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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 06/11/2016 Scarica PDF
Concordato preventivo e autonomia privata: i cc.dd. patti paraconcordatari
Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte OrientaleSommario: 1. Dall’autonomia privata nel concordato agli accordi con i creditori al di fuori della proposta; 2. La validità dei patti paraconcordatari; 3. Il contenuto dei patti paraconcordatari; 4. Segue: e la rilevanza del momento della loro stipulazione; 5. Condizione di ammissibilità o di omologabilità?; 6. Il rapporto con la moratoria annuale di cui all’art. 186-bis; 7. Cenni al problema del voto e delle classi; 8. Casistica recente.
1. Dall’autonomia privata nel concordato agli accordi con i creditori al di fuori della proposta
A partire dalla riforma del 2005 si è ricorrentemente posta in evidenza, a proposito del concordato preventivo, la spiccata valorizzazione dell’autonomia privata rispetto alla concezione ancora marcatamente “dirigista” dell’istituto quale emergeva dalla vecchia legge fallimentare. Ed anche chi scrive è stato fra quanti hanno immediatamente parlato dello spostamento del baricentro dall’eterotutela giudiziale dei creditori alla loro autotutela informata come di una delle “cifre” maggiormente caratterizzanti il nuovo impianto normativo[1].
Il tema, apparso fin da subito centrale nella nuova sistematica concorsuale, si è intrecciato con quello della fattibilità del piano concordatario, conducendo alla nota pronuncia del 2013, resa dalla Cassazione a Sezioni Unite, la quale costituisce a tutt’oggi, in attesa di eventuali (seppur non indispensabili, specie se forieri di nuove incertezze interpretative) interventi del legislatore sul punto, la “stella polare” cui guarda la più avveduta ed equilibrata giurisprudenza, adattando opportunamente il dictum dei giudici di legittimità alle peculiarità dei casi concreti.
Il dibattito si è pertanto incentrato sulle differenti declinazioni dell’esercizio di tale autonomia nel rapporto fra debitore e creditori in ambito endoconcordatario, soprattutto al fine di delineare con sufficiente chiarezza i limiti del controllo giudiziale senza per questo abdicare alla sua irrinunciabile funzione di presidio di legalità.
Poca attenzione si è invece dedicata agli accordi che il debitore abbia a stipulare con il ceto creditorio (o, come più frequentemente accade, con una parte di esso) al di fuori della domanda e del piano di concordato: convenzioni cui è stato da tempo dato il nome di patti paraconcordatari.
Si tratta per l’appunto di pattuizioni concluse in sede extraconcordataria che, nondimeno, risultano, di regola, intimamente collegate alla domanda di concordato e al relativo piano, al punto da far dipendere dalla loro stipulazione, in determinate situazioni, l’ammissibilità della prima e la possibilità di riuscita del secondo.
Di qui l’interesse, ad un tempo teorico e pratico, a scandagliare la fattispecie, che fino ad oggi, in dottrina, ha ricevuto attenzione da parte di un numero limitato di contributi.
2. La validità dei patti paraconcordatari
Contestare la validità dei patti paraconcordatari in linea generale, ancorché essi non siano previsti da alcuna norma, pare francamente arduo.
La loro (tendenziale) validità trae infatti il proprio fondamento, anzitutto, dal principio dell’autonomia negoziale di cui all’art. 1322 c.c., in base al quale – com’è noto – le parti possono concludere contratti che non appartengano a tipi aventi una disciplina particolare, a condizione che siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento. E tale vaglio va compiuto, in base all’opinione ormai consolidata, alla stregua della causa concreta che caratterizza il negozio atipico, sicché l’interesse perseguito non deve contrastare con alcun principio riconosciuto dall’ordinamento e deve rispondere a una delle funzioni ammesse, come suol dirsi, dalla “coscienza sociale”.
L’impossibilità di predicare una generalizzata invalidità di siffatti accordi deriva, inoltre, dal fatto che i loro effetti sono circoscritti ai soggetti che li hanno stipulati, restandone i diritti dei terzi completamente impregiudicati.
Nel medesimo senso sembra orientare, infine, il nuovo assetto ordinamentale in tema di concordato preventivo, improntato all’esigenza di consentire agli imprenditori lo spettro più ampio possibile di strumenti giuridici funzionali alla soluzione negoziata della crisi, nell’ottica di perseguire l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori rispetto all’alternativa fallimentare.
Se tutto ciò è vero, non vi è motivo per non applicare il principio dettato dall’art. 1322 c.c. anche ai patti paraconcordatari, sicché la questione va correttamente posta in termini non già, appunto, di indiscriminata invalidità, bensì di limiti alla loro validità.
Può in tal modo ribadirsi, con riferimento al tema che ci occupa, quanto dottrina e giurisprudenza hanno da tempo affermato in materia di concordato fallimentare: i patti concordatari sono in linea di principio validi, a meno che, in ragione del loro contenuto, non contrastino con (né mirino a frodare) norme imperative di legge (qual è, tipicamente, il divieto di mercato di voto ex art. 233 l. fall.) e non ledano gli interessi, né la par condicio, dei creditori[2]. Tanto che la Corte di Cassazione, in una pur risalente pronuncia, ha considerato legittimo il patto con cui l’assuntore si impegna a ritrasferire al fallito i beni oggetto di cessione decorso un certo lasso di tempo dall’omologazione del concordato fallimentare[3].
Con specifico riferimento al precetto in materia di mercato di voto, deve anzitutto rilevarsi che esso, in materia di concordato preventivo, è oggetto di richiamo, ad opera dell’art. 236, limitatamente ai creditori; ma il carattere di reato necessariamente plurisoggettivo comporta la punibilità anche dell’imprenditore (o di chi nell’interesse di questi abbia contrattato con il creditore) a titolo di concorso.
Quanto all’interesse protetto della norma, esso risiede chiaramente nel regolare svolgimento delle operazioni di voto e quindi nel corretto andamento della procedura concordataria[4], dovendosi infatti qualificare come reato contro l’amministrazione della giustizia[5].
Ne consegue, ai fini di cui trattasi, che non presenta profili di invalidità l’accordo paraconcordatario che non abbia in alcun modo ad oggetto l’esercizio del diritto di voto di uno o più creditori. Ed invero, com’è stato osservato, la norma di cui all’art. 233 l. fall. mira ad evitare che “il concordato sia approvato da una maggioranza che compensa il proprio svantaggio con altro vantaggio proveniente dall’esterno, ma non certamente ad impedire quegli accordi finalizzati a rendere possibile la proposta senza in alcun modo influenzarne la votazione”[6].
3. Il contenuto dei patti paraconcordatari
Nell’ambito degli accordi paraconcordatari, lo spartiacque, sotto il profilo contenutistico, consiste anzitutto nell’attribuzione, ai creditori aderenti, di vantaggi piuttosto che di (ulteriori) sacrifici.
L’ipotesi di gran lunga più frequente – e quindi più interessante da indagare – è la seconda.
Essa si verifica allorquando parte dei crediti venga a) stralciata; b) riscadenziata con il riconoscimento di interessi ulteriori a quanto in origine pattuito; c) riscadenziata senza interessi; d) degradata a chirografo; e) comunque “rimodulata” in modo che l’attivo risultante da un siffatto intervento sul debito consenta, tenuto conto del fabbisogno concordatario, la presentazione di una domanda scevra da ragioni di inammissibilità.
Un intervento siffatto può essere diretto a creare condizioni per un più elevato soddisfacimento dei creditori esterni all’accordo (ad esempio perché si reputa più difficile acquisirne il consenso), ma in alcuni casi esso risulta addirittura indispensabile, nel senso che senza il preventivo stralcio o riscadenziamento di alcuni crediti il piano concordatario risulta non fattibile e la domanda, conseguentemente, improponibile.
Ciò accade, tipicamente, quando una parte – di regola significativa – dei crediti bancari non possono essere pagati, neppure nella percentuale concordataria, entro l’orizzonte temporale del piano per incapienza dell’attivo. In tali situazioni il debitore deve giocoforza accordarsi con gli istituti di credito (o almeno con alcuni di essi) nell’ottica della necessaria sostenibilità del piano.
Il secondo caso, meno frequente nella pratica, riguarda quelle situazioni nelle quali ad alcuni creditori vengono promesse, con pattuizioni a latere, condizioni migliori rispetto al resto del ceto creditorio.
Accordi siffatti possono bensì ritenersi validi, ma a condizione non solo che ai creditori aderenti non vengano (ovviamente) richiesti impegni in ordine all’espressione del voto, ma anche che l’esecuzione del contratto non comporti alcun tipo di incidenza negativa su entità e tempi di pagamento degli altri creditori. Ciò significa che il trattamento “di favore” oggetto del patto paraconcordatario e la conseguente attribuzione di vantaggi supplementari ai paciscenti possono avere luogo in casi limitati, e tipicamente:
(i) nel concordato liquidatorio, ove dalle vendite dei beni che compongono l’attivo si ricavi un surplus rispetto all’impegno assunto dal debitore nei confronti dei creditori in termini di percentuale di soddisfacimento;
(ii) nel concordato con continuità aziendale, ove si registri la c.d. overperformance del piano (tipicamente, quando l’esercizio dell’attività produca un excess cash flow rispetto a quanto “promesso” dal debitore);
(iii) in entrambe le situazioni, a condizione che gli altri creditori abbiano già ricevuto quanto previsto nella proposta e nel piano (quindi successivamente all’integrale esecuzione del piano), o che comunque vi sia certezza in ordine alla capienza per tale fabbisogno, non potendo in alcun caso corrersi il rischio che dette attribuzioni aggiuntive vadano in seppur minima parte a scapito della residua massa creditoria. A meno che, beninteso, le risorse destinate agli aderenti all’accordo paraconcordatario provengano non dal patrimonio aziendale ma ab externo.
Ciò detto, occorre peraltro soggiungere che pattuizioni di questo genere paiono collocabili anche all’interno della proposta di concordato, previa classificazione dei creditori. Di qui, a ben vedere, la non soverchia utilità di ricorrere al patto paraconcordatario che contenga solo benefici e non anche oneri per i creditori.
4. Segue: e la rilevanza del momento della loro stipulazione
I patti paraconcordatari, tanto nel caso in cui abbiano ad oggetto uno stralcio delle pretese creditorie quanto un loro riscadenziamento (o entrambi contestualmente), possono essere stipulati (i) prima del deposito della domanda di concordato preventivo, anche ai sensi dell’art. 161, c. 6°, l. fall.; (ii) in costanza di procedura; (iii) successivamente al provvedimento di omologazione.
Nel primo caso, il debitore non è evidentemente astretto da alcun vincolo autorizzativo e il piano concordatario rifletterà il beneficio derivante da tali intese.
La previa sottoscrizione di tali accordi rispetto alla presentazione del ricorso è addirittura indispensabile tutte le volte in cui da ciò dipenda l’ammissibilità della domanda (fatto salvo quanto si dirà al paragrafo successivo circa la diversa prospettazione che qualifica tali intese come condizioni di omologabilità del concordato).
Una situazione particolare può darsi nell’ipotesi in cui il debitore sia prossimo alla conclusione dell’accordo ma non riesca a formalizzarlo in tempo utile per il deposito del ricorso e del piano attestato.
A stretto rigore, ciò integrerebbe gli estremi dell’inammissibilità tout court della domanda. Nondimeno, volendo scongiurare le afflittive conseguenze di un fallimento a carico di un imprenditore che si appresti a definire la soluzione negoziata della propria crisi, può prospettarsi – come per vero già accaduto nella pratica[7] – l’utilizzo del disposto dell’art. 162 l. fall. (strumento che, in concreto, viene sovente impiegato non solo per consentire mere integrazioni documentali, ma anche per emendare il ricorso originario, sanando eventuali vizi di inammissibilità): il tribunale, preso atto dell’attuale inammissibilità della domanda ma della possibile/probabile eliminazione, in breve tempo, dell’ostacolo all’ammissione, potrebbe assegnare il termine di quindici giorni per le integrazioni a domanda e piano e per il deposito dei patti paraconcordatari, fissando nuova udienza per decidere sull’apertura o meno del concordato.
Ove poi il debitore riuscisse a finalizzare il tutto non già entro i 15 giorni bensì in tempo utile per l’udienza, il problema sarebbe quello della perentorietà del termine ex art. 162 rispetto ai fini che ci occupano. L’alternativa, in quanto non abusiva, potrebbe consistere nel ritiro della domanda non “sanabile” nei 15 giorni e la presentazione di un nuovo ricorso, stavolta ammissibile in virtù dell’intervenuta stipulazione, nelle more, degli accordi paraconcordatari.
Per ciò che concerne, invece, gli accordi destinati a incrementare il soddisfacimento degli aderenti, essi non costituiscono, almeno di norma, un indefettibile presupposto del piano, sicché l’ammissione può intervenire anche in mancanza della loro preventiva stipulazione. Di conseguenza, non sembrano esservi ostacoli al loro perfezionamento in costanza di procedura, quand’anche successivo all’approvazione e nonostante i corollari che possano scaturirne sulla fattibilità del piano, soccorrendo al riguardo la disposizione di cui all’art. 179, comma 2.
Deve poi ritenersi che vi sia spazio per intese collaterali anche nella fase esecutiva, quando può rendersi necessario procedere alla rinegoziazione dei termini di soddisfacimento “scolpiti” nel decreto di omologazione, di norma al fine di sanare un inadempimento (già verificatosi, o comunque apprezzabile in prospettiva) e scongiurare così la risoluzione del concordato.
5. Condizione di ammissibilità o di omologabilità?
A conclusioni diverse da quelle esposte nel paragrafo precedente circa la previa stipulazione degli accordi rispetto al deposito della domanda di concordato potrebbe giungersi ove si ritenesse – ma il punto è controvertibile – che il patto paraconcordatario, seppur necessario ai fini della fattibilità del piano, non debba obbligatoriamente perfezionarsi al momento della formulazione della proposta (o, come si è detto, della sua eventuale integrazione ai sensi dell’art. 162 l. fall.), potendo invece intervenire anche successivamente, purché entro l’omologazione.
Secondo questa prospettazione, la conclusione dell’accordo a latere (soltanto “preannunciata” nel ricorso) costituirebbe una sorta di condizione di omologabilità del concordato[8]. Ne deriverebbe l’ammissibilità di un piano subordinato – anche nell’attestazione – a una circostanza futura e incerta, il cui inveramento andrebbe tuttavia verificato prima della conclusione dell’iter concordatario.
Aderendo a tale prospettazione, i creditori potrebbero essere chiamati a votare su una proposta sub condicione, nella consapevolezza che l’approvazione del concordato non sarebbe sufficiente, di per sé sola, a determinare la positiva conclusione della procedura, essendo questa dichiaratamente subordinata, per l’appunto, alla concreta stipulazione del patto paraconcordatario, indispensabile per consentire l’omologazione. Come si è visto, però, tale accordo è retto dalle regole civilistiche generali e come tale postula l’assenso di tutti i paciscenti, sicché ben potrebbe accadere che, nonostante il raggiungimento delle maggioranze, la mancata sottoscrizione dell’accordo da parte di anche uno soltanto dei soggetti di cui il piano presupponga l’adesione pregiudichi il superamento della crisi.
Allorquando poi, la concreta stipulazione del patto paraconcordatario non si riveli imprescindibile ai fini della presentazione di una proposta ammissibile e di un piano fattibile, ma risulti semplicemente foriera di un miglioramento del trattamento della generalità dei creditori, il ricorso potrebbe prospettare due ipotesi alternative, fissandone il discrimine proprio nella possibilità di addivenire a una separata intesa con un circoscritto novero di creditori. E in questo senso si è pronunciata ex professo una Corte di merito[9], ammettendo al concordato preventivo un debitore che, nell’ambito di una procedura di carattere liquidatorio, aveva formulato una proposta condizionata alla rinuncia, da parte dei due istituti di credito beneficiari, a una garanzia ipotecaria, precisando che, ove l’atto abdicativo non fosse intervenuto entro l’adunanza dei creditori, questi sarebbero stati chiamati a esprimersi su una proposta alternativa, da subito enucleata e recante percentuali di pagamento inferiori.
6. Il rapporto con la moratoria annuale di cui all’art. 186-bis
Il tema degli accordi paraconcordatari si intreccia con quello relativo alla moratoria dei creditori privilegiati ex art. 186-bis.
Com’è noto, è tutt’oggi controversa la possibilità di prevedere, nel piano concordatario, che il pagamento dei privilegiati avvenga dopo che sia trascorso un anno dall’omologazione e ciò a causa della formulazione, oggettivamente infelice, della norma.
Chi scrive continua a ritenere non priva di fondamento la tesi prospettata all’indomani della riforma del 2012[10]. Ed invero, di tale prescrizione sembra possibile fornire due letture antitetiche: la prima, muovendo dal rilievo che i creditori privilegiati soddisfatti per intero non votano, circoscrive la durata della moratoria all’anno, escludendo che possa essere prevista una dilazione maggiore (salvo, probabilmente, che ciascun singolo creditore privilegiato coinvolto manifesti il proprio assenso al riscadenzamento). Tale lettura si basa sul rilievo che la moratoria non deroga all’art. 55 l. fall. (richiamato dall’art. 169 l. fall.), con la conseguenza che gli interessi continuano a maturare anche nel periodo di dilazione (pur divenendo esigibili solo al termine dello stesso), con la conseguenza che non sarebbe possibile ipotizzare un meccanismo compensativo del maggior sacrificio sul piano temporale. In altre parole, se – e ciò in effetti sembra condivisibile – gli interessi maturano anche nel periodo di moratoria legale e questa dura al massimo un anno, il debitore non potrebbe prospettare l’allungamento della dilazione a fronte della corresponsione di ulteriori interessi, dal momento che essi non costituiscono una prestazione aggiuntiva in grado di bilanciare la dilazione.
Senonché, il tenore letterale della norma lascia aperto un diverso percorso ermeneutico che valorizza l’ultima parte della disposizione, la quale – attraverso la locuzione «in tal caso» – sembra riconnettere l’esclusione dal voto alla condizione che il pagamento avvenga entro l’anno. Di qui la possibilità di una lettura a contrario, la quale conduce ad ammettere la dilazione al di sopra dell’anno, compensata tuttavia dall’attribuzione al privilegiato soddisfatto integralmente, ma con ritardo, del diritto di pronunciarsi sulla proposta.
Questa seconda interpretazione appare preferibile non solo perché aderente alla lettera della norma, ma anche per ragioni sistematiche: l’art. 182 bis ammette, al comma 1, il differimento ex lege del pagamento dei creditori estranei all’accordo, stabilendo – anche in quel caso – una moratoria automatica che prescinde dal consenso dei creditori, a condizione che sia contenuta nei centoventi giorni; al di là del predetto termine la dilazione non è proibita, ma presuppone l’inclusione nell’accordo del soggetto che la subisce e l’ottenimento del suo consenso.
Senza dire che la limitazione della moratoria all’anno rischia di rivelarsi un ostacolo difficilmente superabile nella costruzione di un piano di concordato in continuità (quantomeno nella forma della ristrutturazione pura): ogniqualvolta i beni sui quali insiste la garanzia siano funzionali alla prosecuzione dell’impresa, infatti, la provvista per il soddisfacimento delle pretese munite di prelazione è giocoforza fornita dai soli flussi di cassa dell’attività, i quali di regola assumono consistenza significativa solo in un orizzonte temporale di medio periodo, non certo entro l’anno dall’omologazione.
In questa prospettiva, tenuto conto che la voluntas legis appare obiettivamente orientata a favorire le procedure concordatarie e – segnatamente –quelle capaci di coniugare l’interesse dei creditori (pur sempre destinato a prevalere) con l’interesse alla prosecuzione dell’attività d’impresa, sembra ragionevole fornire dell’art. 186 bis, comma 2, lett. c), l’interpretazione che ravvisa nello stesso un’ulteriore “arma” a disposizione dell’imprenditore intenzionato a perseguire una soluzione della propria crisi alternativa al fallimento; non – come invece accadrebbe ove si accedesse alle letture più restrittive – un limite all’autonomia nella formulazione del piano.
Sulla delicata questione la giurisprudenza risulta, peraltro, comprensibilmente divisa, posto che la disposizione in parola, con la sua ambiguità, si presta – come si diceva – a entrambe le letture. Il punto risulta affrontato, in particolare, nelle pregevoli “Linee guida in ordine a talune questioni controverse della procedura di concordato preventivo” elaborate, nel maggio 2016, dalla Sezione Fallimentare del Tribunale di Roma, ove in proposito si legge: “la norma speciale introduce un diverso regime del tempo di pagamento dei creditori privilegiati capienti (per i creditori privilegiati in tutto od in parte incapienti la disposizione ha cura di tenere ferma la disciplina dell’art. 160, comma 2, l.f.) in presenza di due presupposti: i) che si tratti di un concordato in continuità aziendale; ii) che il piano contempli il mantenimento della titolarità dei beni sui quali la causa di prelazione insiste in capo alla proponente. Laddove, difatti, il piano preveda la liquidazione (ossia la cessione a terzi) di detti beni la moratoria non potrà essere invocata ma dovranno continuare ad applicarsi le regole generali (che prevedono, come detto in precedenza, la vendita tramite procedure competitive, da avviarsi immediatamente dopo l’omologazione – salva l’anticipazione della gara secondo il disposto dell’art. 163 bis l.f. – con conseguente pagamento dei creditori privilegiati una volta che sarà intervenuta l’aggiudicazione del bene). In altre parole la norma detta un regime di favore per i – soli – concordati c.d. di risanamento, ossia quelli in cui la proponente non cede l’azienda a terzi ma ne conserva la titolarità proponendosi di pagare i creditori con i flussi derivanti dalla continuità aziendale (oltre, che, eventualmente, con la liquidazione dei beni non più essenziali) consentendo di dilazionare il pagamento dei creditori privilegiati capienti (i quali, non essendo prevista alcuna cessione dei beni sui quali insiste la loro causa di prelazione, avrebbero dovuto essere pagati immediatamente dopo l’omologazione) sino ad un anno. È noto che sono state avanzate in dottrina ed anche in giurisprudenza tesi secondo le quali il citato articolo 186-bis nella parte in cui dispone che “in tal caso” (quello della moratoria annuale) i creditori non hanno diritto al voto, andrebbe interpretato nel senso che abbia lasciato spazio ad “altri casi” (quelli della moratoria ultrannuale) nei quali sarebbe possibile prevedere una dilazione nel pagamento superiore all’anno verso il riconoscimento del diritto di voto in favore dei creditori privilegiati capienti interessati dalla dilazione. Si tratta di orientamenti che, tuttavia, non vengono allo stato condivisi, e ciò in quanto pretendono di ricavare dalla norma una disciplina che in effetti non contiene, ossia di far discendere da una disposizione dettata con il chiaro e limitato intento di prevenire dal principio un possibile dubbio interpretativo (se sulla moratoria di un anno i creditori privilegiati dovessero esprimersi con il voto) l’esistenza di una deroga alla regola generale di cui all’articolo 177, comma 2, l. fall. della quale, in effetti, nella norma non vi è traccia. In conclusione, si lascia preferire allo stato l’interpretazione secondo la quale è consentita una moratoria nel pagamento dei creditori privilegiati capienti in misura non superiore all’anno (salvo, ovviamente, espresso ed anticipato consenso del creditore stesso) e limitatamente alla sola ipotesi di concordato in continuità aziendale di risanamento (ossia senza cessione a terzi dell’azienda)”[11].
Ora, ferme restando le perplessità derivanti dall’impostazione su condivisa, occorre riconoscere che la norma, in effetti, non è affatto perspicua e come tale autorizza entrambe le letture; sicché ritenere preclusa la moratoria ultrannuale, pur con le conseguenze obiettivamente penalizzanti che ciò comporta per la soluzione concordataria della crisi, non può considerarsi peregrino sul piano ermeneutico, tanto più se la tesi è puntualmente argomentata, come, per l’appunto, nelle anzidette “Linee guida”.
Nondimeno, ad avviso di chi scrive continua a risultare preferibile la soluzione meno restrittiva, e ciò non solo – come si è osservato – sul piano interpretativo, ma anche in considerazione del consistente argumentum ab inconvenienti derivante dall’effetto impeditivo che l’opposta lettura della norma comporta, con grave detrimento per la possibilità di scongiurare il fallimento in situazioni nelle quali sarebbe invece possibile preservare i complessi produttivi a miglior tutela del ceto creditorio nel suo complesso.
A ciò si aggiunga il rilievo secondo il quale, dal punto di vista letterale, la locuzione “fermo quanto disposto dall’art. 160, secondo comma” contenuta nell’art. 186-bis fa salva l’applicabilità dell’art. 160, comma 2, “nella sua intera portata precettiva e, con essa, la facoltà del debitore concordatario di prevedere una “soddisfazione” dei prelazionari distinta, per modalità e tempi, dal “pagamento integrale”. In tal caso, unico limite è dato dalla necessità di assicurare ai predetti creditori - ove all’alterazione qualitativa del credito si accompagni anche una decurtazione quantitativa dello stesso - una soddisfazione in misura non inferiore a quella ritraibile dalla liquidazione fallimentare dei beni vincolati a garanzia del credito. Diversamente opinando, la norma in esame introdurrebbe un limite ulteriore alla soddisfazione non integrale dei creditori prelatizi rispetto a quello già imposto dall’art. 160, 2° comma, l. fall., il cui disposto sarebbe dunque tutt’altro che fermo”[12].
E ciò senza considerare che l’ineludibile corollario dell’impostazione contraria a quella fin qui argomentata risiede nella necessità – occorre esserne avvertiti – che il debitore convenga il riscadenziamento ultrannuale dei crediti privilegiati attraverso la stipulazione di un patto paraconcordatario, il che si pone in controtendenza rispetto all’opportunità di contenere i costi (anche consulenziali) della ristrutturazione dei debiti quale emerge sia dalla Raccomandazione dell’Unione Europea del marzo 2014, sia dal disegno di legge delega per la riforma organica delle procedure concorsuali del 2016.
7. Cenni al problema del voto e delle classi
Con riferimento al rapporto fra patti paraconcordatari e diritto di voto, non pare fondatamente predicabile la tesi secondo la quale i creditori che hanno stipulato tali accordi con il debitore non possano votare sulla proposta di concordato.
Non vi è infatti alcuna norma né principio che comporti, in una situazione siffatta, la sterilizzazione del diritto di voto. E non sarebbe del resto giustificabile una tale compressione della sfera dei diritti di questi creditori, che per il sol fatto di aver dato vita a una convenzione con il debitore verrebbero privati di una prerogativa tendenzialmente incomprimibile in quanto consustanziale allo status di creditore. Voto che pare vada espresso per l’intero ammontare del credito[13].
Diverso è il caso in cui il patto in questione contenga una preventiva rinuncia al credito che, anziché produrre effetti subordinatamente all’omologazione, abbia efficacia immediata, giacché in questa eventualità la privazione del voto discende sic et simpliciter dal venir meno della qualità di creditore.
Qualche dubbio sussiste in ordine alla legittimità di un accordo che preveda l’impegno dei creditori a non votare, stanti i profili di contrasto con il principio di libertà di voto sotteso all’art. 233 l. fall. (che pure fa diretto riferimento all’ipotesi di “vendita” del voto favorevole); salva forse l’ipotesi in cui il soddisfacimento dei creditori aderenti al patto sia destinato ad aver luogo successivamente allo spirare del termine, previsto nella domanda (e di regola ribadito nel decreto di omologazione), per l’esecuzione del concordato.
Quanto al tema delle classi, l’ipotesi di patto paraconcordatario sembra implicare la formazione obbligatoria di classi, dal momento che esso impinge, per sua natura, sulla piena parità di trattamento fra creditori, essendo la sua stipulazione volta precisamente a derogarvi, seppur in sede extraconcordataria.
Il che comporta, per inferenza necessaria, il dovere del debitore di rendere palese la presenza di accordi siffatti[14], pena – verosimilmente – l’inammissibilità della domanda (e fermo il rilievo, di tipo “empirico”, che spesso le due cose si tengono insieme, perché l’ammissione – e comunque l’omologazione – sono rese possibili proprio da questi patti, sicché il debitore è di regola “costretto” a renderne esplicita la presenza).
8. Casistica recente
La questione dei patti paraconcordatari, non nuova nella pratica, è risultata particolarmente rilevante in tre casi recenti, relativi ad altrettante imprese di notevoli dimensioni la cui crisi ha avuto ampia risonanza, specie nei rispettivi territori di riferimento: il concordato della Fondazione Salvatore Maugeri di Pavia, centro medico-riabilitativo fra i più importanti d’Italia, quello della Grandi Molini Italiani SpA., proprietaria, a Marghera, del più grande impianto molitorio d’Europa, e quella del noto ospedale romano Fatebenefratelli.
In tutte queste situazioni la validità di detti accordi rivestiva carattere condizionante l’ammissione alla procedura, dal momento che, in loro assenza, l’attivo non sarebbe risultato sufficiente in rapporto al fabbisogno concordatario. E i tribunali competenti (nell’ordine, Pavia, Rovigo e Roma) hanno optato concordemente per l’ammissibilità dei ricorsi, facendo così luogo all’apertura del concordato.
Nel primo caso, giunto all’omologazione nello scorso giugno, il Tribunale di Pavia[15] non si è per vero pronunciato ex professo sulla validità dei patti paraconcordatari[16], ma la circostanza che esso abbia dapprima ammesso la debitrice al concordato a fronte di una domanda che esplicitava con chiarezza la questione e, successivamente, omologato la domanda a valle di una relazione commissariale in cui si era motivatamente preso posizione in ordine alla legittimità di siffatti accordi depone inequivocabilmente nel senso dell’affermazione, seppur implicita, dell’assunto.
E’ invece entrato nel merito del problema il Tribunale di Rovigo, nel cui interessante e pregevole provvedimento, con riferimento al tema che ci occupa, si legge: “la possibilità di predisporre patti para-concordatari nell’ambito della procedura appare del tutto coerente con il sistema normativo come novellato, rispondendo, da un lato, all’esigenza di attribuire all’imprenditore l’elenco più ampio possibile di strumenti giuridici finalizzati alla risoluzione della crisi e, dall’altro, alla funzione di miglior soddisfazione dei creditori”[17]. Nella stessa decisione si affronta anche il profilo del rapporto fra detti accordi e piano e proposta di concordato, che viene declinato nei seguenti termini: “gli accordi para-concordatari rappresent[a]no un’integrazione della proposta concordataria e, tuttavia, rest[a]no esclusi tout court dal piano, sicché rientrano nel fuoco della volontà del ceto creditorio, ma la concreta attuazione degli stessi esula dal contenuto attuativo del piano, in guisa da non consentire un sindacato del Tribunale – se non nei limiti di stretta legalità e rispetto delle regole procedimentali che governano la c.d. par condicio creditorum dei non aderenti – né una futura valutazione di corretto e puntuale adempimento”, dovendosi pertanto ritenere che “i patti concordatari integrino la proposta, ma non il piano”.
I patti paraconcordatari sono stati ritenuti validi e compatibili con la procedura minore anche dal Tribunale di Roma, chiamato a pronunciarsi sulla domanda di ammissione al concordato preventivo formulata dalla Casa Generalizia dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio – Fatebenefratelli, la cui proposta risultava integrata dall’accordo con le due principali banche creditrici, le quali avevano accettato termini di rimborso eccedenti l’orizzonte del piano.
In proposito il Tribunale ha osservato che, “da un punto di vista strettamente economico-finanziario, l’operazione è stata congegnata secondo modalità sinergiche, attribuendo all’accordo con le banche la funzione di creare le condizioni per un concordato “finanziariamente” sostenibile. La dilazione dei pagamenti concessa dalle due banche, che, da parte loro, hanno accettato, in cambio di una percentuale maggiore, di essere pagate dopo la chiusura del concordato, libererà, infatti, risorse disponibili; sono stati in conseguenza ridotti sia il fabbisogno concordatario che i termini di durata della procedura, nella seconda proposta limitati al quinquiennio”[18].
Da ciò si è tratta la sussistenza di “un nesso di stretta e reciproca funzionalizzazione tra il concordato e gli accordi “paraconcordatari”, rispetto ai quali l’omologazione opera come definitiva condizione di efficacia e la risoluzione o la revoca del concordato (o il fallimento), invece, costituiscono altrettante condizioni risolutive”[19].
Una costruzione siffatta è stata ritenuta ammissibile e, in particolare, non lesiva delle regole concordatarie che presiedono al trattamento dei creditori concorsuali, soccorrendo la possibilità di optare per la suddivisione degli stessi in classi; suddivisione nella specie ritenuta “giustificata, sotto il profilo economico, dal fatto che le banche, accettando di essere rimborsate nei termini indicati solo dopo la chiusura del concordato, hanno consentito di liberare importanti, se non decisive, risorse, a beneficio della procedura, la cui durata è stata infatti contenuta nel quinquennio”[20]. Per ciò che concerne, poi, i profilo giuridico, il Tribunale ha osservato che “i creditori della classe “svantaggiata” risultano, tramite l’esercizio del voto in via esclusiva, gli “arbitri” della situazione”[21], con conseguente insussistenza di reali rischi di illegittime compressioni dei diritti spettanti ai soggetti estranei al patto.
Come si vede, dunque, l’orientamento della più recente giurisprudenza conferma, correttamente, la tesi – argomentata nell’esordio del presente saggio – della tendenziale validità degli accordi paraconcordatari, in quanto appunto non confliggenti, di per sé, con alcun precetto o principio dell’ordinamento concorsuale e anzi, in concreto, frequentemente utili (quando non addirittura indispensabili) al buon esito della soluzione concordataria.
[1] Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Cottino (diretto da), XI, 1, Padova, 2008, p. 72; Id, Il controllo giudiziale sull’ammissibilità della domanda di concordato preventivo e sulla formazione delle classi, in Dir. fall.,2010, I, pp. 551 e ss.; Id, Il sindacato in itinere sulla fattibilità del piano concordatario tra dottrina e giurisprudenza, in Fallimento, 2011, p. 941.
[2] Di Cataldo, Il concordato fallimentare con assunzione, Milano, 1976, p. 237; Bonsignori, Del concordato fallimentare, in Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare, Bologna-Roma, 1979, pp. 135 e ss.; Di Lauro, Concordato fallimentare, in Ragusa Maggiore - Costa (diretto da), Le procedure concorsuali. Il fallimento, Torino, 1997, p. 675; Lo Cascio, Il concordato fallimentare, aspetti attuali e prospettive future, in Fallimento, 2011, p. 403; Cass., 19 luglio 1982, n. 4239, in Foro it., 1982, I, c. 2838; Cass., 5 luglio 1984, n. 3931, in Dir. fall., 1984, II, p. 983; Cass., 15 marzo 1988, n. 2450, in Fallimento, p. 574; contra Trib. Bologna, 18 gennaio 1984, in Dir. fall., 1985, II, p. 243, il quale – in modo non condivisibile – considera il patto concordatario intrinsecamente viziato da illiceità. Dà atto dell’orientamento di gran lunga prevalente, mostrando di non discostarsene, D’Orazio, La risoluzione del concordato, in Pacchi (a cura di), Il concordato fallimentare, Milano, 2008, p. 263.
[3] Cass., 5 luglio 1984, n. 3931, in Dir. fall., 1984, II, p. 982, con nota di Ragusa Maggiore, Validità dei patti di concordato che rispettino la par condicio creditorum.
[4] Minniti, sub art. 233, in pajardi-bocchiola-paluchowski, Codice del fallimento, Milano, 2013, p. 2331.
[5] Questa circostanza, unitamente al principio di tassatività e stretta interpretazione delle fattispecie incriminatrici, conduce a ritenere il divieto inapplicabile tanto ai cc.dd. concordati stragiudiziali (si pensi al patto “di preferenza”: cfr. Sandrelli, I reati della legge fallimentare diversi dalla bancarotta: il ruolo del curatore nel processo penale, Milano, 1990, p. 310), quanto agli istituti – che procedure concorsuali non sono – dei piani attestati di risanamento e degli accordi di ristrutturazione dei debiti (Tencati, La corruzione dei creditori chiamati a votare nel quadro delle procedure concorsuali, in Riv. Pen., 1991, p. 5).
[6] Così Minniti, Il “mercato di voto” dopo la riforma fallimentare, in Riv. dott. comm., 2012, p. 113.
[7] Cfr. Trib. Rovigo, 24 maggio 2016, in www.ilcaso.it, nonché in corso di pubblicazione sul Fallimento, con nota di Aiello, Il c.d. “patto para-concordatario”: appunti per la ricostruzione della fattispecie.
[8] Cfr. Aiello, Il c.d. “patto para-concordatario”: appunti per la ricostruzione della fattispecie, cit.
[9] Trib. Novara, 18 dicembre 2009, ric. Sitindustrie Tubes & Pipes s.p.a., inedito.
[10] Ambrosini, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in www.ilcaso.it; nello stesso senso v. ampiamente, da ultimo, Arato, Questioni controverse nel concordato preventivo con continuità aziendale: il conferimento e l’affitto d’azienda, il pagamento ultrannuale dei creditori privilegiati, l’uscita dalla procedura, ivi.
[11] Tribunale di Roma – Sezione Fallimentare, Linee guida in ordine a talune questioni controverse della procedura di concordato preventivo, maggio 2016.
[12] Cfr. Arato, Questioni controverse nel concordato preventivo con continuità aziendale: il conferimento e l’affitto d’azienda, il pagamento ultrannuale dei creditori privilegiati, l’uscita dalla procedura, cit., pp. 15-17, il quale osserva altresì che “la tesi più liberale è meritevole di essere condivisa per diversi ordini di ragioni di ordine testuale e sistematico:(a) sotto il profilo sistematico appare irragionevole ritenere che un’impresa che ha debiti ipotecari o pignoratizi a medio/lungo termine, allorché sia insolvente o in crisi e quindi presenti una domanda di concordato preventivo, debba obbligatoriamente pagare tali crediti entro il termine di un anno, con una sorta di accelerazione rispetto alle scadenze contrattuali; (b) sotto il profilo testuale, l’art. 186-bis, 2° comma, lett. c), l. fall. - nell’escludere del diritto di voto nell’ipotesi di moratoria infrannuale - implica, a contrariis, il riconoscimento del diritto di voto nell’ipotesi di moratoria ultrannuale, implicitamente sancendo l’ammissibilità di quest’ultima (…)”; oltre al fatto – aggiunge l’autore – che la tesi in parola risulta “l’unica coerente con l’obiettivo perseguito dal legislatore del “Decreto Sviluppo” di incentivare il ricorso alla procedura di concordato preventivo con continuità aziendale in funzione della conservazione dell’impresa, mediante la previsione di una forma di sostegno economico idonea a garantire all’imprenditore la disponibilità delle maggiori risorse finanziarie rivenienti dal mancato pagamento dei creditori prelatizi per il periodo di un anno dall’omologa senza perciò temere un loro voto negativo alla proposta concordataria. Eventuali dilazioni maggiori sarebbero ammissibili ma su di esse il creditore deve esprimersi.”
[13] In senso conforme, in giurisprudenza, Trib. Rovigo, 24 maggio 2016, cit.
[14] Com’è noto, il principio dell’obbligatoria disclosure è sancito, mutatis mutandis, in materia societaria con riguardo ai patti parasociali (artt. 2341-ter c.c. e 122 T.U.F.).
[15] Trib. Pavia 12 giugno 2015, ric. Fondazione Salvatore Maugeri, inedito; nello stesso senso Trib. Siena, 25 luglio 2014, inedito, secondo cui anche i creditori privilegiati che hanno sottoscritto un patto paraconcordatario – in base al quale verranno pagati oltre l’anno dall’omologa del concordato ex art. 186-bis – sono legittimati al voto per l’intero credito, con l’espressa precisazione che se il concordato non dovesse essere omologato, il voto espresso non li penalizzerebbe con la perdita del rango di privilegiato. In dottrina, in senso conforme, Arato, Questioni controverse nel concordato preventivo con continuità aziendale: il conferimento e l’affitto d’azienda, il pagamento ultrannuale dei creditori privilegiati, l’uscita dalla procedura, cit., pp. 18-19.
[16] Cfr. Trib. Modena, 23 dicembre 2015, ric. Sassuolo Gestioni Patrimoniali S.r.l., inedito, il quale, pur non pronunciandosi espressamente sulla validità del patto, ha proceduto all’omologazione dopo aver preso atto che “entro la data dell’adunanza (...) si sono verificate tutte le condizioni di ammissibilità della proposta e, in particolare, è stato sottoscritto con le banche coinvolte il c.d. accordo paraconcordatario avente a oggetto la ristrutturazione dell’indebitamento verso il ceto bancario e la concessione di c.d. nuova finanza”. Secondo Aiello, Il c.d. “patto para-concordatario”: appunti per la ricostruzione della fattispecie, cit., il tribunale modenese parrebbe propendere per la possibilità che il patto paraconcordatario si perfezioni successivamente al deposito della domanda. Sembra dare per presupposta la validità del patto anche Trib. Genova, 3 ottobre 2016, ric. Italiana Coke S.r.l., inedito.
[17] Così Trib. Rovigo, 24 maggio 2016, cit.
[18] Così Trib. Roma, 15 luglio 2015, ric. Casa Generalizia dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio – Fatebenefratelli, inedito.
[19] Così Trib. Roma, 15 luglio 2015, cit.
[20] Trib. Roma, 15 luglio 2015, cit.
[21] Trib. Roma, 15 luglio 2015, cit.
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