio dell’ente.

L’inosservanza del divieto di cui all’art. 136 è sanzionata penalmente mediante il rinvio alle pene stabilite dall’art. 2624, comma 1o, c.c.

A proposito delle operazioni compiute indirettamente dall’esponente bancario con la banca di appartenenza, si pone il problema del concorso dell’extraneus nel reato.

Si ritiene che, dalla condotta punibile posta in essere dall’esponente interessato all’operazione, derivi una responsabilità penale per concorso nel reato a carico della persona interposta, cioè di colui che abbia partecipato all’operazione nell’interesse dell’esponente stesso; si riscontrano, infatti, nell’ipotesi in esame, gli estremi del concorso nel reato, punito dall’art. 110 c.p.

Inoltre, dato il ruolo assunto dal terzo nell’operazione, si ritiene che non si possa negare la conoscenza, da parte del terzo, della qualifica rivestita dal compartecipe, elemento necessario per la sussistenza del concorso in un reato proprio.

Diverse sono state le opinioni espresse a proposito del problema se, nell’ipotesi in cui l’operazione che avvantaggi un esponente aziendale venga deliberata senza le formalità previste dalla legge, si possa parlare di concorso nel reato per i membri del consiglio di amministrazione e per i sindaci che abbiano partecipato alla seduta del consiglio nella quale sia stata deliberata l’operazione.

Alcuni reputano ricorrenti, anche in questo caso, gli elementi caratterizzanti il concorso nel reato, dato che l’apporto di tali soggetti ha contribuito alla consumazione del reato.

Salvo, poi, a precisare che, mentre nell’interposizione di persona il requisito della volontà di cooperare alla commissione del reato è senz’altro presente, per i consiglieri e i sindaci la ricorrenza di tale elemento non può darsi per scontata, ma occorre che venga accertata; se risulti mancare tale volontà, il concorso non può essere ritenuto sussistente, per mancanza di un elemento essenziale.

In realtà, però, mi sembra preferibile la tesi di coloro che non ritengono ravvisabile un concorso di consiglieri e sindaci nel reato de quo, alcuni basando tale tesi sulla considerazione che nell’ipotesi in esame manca quella concorrenza nel medesimo fatto che provoca la correità, altri argomentando che l’esercizio del voto di consiglieri e sindaci in merito all’operazione è una legittima potestà, mentre grava sull’esponente interessato l’onere di accertare, prima che sia data attuazione all’affidamento che gli è stato concesso, che nel deliberare siano state rispettate le formalità relative alla particolare procedura prevista dalla legge.

 

7. La norma in esame prevede, come si è detto, sanzioni penali a carico degli esponenti bancari, ma sia la vecchia disciplina, sia quella attuale, omettono la previsione delle conseguenze civilistiche dell’operato degli esponenti aziendali, per quanto riguarda la sorte delle operazioni abusivamente compiute e, di conseguenza, degli atti in cui esse si sono concretate.

Ci si pone, pertanto, la domanda se i negozi compiuti in violazione del divieto, penalmente sanzionato, siano da ritenere nulli o semplicemente annullabili.

In realtà, a ben vedere, si dovrebbe parlare di nullità se si riconoscesse valore imperativo alla norma penale anche agli effetti civilistici, dato che l’art. 1418 c.c. prevede la contrarietà a norme imperative tra le cause di nullità del negozio; in caso contrario, la conseguenza sarebbe l’annullabilità del negozio stesso.

Determinante mi sembra, a questo punto, la considerazione che la disciplina penalistica e la disciplina civilistica si collocano su piani distinti, cosicché non necessariamente alla sanzione penale si accompagna quella della nullità del negozio, come nel caso in cui l’ordinamento, pur prevedendolo come reato nel concorso con determinati elementi, lo consideri tuttavia in sé valido.

Ora, nel caso specifico, non vi è dubbio che la norma, alla luce della sua ratio, sia manifestamente volta a impedire non già il negozio, ma il comportamento dell’esponente dell’ente («Chi svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso una banca non può contrarre obbligazioni...»); comportamento non necessariamente dannoso per l’ente, ma tale da configurare un reato avente natura di pericolo presunto. Dunque, illecito è il comportamento, non il negozio; con la conseguenza che risulta certamente applicabile la sanzione penale, ma non anche quella civilistica della nullità.

L’unica conseguenza civilistica che mi sembra possibile riconnettere al reato de quo è, pertanto, l’annullabilità del negozio.

L’invalidità dello stesso non consegue, quindi, sic et simpliciter al compimento dell’operazione, ma, ai fini dell’annullamento, è necessaria una valutazione, per la quale occorre fare riferimento alla corrispondente disposizione del codice civile, che regola l’ipotesi del conflitto di interessi in materia societaria, cioè all’art. 2391: il negozio può essere annullato solo se e quando sia accertata la ricorrenza dei presupposti previsti da tale norma.

Per concludere, nonostante il compimento delle operazioni, di cui all’art. 136 t.u., senza l’osservanza delle formalità in esso previste, sia penalmente illecito e dia origine a responsabilità penale a carico dell’esponente aziendale, quando manchi uno degli elementi richiesti per l’annullabilità del negozio, dovrà riconoscersi la sua validità.

 

9. La vendita di titoli presenti nel portafoglio dell’intermediario.

La vendita di titoli presenti nel portafoglio dell’intermediario, non comporta di per sé una ipotesi del conflitto di interessi, non applicandosi conseguentemente la relativa normativa di riferimento.

La questione tuttavia non si esaurisce nella semplice (e si fa per dire), questione della “negoziazione per conto proprio”, alla quale evidentemente diventa difficile applicare automaticamente l’art. 27 del reg. CONSOB, in quanto l’elemento che fa sorgere il conflitto di interessi nasce laddove la banca, alla luce delle notizie sconfortanti sul prevedibile default dell’economia argentina (nel mondo della finanza, si intende!), decide di alleggerire il proprio portafoglio di titoli “spazzatura” e di “rifilarli” al piccolo risparmiatore: in questo caso il conflitto di interessi nasce dalla contrapposizione degli interessi!   

Come noto, l’art. 21, comma 1, lett. c) del TUF stabilisce che: “Nella prestazione dei servizi di investimento e accessori i soggetti abilitati devono (…) organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento”.

Si tratta di una regola analoga a quella codificata a livello europeo nel documento del Committee of European Securities Regulators (noto come CESR) “Un regime europeo per la protezione dell'investitore: l'armonizzazione delle regole di condotta”[64]. Lo standard 5 stabilisce, infatti, che: “Un’impresa di investimento deve prendere tutte le precauzioni necessarie affinché i conflitti di interesse tra la stessa ed i propri clienti siano identificati, e dunque eliminati o amministrati in modo tale da non pregiudicare l’interesse dei risparmiatori (…)”[65].

Anche la Direttiva Europea del 21 aprile 2004, n. 39[66], che abroga la Direttiva 93/22/CEE, accoglie un’impostazione simile, cristallizzando definitivamente un orientamento di matrice anglo-americana[67], che si era da tempo imposto nel senso della International Organisation of Securities Commissions[68].

Il Regolamento n. 11522/98 “fa rientrare dalla finestra ciò che il legislatore ha fatto uscire dalla porta”.

In particolare il riferimento normativo è nell’art. 27, comma 2 del citato Regolamento il quale, per i servizi diversi dalla gestione di portafogli di investimento su base individuale, prevede che: “Gli intermediari autorizzati non possono effettuare operazioni con o per conto della propria clientela se hanno direttamente o indirettamente un interesse in conflitto, anche derivante da rapporti di gruppo, dalla prestazione congiunta di più servizi o da altri rapporti di affari propri o di società del gruppo, a meno che non abbiano preventivamente informato per iscritto l'investitore sulla natura e l'estensione del loro interesse nell'operazione e l'investitore non abbia acconsentito espressamente per iscritto all'effettuazione dell'operazione (…)”.

In altri termini, la Commissione introduce nuovamente nel nostro ordinamento giuridico la nota regola disclose or abstain, in base alla quale l’intermediario non deve operare nel caso di mero interesse nell’operazione (recte concorrenza), salvo espressa e specifica autorizzazione preventiva del cliente, messo a conoscenza della situazione.

Si tratta di una regola inefficiente, perché in un rapporto dinamico la verifica della natura e dell’estensione del conflitto e l’autorizzazione time by time incidono negativamente sull’esecuzione dell’incarico, oltre che formalista poiché l’investitore non sofisticato non avendo competenze specifiche nel settore finanziario non è comunque in grado di monitorare la “situazione”, e con l’escamotage del consenso-autorizzazione si accolla i costi di un’eventuale operazione potenzialmente dannosa, deresponsabilizzando l’operatore: sul punto dunque non sembrano esserci dubbi.

La Banca ha operato in concorrenza di interessi in quanto venduto titoli presenti nel proprio portafoglio, e ciò non è negato dalla controparte che si limita ad argomentare che tale circostanza non configura di per sé una ipotesi di conflitto di interessi, e, stando alla disciplina regolamentare vigente, avrebbe dovuto informare per iscritto l’investitore sulla natura e l’estensione dell’interesse nella specifica operazione. Così non è stato fatto.

In sintesi, è parere di chi scrive che, il giudicante, dovrebbe applicare il principio della “supremazia del diritto comunitario”, sfuggendo dal neo-formalismo negoziale su cui si appunta, invece, la regolamentazione Consob ed accogliere un modello di gestione del conflitto che sposta la valutazione del comportamento dell’intermediario ex post, attraverso una difficile ma certamente più efficace analisi dell’“intenzione”[69].

In ordine al rilievo secondo cui l’istituto avrebbe comunque dovuto segnalare l’inadeguatezza dell’operazione ai sensi dell’art. 29 del regolamento sopra menzionato in applicazione della c.d. suitability rule, va preliminarmente osservato che l’intermediario non è esonerato dall’obbligo di valutare l’adeguatezza dell’operazione anche ove (come nel caso di specie) i clienti abbiano rifiutato di fornire le informazioni di cui all’art. 28 I co. Lett. a) del regolamento Consob n. 11522/98 dovendo in tal caso tenere conto di tutte le informazioni comunque in suo possesso (ad esempio “età, professione, presumibile propensione al rischio anche alla luce della pregressa ed abituale operatività, situazione del mercato”: in tal senso vedasi comunicazione Consob n. DI/30396 del 21-4-2000 dettata in tema di trading on line): tanto si desume sia dai principi generali in tema di correttezza, diligenza e trasparenza dei comportamenti negoziali imposti dalla normativa generale e speciale (cfr. artt. 1175 e 1176 II co. c.c., 21 d. lgs. 58/98) ma anche dal testo l’art. 29 del citato regolamento Consob che impone all’intermediario finanziario di astenersi dal compiere per conto degli investitori operazioni non adeguate e prevede che lo stesso utilizzi ogni altra informazione disponibile anche diversa da quella fornita, ex art. 28 reg. cit., dai clienti, autorizzandolo solo in caso di conferma scritta dell’ordine d’acquisto a darvi (correttamente) esecuzione[70].



[1] ROSSI, Sul significato dell’avverbio «indirettamente» nell’art. 38 della legge bancaria, in Riv. soc., 1979, p. 167; MELLI, Il delitto di «abuso di obbligazioni dell’amministratore bancario » (Artt. 38, 65, 82 u.c. e 93 l.b.), in Banca, Borsa e Titoli di Credito, 1973, II, p. 307; MOLLE, La banca nell’ordinamento giuridico italiano, Milano, Giuffrè, 1987, p. 238 e p. 564; SGUBBI, Aspetti problematici dell’art. 92 della «legge bancaria», Banca, Borsa e Titoli di Credito, 1971, I, p. 96;MAZZARELLA, La disciplina delle obbligazioni di amministratori, direttori e sindaci di enti di credito, in Banca, Borsa e Titoli di Credito, 1973, I, p. 524.

[2] ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, Milano, Giuffrè, 1987, p. 607; MELLI, op. cit., p. 312.

[3] MAZZARELLA, op. cit., p. 521 e p. 524 s.

[4] Attuazione della direttiva 89/646/CEE relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l'accesso all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio e recante modifica della direttiva 77/780/CEE. Entrata in vigore il 01.01.1993.

[5] Articolo abrogato dal d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385.

[6] Per alcuni enti era utilizzato il modello del divieto assoluto e non derogabile, mentre per altri quello del divieto condizionato e, ancora, in quest’ultima ipotesi, la maggioranza qualificata, richiesta per la deliberazione del consiglio di amministrazione, variava a seconda dell’ente e dell’esponente dello stesso.

[7] RUTA, Il sistema della legislazione bancaria, Roma, Bancaria, 1975, p. 308; MOLLE, op. cit., p. 42 s. e p. 142.

[8] Le citazioni che precedono sono riprese dalla Relazione Grillo - VI Commissione permanente della Camera dei Deputati - Legislatura X - doc. n. 3124 A

[9] Lamanda, La società per azioni bancaria, Roma 1994.

[10] Relazione Berlanda - VI Commissione permanente del Senato - X Legislatura, doc. nn. 2217, 381 e 2179-11. Sul punto, cfr. Amorosino (a cura di), La ristrutturazione delle banche pubbliche - L’attuazione della L. 218 del 1990, Milano 1991; Porzio, Appunti sulla “Legge Amato”, in Riv. soc. 1991,804; Capriglione (a cura di), Despecializzazione istituzionale e nuova operatività degli enti creditizi, Milano 1992; AA.VV., La ristrutturazione della banca pubblica e la disciplina del gruppo creditizio - Quaderni di ricerca giuridica della Consulenza Legale della Banca d’Italia, Roma 1992; Parrillo, Realtà e prospettive del sistema creditizio italiano, in La risposta del sistema finanziario e creditizio italiano alle sfide del nuovo mercato, Roma, 1992; Rispoli Farina (a cura di), Dall’ente pubblico creditizio alla società per azioni - Commento sistematico alla L. 218/90, Napoli 1993; Capriglione (a cura di), Mercati e intermediari in trasformazione, Roma 1994; Oppo, Fusione e scissione di banche tra disciplina codicistica e ordinamento settoriale, in Riv. dir. civ. 1994, p. 119; Uber Tazzi, Nuovi spunti sulle autorizzazioni alle concentrazioni bancarie, in Dir. finanz. 1993, I, p. 527; Berti, Fondazioni bancarie, Jus 1995, p. 3.

[11] De Vecchis, Gli istituti centrali di categoria nell’organizzazione creditizia, in Impresa ambiente e pubblica amministrazione 1975, 471 e citata voce Aziende ed istituti di credito

[12] Lettera della Banca d’Italia contenente alcuni principi interpretativi dell’art. 38 della legge bancaria, in La legge bancaria, Bancaria, Roma, 1972, p. 321, nt. 50.

[13] MELLI, op. cit., p. 307; Pret. pen. Milano, 12 agosto 1976, in Giur. comm., 1979, II, p. 660.

[14] FOIS, in Comm. al cod. civ. diretto da P. Cendon, Torino, Utet, 1991, p. 1098 s.

[15] BONELLI, op. cit., p. 914 ss., anche nt. 14; GRIECO, Il conflitto di interessi in generale e nell’ambito dei gruppi di società, in Giust. civ., 1991, II, p. 159.

[16] L’obbligo di astensione dal voto dell’amministratore interessato è sancito, come ricorda la Banca d’Italia, dall’art. 2391 c.c., anche se, sotto il vigore dell’art. 38 l.b., nonostante il chiarimento dato dalla Banca Centrale, qualche autore avanzava talune perplessità in merito. MELLI, op. cit., p. 312 s., anche nt. 33; MAZZARELLA, op. cit., p. 522, nt. 22.

[17] MOLLE, op. cit., p. 241; RUTA, op. cit., p. 513; MAZZARELLA, op. cit., p. 522, anche nt. 23; CHIARAVIGLIO, op. cit., p. 1851, nt. 8; PRATIS, op. cit., p. 513 s. Contra, ANTOLISEI (op. cit., p. 607, anche nt. 2), che ritiene che l’unanimità sia riferita all’intero consiglio e non solo ai membri presenti: le istruzioni della Banca d’Italia non possono derogare alla legge e quest’ultima, quando ha inteso riferirsi ai soli consiglieri presenti, lo ha dichiarato espressamente.

[18] MAZZARELLA, op. cit., p. 523, nt. 23; MOLLE, op. cit, p. 241; CHIARAVIGLIO, op. cit., p. 1851; MELLI, op. cit., p. 311 s.

[19] Conformi, MOLLE, op. cit., p. 241; MAZZARELLA, op. cit., p. 522, nt. 21. RUTA (op. cit., p. 513 ss.), pur ritenendo astrattamente concepibile che tra i poteri dell’amministratore delegato rientri anche quello di autorizzare tali operazioni, conclude che la formula della legge non consente una simile estensione.

[20] Secondo le Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia, nell’ipotesi di enti creditizi in cui l’amministrazione attiva è attribuita in via originaria dallo statuto ad un organo diverso dal consiglio, la delibera deve essere assunta da tale organo (Comitato di gestione, Comitato esecutivo); sono, comunque, destinatari del divieto i componenti di entrambi gli organi amministrativi. In questo senso, MOLLE, op. cit., p. 241.

[21] In questo senso, le Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia; MOLLE, op. cit., p. 241; CHIARAVIGLIO, op. cit., p. 1852; RUTA, op. cit., p. 513. MAZZARELLA (op. cit., p. 524, nt. 25) ritiene che le Istruzioni di vigilanza, sul punto, non convincono perché contrastanti con l’art. 2405 c.c., ai sensi del quale «i sindaci devono assistere alle adunanze del consiglio di amministrazione».

[22] Godano, La legislazione comunitaria in materia bancaria, Bologna 1996.

[23] Padoa-Schioppa, La trasformazione dell’ordinamento bancario in Italia e in Europa: reciproche influenze, introduzione a Godano, La legislazione comunitaria in materia bancaria.

[24] Padoa-Schioppa, La trasformazione dell’ordinamento bancario in Italia e in Europa: reciproche influenze, cit.

[25] AA.VV., La risposta del sistema finanziario e creditizio italiano alle sfide del nuovo mercato, Atti delle Giornate di studio organizzate a Roma il 1° e 2 dicembre 1992 dell’Istituto per l’Enciclopedia della Banca e della Borsa; AA. VV., La nuova costituzione bancaria e l’evoluzione della struttura creditizia, Rapporti banca-imprese, Atti della Giornata di studio organizzata a Roma il 24 novembre 1993 dal medesimo Istituto

[26] La letteratura sul punto è vastissima, v. per tutti, Capriglione-Mezzacapo (a cura di), Codice commentato della Banca, Milano 1990; AA.VV., Il Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, in Riv. soc. nn. 5-6, 1993; AA. VV., Dall’attuazione della II Direttiva CEE in materia bancaria al Testo Unico, Bari 1993; AA.VV., L’attuazione della II Direttiva comunitaria sulle banche, in Dir. banca finanz. 1993, I, p. 167; Belli, Verso una nuova legge bancaria. Un sistema creditizio in transizione: 1985-1992, Torino 1993; Minervini, Dal decreto 481/92 al Testo Unico in materia bancaria e creditizia, in Giur. comm. 1993, I, p. 825; Nigro, La nuova legge bancaria, in Dir. banca finanz. 1993, I, p. 506; Capriglione (a cura di), Il recepimento della II Direttiva CEE in materia bancaria, Bari 1993; Santoro, Prime considerazioni sul concetto di ente creditizio e di attività bancaria nel decreto legislativo 481/92, in Dir. banca finanz. 1993, p. 393 ss. 

[27] v. Libro Bianco della Banca d’Italia, Ordinamento degli enti pubblici creditizi, Roma 1981.

[28] Capriglione, L’impresa bancaria tra controllo e autonomia, Milano 1983; Costi, L’ordinamento bancario, Bologna 1987.

[29] Cammarano, L’impresa bancaria in AA.VV., L’impresa, Milano 1985; Costi, L’ordinamento bancario italiano e le direttive comunitarie, in Banca impresa e società 1986, 3.

[30] Per un’efficace e compiuta rappresentazione delle tante problematiche connesse al “continuo oscillare tra il riconoscimento dei profili privatistici di impresa - certamente presenti nell’ordinaria attività di erogazione del credito e raccolta del risparmio - e l’opposta esaltazione degli interessi pubblici sottostanti all’ordinamento bancario” cfr. Flick, Diritto penale e credito: problemi attuali e prospettive di soluzione, Milano 1988.

[31] Cfr. Corte Cost. 26 giugno 1975 n. 159.

[32] Sull’intera questione e sulle posizioni assunte dalla giurisprudenza, cfr. Ruta, Il risparmio nel sistema della legislazione bancaria, Milano 1965

[33] Cass. 13 marzo 1965 n. 425, in Banca Borsa e Titoli di Credito 1965, II; v. pure Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, Roma 1975, 815.

[34] V. legislazione sul credito fondiario: testo unico appr. con r.d. 16 luglio 1905 n. 646; sul credito edilizio: r.d.l. 2 maggio 1920 n. 69 e r.d.l. 4 maggio 1924 n. 993; sul Consorzio di credito per le opere pubbliche e sull’Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità: r.d.l. 2 settembre 1919 n. 1627,1. 14 aprile 1921 n. 488, r.d.l. 20 maggio 1924 n 731.

[35] Pontolillo, Il sistema del credito speciale in Italia, Bologna 1981; De Vecchis, voce Crediti speciali.

[36] V., in generale, Capriglione (a cura di), Mercati e intermediari in trasformazione, Roma 1994; Carbonetti, I contratti di intermediazione mobiliare, Milano 1992; Predieri (a cura di), Le riforme dei mercati finanziari, Milano 1993.

[37] Poznanski, Definitiva pronuncia della Cassazione sul carattere d’impresa della Banca, in Bancaria 1987, n. 9, 61; Castiello, La natura giuridica dell’attività bancaria negli orientamenti delle Sezioni unite penali della Cassazione, in Econ. Cred. 1987, 49; Castiello D’Antonio, Evoluzione dell’oggetto e qualificazione dell’attività bancaria, in Riv. Comm. 1987, I, 155; Stagno D’Alcontres, Innovazione normativa e ripensamenti giurisprudenziali in tema di attività bancaria, in Riv. Dir. Comm. 1988, 239; Ferrarini, Sulla natura pubblica e privata dell’attività bancaria, in Dir. Pen. Impresa, 1988, 81

[38] Pototschnig, I servizi pubblici, Padova 1964.

[39] cfr. De Marsico, Sul peculato per distrazione con particolare riguardo al peculato bancario, in Giust. Penale 1968, II, 142; Nuvolone, Problemi di diritto penale bancario, in Banca Borsa e Titoli di Credito 1976, I, 186; Gentili, Note critiche sulla natura giuridica degli istituti di credito di diritto pubblico e la qualità di pubblici ufficiali dei loro dipendenti, ivi 1977, I, 81; ROMANO, Introduzione allo studio del diritto penale bancario, in La responsabilità penale degli operatori bancari, a cura dello stesso Romano, Bologna 1980

[40] Capriglione, Qualificazione dell’attività bancaria e imprenditorialità degli enti creditizi, in Foro It. 1981, II, 554; Ferri, Imprenditorialità degli enti creditizi: un discorso interrotto, in Banca Borsa e Titoli di Credito 1982, I, 157; Giannini, Problemi della banca come impresa, ivi 1982, I, 392

[41] v. ampia rassegna in De Vecchis, La natura giuridica dell’attività bancaria, Roma 1987.

[42] A. Montesano - B. Iannello, Amministratore di società, guida operativa, Milano, Ipsoa, 1996, II, sez. 4, Orientamento operativo, p. 5.

[43]  A. Montesano - B. Iannello, Amministratore di società, guida operativa, Milano, Ipsoa, 1996, II, sez. 4, Orientamento operativo, p. 5.

[44] Al parere espresso, largamente condiviso dalla dottrina, è contrario F. Chiappetta, La partecipazione al voto e alla discussione dell'amministratore in conflitto di interessi, in Giurisprudenza commerciale, 2/1991, I, p. 265, il quale osserva che non è possibile negare, contrariamente a quanto fa la dottrina dominante, che in sede di discussione l'influenza dell'amministratore in conflitto possa, in concreto, riuscire determinante. L'osservazione è senz'altro corretta, ma la contraria opinione obbietta che la legge non intende impedire che l'amministratore in conflitto di interessi eserciti la sua influenza - che potrebbe comunque esercitare anche al di fuori della riunione consigliare - ma più semplicemente intende impedire l'esercizio del voto.

[45] Cass. civ., 22 maggio 1989, n. 2443, in Dir. Fall., 1989, II, p. 1048.

[46]App. Napoli, 23 novembre 1987, in Le società, 1988, p. 486; Cass. civ., 22 dicembre 1993, n. 12700, in Le società, 1994, p. 782.

[47] G. Bianchi, Gli amministratori di società di capitali, in Diritto della Giurisprudenza, collana diretta da M. Lo Piano, Padova, Cedam, 1998, p. 388.

[48] Trib. Milano, 13 dicembre 1990, in Le società, 1991, p. 677.

[49] Trib. Milano, 2 febbraio 1987, in Le società, 1987, p. 719; Trib. Milano, 5 novembre 1987, in Le società, 1988, p. 266.

[50] App. Milano, 27 aprile 1990, in Le società, 1990, p. 1492

[51] Trib. Milano, 17 marzo 1986, in Le società, 6/1986, p. 619

[52] Unanime in proposito la dottrina: F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in Trattato delle società per azioni, a cura di G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, Utet, 1995, p. 375; G.F. Campobasso, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, Torino, Utet, 1995, p. 271; G. Cottino, Diritto commerciale, Padova, Cedam, 1994, p. 542; O. Cagnasso, L'amministrazione collegiale e la delega, in Trattato delle società per azioni, a cura di G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, Utet, 1995, p.271.

[53] V/ Cass., 1° febbraio 1992, n. 1089, in Foro It., 1992, I, p. 2139: L'art. 2391 non è applicabile ove manchino altri amministratori, e quindi nell'ipotesi di amministratore unico, che resta disciplinata, invece, dalla norma dell'art. 1394 codice civile, per cui il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato può essere fatto valere solo da quest'ultimo e non da altri soggetti.

[54] Cass. civ., 1° febbraio 1992, n. 1089, in Le società, 6/1992, p. 785.

[55] V. Lenoci - Nota sent. Cass., 1° febbraio 1992, n. 1089, in Foro italiano, 1992, I, p. 2139.

[56] V. Lenoci - Nota sent. Cass., 1° febbraio 1992, n. 1089, in Foro italiano, 1992, I, p. 2139.

[57] R. Rordorf - Il gruppo di imprese, in aa.vv., Il bilancio consolidato, Milano, Ipsoa, 1993, pp. 19-20 rileva che ad onta di un sempre più frequente uso del vocabolo "gruppo" in molteplici leggi speciali, non è stata finora emanata alcuna normativa destinata a definire in termini generali i confini giuridici di tale fenomeno per cui una definizione unitaria si presenta quanto mai ardua, non solo per la già ricordata mancanza di una disciplina organica, sia nazionale che comunitaria, ma anche perché a tale vuoto di normative generali si è andata negli ultimi tempi contrapponendo una sempre più fitta schiera di disposizioni particolari nelle quali il legislatore, intendendo disciplinare ora questo ora quello specifico settore del diritto commerciale, ha fatto implicito o esplicito riferimento alla nozione di gruppo, talvolta sembrando presupporla come nota, talaltra abbozzandone i lineamenti (ma sempre con valenza limitata a quel determinato settore di intervento), ora in modo autonomo, ora con riferimenti più o meno estesi alle figura del controllo e del collegamento societario disciplinato dal codice civile.

[58] S. Ronco, Rapporti tra imprese nel gruppo e conflitto di interessi, in Le società, Casi e questioni, 1990, caso 109.

[59] Trib. Napoli 2 febbraio 1994, in Foro it., 1995, I, p. 1671.

[60] App. Roma 23 giugno 1988, in Foro it., 1989, p. 420; Cass, civ. 8 maggio 1991, n. 5123, in Le società, 1991, p. 1349; App. Milano 21 gennaio 1994, in Le società, 1994, p. 923) pur riconoscendo legittime le attività ispirate all'interesse del gruppo, ma con il limite che esse non debbano comunque essere tali da recare pregiudizio alla società che le pone in essere (Trib. Napoli 2 febbraio 1994, in Foro it., 1995, I, p. 1671.

[61] App. Milano 9 settembre 1988, in Le società, 1989, p. 145.

[62] In linea di massima, pur avvertendo la difficoltà di conciliare la disciplina codificata con la realtà dei "gruppi" d'imprese, la giurisprudenza pare propensa a tener ferma la necessità che l'amministratore di ciascuna società si attenga all'interesse della società da lui stesso amministrata, come corollario del principio per cui ogni società di capitali risponde, comunque, unicamente dei propri debiti e solo col proprio patrimonio. Viene perciò ribadito che il "gruppo" di imprese non costituisce un soggetto giuridico o comunque un centro di interessi autonomo rispetto alle società collegate e, pertanto, anche ai fini della responsabilità degli amministratori - quando manchi la prova di un accordo fra le varie società, diretto a creare un'impresa unica, con direzione unitaria e patrimoni tutti destinati al conseguimento di una finalità comune e ulteriore - va valutato il comportamento che la legge e l'atto costitutivo impongono rispetto alla società di appartenenza, talché gli amministratori rispondono verso la medesima società dell'inosservanza dei loro doveri, senza che sia possibile compensare, in una valutazione globale del loro comportamento, il pregiudizio cagionato a quest'ultima, per effetto di mala gestio, col corrispondente vantaggio di altra società del gruppo. R. Rordorf, Nuova rassegna di giurisprudenza sul codice civile, Milano, Giuffrè, 1994, p.1579.

[63] Trib. Orvieto, 4 novembre 1987, in Giur. comm., 5/1989, II, p. 804.

[64] Il documento è scaricabile all’indirizzo web del CESR: http://www.europefesco.org; cfr. anche il documento integrativo “A European Regime of Investor Protection. The Professional and the Counterparty Regimes”, luglio 2002, (Ref. CESR/02-098b).

[65] AA.VV., Capital Market in the Age of the Euro – Cross Border Transactions, Listed Companies and Regulation, Ferrarini, Hopt, Wymeersch (Editors), Dordrecht, 2002

[66] Cfr. in particolare, l’art. 18. Come si legge nella relazione accompagnatoria alla direttiva: “Qualora l’impresa abbia tentato di gestire i conflitti di interesse predisponendo meccanismi organizzativi senza però riuscire ad acquisire la ragionevole certezza che questi conflitti non presentino più alcun pregiudizio potenziale per gli interessi dei clienti, l’impresa è tenuta ad informare il cliente dell’esistenza di conflitti di interesse residui. Se opportuno o necessario, la comunicazione al cliente può avere carattere generale”.

[67] In materia, cfr. F. ANNUNZIATA, Regole di comportamento degli intermediari e riforme dei mercati mobiliari, Milano, 1993, pagg. 127 e ss.; M. GRAZIADEI, Diritti nell’interesse altrui- Undisclosed agency e trust nell’esperienza giuridica inglese, Quaderni del Dipartimento di scienze giuridiche, Trento, 1995, pagg. 352 e ss.; AA.VV., Encyclopedia of Financial Services Law, Lomnicka, Powell (a cura di), I-IV, London, 1987.

[68] Sul punto, i principi IOSCO stabiliscono che “Un intermediario deve cercare di evitare l’insorgere di qualsiasi conflitto di interessi, ma qualora ciò non sia possibile deve assicurare a tutti i clienti un trattamento equo, mediante una adeguata informazione, attraverso regole organizzative interne e, financo, evitando di operare qualora il conflitto non possa essere neutralizzato. In ogni caso l’intermediario non deve mai anteporre il proprio interesse a quello dei clienti”.

[69] Tribunale di Mantova 18 marzo 2004.

[70] la diversa regola contenuta nell’art. 19 co. V della direttiva europea 2004/39/CE del 21-4-2004 non può trovare applicazione al caso di specie sia ratione temporis sia perché le direttive non attuate -e purchè ricorrano gli altri requisiti- non hanno efficacia nei rapporti interprivati: cfr. Cass. 25-2-2004 n. 3762; Corte Giust. CE 29-5-2004 n. 194


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