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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 22/11/2024 Scarica PDF

Il diritto alla vita. Nella difficile relazione tra diritto e Bioetica

Giampaolo Morini, Avvocato in Lucca


Sommario: 1. Diritto e bioetica: una relazione difficile. 2. Il diritto alla vita estrapolato dall’istituto della responsabilità. 3. Il Concepito alla ricerca di una soggettività. 4. Conclusioni.

 

 

Un individuo, infatti, prende sempre coscienza di sé e della propria identità in un contesto sociale e, di conseguenza, sente il bisogno di essere rassicurato dalla sua comunità riguardo alla bontà del suo progetto di vita. Questa esigenza si fa sentire con sempre maggior forza nella società postmoderna, dove l’individuo decontestualizzato e separato è sempre più insicuro della bontà dei suoi fini, ed ha sempre più bisogno che gli altri approvino i suoi progetti e che la società nel suo complesso li consideri degni di una vita umana[1].

 

 

1. Diritto e bioetica: una relazione difficile.

Quando si tratta la materia della vita nella sua più naturale essenza, l’“esistere”, il giurista si trova a dover fare i conti con il diritto positivo, che pare in alcuni casi arretrare, in altri arrivare con notevole ritardo e altre ancora mostrarsi incapace di disciplinare tutti i casi concreti, affidando alla giurisprudenza l’arduo compito di conciliare il diritto alla vita con la bioetica, che pur non essendo una fonte giuridica, costituisce tuttavia un “metro” di giudizio, socialmente accettata, che non può che porsi in funzione prodromica a tutta la fase ermeneutica.

In realtà l’interferenza della bioetica nel diritto non è questione priva di dibattito, è noto come secondo alcuni autori sia «meglio che il diritto non intervenga mai in questioni bioetiche» (cfr. L. Nielsen, Dalla bioetica alla biolegislazione, in C.M. Mazzoni (a cura di), Una norma giuridica per la bioetica, Bologna, 1998, 50); mentre altri, sostengono la tesi del diritto neutrale nell'ambito dell'orientamento liberale-libertario (cfr. T.H. Engelhardt Ir., Bioetica: i limiti della legislazione, in Biblioteca della libertà, 125, 1994, 85; S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006; N. Irti, Il diritto nell'età della tecnica, Napoli, 2007).

In generale, si ritiene preferibile, in materie al confine tra diritto ed etica, che il legislatore intervenga in modo soft. «Quale alternativa alla legislazione soft, è ammessa (anzi, da alcuni considerata preferibile) la giurisprudenza discrezionale, adattabile al pluralismo etico ed alle trasformazioni sociali, in quanto mai definitiva ma sempre applicata al singolo caso e suscettibile di ripensamento» (così L. Palazzini, Valori e diritti al confine della vita umana, in Le sfide del diritto a cura di G. Dalla Torre e C. Mirabelli, Soveria Mannelli, 2009, 97, spec. 102; cfr. E. Le Caldano, Bioetica. Le scelte morali, Roma-Bari, 1999). 

In ogni caso, anche al di là delle questioni che in qualche modo coinvolgono l'etica, va senz'altro riconosciuto che «in numerosi settori dell'ordinamento civilistico l'assenza di normazione oppure una disciplina legislativa obsoleta ha assecondato la giurisprudenza in un ruolo altamente creativo» (così I. Ferranti, L'interpretazione costituzionale della norma civile, in A. Giuliani-A. Palazzo-I. Ferranti, L'interpretazione della norma civile, Torino, 1996, 169, 193).

Tutto questo dibattito ha dato origine ad un modo di operare dei giudici italiani incentrato più sul perseguimento dell'obiettivo della coerenza dell'ordinamento con i suoi valori fondamentali, che non sul concetto di applicazione rigorosa, benché logica, delle regole operanti nell'ordinamento stesso, confinando la bioetica ad uno strumento residuale

 

È Tommaso d’Aquino che pone l’originale diritto dell’uomo come legge della natura, legge naturale ed anche legge morale, dunque non imposizione di una volontà superiore: “La legge è una regola o una misura dell’agire in quanto viene spinto all’azione o viene stornato da essa[2].

Secondo il pensiero di Tommaso, egli ci porta verso quel processo che conduce alla valorizzazione della coscienza personale, proveniente dai due tipi di leggi esterne: quella che viene da Dio e quella che viene dagli uomini, ma nel contempo c’è una legge dentro di noi che viene dalla illuminazione divina, secondo Tommaso, che ogni creatura umana razionale, possiede. Si tratta di una legge etica e morale che ogni uomo dovrà sentire sua.

E la legge che ogni essere umano ha dentro di sé e da Antigone[3] ai giorni nostri ad essa si fa riferimento, come una legge che è scritta, nell’intimo del cuore, per i romantici o è una legge scritta dentro la funzione dell’intelligenza, per i più realisti.

A questo punto è possibile ritornare al concetto di responsabilità, considerandola non più perché essa è una legge scritta dagli uomini la quale si fa garante unicamente dall’essere rispettata. Ora, al contrario, non ci dovrà essere il timore di incorrere a sanzioni nel caso di mancata osservanza, ma la responsabilità ha in sé i connotati dell’etica e della morale che la salvaguarda dall’essere una pura e semplice osservanza meccanica.

 

2. Il diritto alla vita estrapolato dall’istituto della responsabilità.

Venendo adesso a trattare per sommi capi il tema della vita sarà interessante notare come la giurisprudenza ha cercato negli ultimi anni di conciliare i diritti della madre (ma anche del padre, seppur su profili più marginali) e del nascituro al quale viene riconosciuta una soggettività giuridica. È quasi inevitabile analizzare il diritto alla vita in modo negativo, ovvero partendo dalla sua lesione.

La giurisprudenza europea ci fornisce una panoramica delle cause alla base delle azioni risarcitorie promosse dai genitori che non avrebbero messo al mondo il proprio figlio se il ginecologo avesse: 

a) evitato la gravidanza, come da essi stessi richiesto; 

b) informato la madre dei rischi connessi alla gravidanza; 

c) correttamente eseguito la pratica abortiva ovvero le cure durante il parto; 

d) adeguatamente eseguito i test genetici sulla vita intrauterina del feto.

In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà di interrompere la gravidanza - ricorrendo le condizioni di legge - ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest'onere può essere assolto ricorrendo alla praesumptio hominis, che si avvale delle inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue progressive manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale (Cass. civ., sez. III, 11 aprile 2017 n. 9251).

La Cass., sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25767, cit., p. 446 chiarisce che: «Ci si riferisce (...) alla praesumptio hominis, rispondente ai requisiti di cui all’art. 2729 c.c., che consiste nell’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l’id quod plerumque accidit – che peraltro il giudice civile non potrebbe accertare d’ufficio, se non rientrino nella sfera del notorio (art. 115, comma 2, c.p.c.) – ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche – emergenti dai dati istruttori raccolti: quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto, ecc.. In questa direzione il tema d’indagine principale diventa quello delle inferenze che dagli elementi di prova possono essere tratte, al fine di attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che si tratta di accertare, secondo un criterio di regolarità causale: restando sul professionista la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale».

Affermare che, nei limiti in cui la vita e la salute della madre giustificano il sacrificio della vita dell’embrione, la madre acquisisca un diritto all’interruzione della gravidanza, sarebbe come sostenere che, nei limiti della legittima difesa, l’aggredito abbia diritto ad uccidere l’aggressore e che tale diritto abbia rilevanza giuridica e sia meritevole di tutela risarcitoria. Evidentemente il paradosso non è accettabile per la banale ragione che non è dato inferire dal bilanciamento di due interessi un terzo autonomo diritto a sacrificare l’interesse soccombente[4].

Questo esempio è ben lontano dal determinare i confini di una scelta ritenibile legittima. Ad esempio in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, la mancanza della mano sinistra del nascituro non è una malformazione idonea a determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, requisito imposto dall'art. 6, lett. b), della l. n. 194 del 1978 per far luogo all'interruzione della gravidanza dopo i primi 90 giorni dal suo inizio, sicché, non potendosi legittimamente ricorrere all'aborto, dall'omessa diagnosi dell'anomalia fetale non può derivare un danno risarcibile (Cass. civ., sez. III, sent., 11 aprile 2017 n. 9251).

Si ritiene ormai acquisito nel nostro ordinamento il riconoscimento della posizione di tutela conseguente alla lesione del diritto all'autodeterminazione della coppia nella scelta di procreare in modo "cosciente e responsabile" (art. 1 L. n. 194 del 1978) che, se frustrato, costituisce un danno ingiusto meritevole di risarcimento (Trib. Milano 20 ottobre 1997; Trib. Tolmezzo 7 giugno 2011, Trib. Latina 21 luglio 2011; Trib. Busto Arsizio 17 luglio 2001), trattandosi di un diritto di libertà che trova tutela nel testo costituzionale (artt. 2 e 13 Cost.).

È proprio dall’art. 2 Cost. che si ricava la tutela dei diritti della personalità come diritti inviolabili dell'uomo come singolo e nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, tra cui un posto di rilievo spetta alla famiglia, sia nell'art. 13 Cost. che afferma la inviolabilità della libertà personale che si esprime anche nella libertà di ciascuno di poter disporre del proprio corpo. In tal senso la Corte Cost. n. 471 del 1990 ha stabilito il principio secondo il quale "il valore costituzionale della inviolabilità della persona è costruito, nel precetto di cui all'art. 13, primo comma, della Costituzione, come "libertà", nella quale è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo".

In definitiva l'inadempimento del medico all'obbligo assunto al momento del contatto/contratto con la paziente di compiere la propria prestazione secondo la diligenza del buon medico ai sensi dell'art. 1176 co 2 c.c comporterebbe la lesione del diritto della paziente di decidere, con il proprio compagno (ma non necessariamente), liberamente, sulla base di valutazioni assolutamente personali ed insindacabili, se mettere o meno al mondo il proprio figlio.

Come più volte affermato dalla giurisprudenza, un tale inadempimento genera un danno che deve essere risarcito, in primo luogo, nella tradizionale componente del danno patrimoniale -danno emergente e lucro cessante- allorché sia conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento in termini di causalità adeguata (cfr. Cass. 13/2010), ma non solo; trattandosi della lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, è risarcibile anche il danno non patrimoniale, malgrado il fatto non costituisca reato, essendosi in presenza di una grave lesione dell'interesse tutelato e di un danno certamente non futile, risarcibilità riconosciuta anche nella responsabilità contrattuale (Cass. S.U. 2008/26972), si ritiene che entrambi i genitori siano destinatari del risarcimento richiesto, non solo la madre quale paziente/contraente, ma anche il padre quale genitore. A tale conclusione la giurisprudenza è pervenuta richiamando la teoria degli effetti protettivi del contratto sostenuta in fattispecie analoghe dalla Corte di Cassazione.

Il tessuto dei diritti e dei doveri che secondo l'ordinamento si è incentrato sul fatto della procreazione, quali si desumono dalla L. n. 194 del 1978, dalla Costituzione e dal c.c., nonché i rapporti tra coniugi e gli obblighi dei genitori verso i figli (artt. 29 e 30 Cost.; artt. 143 e 147, 261 e 279 cod. civ.) spiegano perché anche il padre rientri tra i soggetti protetti dal contratto ed in confronto del quale la prestazione del medico è dovuta. Ne deriva che l'inadempimento si presenta tale anche verso il padre ed espone il medico al risarcimento dei danni, immediati e diretti, che pure al padre possono derivare dal suo comportamento.

La gravidanza indesiderata, determinata dall'inadempimento colpevole del sanitario, è causa di danno per il padre poiché si tratta di contratto di prestazione di opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito, che. per effetto dell'attività professionale del sanitario diventa o non diventa padre, con la conseguenza che il danno provocato da inadempimento del sanitario, costituisce una conseguenza immediata e diretta anche nei suoi confronti e, come tale è risarcibile a norma dell'art, 1223 c.c. (Cass. 6735/02; 20320/05; 16754/12).

Trattandosi, poi, della violazione di un diritto fondamentale della persona, come sopra delineato, si arriverebbe al riconoscimento del diritto al risarcimento del danno a favore del genitore anche invocando la norma fondamentale dell'art. 2043 c.c.

Quindi, in tema di responsabilità del medico per erronea diagnosi concernente il feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni, che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento della struttura sanitaria all'obbligazione di natura contrattuale gravante sulla stessa, spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l'ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile.

«Al momento stesso in cui l’ordinamento giuridico riconosce alla madre il diritto di abortire, sia pur nei limiti e nei casi previsti dalla legge, si palesa come incontestabile e irredimibile il sacrificio del “diritto” del feto a venire alla luce, in funzione della tutela non soltanto del diritto alla procreazione cosciente e responsabile (art. 1, l. n. 194 del 1978), ma dello stesso diritto alla salute fisica o anche soltanto psichica della madre»; la sentenza tuttavia poco dopo parla di facoltà: «Appare di indiscutibile efficacia la scelta lessicale di un legislatore che descrive la situazione giuridica soggettiva attribuita alla gestante in termini di diritto alla procreazione cosciente e responsabile, a lei rimesso in termini di assoluta quanto inevitabile esclusività (...). Altra e diversa questione è quella se la facoltà riconosciuta ex lege alla madre di interrompere volontariamente la gravidanza – consentendole di porre fine, con la propria manifestazione di volontà, allo sviluppo del feto – possa ritenersi rappresentativa di un esclusivo interesse della donna, e non piuttosto anche del nascituro»[5].

Va infatti tenuto presente che il diritto all’autodeterminazione è diverso dal diritto alla salute e che vanno trattate diversa mente le fattispecie in cui il danneggiato lamenti la lesione del primo e/o la lesione del secondo (...); ed, a maggior ragione, le fattispecie, come quella in esame, in cui lamenti che dalla lesione del diritto all’autodeterminazione in tema di scelte diagnostiche, sia conseguita la lesione di altro diritto, quale quello di interrompere volontariamente la gravidanza, o di autodeterminarsi in merito alla scelta di procedere o meno a siffatta interruzione.

Gli effetti negativi della condotta del medico e la responsabilità della struttura ove egli opera colpiscono anche il padre che deve, perciò, considerarsi tra i soggetti «protetti» e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra cui deve ricomprendersi il pregiudizio patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli (nella specie, era stato eseguito in maniera erronea un intervento di raschiamento uterino in seguito ad una non corretta diagnosi di aborto interno, accertata dopo la ventunesima settimana e, quindi, oltre il termine previsto dalla l. n. 194 del 22 maggio 1978, con la conseguenza che la gravidanza era proseguita e si era conclusa con la nascita indesiderata di una bambina) (Cass. civ., sez. III, ord., 5 febbraio 2018 n. 2675).

Sotto altro profilo, il danno fatto valere dal nato disabile è irrisarcibile poiché il profilo dell’inserimento del nato in un ambiente familiare, nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo, si rivela sostanzialmente quale mero «mimetismo verbale» del c.d. diritto a non nascere se non sani e va, perciò incontro all'obiezione dell'incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, con l'unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dall’interruzione della gravidanza (Cass. civ., sez. III, 11 aprile 2017 n. 9251).

Ciò tuttavia non esclude che il nascituro ha soggettività giuridica ed ha diritto a nascere sano, con il conseguente obbligo dei sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento che per il nascituro, avente carattere patrimoniale, è condizionato, quanto alla titolarità, all'evento nascita ex art. 1, 2º comma, c.c., ed azionabile dagli esercenti la potestà) per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in ordine alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sia del dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso.

Il nascituro, diversamente, non ha diritto al risarcimento qualora il consenso informato necessiti ai fini dell'interruzione di gravidanza (e non della mera prescrizione di farmaci), stante la non configurabilità del diritto a non nascere (se non sano) (Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2009 n. 10741); detto ciò, nel nostro ordinamento non esiste un diritto «a non nascere se non sano», in quanto le norme che disciplinano l'interruzione della gravidanza la ammettono nei soli casi in cui la prosecuzione della stessa o il parto comportino un grave pericolo per la salute o la vita della donna, legittimando pertanto la sola madre ad agire per il risarcimento dei danni.

   

3. Il Concepito alla ricerca di una soggettività.

Il concepito, tuttavia, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall'ordinamento sia nazionale che sovranazionale, quali il diritto alla vita, alla salute, all'onore, all'identità personale, a nascere sano, diritti, questi, rispetto ai quali l'avverarsi della “condicio iuris” della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori.

Ne consegue che la persona nata con malformazioni congenite, dovute alla colposa somministrazione di farmaci dannosi (nella specie teratogeni), alla propria madre, durante la gestazione, è legittimata a domandare il risarcimento del danno alla salute nei confronti del medico che quei farmaci prescrisse o non sconsigliò. Gli effetti del contratto debbono essere individuati avendo riguardo anche alla sua funzione sociale, e tenendo conto che la Costituzione antepone, anche in materia contrattuale, gli interessi della persona a quelli patrimoniali.

Invero, il contratto stipulato tra una gestante, una struttura sanitaria ed un medico, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza, riverbera per sua natura effetti protettivi a vantaggio anche del concepito e del di lui padre, i quali in caso di inadempimento, sono perciò legittimati ad agire per il risarcimento del danno.

Il perno su cui ruotano tutte le affermazioni della Suprema Corte è il reputare il contratto tra medico e gestante come rapporto con effetti protettivi a favore di terzi, con conseguente conferimento al medico del dovere di salvaguardare non solo la partoriente ed il futuro padre del bambino, ma anche il concepito, evitando, nei limiti consentiti dalla scienza, il sorgere di qualsiasi danno alla sua salute[6]

La novità risiede nella fattispecie causativa del danno: non un'erronea diagnosi prenatale e la preclusione della chance di interruzione volontaria di gravidanza, ma l'incauta somministrazione di farmaci coadiuvanti la fecondazione nel corso della gestazione stessa, nella piena consapevolezza degli elevati rischi di patologie per il feto inerenti a tale prassi. 

La valutazione del nesso causale in sede civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agliartt.40 e 41c.p., secondo i quali un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché al criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, presenta tuttavia notevoli differenze in relazione al regime probatorio applicabile, stante la diversità dei valori in gioco tra responsabilità penale e responsabilità civile. Nel processo civile vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige infatti la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (Cass. civ., sez. III, sent., 11 maggio 2009 n. 10741).

La logica argomentativa muove dall'intenzione di superare le dissertazioni giurisprudenziali e dottrinarie che, proprio all'indomani del caso Perruche in Francia[7], che negavano in nuce il ristoro del bebé prejudice, sulla base della mera configurazione del diritto a nascer sani come adespota, dal momento che nessun soggetto esistente avrebbe potuto goderne se non in seguito alla sua violazione[8].

Il disconoscimento del risarcimento al neonato malformato si fondava, infatti, sulla considerazione che nessun pregiudizio, né la perdita di un bene, né il mancato guadagno di un'utilità attesa, potesse essere riscontrato nel fatto di aver ricevuto la vita, pur sempre dono anche quando irrimediabilmente imperfetta[9]

 

Non mancano, tuttavia, soluzioni giurisprudenziali la cui motivazione pone sullo stesso piano il profilo giuridico e quello bioetico: si legge infatti in Trib. Catania, 29 marzo 2006: È illogico affermare che «la nascita di un soggetto affetto da mongolismo determina un grave danno alla salute del nascituro» perché non è la nascita che arreca danno al nato (e non al nascituro) ma la malformazione che ha agito come causa del danno tempo prima, al momento del concepimento. Ammesso (per ipotesi logicamente e filosoficamente assurda) che si dovesse considerare la nascita come causa del danno esso danno sarebbe evitabile solo con la non nascita che costituirebbe, con evidenza, danno ancora maggiore della nascita. Si legge nella stessa sentenza: L'art. 1 l. n. 194/1978, oltre a ribadire i principi costituzionali del diritto alla procreazione cosciente e responsabile e del valore sociale della maternità, stabilisce che la vita umana debba essere tutelata sin dal suo inizio; le norme della suddetta legge sulle quali si fonda l'aborto sono norme di legge ordinaria poste a presidio di rilevanti e irrinunciabili valori costituzionali e la possibilità della donna di abortire si fonda solo sulla necessità di bilanciare beni di rilievo costituzionale, la salute del figlio e quella della madre, quando si vengano a trovare in conflitto fra loro; in assenza di tale conflitto, e della conseguente esigenza di bilanciamento dei beni tutelati dalla costituzione, è escluso che la donna possa sopprimere il feto.

L'ordinamento positivo tutela il concepito e l'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, e non anche verso la «non nascita», essendo pertanto (al più) configurabile un «diritto a nascere» e a «nascere sani», suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione: sotto il profilo privatistico della responsabilità contrattuale o extracontrattuale o da «contratto sociale», nel senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie (con comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso).

Sotto il profilo - latamente - pubblicistico, nel senso che debbono venire ad essere predisposti tutti gli istituti normativi e tutte le strutture di tutela cura e assistenza della maternità idonei a garantire (nell'ambito delle umane possibilità) al concepito di nascere sano; non è invece in capo a quest'ultimo configurabile un «diritto a non nascere» o a «non nascere se non sano», come si desume dal combinato disposto di cui agli art. 4 e 6 l. n. 194 del 1978, in base al quale si evince che: a) l'interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi novanta giorni di gravidanza) o grave (successivamente a tale termine); b) trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla madre; c) le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante (Cass. civ., sez. III, 29 luglio 2004 n. 14488).

L'eventualità che un bambino - ancorché non ancora nato - possa venir soppresso perché la sua imperfezione fisica potrebbe provocare una sofferenza psicologica alla madre, appare incongrua e contrastante con i principi costituzionali che consacrano i diritti inviolabili dell'uomo, primo tra i quali il diritto alla vita (art. 2), vietano la pena di morte e quindi escludono che la morte possa essere applicata in via amministrativa (art. 27, ultimo comma), e tutelano la salute come fondamentale diritto dell'individuo, quindi anche del bambino non ancora nato (art. 32) (Trib. Udine, 21 luglio 2003).

«L’ordinamento riconosce all’individuo il bene della salute e stabilisce che la relativa tutela è diritto fondamentale di lui e interesse della collettività (art. 32, comma 1, Cost.). Dal dato costituzionale emerge che la salute è attributo specifico di ogni individuo. (...). Si può ancora precisare che il concepito è individuo fin dall’inizio del concepimento. La disposizione non pone limitazioni; sicché appare ragionevole ritenere che la salute è bene riconosciuto al concepito fin dall’inizio e la correlativa tutela è conseguentemente garantita a far data dal concepimento»[10]

 

4. Conclusione.

Non vi sono dubbi che ogni epoca ed ogni società assume come accettabili alcuni comportamenti piuttosto che altri; qui si discute del diritto alla vita ovvero, qualcuno potrebbe obbiettare aspettativa di vita, proprio questa distinzione ha diviso e divide tutt’ora la conoscenza sociale: ciò che è necessario è, difronte all’evoluzione della scienza e della tecnica una ugual crescita culturale che consenta alla società di farne buon uso (si penso alla crioconservazione dell’embrione argomento sul quale la Corte Costituzionale ha aperto nuovi e preoccupanti fronti).

La pertinenza “bioetica” del problema della povertà e della fame comincia a questo punto a risultare più chiara: se la bio-etica è un’etica della vita in condizioni sociali caratterizzate da un’ampia diffusione della tecnologia medica, allora ricadrà nel suo specifico ambito di competenza anche la vita di chi rimane escluso dai benefici di questa tecnologia. Uno sguardo critico sulle conquiste della tecnologia nel campo della vita e della salute, sguardo con cui, solitamente, è identificata la bioetica, dovrebbe infatti implicare non soltanto una denuncia dei possibili abusi di questa tecnologia ma anche del suo mancato uso.

Per elaborare una linea d’azione bioetica pienamente consapevole ed efficace, è di grande vantaggio conoscere tre coordinate che solo le scienze sociali possono fornirci: 1) da dove provengono le nostre idee e i nostri valori; 2) dove siamo posizionati nel processo storico-sociale o persino sociobiologico; e, infine, 3) dove possiamo andare e dove non possiamo andare, dato questo posizionamento.

La bioetica deve, in positivo, incoraggiare la tecnologia al raggiungimento di un obiettivo morale.



[1] F. Turoldo, Bioetica e reciprocità, Roma, Città Nuova, 2011, pag. 101.

[2] Tommaso d’Aquino, pensieri tratti dall’opera Summa Teologia, I-II, 90 1.

[3] Nella tragedia de l’Antigone di Sofocle il dramma si compie intorno alle due interpretazioni etico-valoriali: la posizione di Creonte e dell’etica riguardante l’ordine stabilito, la posizione di Antigone che si appella alle leggi divine, le leggi della pietà e della fratellanza.

[4] E. NAVARRETTA, Il danno ingiusto, cit., p. 175.

[5] Cass., sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754, cit., nella cui motivazione si legge (p. 185).

[6] V., da ultimo, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. 13 gennaio 2009, n. 469, Foro it., Mass., 29; 14 giugno 2007, n. 13953, id., 2008, I, 1990; 26 gennaio 2006, n. 1698, id., Rep. 2006, voce Contratto in genere, n. 360; 20 ottobre 2005, n. 20320, id., 2006, I, 2097, e, in quella di merito, Trib. Pesaro 26 maggio 2008, id., Rep. 2008, voce Professioni intellettuali, n. 129; Trib. Padova 24 ottobre 2005, id., Rep. 2007, voce cit., n. 173.

[7] Cfr. S. Cacace, «Perruche et alii»: un bambino ed i suoi danni, in Danno e resp., 2005, 206-209.

[8] Cfr. C. Siano, Principî giurisprudenziali in materia di responsabilità medica e risarcimento del danno per nascita indesiderata di un figlio handicappato, in Nuova giur. civ., 2006, I, 1340.

[9] A.V. Springer, The rights and wrongs of wrongful life: exploring legal, health and emotional argumentation in judicial decision and lay opinions, sul sito <www.ssrn.com>.

[10] F.D. BUSNELLI, L’inizio della vita umana, in questa Rivista, 2004, I, p. 533 ss.; N. COVIELLO JR, La tutela della salute dell’individuo concepito (Note introduttive alla riflessione giuridica sull’aborto), in D. fam., 1978, p. 252


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