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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 10/02/2022 Scarica PDF
Il superamento del tasso soglia in executivis: un fenomeno che deve fare i conti con i limiti dell'autonomia contrattuale e l'abuso del diritto. Una possibile lettura della Cass. S. U. n. 24675/2017
Giampaolo Morini, Avvocato in LuccaSommario: 1. L’incidenza dell’art. 1419 c.c. sulla legge antiusura: tra nullità parziale e totale del contratto. 2. L’usura “sopravvenuta”: principio di solidarietà sociale e buone fede in executivis. Gli orientamenti della giurisprudenza e lo spunto delle SSUU. 3. Gli interessi divenuti in executivis usurari: un fenomeno che deve fare i conti con i limiti dell’autonomia contrattuale e l’abuso del diritto. 3.1 Gli interessi divenuti in executivis usurari e divieto di abuso del diritto. 3.2 Gli interessi divenuti in executivis usurari e i limiti dell’autonomia contrattuale.
1. L’incidenza dell’art. 1419 c.c. sulla legge antiusura: tra nullità parziale e totale del contratto.
L'art. 1419 primo comma c.c., contempla il c.d. effetto espansivo, in virtù del quale la nullità che colpisce una clausola essenziale del contratto importa la nullità dell'intero contratto.
La clausola con la quale le parti convengono il tasso di interessi è senza dubbio da considerarsi fondamentale nell’economia del contratto, in quanto rappresentativa della remunerazione (o controprestazione) che spetta alla parte che opera la dazione di denaro.
Se si applicasse anche al contratto di mutuo il principio generale, la conseguenza sarebbe la restitutio in pristinum, con restituzione, da parte del debitore, dell'intera somma ricevuta in prestito.
La norma costituisce applicazione del principio della conservazione del contratto (utile per inutile non vitiatur); va peraltro evidenziato sin da ora come detto principio generale si atteggi in modo assai differente nel c. 1 e nel c. 2 dell'articolo.
Dall' art. 1419 sono infatti enucleabili due norme strutturalmente e funzionalmente diverse: quella di cui al c. 1 è diretta ad individuare la volontà delle parti riguardo al destino del contratto parzialmente nullo; quella di cui al c. 2 prescinde dalla volontà delle parti comunque intesa, ed è diretta ad inserire nel contratto un contenuto autoritativamente predeterminato[1].
La ratio del co. 1 deve rintracciarsi nella propensione dell'ordinamento a consentire, di regola, la conservazione del contratto salvo che debba farsi luogo ad una modificazione del contenuto contrattuale tale da non giustificarne obiettivamente il mantenimento, per cui, la nullità totale sarebbe l'"eccezione" rispetto alla regola della conservazione[2].
Anche la giurisprudenza concorda con l’eccezionalità della nullità dell’intero contratto nel rispetto del principio generale di conservazione del contratto, ammettendone la possibilità solo quando il contenuto dispositivo del negozio, privo della parte nulla, risulti inidoneo a realizzare le finalità cui la sua conclusione era preordinata[3], ossia determini il venir meno dell'utilità del contratto in relazione agli interessi con esso perseguiti, secondo quanto emerge dall'attività ermeneutica svolta dal giudice[4].
Spetta alla parte interessata provare che la clausola colpita da nullità non ha esistenza autonoma né persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto[5]: l'estensione della nullità non può essere dichiarata d'ufficio dal giudice[6].
La questione relativa implica una valutazione di fatto non censurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici[7].
Il regime degli interessi ex art. 1815 comma 2 c.c., in omaggio al principio del favor debitoris, cui è informato il nostro ordinamento giuridico, fa salvo il contratto, epurandolo dalla clausola che prevede interessi usurari, ma sanziona la scorrettezza del creditore con l’esonero del debitore dal pagamento di ogni interesse.
Le sopravvenienze pongono il problema della gestione del rischio da esse ingenerato e della individuazione dei possibili rimedi: fa da sfondo il contrasto tra due principi fondamentali che presidiano i rapporti tra i privati: da un lato, il principio pacta sunt servanda, che mira a preservare l’intangibilità, quindi, la certezza e la vincolatività del contratto; dall’altro lato, il principio di autoresponsabilità in forza del quale ognuno deve risentire nella propria sfera giuridica delle conseguenze della mancata adozione delle cautele e delle regole di comune prudenza che identificano il contenuto di diligenza esigibile dal soggetto giuridico nei comportamenti adottati nella vita sociale (art. 1227 c.c.).
Dunque, affinché possa operare il c. 1 e non il c. 2 della norma in esame occorre innanzitutto che non esista una norma imperativa che possa sostituire la parte nulla del contratto[8]; in poche parole la norma impone di valutare se il contratto possa stare ancora in piedi nonostante l'espunzione della parte viziata, indagando quale rilevanza possa aver tale parte nella determinazione della loro volontà negoziale; il problema può posto sovente in questi termini: il contratto resta efficace nella sua parte valida laddove la nullità della parte o della singola clausola non colpisca elementi essenziali del negozio né si trovi in un rapporto di inscindibilità con la restante parte dello stesso[9].
Il criterio per rilevare tale inscindibilità è indicato nella norma con riferimento alla circostanza che i contraenti non avrebbero voluto il contratto senza la parte nulla: sulla base di tale presupposto, tuttavia la questione non trova una soluzione immediata.
Infatti se si valuta la inscindibilità, ricostruendo la volontà ipotetica delle parti, sarebbe sufficiente per la declaratoria di nullità totale accertare che una delle parti (e non entrambe) non avrebbe concluso il contratto senza la parte colpita da nullità[10].
Tuttavia la dottrina e giurisprudenza più recenti ritengono che l'indagine vada condotta con criterio oggettivo, in funzione del permanere o meno dell'utilità del contratto in relazione agli interessi con esso perseguiti, secondo quanto emerge dall'attività ermeneutica svolta dal giudice[11].
A volte si rinvengono nei rapporti contrattuali delle clausole di inscindibilità (c.d. clausole di severability), con cui le parti, al fine di salvaguardare il vincolo pattizio, cercano di escludere l'applicazione dell'art. 1419 e l'esame che tale norma demanda all'autorità giudiziaria, convenendo ex ante che la nullità di una clausola non debba comportare la nullità dell'intero contratto.
La dottrina prevalente manifesta seri dubbi in merito alla validità di queste pattuizioni, specialmente nell'ipotesi in cui si interpretino come deroga all' art. 1419 e pertanto come una rinuncia preventiva ad avvalersi del rimedio della nullità del contratto[12].
Diversamente, una clausola così formulata, potrebbe essere intesa come clausola con cui le parti dichiarino che il contratto è composto da precetti indipendenti e scindibili: ma una tale previsione, oltre a risultare poco convincente[13], rischierebbe di apparire come mera clausola di stile, non esprimente un'effettiva volontà negoziale e, di conseguenza, non idonea ad esonerare il giudice dall'esame di cui all' art. 1419[14].
2. L’usura “sopravvenuta”: principio di solidarietà sociale e buone fede in executivis. Gli orientamenti della giurisprudenza e lo spunto delle SSUU.
Tornando adesso all’istituto dell’usura, la giurisprudenza di legittimità, in un primo momento, si è orientata in senso favorevole all’applicabilità della l. 108 anche ai contratti pendenti alla sua entrata in vigore con riferimento alle ricadute sul rapporto successive a tale data: le pronunce della Suprema Corte assumevano il seguente tenore: “La l. 108/1996 che ha modificato l’art. 644 c.p., in difetto di previsione di retroattività, non può operare rispetto ai precedenti contratti di mutuo, pur essendo di immediata applicazione nei relativi rapporti limitatamente alla regolamentazione di effetti ancora in corso”[15].
Il legislatore, ritenendo l’applicazione giurisprudenziale non in linea con la ratio della l. 108/1996, è intervenuto con la norma di interpretazione autentica - avente efficacia retroattiva - di cui all'art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, nella quale è stato chiarito che Ai fini dell'applicazione dell'articolo 644 del codice penale e dell'articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento.
La Relazione governativa relativa al citato decreto legge ha ha posto in evidenza che la ratio legis è quella di escludere radicalmente, non soltanto la possibilità di applicare la legge n. 108 del 1996 ai contratti conclusi prima della sua entrata in vigore, ma anche l’ammissibilità dell’ipotesi di usura sopravvenuta, concernente i contratti stipulati dopo tale data.
Esclusa l’applicabilità della L. 108/96 ai casi di usura cd. sopravvenuta, il giudizio di usurarietà viene dunque circoscritto esclusivamente il momento della pattuizione degli interessi (quindi, il tasso soglia vigente al momento della pattuizione degli stessi): assume pertanto preminenza il profilo volontaristico che conduce all’affermazione della responsabilità dell’agente in base al principio di autoresponsabilità contrattuale.
Apparentemente non viene dato, alcun rilievo, al successivo momento della corresponsione degli interessi anche nelle ipotesi in cui i detti interessi siano divenuti ultra legali.
La norma di interpretazione autentica non è stata immune da critiche, tanto che, è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale la questione di legittimità avente ad oggetto la violazione degli artt. 3, 24, 47 e 77 Cost.: la Corte Costituzionale con la sentenza n. 29/2002 ha ritenuto costituzionalmente legittimo ovvero ragionevole la legge di interpretazione autentica ed infatti sancisce che E’ costituzionalmente legittimo l’art. 1 comma 1 della legge 24/2001, nella parte in cui con norma di effettiva interpretazione autentica che non supera le possibilità semantiche delle disposizioni interpretate, esclude la natura usuraria degli interessi originariamente non usurari che, per effetto della caduta del tasso medio, successivamente superino il limite di legge.
Come noto, tuttavia la declaratoria di legittimità costituzionale della norma di interpretazione autentica non ha risolto il dibattito in materia di usura sopravvenuta, tutt’ora in essere sia in dottrina che in giurisprudenza.
La Cass. S.U. n. 24675 del 19 Ottobre 2017 ha quindi espresso il seguente principio di diritto: “allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso di svolgimento del rapporto, la soglia d’usura come determinata sulla base delle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; né la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto”.
Le SU, aderiscono quindi al primo orientamento esposto, per cui il giudice è vincolato in maniera imprescindibile all’interpretazione autentica degli artt. 644 c.p. e 1815 secondo comma c.c., come modificati dalla l. n. 108/1996, imposta dall’art. 1 comma 1 d. l. n. 394/2000 che, peraltro, ha superato il vaglio di legittimità della Corte Costituzionale.
Per le SU del 2017, degli interessi divenuti in executivis ultra legali prescindono dalla normativa dettata dagli art. 644 c.p. e 1815 comma 2 c.c.
Infatti, la Corte osserva che l’art. 644 comma 3 c.p. è la sola disposizione che “contiene il divieto di farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o altre utilità”; così pure l’art. 1815 c.c. nel sanzionare l’usura presuppone una nozione di interessi usurari definita altrove, ossia, di nuovo, nella norma penale integrata da meccanismo previsto dalla l. 108.
Per la Corte quindi non esiste, un giudizio di usurarietà che non si fondi sull’art. 644 c.p., (ma in effetti non poteva essere diversamente) la cui applicazione è ancorata alla interpretazione fornita dal legislatore con la legge n. 24 del 2001: Sarebbe pertanto impossibile operare la qualificazione di un tasso come usurario senza fare applicazione dell’art. 644 c.p.; ai fini dell’applicazione del quale, però, non può farsi a meno- perché così impone la norma d’interpretazione autentica- di considerare il momento in cui gli interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento.
Le SU del 2017 non hanno tuttavia ignorato la problematica del superamento del tasso soglia in executivis (sebbene non abbia costituito oggetto specifico di gravame) trattandola al par. 3.4.2.
Nella ricerca degli strumenti di tutela di cui il debitore può disporre per ricondurre gli interessi dovuti nella misura legale, infatti, la dottrina dominante, ha riconosciuto, specie per i rapporti di durata o per i contratti ad esecuzione differita, un generale dovere di rinegoziazione del contratto a fronte di sopravvenienze incidenti sull’equilibrio sinallagmatico che abbiano causato uno squilibrio significativo tra le prestazioni.
Il dovere di rinegoziazione promana direttamente dal principio di buona fede, declinato in senso oggettivo (o correttezza), che si specifica in obblighi comportamentali a carattere negativo (doveri di lealtà, come ad es. si riscontra negli obblighi informativi e di trasparenza ex artt. 1337 e 1338 c.c.) e positivo (doveri di salvaguardia che impongono alle parti un comportamento collaborativo, soprattutto in sede di esecuzione ex art. 1375 c.c.).
L’affermazione di un generale dovere di salvaguardare l’interesse altrui nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio del proprio interesse (cd. principio di solidarietà contrattuale enunciato dal combinato disposto degli artt. 1375 c.c. e 2 Cost.) conduce a ritenere che la condotta del creditore che riscuote interessi divenuti nel corso del rapporto ultra legali non può ragionevolmente essere trattata alla stregua di un post factum non punibile.
Infatti, qualora il creditore esercitasse il diritto all'interesse, il suo comportamento sarebbe contrario alla buona fede perché pretenderebbe l'esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata.
Il debitore viceversa potrebbe paralizzare l’azione di adempimento degli stessi avvalendosi dell’exceptio doli generalis, attraverso cui far vale un’inefficacia ex bona fide della clausola contrattuale relativamente a quella percentuale di interessi eccedenti la soglia consentita.
3. Gli interessi divenuti in executivis usurari: un fenomeno che deve fare i conti con i limiti dell’autonomia contrattuale e l’abuso del diritto.
Le Sezioni Unite, tuttavia, escludono che la pretesa in sé (in quanto legittima) degli interessi divenuti in executivis usurari possa determinare la violazione del canone di buona fede, concretizzandosi la detta violazione nelle particolari modalità abusive in cui si manifesti l’esercizio del diritto.
“In questo senso può allora affermarsi che, in presenza di particolari modalità o circostanze, anche la pretesa di interessi divenuti superiori al tasso soglia in epoca successiva alla loro pattuizione potrebbe dirsi scorretta ai sensi dell’art. 1375 c.c.”.
Con quest’ultimo passaggio motivazionale la Suprema Corte se da un lato pone un freno, dall’altro non delegittima, la tendenza a ricorrere a meccanismi rimediali (in specie manutentivi), desumibili dal canone generale della buona fede nonché dal dovere di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2 della Cost.
A tal proposito, la sentenza delle Sezioni Unite ripercorre brevemente il contrasto sorto tra due orientamenti delle sezioni semplici della Corte di Cassazione.
Un primo orientamento, fedele alla lettura che il legislatore fornisce della l. 108/96, ne disconosce l’applicabilità alle ipotesi di usura sopravvenuta.
Un secondo orientamento, viceversa, ha ritenuto applicabile la legge antiusura alle pattuizioni di interessi precedenti alla sua entrata in vigore e ancora in corso[16].
Quest’ultima forma di illiceità è variamente qualificata dalla giurisprudenza in termini di nullità o inefficacia con effetti ex nunc, ma comporta, in ogni caso, la sostituzione automatica della clausola contrattuale ai sensi dell’art 1339 c.c. (secondo taluni con il tasso soglia, secondo altri con il tasso legale): per questo orientamento, ai fini del giudizio di usurarietà, non si può non riconoscere rilevanza al momento della corresponsione degli interessi (momento funzionale ed esecutivo del contratto).
Dunque, sia in dottrina che in giurisprudenza si è affermato che, anche alla luce dell'interpretazione autentica fornita dal legislatore, sarebbe irragionevole e incongruo sostenere l’obbligo del debitore di corrispondere gli interessi divenuti comunque usurari, per effetto del sopraggiunto ribasso del tasso soglia.
Un primo argomento a sostegno di tale tesi si ricava dalla sentenza n. 9405 del 2017 della Corte di Cassazione che, nell’affermare l’applicabilità del tasso soglia in sostituzione del tasso contrattuale che sia divenuto superiore ad esso, precisa che la legge di interpretazione autentica limita il proprio ambito applicativo agli art. 644 c.p. e art. 1815 comma 2 c.c., pertanto, la legge n. 24 del 2001 non sembra escludere in via assoluta l’irrilevanza di un’usura sopravvenuta, né si pone come preclusiva della qualificazione in termini di illiceità della condotta di riscossione dei ratei divenuti usurari.
Dunque, parrebbe che la legge n. 24 del 2001 non abbia l’effetto di escludere, a prescindere, l’adeguamento del tasso divenuto usurario a quello massimo consentito dalla legge.
Preso atto della evoluzione giurisprudenziale devono tuttavia farsi alcune considerazioni ritenendo che la banca, nella indubbia conoscenza DEI LIMITI DEL TASSO SOGLIA dovrebbe adottare tutte le cautele perché tale limite non venga mai superato, in difetto è parare di chi scrive, che si palesi una ipotesi di abuso del diritto; in effetti nella prassi le banche hanno previsto, in merito al tasso di mora[17] una clausola di salvaguardia[18]: perché non è stata prevista anche per gli interessi corrispettivi.
Deve inoltre tenersi conto che nella ipotesi di superamento del tasso soglia in esecuzione del rapporto contrattuale è necessario determinare i limiti dell’autonomia contrattuale.
3.1 Gli interessi divenuti in executivis usurari e divieto di abuso del diritto.
La continua ricerca dei limiti all’autonomia contrattuale ha consentito di individuare, in concreto, le ipotesi in cui il diritto viene esercitato in modo abusivo, ovvero oltre i suoi limiti naturali, oltre le finalità per le quali tale diritto esiste e trova una sua garanzia costituzionale[19].
Il divieto di abuso del diritto consente dunque di ricondurre l’agere entro il diritto stesso, perché solo in esso potrà produrre effetti giuridici.
La dottrina dell'abuso, basata sul principio di buona fede, che ha una portata decisamente più ampia rispetto alla dottrina dell’abuso basata sulla exceptio doli generalis del diritto comune ha spianato la strada alla giurisprudenza tedesca che ha specificato la figura in esame in diversi sottogruppi[20]:
a) esercizio di una situazione giuridica formalmente garantita ma contrastante con gli usi del traffico;
b) venire contra factum proprium: il titolare non può esercitare il diritto quando ciò risulta in contrasto con un comportamento — sia pure lecito — tenuto in precedenza;
c) Verwirkung: il titolare che non esercita il diritto o non reagisce alla sua violazione commette un abuso facendolo valere dopo avere determinato con il suo comportamento un affidamento degno di tutela nella controparte, e pertanto decade dal diritto;
d) ricorrendo determinate circostanze, è abusivo il richiamo a vizi di forma.
Nell’esperienza italiana il principio dell'abuso del diritto ha avuto trascorsi molto turbolenti a causa del fatto che e nel progetto del codice italo-francese delle obbligazioni[21], e nel progetto definitivo del codice civile del 1942[22] tale istituto era previsto, fu tuttavia eliminata la norma sull'abuso dal testo vigente del codice dimostrando, secondo alcuni, che il legislatore non volesse tale istituto vigente nel nostro ordinamento in quanto lesivo del principio della certezza del diritto[23].
In realtà la mancata enunciazione dell’abuso del diritto nell’ordinamento positivo non esclude la sua implicita presenza nel sistema giuridico[24].
Nel nostro ordinamento sono senza dubbio rinvenibili norme che limitano l’esercizio dei diritti e clausole generali riferibili ad intere categorie di diritti soggettivi, quali gli artt. 1175 e 833 c.c. la cui portata coprirebbe l'area delle situazioni giuridiche patrimoniali[25].
È innegabile che al tradizionale rifiuto della giurisprudenza hanno fatto seguito negli anni applicazioni in diversi settori del diritto civile e del diritto commerciale, affermando la configurabilità del principio in termini generali[26].
Anche nel nostro ordinamento come nell’esperienza francese l’abuso del diritto nasce sul terreno della proprietà con la regola sugli atti emulativi (art. 833 c.c.), per cui il proprietario non può compiere atti che non abbiano altro scopo se non quello di nuocere o recare molestia ad altri.
Tale limite collima perfettamente con il precetto costituzionale che ha stabilito il principio della funzione sociale della proprietà (art. 42, 2° co., Cost.) anche se per la sua stessa struttura e formulazione, non è del tutto condiviso che tale norma costituzionale, ovvero i suoi principi possano essere utilmente invocati quando risultano lesi gli interessi di un singolo.
Da un punto di vista etico e sociale oggi si rileva l'abuso del proprietario quando si riscontra una notevole sproporzione tra l'utilità a lui arrecata dall'atto di esercizio ed i danni provocati a terzi.
Tuttavia sono risultati vani tentativi sia da parte della giurisprudenza che della dottrina di ricavare un principio generale di divieto di abuso del diritto dalla normativa sulla proprietà.
Diversa è la sorte dell'operatività del principio dell'abuso del diritto nell'ordinamento italiano derivante dalle obbligazioni attraverso i principi della correttezza e buona fede che consentano un controllo dell'esercizio abusivo del diritto di credito.
La stessa esperienza si è avuto nel diritto tedesco nel quale il principio dell'abuso del diritto ha ricevuto innumerevoli applicazioni sulla base del principio di buona fede (§ 242 BGB).
La giurisprudenza dell’ultimo decennio dimostra come nel nostro ordinamento è avvertita l'esigenza di avere a disposizione lo strumento dell’abuso del diritto al fine di garantire un esercizio normale del diritto soggettivo anche alla luce del fatto che in dottrina è stato osservato[27] che abuso del diritto ed exceptio doli generalis, per le radici franco-germaniche del codice civile del 1942[28] sono principi che fanno parte della nostra cultura giuridica e del nostro diritto positivo.
Dalla breve analisi storica dell’istituto dell’abuso del diritto emerge come sin dall’entrata in vigore del vigente codice civile terreno di scontro tra giuristi dividendo chi lo ritiene un mero concetto di natura etica, con la conseguenza che colui che abusa di un diritto non può essere colpito da una sanzione giuridica, da chi rinviene tale istituto nell’art. 833 c.c.
Tale ultimo orientamento individua nell’art. 833 c.c. l’espressione di un principio generale che vieta, al titolare di un diritto, di abusarne.
Tale conclusione, tuttavia se da un lato consente di ricondurre l’istituto ad una norma di diritto positivo, dall’altro ha dato sostegno a coloro che vedono nell’istituto una minaccia al principio della certezza del diritto secondo i quali lo stesso art. 833 c.c. esprimerebbe la volontà del legislatore del 1942 di non introdurre una siffatta clausola generale.
Tra questi orientamenti se ne è, tuttavia, affermato uno ulteriore che qualifica il divieto di abuso del diritto, quale corollario dell'obbligo generale di comportarsi secondo buona fede, ovvero, con lealtà e correttezza, principi espressi negli artt. 1175, 1337, 1358, 1366, 1375 c.c. obbligo di comportarsi secondo buona fede trova inoltre una copertura più generale, di rango costituzionale, ovvero nel dovere inderogabile di solidarietà sociale sancito dall' art. 2 Cost.[29].
E’, inoltre ravvisabile una ulteriore espressione nell'art. 2058, secondo comma, a norma del quale il risarcimento in forma specifica, ancorché richiesto dal creditore e materialmente possibile, può essere escluso dal giudice qualora risulti eccessivamente oneroso per il debitore.
Il divieto di abuso del diritto è divenuto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, valore di norma di principio applicabile non solo nei rapporti di natura contrattuale.
In effetti, la Cassazione Civile Sez. I 16/10/2003 n°15482 ( che si esprime in tema di recesso, in particolare, con riferimento alla c.d. interruzione brutale del credito) nel censurare la corte di merito, che implicitamente esclude l’ammissibilità della figura dell'abuso del diritto, ritenendo il recesso legittimo poiché contrattualmente previsto e correttamente esercitato (sula piano della forma) riconosce nel nostro sistema legislativo una norma implicita che reprime ogni forza di abuso del diritto, sia questo il diritto di proprietà o altro diritto soggettivo, reale o di credito[30].
Prima di arrivare all’attuale inquadramento dell’istituto appare utile ricordare come negli anni sessanta la S.C rilevava che: in singoli casi ed in riferimento ai fondamentali precetti della buona fede (come regola di condotta) e della rispondenza dell'esercizio del diritto agli scopi etici e sociali per cui il diritto stesso viene riconosciuto e concesso dall'ordinamento giuridico positivo, l'uso anormale del diritto possa condurre il comportamento del singolo (nel caso concreto) fuori della sfera del diritto soggettivo medesimo e che quindi tale comportamento possa costituire un illecito, secondo le norme generali di diritto in materia[31].
L'abuso del diritto consiste, oggi[32], nell'esercitare il diritto per realizzare interessi diversi da quelli per i quali esso è riconosciuto dall'ordinamento giuridico, rappresenta quindi, una specifica ipotesi di violazione dell’obbligo della buona fede esecutiva (art. 1375 c.c.) e come tale costituisce inadempimento contrattuale.
Ecco dunque che l’abuso del diritto viene individuato nel comportamento del contraente che esercita verso l'altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati[33].
La S.C. va oltre chiarendo che la clausola generale di buona fede e correttezza opera sia sul piano comportamentale del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), sia sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione di un contratto (art. 1375 cod. civ.), che si estrinseca nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell'interesse della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto[34].
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza 15 novembre 2007, n. 23726) e l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (decisione 23 marzo 2011, n. 3) hanno, ormai, riconosciuto la vigenza, del divieto di abuso del diritto, ovvero di ogni posizione soggettiva, divieto che, ai sensi dell'art. 2 Cost. e dell'art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali e processuali. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto ravvisati dalla S.C.[35], sono i seguenti:
1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; gli istituti di credito hanno nei contratti di credito la previsione ex art. 118 TUB diritto (potestativo) che può, ovvero, nel caso di superamento del tasso soglia durante l’esecuzione del contratto, deve essere esercitato per modificare unilateralmente le condizioni economiche al fine di ricondurle entro i limiti di liceità.
2) La possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; oltre al diritto di cui all’art. 118 TUB la banca deve, nel rispetto dl generale principio del favor debitoris, ex art. 1339 c.c. sostituire il tasso corrispettivo, così come quello moratorio, con quello limite del DM che individua i tassi soglia o il tasso previsto dall’art. 117 TUB o 1284 c.c.
3) La circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; come già accennato, le banche, in particolare nei contratti di mutuo e finanziamento hanno previsto per gli interessi moratori una clausola di salvaguardia: lo stesso potrebbe e dovrebbe essere fatto anche per gli interessi corrispettivi.
4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte; l’attenzione del legislatore sulla determinazione del tasso di interesse, ma in realtà sulle condizioni economiche applicate ai contratti di credito, ha lo scopo di mantenere in equilibrio le prestazioni contrattuali, ovvero il sinallagma[36]. Appare evidente a chi scrive che i tassi soglia di usura, che peraltro sono frutto di una media (non meglio specificata) dei tassi mendi applicati dalle banche, rappresenti proprio il limite oltre il quale il rapporto sinallagmatico subisce una rottura.
In definitiva, le SU del 2017[37] hanno chiarito che “In questo senso può allora affermarsi che, in presenza di particolari modalità o circostanze, anche la pretesa di interessi divenuti superiori al tasso soglia in epoca successiva alla loro pattuizione potrebbe dirsi scorretta ai sensi dell’art. 1375 c.c.”: ciò, dunque, che l’interprete deve ricercare non è solo la violazione del principio della buona fede ma i passaggi delineati dalla Cassazione in merito al divieto dell’abuso del diritto
La Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, precisa che: l'abuso del diritto, lungi dall'integrare una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.
È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.
Come conseguenza di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.
E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.
L’attuale indirizzo interpretativo, inquadra il divieto di abuso del diritto, in un principio generale direttamente connesso al canone costituzionale di solidarietà, principio che si applica anche in ambito processuale.
Viene dunque elaborata la figura dell'abuso del processo in correlazione agli artt. 24, 111 e 113 Cost. nonché ai principi del diritto europeo[38] quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa[39].
Sul punto appare decisiva la decisione n. 3/2011 dell'Adunanza Plenaria, che sulla base del disposto del comma 3 dell'art. 34 del codice del processo amministrativo, ha considerato sindacabile, ai fini dell' esclusione o della riduzione dal danno ex art. 1227, comma 2 c.c., le condotte processuali opportunistiche che, in violazione del duty to mitigate che grava sul creditore, abbiano prodotto o dilatato un danno che, more probably that not, sarebbe stato evitato in caso di tempestiva impugnazione del provvedimento dannoso o di esperimento degli altri strumenti di tutela previsti.
Così pure le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 23726/2007, hanno affermato il principio secondo cui il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario integra condotta contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 della Costituzione, e si risolve in abuso del processo ostativo all'esame della domanda.
Le Sezioni Unite, hanno poi prestato attenzione alla ipotesi della disarticolazione, da parte del creditore, dell'unità sostanziale del rapporto, ritenendo che tale condotta oltre a violare il generale dovere di correttezza e buona fede, in quanto attuata nel processo e tramite il processo, si risolve anche in abuso dello stesso ed in una violazione del canone del giusto processo[40].
Ogni ordinamento giuridico deve fare i conti con la necessità, tempo per tempo, di contemperare le interferenze, coesistenze e conflitti tra diritti interpretando quella che è anche la funzione sociale dei diritti soggettivi.
È innegabile che oggi si faccia un maggior uso dello strumento dell’abuso del diritto, e non è un caso.
La crescente asimmetria dei protagonisti del mercato globale che vede da un lato poteri economici e dall’altro una utenza incapace di fronteggiare le imposizioni del mercato, la scomparsa (nella sostanza ma non nella forma) della trattativa nelle transazioni commerciali, hanno reso necessario lo sviluppo dell’istituto dell’abuso del diritto per poter ripristinare quell’equilibrio nei rapporti contrattuali e garantire la liceità della causa e dell’oggetto del contratto.
A conferma dello stretto rapporto causa effetto degli interessi in gioco, o possiamo vedere come la tutela del consumatore si divenuto di interesse sempre crescente, che nel caso italiano è prima di tutto di adozione comunitaria; è evidente la necessità di porre rimedi ad un mercato oramai caratterizzato da contratti precostituiti e da condizioni imposte.
Le stesse teorie della volontà e della dichiarazione necessitano una rilettura a causa della drammatica erosione della fase precontrattuale nella quale la volontà si forma prima di divenire dichiarazione.
C’è infatti da chiedersi quanto la libertà, che connota la volontà, sia stata sacrificata alla speditezza delle transazioni commerciali, e se ciò non stia o non abbia già, alterato la struttura stessa del contratto, degradando la volontà in dichiarazione confondendone le rispettive dimensioni.
L’auspicio è che la giurisprudenza operi in modo sempre coerente i correttivi necessari a garantire l’equilibrio tra libertà contrattuale e la funzione che il contratto ha nella società.
3.2 Gli interessi divenuti in executivis usurari e i limiti dell’autonomia contrattuale.
Il principio della libertà di contratto, codificato nell’art. 1322 c.c., non è specificamente garantito per sé stesso dalla Costituzione italiana[41].
Infatti, se da un lato gli artt. 41 e 42 della Costituzione, garantiscono la libertà dell'iniziativa economica privata ed il libero godimento della proprietà privata, dall’altro consentono che a tali libertà siano imposti limiti, al fine di farli armonizzare con l'utilità sociale e render possibile l'adempimento di quella funzione sociale che non può dissociarsi dal godimento dei beni di produzione o, più generalmente, dall'esercizio di ogni attività produttiva[42].
È così giustificata l'imposizione di condizioni restrittive per lo svolgimento dell'autonomia contrattuale, mediante la modifica o l'eliminazione di clausole di contratti in corso quando esse si rivelino contrastanti con l'utilità sociale (Corte Cost., 27 febbraio 1962, n. 7).
La Corte Costituzionale ha in più occasioni affermato che il carattere particolare o limitato della categoria economica considerata dalla legge non è, in linea di principio, sufficiente ad escludere che venga perseguita una finalità sociale (cfr. sentenza n. 54 del 1962); ed ecco ancora una volta che la Corte delle leggi ribadisce il principio per cui rientra nei poteri conferiti al legislatore dall'art. 41 della Costituzione la riduzione ad equità di rapporti che appaiano sperequati a danno della parte più debole (sentenza n. 7 del 1962; Corte Cost., 23 aprile 1965, n. 30).
La Corte Costituzionale esprime un parere di non sufficienza dei principi di correttezza e buona fede nelle trattative e nella formazione ed esecuzione del contratto (artt. 1175, 1337, 1366, 1375 cod. civ.), delle regole della correttezza professionale (art. 2598, n. 3, cod. civ.) e dei doveri correlati alla responsabilità extracontrattuale (art. 2043 cod. civ.) ad arginare la libertà di scelta del contraente nonché la determinazione del contenuto del contratto che caratterizzano l'autonomia contrattuale, e non sono perciò idonei a sopperire alterazione dell'equilibrio tra le parti che consegue all'essere una di esse in posizione di supremazia (Corte cost., 15 maggio 1990, n. 241).
Non sono mancati tentativi di ricondurre all’art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, una garanzia implicita, tuttavia invanii per ragioni storico e ideologiche.
Tuttavia non si può ignorare il principio di solidarietà espresso nell’art. 2 della Cost. se è vero che parte in dottrina, taluni hanno rilevato che, il principio generale del sistema è la liceità e la libertà, e non anche la doverosità e l’obbligo[43], la connotazione dell’uomo uti socius ha reso necessario l’intervento del legislatore, ma anche dell’interprete, di porre, da un lato, limiti all’esercizio dei propri diritti al fine di costituire uno sbarramento all’individualismo esasperato[44], dall’altro dei doveri ed obblighi finalizzati alla vita e allo sviluppo della società.
Esso è, in altre parole, la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale, per il quale la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un'autorità, ma per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa.
Si tratta di un principio che, comportando l'originaria connotazione dell'uomo uti socius, è posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell'ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili dell'uomo, dall'art. 2 della Carta costituzionale come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente[45].
L’art. 2 si riferisce dunque ai diritti inviolabili originari della persona umana, preesistenti all’ordinamento positivo[46].
Nel campo dei rapporti patrimoniali la libertà individuale di contratto fruisce soltanto di una tutela costituzionale indiretta, in quanto strumento di esercizio della libertà di iniziativa economica e del diritto di proprietà.
Secondo la giurisprudenza costante della Corte Costituzionale, l'autonomia contrattuale dei singoli é tutelata a livello di Costituzione solo indirettamente, in quanto strumento di esercizio di libertà costituzionalmente garantite (Corte cost., 30 giugno 1994, n. 268).
Non vi sono dubbi che il legislatore italiano abbia affrontato l’intervento pubblico nell’economia nell’ambito delle funzioni di controllo e di regolazione del mercato, in modo non troppo deciso da qui la mancata costituzionalizzazione della libertà di contratto[47].
La garanzia delle libertà economiche (artt. 41 e 42 cost.) e l’obbligo che ne deriva al legislatore di riconoscerle e di determinarne i limiti destinati ad armonizzarne l’esercizio con l’utilità sociale e col rispetto della sicurezza, della libertà, della dignità umana, si riflettono sull’autonomia negoziale.
Non è casuale che la genericità della disciplina dell’usura necessitasse di una legge speciale, la L. 108/1996, che è andata proprio a porre un limite all’autonomia contrattuale, impedendo che l’asimmetria, tipica dei rapporti contrattuali bancari, generasse abusi fuori controllo, se non in sede giudiziale.
Il legislatore ha voluto porre un limite così da risolvere il fenomeno dell’usura sin dalla formazione del contratto: non è accettabile una tesi che ritenga, gli interessi divenuti in executivis usurari leciti privando il debitore di una tutela
La nuova lettura dell’art. 41 Cost. identifica dunque i fini sociali oggetto della riserva di legge prevista nel terzo comma con i limiti della libertà di iniziativa economica indicati nel comma secondo[48].
Necessita in questa sede ricordare come anche la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto [Cass. SSUU N. 14828 del 4 settembre 2012] rappresenti uno strumento per la tutela di valori costituzionalmente rilevanti Cassazione civile sez. un. 12 dicembre 2014 n. 26242: Si è detto "indiscutibile" lo scopo della nullità relativa volto anche alla protezione di un interesse generale tipico della società di massa, così che la legittimazione ristretta non comporterebbe alcuna riqualificazione in termini soltanto privatistici e personalistici dell'interesse (pubblicistico) tutelato dalla norma attraverso la previsione della invalidità.
Il potere del giudice di rilevare la nullità, anche in tali casi, è essenziale al perseguimento di interessi che possono addirittura coincidere con valori costituzionalmente rilevanti, quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l'uguaglianza quantomeno formale tra contraenti forti e deboli[49], poiché lo squilibrio contrattuale tra le parti altera non soltanto i presupposti dell'autonomia negoziale, ma anche le dinamiche concorrenziali tra imprese.
La pretesa contraddizione fra legittimazione riservata e rilevabilità d'ufficio risulta soltanto apparente, se l'analisi resta circoscritta al profilo della rilevazione della causa di nullità.
Di norma non hanno efficacia immediata nei rapporti privati, i diritti fondamentali corrispondenti ai valori della sicurezza, della libertà, della dignità umana, diritti, che devono trovare un equilibrio con quello di iniziativa economica[50].
La Corte Costituzionale con sentenza del 9 marzo 1989 n. 103 ricorda i limiti convenzionali e legali posti dalla Costituzione, proprio in virtù del precetto costituzionale di cui all'art. 41 della Costituzione, il potere di iniziativa dell'imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell'ordinamento, e in specie non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
Conclude la sentenza che: è demandato al giudice l'accertamento e il controllo dell'inquadramento dei lavoratori nelle categorie e nei livelli retributivi in base alle mansioni effettivamente svolte, con osservanza della regolamentazione apprestata sia dalla legge, sia dalla contrattazione collettiva ed aziendale, e con il rispetto dei richiamati precetti costituzionali e dei principi posti in via generale dall'ordinamento giuridico vigente, ispirato, come si è detto, anche ai principi contenuti nelle convenzioni e negli atti internazionali regolarmente ratificati.
Il giudice deve provvedere alle necessarie verifiche ed ha il potere di correggere eventuali errori, più o meno volontari, perché il lavoratore riceva l'inquadramento che gli spetta nella categoria o nel livello cui ha diritto.
È il legislatore il primo protagonista nella gestione (discrezionale) dello spazio che esiste tra autonomia privata e funzione sociale[51], gestione comunque vincolata ai valori costituzionali, quali e dal il principio di ragionevolezza, congruità e proporzione (allo scopo): così si espresse la Corte Costituzionale il 23 aprile 1965, con la sentenza n. 30.
Non è infatti contestabile che la garanzia posta nel primo comma di quest'articolo nell'ambito circoscritto dai successivi due capoversi riguarda non soltanto la fase iniziale di scelta dell'attività, ma anche i successivi momenti del suo svolgimento; ed è ugualmente certo che, poiché l'autonomia contrattuale in materia commerciale è strumentale rispetto all'iniziativa economica, ogni limite posto alla prima si risolve in un limite della seconda, ed è legittimo, perciò, solo se preordinato al raggiungimento degli scopi previsti o consentiti dalla Costituzione.
Ciò posto, è da rilevare che l'unico quesito dedotto nell'ordinanza riguarda la sussistenza nel presente caso di quel fine di utilità sociale che, alla stregua della richiamata norma costituzionale, condiziona il potere del legislatore ordinario.
Si appalesa, pertanto, superfluo indagare, a questi limitati effetti, se la legge impugnata debba inquadrarsi nella previsione del secondo o del terzo comma dell'art. 41: si tratti, infatti, di limitazioni imposte dal secondo o di indirizzo, coordinamento e controlli consentiti dal terzo, l'utilità sociale deve pur sempre presiedere alle une ed agli altri.
Proprio tenendo conto dei principi richiamati, la banca deve, nel corso di esecuzione del contratto, mantenere i tassi entro i limiti del tasso soglia; nel porre i giusti limiti all’autonomia contrattuale, potrà il Giudice procedere ad una riduzione del tasso di interesse (sia esso corrispettivo o moratorio) secondo equità[52].
Costituzione e Autonomia Privata sono due fronti collegati solo dalla legge e dalle sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale di leggi che non rispettano i limiti costituzionali della libertà di contratto.
Diversamente non è possibile interferire nei rapporti negoziali privati fatta eccezione, naturalmente, per l’ermeneutica che dovrà ispirarsi sempre ai principi costituzionali[53].
I diritti fondamentali, costituiscono poi strumenti ineludibili per una corretta interpretazione dei precetti normativi in materia di autonomia negoziale che sono rinvenibili:
1. nell’obbligo di correttezza tra debitore e creditore (art. 1175 c.c.), che si traduce nella collaborazione reciproca dei contraenti in ogni fase del rapporto per la salvaguardia degli interessi di ciascuna parte (art. 1206 c.c.);
2. nel principio della buona fede precontrattuale, che regola il comportamento delle parti nelle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.), così come nei contratti standardizzati, ove non avviene nessuna trattativa, e nei contratti conclusivo da soggetti consumatori, il controllo di ragionevolezza delle condizioni che «determinano un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto» (art. 33 cod. Cons. ex art. 1469-bis c.);
3. nel principio della buona fede nell’interpretazione e nell’esecuzione del contratto (artt. 1366, 1375, 1440, comma 2, c.c.); 4. nelle clausole dell’ordine pubblico e del buon costume (artt. 5, 634, 1343, 1354, comma 2, 2035 c.c.), che pongono un ulteriore limite agli atti di autonomia privata.
I diritti fondamentali, che in effetti esprimono valori costituzionali, non acquisiscono efficacia normativa sull’autonomia privata.
I diritti fondamentali, dunque, costituiscono un parametro valutativo, come gli standard sociali di valutazione, di cui si serve il giudice per valutare la liceità dello scopo del contratto.
La costituzionalizzazione dei valori etici della persona in diritti fondamentali ha consentito di utilizzare la clausola della correttezza e della buona fede come strumento di controllo dell’autonomia privata[54].
Da qui la necessità (ovvero il dovere, ma non l’obbligo) di preservare gli interessi di ciascun contraente da comportamenti contrari a buone fede e correttezza sia nella fase delle trattative che dell’esecuzione del contratto[55], buona fede, intesa, dunque, come reciproca lealtà di condotta[56].
Raffrontando gli artt. 1374, 1375, 1366 c.c. si può desumere che in ordine alle prestazioni dedotte in contratto, la buona fede, non è fonte di integrazione del regolamento negoziale (art. 1374, lo sono invece gli usi e soprattutto l’equità), ma criterio ermeneutico (art. 1366 c.c.) che consente di ricavare i doveri e le condizioni implicite nell’accordo (art. 1366 c.c.: il contratto deve essere interpretato secondo buona fede).
La buona fede diviene quindi, il metro di valutazione dell’esattezza dell’esecuzione del contratto (art. 1375).
Tale lettura, largamente diffusa in dottrina e giurisprudenza, ha tuttavia trovato alcune eccezioni.
Occorre premettere che, nel sistema attuale, l'attività interpretativa dei contratti è legalmente guidata; essa è conforme a diritto non già quando ricostruisce con precisione la volontà delle parti, ma quando si adegui alle regole legali.
Queste, in generale, non sono norme integrative, dispositive o suppletive del contenuto del contratto; piuttosto, sono strumento di ricostruzione della comune volontà delle parti al momento della stipulazione del contratto, e, quindi, della sostanza dell'accordo, senza che la volontà pattizia possa essere integrata con elementi ad essa estranei (Cass. 26 marzo 2003, n. 6053), anche quando sia invocata la buona fede come fattore d'interpretazione del contratto.
La buona fede, infatti, è fattore d'integrazione del contratto non già sul piano dell'interpretazione di questo, ma su quello della determinazione delle rispettive obbligazioni come indicato dall'art. 1375 cod. civ.; in questo senso Cassazione civile sez. III 12 aprile 2006 n. 8619.
In termini generali, non può farsi a meno di ricordare come la buona fede operi non solo in sede d'interpretazione ed esecuzione del contratto, a norma degli artt. 1366 e 1375 c.c., ma anche quale fonte d'integrazione della stessa regolamentazione contrattuale, secondo quel che si desume dall'art. 1374 c.c., "concorrendo alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l'ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere inderogabile di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti ... nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio" (Cass. 22 maggio 1997, n. 4598)[57].
In nessun caso comunque, la violazione del dovere di buona fede è causa di invalidità del contratto, ma solo fonte di responsabilità per i danni[58].
La buona fede è dunque regola di comportamento che vincola le parti nell'esecuzione del rapporto operando "al di là" e "contro" le specifiche previsioni contrattuali, in quanto fondamento etico di solidarietà e, quindi, dotata dei caratteri tipici di una norma di ordine pubblico, che è sovraordinata ai poteri dispositivi delle parti. la buona fede, intesa in senso etico, come requisito della condotta, costituisce uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito col proposito doloso di recare pregiudizio, ma anche se il comportamento non sia stato improntato alla schiettezza, alla diligente correttezza e al senso di solidarietà sociale che integrano il contenuto della buona fede" (Cass. 5 gennaio 1966, n. 89).
Più precisamente, come principio di solidarietà contrattuale, la buona fede si articola in due canoni della condotta, che attengono, rispettivamente, alla fase di formazione - interpretazione (artt. 1337 e 1366 c.c.) e alla fase d'esecuzione del contratto (1375 c.c.).
Il primo si traduce nel dovere di lealtà; il secondo si concreta nel c.d. obbligo di salvaguardia: è proprio la combinazione tra il dovere di lealtà e l’obbligo di salvaguardia che vincola ciascuna le parti ad assicurare l'utilità dell'altra – indifferentemente dalle previsioni negoziali e del dovere generale del "neminem laedere" – ovviamente nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico.
Il contraente, deve quindi, salvaguardare l'utilità della controparte compatibilmente con il proprio interesse nei limiti dei poteri discrezionali che gli derivano dagli accordi[59].
La problematica oggi più presente è rappresentata dalla incertezza dei limiti degli obblighi di informazione e di illustrazione dei termini dell’affare che la buona fede impone al contraente informato ed esperto nei confronti di una controparte inesperta.
Le formulazioni normative lasciano, oggi, al giudice una discrezionalità molto ampia, e la Corte di cassazione, a sua volta non colma questa lacuna.
Trattasi di regola, codificata, di correttezza e di buona fede, più volte qui richiamata, che deve presiedere al comportamento delle parti nella fase d'esecuzione del rapporto obbligatorio (artt. 1175 e 1375 c.c.): nel caso concreto, del rapporto di garanzia.
Autorevoli interpreti hanno, di recente, rielaborato e approfondito il concetto di buona fede in senso oggettivo, precisando le caratteristiche del ruolo che ad essa compete come fonte di integrazione del contratto.
Così intesa, la buona fede si pone quale regola di comportamento vincolante le parti nell'esecuzione del rapporto[60].
Dunque, l'art. 1339 c.c. assolve la funzione precipua di assicurare l'attuazione delle condizioni contrattuali previste in via inderogabile dalla legge, con il meccanismo dell'inserzione automatica delle clausole imperative in sostituzione di quelle difformi convenute dalle parti, e postula, dunque, la conclusione di un accordo negoziale il cui contenuto risulti parzialmente contrastante con quello imposto dal legislatore e sottratto, come tale, all'autonomia privata: tale strumento rappresenta un utile strumento per risolvere la problematica del superamento del tasso soglia nel corso dell’esecuzione del contratto.
[1] Mirabelli, Dei contratti in generale, Com. UTET, Torino 1980, p. 492; Fedele, Della nullità del contratto, Codice civile - Libro delle obbligazioni, I, Firenze 1948, p. 682; Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano 1966, p. 181; Casella, Nullità parziale del contratto e inserzione automatica di clausole, Milano 1974, p. 16.
[2] Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli 1952, p. 351; Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino 1943, p. 486. In Giurisprudenza: Cass. 27.1.2003 n. 1189; Cass. 5.5.2003 n. 6756; Cass. 19.7.2002 n. 10536; Cass. 8.4.1983 n. 2499; Cass. 11.2.1978 n. 624, VN 1978, 481
[3] Cass., Sez. Un., sent. 30 dicembre 2021 n. 41994; Cass. 20.5.2005 n. 10690.
[4] Cass. 21.5.2007 n. 11673.
[5] Cass. 26.6.1987 n. 5675; Cass. 8.4.1983 n. 2499; Cass. 10.3.1980 n. 1592.
[6] Cass. 27.1.2003 n. 1189; Cass. 11.8.1980 n. 4921.
[7] Cass. 1.3.1995 n. 2340.
[8] Cass. 11.6.1981 n. 3783.
[9] Cass. 29.5.1995 n. 6036; Cass. 28.4.1988 n. 3214; Cass. 19.4.1982 n. 2411; Cass. 17.4.1980 n. 2546; Mirabelli, Dei contratti in generale, Com. UTET, Torino 1980, p. 495.
[10] Criscuoli, La nullità parziale del negozio giuridico, Milano 1959, p. 62; Cass. 4.9.1980 n. 5100; Cass. 8.6.1979 n. 3268.
[11] Roppo, Nullità parziale del contratto e giudizio di buona fede, RC 1971, I, p. 686, 687; D'Antonio, La modificazione legislativa del regolamento negoziale, Padova 1974, p. 235 e 321; Bianca, Diritto civile, Il contratto, III, Milano 1987, p. 600; Casella, Nullità parziale del contratto e inserzione automatica di clausole, Milano 1974, p. 48; Mirabelli, Dei contratti in generale, Com. UTET, Torino 1980, p. 492; Cass. 5.5.2003 n. 6747; Cass. 1.3.1995 n. 2340; Cass. 19.4.1982 n. 2411.
[12] De Nova, Il contratto. Dal contratto atipico al contratto alieno, Milano 2011, p. 41.
[14] Galgano, Trattato di diritto civile, vol. II, Milano 2010, p. 384.
[15] Cass. Sez. III 02/02/2000, n. 1126.
[16] Quest’ultimo orientamento si fonda su una vasta speculazione dottrinaria secondo cui mentre l’usura originaria è penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 644 c.p. e civilmente con la gratuità del mutuo, invece, l’usura sopravvenuta assumerebbe rilevanza esclusivamente come illecito civile.
[17] CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; ordinanza, 22-10-2019, n. 2694: Vanno rimesse al primo presidente della Corte di cassazione, per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite, le questioni se la disciplina antiusura si applichi anche agli interessi moratori e se, in caso affermativo, ai fini della verifica in ordine al carattere usurario degli interessi, sia sufficiente la comparazione con il tasso soglia determinato in base alla rilevazione del tasso effettivo globale medio o, viceversa, la mera rilevazione del tasso medio, quantunque a fini dichiaratamente conoscitivi, imponga di verificarne l'avvenuto superamento nel caso concreto e le modalità con cui debba aver luogo tale riscontro.
Cass. Sezioni Unite n. 19597/2020: «La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori, intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso».
«La mancata indicazione dell'interesse di mora nell'ambito del T.e.g.m. non preclude l'applicazione dei decreti ministeriali, i quali contengano comunque la rilevazione del tasso medio praticato dagli operatori professionali, statisticamente rilevato in modo del pari oggettivo ed unitario, essendo questo idoneo a palesare che una clausola sugli interessi moratori sia usuraria, perché "fuori mercato", donde la formula: "T.e.g.m., più la maggiorazione media degli interessi moratori, il tutto moltiplicato per il coefficiente in aumento, più i punti percentuali aggiuntivi, previsti quale ulteriore tolleranza dal predetto decreto"».
«Ove i decreti ministeriali non rechino neppure l'indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato, con la maggiorazione ivi prevista».
«Si applica l'art. 1815, comma 2, cod. civ., onde non sono dovuti gli interessi moratori pattuiti, ma vige l'art. 1224, comma 1, cod. civ., con la conseguente debenza degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente convenuti».
«Anche in corso di rapporto sussiste l'interesse ad agire del finanziato per la declaratoria di usurarietà degli interessi pattuiti, tenuto conto del tasso-soglia del momento dell'accordo; una volta verificatosi l'inadempimento ed il presupposto per l'applicazione degli interessi di mora, la valutazione di usurarietà attiene all'interesse in concreto applicato dopo l'inadempimento».
«Nei contratti conclusi con un consumatore, concorre la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f) e 36, comma 1, del codice del consumo, di cui al d.lgs. n. 206 del 2005, già artt. 1469-bis e 1469-quinquies cod. civ.».
«L'onere probatorio nelle controversie sulla debenza e sulla misura degli interessi moratori, ai sensi dell'art. 2697 cod. civ., si atteggia nel senso che, da un lato, il debitore, il quale intenda provare l'entità usuraria degli stessi, ha l'onere di dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, l'eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato, con gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento; dall'altro lato, è onere della controparte allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell'altrui diritto».
Cass. civ., sez. III, 20-05-2020, n. 9237: La nullità della convenzione riguardante gli interessi di mora, stabiliti in misura superiore al tasso soglia di cui all'art. 2 l. n. 108 del 1996, non si estende alla pattuizione concernente gli interessi corrispettivi in quanto, pur avendo entrambi l'analoga funzione di remunerare chi ha prestato il denaro, i due interessi non coesistono nell'attuazione del rapporto, ma si succedono, sostituendosi gli uni agli altri dopo la scadenza del termine di restituzione della somma, e vanno considerati, anche in caso di inadempimento, come autonomi e non cumulabili ai fini del calcolo del loro ammontare.
Cass. civ., sez. III, 17-10-2019, n. 26286: Nei rapporti bancari anche gli interessi convenzionali di mora, al pari di quelli corrispettivi, sono soggetti all'applicazione della normativa antiusura, con la conseguenza che, laddove la loro misura oltrepassi il tasso soglia, si configura la cosiddetta usura oggettiva, che determina la nullità della clausola, ai sensi dell'art. 1815, 2° comma, c.c.; a ciò non è di ostacolo la circostanza che le istruzioni della Banca d'Italia non prevedano l'inclusione degli interessi di mora nella rilevazione del Tegm, che costituisce la base sulla quale determinare il tasso soglia, in quanto la Banca d'Italia provvede comunque alla rilevazione della media dei tassi convenzionali di mora, solitamente costituiti da alcuni punti percentuali da aggiungere al tasso corrispettivo, ed è dunque possibile individuare il tasso soglia di mora, applicando a tale valore la maggiorazione prevista dall'art. 2, 4° comma, l. 7 marzo 1996, n. 108; tuttavia, resta fermo che, dovendosi procedere ad una valutazione unitaria del saggio di interessi concretamente applicato - senza poter più distinguere, una volta che il cliente è stato costituito in mora, la parte corrispettiva da quella moratoria - al fine di stabilire la misura oltre la quale si configura l'usura oggettiva, il tasso soglia di mora deve essere sommato al tasso soglia ordinario.
Cass. civ. [ord.], sez. III, 13-09-2019, n. 22890:L’art. 1815, 2° comma, c.c. si riferisce agli interessi corrispettivi e, quindi, non è applicabile in caso di nullità di interessi convenzionali di mora usurari, attesa la diversità sul piano causale di questi ultimi, i quali trovano la propria fonte nell'inadempimento.
Cass. civ., sez. III, 28-06-2019, n. 17447: Gli interessi convenzionali di mora non sfuggono alla regola per cui, se pattuiti ad un tasso superiore a quello stabilito dall'art. 2, 4° comma, l. 7 marzo 1996, n. 108, vanno qualificati ipso iure come usurari; tuttavia, comportando detta pattuizione costi solo eventuali, va sanzionata unicamente la clausola relativa agli interessi moratori, non determinandosi in tal caso la trasformazione forzosa del contratto di finanziamento da oneroso a gratuito, ai sensi dell'art. 1815, 2° comma, c.c.
Cass. civ., sez. III, 17-10-2019, n. 26286: Nei rapporti bancari, gli intererssi convenzionali di mora, al pari di quelli corrispettivi, sono soggetti all'applicazione della normativa antiusura, con la conseguenza che, laddove la loro misura oltrepassi il c.d. «tasso soglia» previsto dall'art. 2 l. n. 108 del 1996, si configura la cosiddetta usura «oggettiva» che determina la nullità della clausola ai sensi dell'art. 1815, 2° comma c.c.; non è a ciò di ostacolo la circostanza che le istruzioni della Banca d'Italia non prevedano l'inclusione degli interessi di mora nella rilevazione del Tegm (tasso effettivo globale medio) che costituisce la base sulla quale determinare il «tasso soglia»; poiché la Banca d'Italia provvede comunque alla rilevazione della media dei tassi convenzionali di mora (solitamente costituiti da alcuni punti percentuali da aggiungere al tasso corrispettivo), è infatti possibile individuare il «tasso soglia di mora» del semestre di riferimento, applicando a tale valore la maggiorazione prevista dall' art. 2, 4° comma, l. n. 108 del 1996; resta tuttavia fermo che dovendosi procedere ad una valutazione unitaria del saggio d'interessi concretamente applicato – senza potere più distinguere, una volta che il cliente è costituito in mora, la parte corrispettiva da quella moratoria – al fine di stabilire la misura oltre la quale si configura l'usura oggettiva, «il tasso soglia di mora» deve essere sommato al «tasso soglia» ordinario (analogamente a quanto previsto dalla sentenza delle sezioni unite n. 16303 del 2018, in tema di commissione massimo scoperto).
Cass. civ., sez. I, 06-09-2019, n. 22380: In tema di interessi usurari, tenuto conto dei rischi e della garanzia prestata, il tasso soglia fissato per il finanziamento a stati di avanzamento assistito da ipoteca è quello previsto ratione temporis per i mutui con garanzia reale; ciò in quanto, in caso di dubbio circa la riconducibilità dell'operazione all'una o all'altra delle categorie identificate con decreto ministeriale cui si riferisce la rilevazione dei tassi effettivi globali medi, si devono individuare i profili di omogeneità che l'operazione stessa presenti rispetto alle diverse tipologie prese in considerazione dai detti decreti, attribuendo rilievo ai parametri normativi individuati dall'art. 2, 2° comma, l. n. 108 del 1996 e apprezzando, in particolare, quelli tra essi che, sul piano logico, meglio connotino il finanziamento preso in esame ai fini della sua inclusione nell'una o nell'altra classe di operazioni.
[18] Cass. civ., sez. III, 17-10-2019, n. 26286: In tema di rapporti bancari, l'inserimento di una clausola «di salvaguardia», in forza della quale l'eventuale fluttuazione del saggio di interessi convenzionale dovrà essere comunque mantenuta entro i limiti del c.d. «tasso soglia» antiusura previsto dall'art. 2, 4° comma, l. n. 108 del 1996, trasforma il divieto legale di pattuire interessi usurari nell'oggetto di una specifica obbligazione contrattuale a carico della banca, consistente nell'impegno di non applicare mai, per tutta la durata del rapporto, interessi in misura superiore a quella massima consentita dalla legge; conseguentemente, in caso di contestazione, graverà sulla banca, secondo le regole della responsabilità ex contractu, l'onere della prova di aver regolarmente adempiuto all'impegno assunto.
[19] G. Morini, Abuso del diritto: i recenti orientamenti giurisprudenziali In Riv. Altalex, Pubblicato il 06/10/2015.
[20] W. Siebert, Verwirkung und Unzulässigkeit der Rechtsausübung, Marburg in Hessen, 1934, 68 ss.
[21] Art. 74: «È tenuto al risarcimento colui che ha cagionato danno ad altri, eccedendo nell'esercizio del proprio diritto i limiti posti dalla buona fede e dallo scopo per il quale il diritto gli fu riconosciuto».
[22] Art. 7: «Nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per cui il diritto medesimo gli è stato riconosciuto».
[23] I timori emergono dai lavori preparatori: Giorgianni, L'abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963, 12 ss. (su cui v. Crespi Reghizzi, AcP, 166, 1966, 565).
[24] Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, 97.
[25] Natoli, Note preliminari ad una teoria dell'abuso del diritto nell'ordinamento giuridico italiano, RTPC, 1958, 26 ss.
[26] Trib. Bologna, 5-11-1970; Cass., 20-6-1972, n. 1965; Trib. Milano, 4-7-1975; Trib. Torino, 13-6-1983; Portale, Impugnative di bilancio ed exceptio doli, GCo, 1982, 407 ss.
[27] Portale, Impugnative di bilancio ed exceptio doli, GCo, 1982.
[28] Sacco, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1980, 180 s.
[29] Ex multis Cass., III, 10 novembre 2010 n. 22819; Consiglio di Stato sez. III 17 maggio 2012 n. 2857.
[30] Cassazione Civile Sez. I 16/10/2003 n°15482.
[31] Cass. 15 novembre 1960, n. 3040.
[32] Cassazione Civile Sez. I 16/10/2003 n°15482; ex multis: Cons. Stato, sez. III, 17 maggio 2012, n. 2857.
[33] In tema di c.d. interruzione brutale del credito, la S.C. ha precisato che il Giudice, deve verificare la rispondenza tra il diritto di recedere da un contratto di apertura di credito per un tempo determinato, ed il principio della buona fede esecutiva, e dunque che tale esercizio non sia imprevisto ed arbitrario, tale da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate [Ex multis: Cass. 21 maggio 1997, n. 4538; Cass. 14 luglio 2000, n. 9321; Cass. 21 febbraio 2003, n. 2642]. Ex multis: G. Morini, Interruzione brutale del rapporto di credito e giustizia contrattuale. La responsabilità della banca in Riv. Il Caso.it, Pubblicato il 28/07/18 [Articolo 1612].
[34] Cass. 8 febbraio 1999, n. 1078.
[35] In particolare, Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, in materia di esercizio abusivo del diritto di recesso ad nutum. Ex multis: Consiglio di Stato sez. V 07 febbraio 2012 n. 656.
[36] G. Morini, Ammortamento alla francese: il numero E tra regime semplice e composto degli interessi. Equivoci e contraddizioni in Riv. Il Caso.it, Pubblicato il 13/05/21[Articolo 1713].
[37] G. Morini, Superamento del tasso soglia di usura nel corso del rapporto alla luce della cassazione civile: tra abuso del diritto e limiti dell’autonomia contrattuale Riv. Diritto.it, Pubblicato il 15 maggio 2019.
[38] Pure artt. 88, 91, 94 e 96 del codice di rito civile e gli artt. 1, 2 e 26 del codice del processo amministrativo.
[39] Cass., sez. I, 3 maggio 2010, n. 10634.
[40] Le SS.UU. rilevano come una tale condotta, pur formalmente conforme al dettato normativo, disattende il limite modale che impone al titolare di ogni situazione soggettiva di non azionarla con strumenti processuali, che infliggano all'interlocutore un sacrificio non comparativamente giustificato dal perseguimento di un lecito e ragionevole interesse. Così anche la parcellizzazione giudiziale del credito, non è in linea con il precetto inderogabile del processo giusto cui l'interpretazione della normativa processuale deve viceversa uniformarsi e rischia di sortire la formazione di giudicati praticamente contraddittori cui potrebbe dar luogo la pluralità di iniziative giudiziarie collegate allo stesso rapporto. L'effetto inflattivo riconducibile ad una siffatta moltiplicazione di giudizi delinea altresì la frustrazione dell'obiettivo, fissato nell'art. 111 Cost., della ragionevole durata del processo, per l'evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata del giudizio. Lo stesso dicasi nell’ipotesi di contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che ha optato per tale scelta e che, soccombente nel merito, abbia proposto appello sollevando auto eccezione al fine di ottenere l’annullamento della sentenza. Una tale condotta è infatti una violazione del divieto di venire contra factum proprium, oltre ad essere in contrasto con il canone costituzionale della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost, condotta paralizzabile con l'exceptio doli generalis seu presentis. Il divieto di abuso del diritto ha interessato anche altre materie. Così, ad esempio, le S.U. [Cass. civile, sez. un., 23 dicembre 2008 n. 30055] hanno sancito il divieto di elusione dei tributi affermando che non può non ritenersi insito nell'ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale Anche in materia di intermediazione finanziaria l’istituto si adatta efficacemente. Appare degna di nota la sentenza del Trib. Torino, 7 marzo 2011 che ha respinto la domanda proposta dall'investitore tendente ad ottenere la ripetizione degli investimenti svantaggiosi stante la nullità del contratto quadro, senza richiedere invece anche la ripetizione degli investimenti risultati forieri di guadagni, proprio in applicazione del generale canone che vieta di abusare del diritto alla domanda. Gli interventi più frequenti da parte della giurisprudenza sono invero riscontrabili nella materia commerciale, ed in particolar modo in relazione alle procedure concorsuali. Non vi sono dubbi che la crisi economica abbia generato il default di molte aziende incapaci di sostenere l’indebitamento a fronte della forte riduzione dei volumi d’affari. Tale scompenso non sempre riconducibile alla mala gestio a spinto il legislatore ad intervenire in più riprese a riformare l’istituto delle procedure concorsuali, in particolar modo del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione del debito al fine di consentire un ridimensionamento delle aziende in crisi e facilitare la sopravvivenza di almeno parte di esse. Non sono tuttavia mancati usi improprio delle procedure finalizzate a rimandare l’esito infausto ed è proprio su tali condotte che il giudice è dovuto intervenire per riportare l’uso di tali istituti nei termini dei principi ispiratori. Il d.lg. 12 settembre 2007 n. 169, ha precluso al giudice, in ambito di omologazione del concordato preventivo il giudizio sulla convenienza economica della proposta. Tale riforma sembrava aver ridotto il compito del giudice ad una nera finalità i controllo formale salvo il potere di intervenire d'ufficio ed in difetto di opposizione ex art. 180 l. fall., per sollevare eccezioni di merito, quale quella di nullità, ex art. 1421 c.c. tuttavia se il giudizio prognostico sul piano è rimasta prerogativa dei creditori, resta invece in capo ai tribunali il compito di verificare se sussiste un vizio genetico della causa, poiché trattasi di vizio non sanabile dal consenso dei creditori. Tale controllo da parte del tribunale gli deriva dalla funzione di tutela dell'interesse pubblico a cui è preordinato al fine di evitare forme di abuso del diritto nella utilizzazione impropria della procedura. in tal senso si richiama la Cass., sez. 1^, 23 Giugno 2011, n. 13817 Entro i confini fin qui tracciati, non v'è ragione, in ultima analisi, di ridurre la cognizione della proposta e del piano concordatari ad una mera funzione notarile di regolarità formale, svolta da un giudice costretto nel ruolo ancillare di convitato di pietra: in tal modo, inibendo la tutela anche dell'interesse pubblico a che il governo della crisi d'impresa - tutt'altro che privo di costi per la collettività - non sia piegato ad utilizzazioni improprie, con abuso del diritto Così anche, E' stato d'altronde chiarito che l'utilizzazione del concordato non è sottratta al divieto di abuso del diritto, la cui applicazione, ormai ampiamente diffusa in riferimento sia agl'istituti di diritto sostanziale che a quelli di diritto processuale, trova fondamento nel principio generale secondo cui l'ordinamento tutela il ricorso agli strumenti che esso stesso predispone nei limiti in cui essi vengano impiegati per il fine per cui sono stati istituiti, senza procurare a chi li utilizza un vantaggio ulteriore rispetto alla tutela del diritto presidiato dallo strumento e a chi li subisce un danno maggiore rispetto a quello strettamente necessario per la realizzazione del diritto dell'agente. (Cassazione civile, sez. I 29/07/2011 n. 16738).
[41] RESCIGNO, voce Contratto, in Enc. giur., IX, Roma, 1988, p. 10 ss.; Corte cost., 11 febbraio 1988, n. 159; PACE, Libertà «del» mercato e «nel» mercato, in Pol. dir., 1993, p. 327 ss. Diversamente, è espressa come nella Costituzione di Weimar (art. 152), e implicitamente nella Costituzione di Bonn (art. 2, Abs. 1).
[42] G. Morini, Autonomia contrattuale: i confini delineati dalla giurisprudenza, in Riv. Alatalex, Pubblicato il 29/09/2015.
[43] Cerri, Doveri Pubblici, in Enc. Giur., XII, Torino, 1989.
[44] Alpa, Solidarietà, Nuova Giur. Comm., 1994, pag. 365.
[45] Della natura di tali diritti fondamentali il volontariato partecipa: e vi partecipa come istanza dialettica volta al superamento del limite atomistico della libertà individuale, nel senso che di tale libertà è una manifestazione che conduce il singolo sulla via della costruzione dei rapporti sociali e dei legami tra gli uomini, al di là di vincoli derivanti da doveri pubblici o da comandi dell'autorità [Corte Cost. 75/1992].
[46] A questa categoria sono riconducibili soltanto le manifestazioni concrete dell’autonomia privata che sono all’origine di alcune delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2, nelle quali si svolge la personalità dei singoli: la famiglia fondata sul matrimonio e le associazioni liberamente costituite per scopi leciti.
[47] L’orientamento ideologico dominante nell’Assemblea costituente eletta nel 1946 non era in senso liberistico. Seppur ripudiava l’indirizzo corporativistico e autarchico del precedente regime autoritario, i costituenti, di fatto ne hanno mantenuto la finalità positivizzando la funzione di programmazione economica democratica, strumentario dirigistico, funzionalizzato da organi preposti alla fissazione dei prezzi di determinati beni e servizi, inseriti ope legis nei contratti tra privati anche in sostituzione delle clausole difformi pattuite dalle parti (artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.). La difficoltà dei costituenti ad assumere una posizione marcata sula rapporto tra autonomia e libertà privata e l’interesse pubblico ad una funzione sociale della condotta umana la si rileva altresì dall’inserimento nell’art. 41 cost., di un terzo comma che riserva alla legge il compito di “determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata sia indirizzata e coordinata a fini sociali”.
[48] Fino agli anni ’80 la citata norma veniva fondava il principio dello stato interventista ovvero l’intervento pubblico nell’economia, sovrapposto al sistema del mercato quale modello giuridico di sviluppo deciso dalla volontà politica realizzato con imprese pubbliche sottratte alle leggi del mercato. Dalla metà degli anni ’80, dietro la spinta esercitata sull’Italia dall’Atto Unico Europeo del 1986 viene riqualificato l’intervento pubblico indirizzandolo esclusivamente a dettare regole al mercato per garantirne correttezza ed efficienza. Il primato del mercato ha portato ad una rilettura della Costituzione spostando l’intervento pubblico, dalla funzione programmatica a quella di rimuovere gli ostacoli al funzionamento del mercato. Il nuovo fine proposto, è quindi, quello di promuovere l’utilità sociale valorizzare i diversi settori ed attitudini del mercato, produrre ricchezza e benessere, Ma non solo: lo Stato dovrà intervenire per correggere le disparità di potere contrattuale che ostano alla libertà delle scelte economiche individuali.
[49] Art. 3 Cost.: si pensi alla disciplina antitrust, alle norme sulla subfornitura che sanzionano con la nullità i contratti stipulati con abuso di dipendenza economica, alle disposizioni sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, che stabiliscono la nullità di ogni accordo sulla data del pagamento che risulti gravemente iniquo in danno del creditore, ex D.Lgs. n. 231 del 2002.
[50] «Dall’art. 41, comma 2, non discende un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare quella astratta tutela» Cass., Sez. un., 29 maggio 1993, n. 6031. La massima è consolidata: cfr. pure Cass., Sez. un., 1° ottobre 1993, n. 9801; Cass., Sez. un., 17 maggio 1996, n. 4570.
[51] In tal senso Consiglio di Stato sez. III 02 settembre 2013 n. 4364 Il meccanismo dell'eterointegrazione ha origine e trova la sua collocazione sistematica e il suo terreno d'elezione nel diritto privato, che contempla, accanto alla fonte principale dell'autonomia contrattuale, la volontà delle parti, quelle che la più autorevole dottrina civilistica ha chiamato le cc.dd. fonti eteronome da individuarsi, secondo la definizione dell'art. 1374 c.c., nella legge o, in mancanza, negli usi e nell'equità.
[52] Sono pochi i casi previsti nel codice civile in cui è rinvenibile un potere di intervento del Giudice volto a ripristinare un equilibrio equo del rapporto: art. 1384 (riduzione equitativa della clausola penale), art. 1526 (riduzione equitativa dell’indennità convenuta in favore del venditore in caso di risoluzione della vendita a rate), art. 1934 (riduzione della posta eccessiva in caso di gioco autorizzato dalla legge). In tal senso si è espresso il Tribunale Torre Annunziata sez. II 04 settembre 2014 n. 2328 (in tal senso anche Corte Appello Napoli sez. I 29 gennaio 2014 n. 360) in relazione al potere di riduzione ad equità, ex art. 1384 c.c.: In tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità ex art. 1384 c.c. è posto a tutela dell'interesse generale dell'ordinamento e può essere esercitato d'ufficio per ricondurre l'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all'ipotesi in cui la riduzione avviene perché l'obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacché in quest'ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell'obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta. La Corte Costituzionale con sentenza n. 103 del 9 marzo 1989, ha ritenuto di poter trarre dal principio espresso nell’art. 3 Cost. — coordinato con i principi di equa retribuzione (art. 36) e della dignità umana (art. 41, comma 2) — il potere del giudice di sindacare la razionalità delle clausole del contratto collettivo che comportano disparità di trattamento tra lavoratori adibiti a mansioni uguali o analoghe, con l’effetto, in caso di valutazione negativa, dell’annullamento dell’accordo. Questa interpretazione non è stata tuttavia accolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in quanto essendo il contratto un modo di composizione di interessi in conflitto ed esplicazione dell’autonomia contrattuale, il giudice non può procedere ad un esame sulla ragionevolezza. In effetti, il giudizio di ragionevolezza, in relazione all’autonomia contrattuale, sul contenuto del singolo contratto è già implicito nel giudizio di meritevolezza degli interessi che quel tipo di contratto è diretto a realizzare, ovvero l’idoneità del contratto a realizzare la funzione socialmente rilevante (causa astratta), giudizio già precostituito dalla legge per i contratti nominati, o formulato dal giudice negli altri casi.
[53] Ne è un caso il diritto alla salute, garantito dall’art. 32 cost., che ha portato ad una interpretazione estensiva l’art. 2110 c.c. (sospensione del rapporto di lavoro per malattia del lavoratore) includendo nella fattispecie legale le patologie psicofisiche derivanti da stati di nevrosi o di stress, designate col nome di eccessiva morbilità [Cass., Sez. un., 29 marzo 1980, n. 2072]. Così pure il caso dell’art. 1105 cod. nav. relativamente al reato di ammutinamento, che letto in guisa con l’art. 40 Cost. ha escluso tale reato in caso di sciopero dell’equipaggio quando la nave non si trova in navigazione [Corte cost., 28 dicembre 1962, n. 124].
[54] Cass. S.U. 15 novembre 2007 n. 23726; Cass. S.U. 24 novembre 2007 n. 28056; Cass. 22 gennaio 2009 n. 1618; Cass. 5 maggio 2009 n. 5348; Cass. 29 maggio 2007 n. 12644.
[55] Obblighi di correttezza, corrispondenti alle Schutzpflichten della dottrina tedesca.
[56] Cass. 18 ottobre 2004 n. 20399; 5 marzo 2009 n. 5348; 31 maggio 2010 n. 13208.
[57] Così, anche Cass. 20 aprile 1994, n. 3775.
[58] Cassazione civile sez. lav. 06 ottobre 2005 n. 19415; Cassazione civile sez. lav. 05 ottobre 1998 n. 9867.
[59] Passando ad un esempio pratico si rileva che nell'ambito della fideiussione "omnibus", il creditore garantito, la banca, deve, nel suo potere discrezionale di accordare anticipazioni al debitore principale, comportarsi secondo buona fede nell'esecuzione del contratto di garanzia poiché va a determinare un ampliamento del rischio del garante. Così pure per il fideiussore, il limite dell'estensione del rischio è caratterizzato dal dovere dell'istituto di credito di comportamento secondo il canone della buona fede nell'esecuzione del contratto di garanzia. Ciò risponde a un'esigenza di protezione del contraente "per i potenziali arbitri insiti nel meccanismo relazionale prescelto" e rientra - bisogna aggiungere - in una regola del codice sostanzialmente riproduttiva della "exceptio doli generalis" del diritto romano [Cass., 18 luglio 1989, n. 3362]. Tornando quindi alla figura giuridica della fideiussione, mentre a livello di formazione della fattispecie, l'integrazione si realizza per mezzo della determinazione dell'oggetto per relationem, a livello di esecuzione del contratto l'integrazione avviene con la repressione degli sconfinamenti, contrari alla buona fede, che si sono verificati nelle operazioni di concessione del credito. Oltre alle tradizionali figure dell’errore, del dolo e della violenza, il codice civile prevede due ipotesi di squilibrio delle prestazioni generato da fattori perturbanti la libertà di decisione di una parte, da cui però l’altra trae vantaggio: contratto concluso in stato di pericolo e condizioni inique note alla controparte (art. 1447 c.c.); contratto concluso in stato di bisogno, del quale l’altra parte ha approfittato per ottenere una prestazione ultra dimidium (art. 1448). Il codice prevede la rescindibilità del contratto nel termine di prescrizione di un anno, salvo, nella ipotesi di cui all’art. 1447 c.c., per chi ha prestato l’opera, il diritto di vedersi riconoscere dal Giudice un equo compenso, diversamente nell’ipotesi di cui all’art. 1448 c.c., la lesione deve perdurare sino al momento della domanda giudiziale. Nell’ipotesi di un mutuo contratto con interessi usurari, la sanzione di nullità che colpisce la clausola che determina gli interessi, introdotta dall’art. 4 della l. 7 marzo 1996, n. 108, che ha escluso la sostituzione automatica degli interessi legali, prevista dall’originario secondo comma dell’art. 1815 c.c., sostituisce la disciplina generale dell’art. 1448. Accanto alla disciplina dei vizi della volontà volta ad allineare la volontà con la dichiarazione, esiste nel nostro ordinamento altra forma di tutela caratterizzata dalla dottrina anglosassone che incide con limiti molto penetranti nell’autonomia privata a difesa di categorie di soggetti (principalmente consumatori) in posizione di disuguaglianza di potere economico rispetto alla controparte. I precedenti sono riconducibili al Consumer Credit Act inglese del 1974, nell’Unfair Contract Terms Act del 1977, e nella legge tedesca sulle condizioni generali di contratto del 1976: sono quindi rinvenibili 4 (sotto)categorie di vizi del consenso. La prima categoria è la disciplina delle vendite “porta a porta”, offerti da operatore commerciale fuori dai locali di esercizio dell’attività ovvero contratti sottoscritti dal consumatore “sorpreso” da una proposta e invito a offrire, a condizioni unilateralmente predisposte, su contratti standardizzati in prospetti e cataloghi, proposti da un operatore commerciale fuori dai locali ove esercita la sua attività professionale. Alla vittima della sorpresa è consentito di recedere dal contratto ex artt. 47, 64 e 65 D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206, tuttavia tale diritto non è propriamente riconducibile ad un potere unilaterale di risoluzione di un contratto che si è già perfezionato in ogni punto così come accade per il recesso prevista dall’art. 1373 c.c. ma piuttosto ad un diritto di “ripensamento” che consente di impedire – entro un determinato termine - il prodursi degli effetti del negozio: si tratta dunque di una ipotesi di efficacia sospesa. Alla seconda categoria appartengono le misure adottate in materia di trasparenza bancaria con la l. 17febbraio 1992, n. 154, relativamente alla fideiussione e, almeno in parte, la disciplina delle clausole vessatorie nei contratti del consumatore introdotta dalla l. 6 febbraio 1996, n. 52 (c.d. lista nera). L’art. 10 della legge n. 154 del 1992, modifica gli artt. 1938 e 1956 c.c. sancendo la nullità della fideiussione per obbligazioni future senza previsione dell’importo massimo garantito, e la nullità della clausola che sancisca la preventiva rinunzia del fideiussore ad avvalersi della liberazione dal vincolo prevista dalla legge qualora il creditore, senza una speciale autorizzazione del fideiussore, abbia fatto credito ad un terzo pur conoscendo le condizioni di difficoltà finanziaria. L’abrogato art. 1469-quinquies c.c., relativo ai contratti del consumatore, che sanciva l’inefficacia di alcune clausole tassativamente previste, anche se oggetto di trattativa; norma abrogata per effetto dell’art. 142 Cod. Cons., e sostituita dall’art. 36. La terza categoria è rappresentata dalla tutela del consumatore rispetto alle clausole che si presunte vessatorie ex art. 33 Cod. Cons. Sono ritenute vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. In questa sede il criterio della buona fede non assume il ruolo di strumento di un giudizio sul comportamento della parte che ha proposto la clausola, ma piuttosto un test of reasonableness sul contenuto della clausola, ovvero assume un significato prossimo al concetto pragmatico di equità. Viene dunque esercitato un sindacato di ragionevolezza analogo a quello esercitato dalla Corte Costituzionale sulle norme di legge, il giudice civile assume quindi il compito di bilanciare gli interessi in virtù dell’art. 34 Cod. Cons. (ex art. 1469-ter). Alla quarta categoria trova applicazione nell’art. 117 del d.lgs. 1o settembre 1993, n. 385 (testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), a garanzia della trasparenza delle condizioni contrattuali praticate dalle banche e dagli intermediari finanziari. I contratti devono essere stipulati, a pena di nullità, per iscritto con indicazione del tasso di interesse e di ogni altro prezzo e condizioni praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora. Per i contratti di credito al consumo sono poi richieste specifiche informazioni, sempre a pena di nullità del contratto se mancanti.
[60] La giurisprudenza deve, oggi ricorrere sempre più spesso a indagare sui limiti dell’autonomia contrattuale, specie in un’epoca, come la nostra, in cui il diritto dell’economia trova uno sua, sempre, più evidente autonomia. Si pensi al caso di un assegno in bianco o postdatato consegnato al creditore, in genere utilizzato per fornire una garanzia - da restituire al debitore alla scadenza in caso di regolare adempimento, tale operazione è contraria alle norme imperative contenute nella R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, artt. 1 e 2 e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all'ordine pubblico ed al buon costume enunciato dall'art. 1343 cod. civ.: la Corte di Cassazione [Cassazione civile, sez. I, 24/05/2016, n. 10710], ha ritenuto che, non viola il principio dell'autonomia contrattuale sancito dall'art. 1322 cod. civ. il giudice che, in relazione a tale assegno, dichiari nullo il patto di garanzia e sussistente la promessa di pagamento di cui all'art. 1988 cod. civ. [Cfr. Cass. civ. sezione 2, n. 4368 del 19 aprile 1995]. È stato ritenuto [Cassazione civile, sez. II, 22/04/2016, (ud. 02/02/2016, dep.22/04/2016), n. 8209] pacifico che, in base al principio dell'autonomia contrattuale di cui all'art. 1322 c.c., sia configurabile il contratto atipico di cosiddetto "vitalizio alimentare", autonomo e distinto da quello, nominato, di rendita vitalizia di cui all'art. 1872 c.c., sulla premessa che i due negozi, omogenei quanto al profilo della aleatorietà, si differenzino perchè, mentre nella rendita alimentare le obbligazioni dedotte nel rapporto hanno ad oggetto prestazioni assistenziali di dare prevalentemente fungibili, nel vitalizio alimentare le obbligazioni contrattuali hanno come contenuto prestazioni (di fare e dare) di carattere accentuatamente spirituale e, in ragione di ciò, eseguibili unicamente da un vitaliziante specificatamente individuato alla luce delle qualità personali proprie di questo [Cfr.: Cass. 5 maggio 2010, n. 10859; Cass. 29 maggio 2000, n. 7033; Cass. 8 settembre 1998, n. 8854.]. Anche Cassazione civile, sez. I, 05/06/2014, (ud. 10/12/2013, dep.05/06/2014), n. 12705, ha ribadito che ha esaminato la questione relativa alla denuncia concernente la violazione delle norme sull'autonomia contrattuale, oltre che sull'efficacia dei contratti, e delle disposizioni in tema di arbitrato.
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