CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 26/01/2021 Scarica PDF

I "princìpi generali" nel Codice della crisi d'impresa

Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte Orientale


Sommario: 1. Premessa. – 2. Doveri del debitore e assetti organizzativi dell’impresa. – 3. Doveri delle parti e delle autorità preposte. – 4. Economicità delle procedure e prededuzioni. – 5. Princìpi di carattere processuale. – 6. Giurisdizione internazionale.

   

1. Premessa

Com’è ben noto, la legge fallimentare vigente – che non è a tutt’oggi chiaro se verrà o meno sostituita dal Codice della crisi d’impresa nel settembre prossimo[1] – non contiene una parte dedicata a disposizioni o princìpi generali, disciplinando la prima norma, ex abrupto, il presupposto soggettivo del fallimento. L’ordinamento concorsuale conosce invero un solo caso di disposizione “introduttiva” di carattere generale: l’art. 1 del d. lgs. n. 270 del 1999, contenuto nel Titolo I della legge e rubricato “Disposizioni generali”, il quale enuclea la natura e le finalità dell’amministrazione straordinaria.

L’espressione “disposizioni generali” è tradizionalmente utilizzata dai codici: quello civile esordisce infatti con le “Disposizioni sulla legge in generale”, che con i suoi sedici articoli sulle fonti del diritto e sull’applicazione della legge precede il Libro I; quello di procedura civile inizia con le “Disposizioni generali”, questo essendo il tenore della rubrica del Libro I, dedicato agli organi giudiziari e agli ausiliari dei giudici.

Avendo la riforma del 2019 varato a sua volta un codice, appare logico che il Titolo I sia rubricato, appunto secondo tradizione, “Disposizioni generali”. Assai meno consueto, invece, è prevedere, come ha fatto il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza all’interno del predetto Titolo I, un capo la cui rubrica recita “Principi generali”.

Il capo II in parola risulta articolato in quattro sezioni, non omogenee né strettamente collegate fra loro – come si vedrà – sotto il profilo dei rispettivi obiettivi e contenuti. Ciò nulla toglie, manco a dirlo, alla considerevole importanza di questa parte della legge, sia in sé e per sé considerata (trattandosi, come si diceva, di una novità assoluta rispetto al regime previgente), sia dal punto di vista della sua utilità sul piano interpretativo, dal momento che le previsioni in appresso esaminate  forniscono una preziosa “lente” attraverso la quale leggere le successive disposizioni di dettaglio, la cui esegesi non può quindi porsi in contrasto con il contenuto dei princìpi generali, né con la ratio ad essi sottesa[2].

Com’è stato autorevolmente osservato, “la scelta di formulare una serie di principi generali, oltre che di definizioni, a mo’ d’introduzione alle varie disposizioni con cui il nuovo codice mira a regolare i diversi aspetti della materia concorsuale evidenzia bene la volontà del legislatore di collocare tali disposizioni in un quadro organico, fornendo all’interprete quegli assi di orientamento che la scarsa sistematicità degli ultimi interventi di riforma della legge fallimentare avevano appannato e resi incerti. Naturalmente non si può pensare di ritornare al mondo monolitico e tendenzialmente statico di cento anni fa e, come s’è accennato, occorre perciò acconciarsi a concepire anche i principi generali in chiave settoriale. Ma essi restano assai importanti, sia per la già ricordata funzione ordinante che son destinati a svolgere nell’area in cui operano, sia perché agevolano il confronto con analoghi princìpi vigenti in altri settori dell’ordinamento e facilitano un più armonico dialogo ed un miglior coordinamento tra quei diversi settori”[3].

Merita fin d’ora rilevare, peraltro, che i precetti contenuti nelle norme qui in appresso illustrate non esauriscono lo spettro dei principi generali rinvenibili nel complesso della nuova disciplina concorsuale, di tal che si pone giocoforza il tema dei rapporti fra principi esplicitati dal legislatore e principi inespressi ma non per questo privi di “diritto di cittadinanza” nel nuovo assetto ordinamentale.

Di qui la critica mossa in dottrina al riguardo: il Codice – si è detto – “introduce principi generali espressi, ma la loro formulazione ed il mancato coordinamento con il resto del sistema impedisce agli stessi di svolgere appieno la loro funzione ordinante, così che, ad esempio, l’individuazione delle finalità delle procedure concorsuali, e del concordato preventivo, deve passare dall’esame delle norme di dettaglio, attraverso cui ricostruire i principi o criteri inespressi di coordinamento. In questo modo, i principi inespressi, lungi dall’essere estromessi per effetto della formulazione dei principi espressi, diventano strumento correttivo di quest’ultimi ed ineludibile guida per sorreggere ed orientare il sistema”[4].

 

2. Doveri del debitore e assetti organizzativi dell’impresa

La norma più rilevante fra quelle di cui trattasi è dettata dall’art. 3 (“Doveri del debitore”), che esprime due concetti centrali nel sistema novellato: l’emersione tempestiva della crisi e, con specifico riguardo all’imprenditore collettivo, l’obbligo di adottare assetti organizzativi adeguati.

Ai sensi del primo comma, infatti, l’imprenditore individuale deve adottare ogni misura idonea a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte. Il secondo comma, dal canto suo, stabilisce che l’imprenditore collettivo deve adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell'articolo 2086 del codice civile, ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell'assunzione di idonee iniziative.

Con riferimento alla necessità che non venga ritardata la presa d’atto della situazione di crisi, essa discende direttamente – com’è noto – dalla Raccomandazione UE del 2014 sul c.d. early warning e dalla successiva Direttiva in materia, oltre che dai princìpi elaborati dall’Unicitral e dalla Banca Mondiale, e costituisce da tempo jus receptum nella maggior parte degli ordinamenti del mondo occidentale. Come si legge pure nella Relazione illustrativa al Codice, l’importanza di tale obiettivo deriva dal fatto che “le possibilità di salvaguardare i valori di un’impresa in difficoltà sono direttamente proporzionali alla tempestività dell’intervento risanatore, mentre il ritardo nel percepire i segnali di una crisi fa sì che, nella maggior parte dei casi, questa degeneri in vera e propria insolvenza sino a divenire irreversibile”. E siccome una serie di risaputi fattori (“sottodimensionamento, capitalismo familiare, personalismo autoreferenziale dell’imprenditore, debolezza degli assetti di corporate governance, carenze nei sistemi operativi, assenza di monitoraggio e di pianificazione, anche a breve termine”, recita sempre la Relazione) ha evidenziato non da oggi l’incapacità della maggior parte delle imprese italiane, specie se di piccole o medie dimensioni, di promuovere autonomamente processi tempestivi di ristrutturazione, il legislatore ha introdotto la procedura di allerta e composizione assistita della crisi, disciplinata dagli artt. 12 e seguenti.

Rispetto al testo di legge delega elaborato dalla Commissione Rordorf, è stata invece abbandonata, già per vero dal legislatore delegante, la possibilità di accedere al concordato preventivo, a determinate condizioni, su iniziativa di soggetto diverso dal debitore[5]: la preoccupazione era nel senso che i possibili utilizzi abusivi dell’istituto avrebbero potuto rendere il rimedio peggiore del male, ma in tal modo si è rinunciato a un ulteriore – e in potenza non meno efficace – strumento di precoce rilevazione della crisi, che sarebbe stato preferibile disciplinare in modo attento e puntuale piuttosto che espungere.

Riguardo all’obbligo dell’imprenditore collettivo di dotarsi di assetti adeguati[6] – nozione introdotta, se non si va errati, oltre vent’anni fa dall’art. 149 TUF in tema di collegio sindacale di società quotate (“adeguatezza della struttura organizzativa della società”) e ripresa a distanza di cinque anni dalla riforma del diritto societario (in particolare negli artt. 2381 e 2403 c.c.) – il principio è declinato nella parte del Codice dedicata alle modifiche al codice civile e, segnatamente, nell’art. 375, il cui secondo comma ha integrato l’art. 2086 c.c. stabilendo che l’imprenditore “ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.

Orbene, dall’insieme delle nuove disposizioni testé citate si evincono chiaramente il nesso fra adeguatezza degli assetti dell’impresa e tempestiva adozione e attuazione delle misure atte al superamento della sua crisi e l’importanza che correttamente la riforma annette a tale collegamento, funzionalizzando espressamente l’idoneità degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili (anche) alla rilevazione della crisi a tempo debito[7]: il che costituisce senza dubbio una delle innovazioni di maggiore portata sistematica dell’intera legge.

 

3. Doveri delle parti e delle autorità preposte

Il successivo art. 4 sancisce, al primo comma, il principio cui debitore e creditori debbono informare la propria condotta nell’esecuzione degli accordi e nelle procedure di regolazione della crisi e dell'insolvenza, nonché durante le trattative che le precedono, vale a dire il dovere di comportarsi secondo buona fede e correttezza. In ciò si avverte assai distintamente l’eco delle corrispondenti previsioni codicistiche in tema di comportamento delle parti nell’esecuzione del contratto (art. 1375) e nello svolgimento delle trattative e nella formazione dello stesso (art. 1337)[8], sebbene entrambe le previsioni parlino solo di buona fede, essendo il canone della correttezza contenuto notoriamente nelle disposizioni preliminari in tema di obbligazioni in generale (art. 1175); con la precisazione, peraltro, che la norma sull’esecuzione del contratto in buona fede costituisce applicazione in ambito negoziale del più generale principio di correttezza, senza che fra i due concetti sia possibile ravvisare una distinzione precisa[9].

Il secondo comma dell’art. 4 declina in modo puntuale gli obblighi del debitore nel predetto contesto, ponendo in capo ad esso il dovere di: a) illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo ai creditori tutte le informazioni necessarie ed appropriate allo strumento di regolazione della crisi o dell'insolvenza prescelto; b) assumere tempestivamente le iniziative idonee alla rapida definizione della procedura, anche al fine di non pregiudicare i diritti dei creditori; c) gestire il patrimonio o l'impresa durante la procedura di regolazione della crisi o dell'insolvenza nell'interesse prioritario dei creditori.

I creditori sono a loro volta onerati del dovere di leale collaborazione (con il debitore, con i soggetti preposti alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi, con gli organi nominati dall'autorità giudiziaria nelle procedure di regolazione della crisi) e di riservatezza (in ordine alla situazione del debitore, sulle iniziative da questi assunte e sulle informazioni acquisite).

L’impostazione della norma si segnala soprattutto per il fatto di rendere i creditori, concepiti finora essenzialmente come titolari di diritti, destinatari di specifici doveri, anzitutto verso il debitore stesso.

Nell’ordinamento civilistico, d’altronde, il dovere di cooperazione fondato sul canone della correttezza di cui al citato art. 1175 c.c. si configura quale vero e proprio obbligo: l’obbligo di correttezza – com’è stato ben detto – “richiede al creditore di cooperare oltre la sua sfera di competenza, ossia gli impone di attivarsi anche in ciò che non è previsto dal titolo o che non attiene al suo potere di controllo (…), ma sempre nella misura in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio”[10]. 

“Non sfugge certo – è stato giustamente rilevato – che il legislatore ha qui inteso principalmente rivolgersi ai creditori bancari, il cui comportamento, spesso improntato ad una certa burocratica apatia ed al desiderio di non assumere la responsabilità di scelte talvolta delicate, ha non di rado rappresentato un ostacolo al raggiungimento tempestivo di possibili soluzioni delle crisi aziendali. Formulando esplicitamente il dovere di cui si tratta, il legislatore ha inteso favorire il superamento di simili atteggiamenti, giacché la connotazione giuridica ora attribuita a tale dovere fa sì che il suo eventuale mancato rispetto possa generare responsabilità e, quindi, dare la stura a possibili azioni risarcitorie tanto da parte del debitore quanto da parte degli altri creditori  (e, se del caso, degli organi delle procedure concorsuali legittimati ad esercitare i diritti del debitore e della massa dei creditori)”[11].

Egualmente innovativo risulta poi il disposto dell’art. 5 in materia di doveri (e prerogative) delle autorità preposte, specialmente per quanto attiene alla necessità che tutte le nomine dei professionisti effettuate dall'autorità giudiziaria e dagli organi da esse nominati siano improntate a criteri di trasparenza, rotazione ed efficienza e che il presidente del tribunale o, nei tribunali suddivisi in sezioni, il presidente della sezione cui è assegnata la trattazione delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza vigili sull'osservanza dei suddetti principi e ne assicuri l'attuazione mediante l'adozione di protocolli condivisi con i giudici della sezione.

Com’è chiaro, le esigenze di rotazione degli incarichi e di efficienza nel loro svolgimento vanno tra loro opportunamente contemperate. Ed infatti, si è correttamente precisato, in proposito, che, “trattandosi pur sempre di incarichi connotati da un certo grado di fiduciarietà, è chiaro che il criterio della rotazione dev’essere di volta in volta contemperato con quello dell’efficienza, che implica scelte mirate in funzione delle specifiche esigenze delle singole procedure e richiede che si designi la persona ritenuta capace per quel particolare incarico. Deve cioè inevitabilmente riconoscersi un margine di discrezionalità in capo a chi procede alla nomina del professionista, ma, come per ogni esercizio di discrezionalità, ciò rende quanto mai necessario che vi si accompagni il massimo possibile di trasparenza. Sarebbe eccessivo pretendere che, in ossequio al dovere di trasparenza, il giudice si diffonda in particolari motivazioni per ogni provvedimento di nomina; ma occorre che, in linea di massima, egli si attenga a criteri prestabiliti e tali da garantire la rotazione, di cui sia stata data preventivamente adeguata pubblicità, e che spieghi le ragioni per le quali eventualmente da quei criteri abbia inteso discostarsi”[12].

Quanto ai componenti degli organismi e dei collegi preposti alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi, il primo e il terzo comma dell’art. 5 hanno giustamente cura di stabilire, rispettivamente, l’obbligo di riservatezza e di conservazione del segreto su informazioni, fatti e documenti acquisiti o conosciuti e l’esenzione dall’obbligo di deporre, in sede giudiziale o davanti ad altra autorità, sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nell'esercizio delle loro funzioni, né davanti all'autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità.

 

4. Economicità delle procedure e prededuzioni

L’esigenza, diffusamente avvertita, di contenere i costi delle ristrutturazioni aziendali ha indotto il legislatore ad annoverare fra i princìpi generali della riforma quello dell’economicità delle procedure; e dalla disamina dell’art. 6 si ricava che l’obiettivo è stato perseguito azionando la leva del contenimento della prededuzione.

Per quanto concerne i crediti relativi a spese e compensi per le prestazioni rese dall'organismo di composizione della crisi di impresa di cui al capo II del titolo II e dall'organismo di composizione della crisi da sovraindebitamento, alla lett. a) del primo comma si stabilisce bensì – del tutto correttamente – che essi sono prededucibili, ma al terzo comma si precisa che non sono tali i crediti professionali per prestazioni rese su incarico conferito dal debitore durante le procedure di allerta e composizione assistita della crisi a soggetti diversi dall'OCRI.

La finalità di quest’ultima previsione è perspicua, anche se in tal modo si rischia forse di disincentivare il ricorso, da parte del debitore, al supporto professionale più qualificato.

La lettera d) del ridetto primo comma sancisce l’integrale prededucibilità, come già oggi accade, dei crediti legalmente sorti durante le procedure concorsuali per la gestione del patrimonio del debitore, la continuazione dell'esercizio dell'impresa, il compenso degli organi preposti e le prestazioni professionali richieste dagli organi medesimi.

L’aspetto più controverso in materia – quello della prededuzione dei crediti professionali funzionali alla ristrutturazione – è stato risolto dalla legge trasformando, di fatto, obbligazioni che sono per loro natura di mezzi in prestazioni di risultato, con un arretramento della tutela rispetto all’ormai da tempo prevalente orientamento della Cassazione e della dottrina in materia[13]. Ai sensi delle lettere b) e c), infatti, detti crediti beneficiano di tale rango – peraltro nella ridotta misura del 75% (norma non immune da una sensazione di arbitraria “afflittività”, seppur ispirata dal comprensibile intento di evitare un eccessivo appesantimento, talora in effetti riscontrato nella pratica, degli oneri consulenziali a detrimento delle prospettive di soddisfazione degli altri creditori) – a condizione, nell’un caso, che la domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti sia omologata e, nell’altro, che la procedura di concordato preventivo sia aperta.

Nel frattempo, sembra purtroppo destinata a non placarsi la querelle sulla prededucibilità dei crediti professionali in caso di insuccesso della soluzione negoziata della crisi.

Occorre tuttavia sottolineare come le prese di posizione fortemente restrittive adottate da una parte della giurisprudenza, imperniate sul discusso – ed invero discutibile – concetto di “utilità concreta” utilizzato in alcuni precedenti di legittimità[14], risultino oggi superate dalle reiterate affermazioni della Suprema Corte a favore della necessità di valutare in astratto la funzionalità dell’opera prestata dai consulenti del debitore. Ed infatti, nel corso del 2020 si sono registrate diverse pronunce di Cassazione che hanno ribadito tale principio[15], il quale risulta condiviso anche, da ultimo, dalla Procura Generale presso la Corte, la quale auspica tuttavia, per l’ipotesi di persistente contrasto interpretativo, l’intervento delle Sezioni Unite[16].

Quanto al CCI merita ancora segnalare, con specifico riguardo al concordato preventivo, che l’art. 98 stabilisce che i crediti prededucibili sono soddisfatti durante la procedura alla scadenza prevista dalla legge o dal contratto. Ne deriva che i professionisti che hanno assistito il debitore e i cui crediti vanno collocati in prededuzione hanno diritto a essere pagati alle scadenze convenzionalmente previste; eccezion fatta, probabilmente, per l’ipotesi in cui sia conclamata – e non meramente possibile – l’incapienza dell’attivo rispetto alle pretese creditorie munite di rango prededucibile privilegiato.

 

5. Princìpi di carattere processuale

La Sezione III del Capo II qui in esame è dedicata ai princìpi di carattere processuale.

L’art. 7 sancisce il principio della trattazione unitaria delle domande di regolazione della crisi o dell'insolvenza, poi analiticamente declinato negli artt. 40 e seguenti.

I concetti cardine sono quelli dell’urgenza, dell’unicità del procedimento e della trattazione in via prioritaria.

Ai sensi del primo comma, infatti, le domande volte alla regolazione della crisi o dell'insolvenza sono trattate in via d'urgenza e in un unico procedimento; a tal fine, ogni domanda sopravvenuta dev’essere riunita a quella già pendente.

Il secondo comma prende in considerazione l’ipotesi in cui siano state proposte più domande, stabilendo che in tal caso va data precedenza all’esame di quella diretta a regolare la crisi o l'insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata. Tuttavia, questa trattazione prioritaria è subordinata a due concomitanti condizioni, il cui fine è chiaramente quello di scongiurare condotte abusive del debitore a danno dei creditori: (i) che nel piano sia espressamente indicata la convenienza per i creditori e (ii) che la domanda non sia manifestamente inammissibile o infondata. Questa seconda condizione è alquanto significativa sul piano sistematico, in quanto rappresenta il primo profilo di emersione, nella novella, dell’accresciuta intensità del controllo giudiziale fin dalla fase iniziale della procedura, che si manifesta anche in disposizioni successive (basti pensare alla verifica in ordine alla fattibilità economica del piano concordatario di cui agli artt. 47 e 48)[17].

La menzione del requisito della convenienza, tuttavia, non comporta la possibilità per il tribunale di dichiarare, sic et simpliciter, inammissibile una domanda di concordato ritenuta non conveniente: ciò che occorre è che all’interno del piano trovi esplicita evidenza il predetto requisito, per cui solo la sua mancata indicazione appare idonea a condurre a una declaratoria di inammissibilità. E ciò sebbene, in concreto, le due nozioni di miglior soddisfacimento dei creditori e di convenienza finiscano sovente per coincidere (e, comunque, per “interferire” tra loro), pur restando concettualmente distinte[18].

Il terzo comma precisa poi che il tribunale, oltre che nei casi di conversione previsti dal presente codice, procede, su istanza dei soggetti legittimati, all'apertura della liquidazione giudiziale quando eventuali domande alternative di regolazione della crisi non siano accolte e sia stato accertato lo stato di insolvenza; allo stesso modo il tribunale provvede nei casi di revoca dei termini concessi dal giudice ai sensi dell'articolo 44 e nei casi previsti dall'articolo 49, 2° comma.

Alla finalità di non impedire per un lasso di tempo troppo lungo ai creditori l’esercizio delle azioni esecutive e cautelari è chiaramente ispirato il disposto dell’art. 8, ai sensi del quale la durata complessiva delle misure protettive non può superare il periodo, anche non continuativo, di dodici mesi, inclusi eventuali rinnovi o proroghe.

Un tale spatium temporis, tuttavia, è destinato, nella pratica, a risultare eccessivamente contenuto, specie nelle situazioni connotate da maggiore complessità, ancorché risulti imposto dal tenore della Direttiva UE del 2019[19].

I successivi artt. 9 e 10 si occupano, rispettivamente, di sospensione feriale dei termini e patrocinio legale e di comunicazioni telematiche, stabilendo (i) l’inapplicabilità, salvo diversa disposizione, della sospensione feriale ai procedimenti disciplinati dal Codice; (ii) l’obbligatorietà del patrocinio del difensore, eccezion fatta per i casi in cui è previsto altrimenti; (iii) l’obbligo di comunicazione telematica al domicilio digitale risultante dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti, quando i destinatari hanno l’obbligo di munirsene, e, in caso di inadempimento all’obbligo di istituire o comunicare il predetto indirizzo, la necessità di far luogo alle comunicazioni esclusivamente mediante deposito in cancelleria.

Ancorché si tratti di disposizioni importanti sul piano operativo, esse non sembrano per vero assurgere al rango di princìpi generali in senso proprio, sicché probabilmente sarebbe stata preferibile una loro differente collocazione all’interno del Codice.

 

6. Giurisdizione internazionale

L’art. 11, infine, enuclea, ai fini che ci occupano, i princìpi attributivi della giurisdizione italiana, la quale, in base al primo comma della norma, sussiste quando il debitore ha in Italia il centro degli interessi principali o una dipendenza.

Il concetto del centro degli interessi principali (c.d. COMI) è definito in ambito eurounitario: ai sensi dell’art. 3 Regolamento UE/2015/848, infatti, “sono competenti ad aprire la procedura d'insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore («procedura principale di insolvenza»). Il centro degli interessi principali è il luogo in cui il debitore esercita la gestione dei suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi. E proprio da tale Regolamento è tratta la definizione fornita dall’art. 1, 1° c., lett. m) del nuovo Codice (“il luogo in cui il debitore gestisce i suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi”).

Il terzo comma dell’art. 11 precisa poi che la giurisdizione italiana sussiste anche per le azioni che derivano direttamente dalla procedura.

Contro il provvedimento di apertura di una procedura di regolazione della crisi o dell'insolvenza è ammessa – recita il secondo comma – impugnazione per difetto di giurisdizione da chiunque vi abbia interesse. Si applica il procedimento di cui all'articolo 51 ed è sempre ammesso il ricorso per cassazione.

In tema di perpetuatio jurisdictionis, il citato art. 3 del Regolamento UE afferma testualmente: “Per le società e le persone giuridiche si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede legale. Tale presunzione si applica solo se la sede legale non è stata spostata in un altro Stato membro entro il periodo di tre mesi precedente la domanda di apertura della procedura d'insolvenza”.

E con riferimento a un’ipotesi di trasferimento non effettivo della sede all’estero (nella specie, la società di capitali, già con sede legale in Italia, aveva trasferito detta sede negli Stati Uniti poco prima dell'istanza di fallimento, ma soltanto fittiziamente, giacché la sede effettiva degli affari era stata a sua volta trasferita in Gran Bretagna), la Cassazione ha avuto modo di stabilire che spetta al giudice italiano la giurisdizione con riguardo all'istanza di fallimento presentata nei confronti di società di capitali che abbia avuto in Italia la propria sede legale, prima che essa sia stata solo fittiziamente trasferita in uno Stato extracomunitario (secondo la vecchia terminologia), unitamente al trasferimento in Stato comunitario della sede operativa: “Infatti, posto il trasferimento della sede legale in Stato extracomunitario, la giurisdizione italiana persiste in ragione della sua inderogabilità, secondo il disposto degli art. 9 e 10 legge fall. (come novellati dal d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5, applicabile ratione temporis) e dell'art. 25 l. 31 maggio 1995 n. 218, i quali escludono la predetta giurisdizione solo nei casi di effettivo e tempestivo trasferimento all'estero; mentre, in ragione del carattere solo fittizio della sede legale, deve reputarsi vinta la presunzione di coincidenza di essa con la sede effettiva situata in uno Stato comunitario, stabilita dall'art. 3, paragrafo 1, del regolamento Ce 29 maggio 2000 n. 1346/2000, relativo alle procedure di insolvenza, che, pertanto, risulta inapplicabile”[20].



* Il presente contributo, che costituisce lo sviluppo del saggio “Principi generali”, pubblicato in Commento al Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, nella collana “i quaderni di in executivis”, a cura di D’Arrigo-De Simone-Di Marzio-Leuzzi, 2019, pp. 29 e ss., è destinato al volume collettaneo Sovraindebitamento del consumatore e crisi di impresa. Lezioni del corso di alta formazione dell'Università del Piemonte orientale, a cura di Cracoli- Curletti-Gardella Tedeschi, di prossima edizione per i tipi di Wolters Kluwer.

[1] Non mancano infatti, per così dire, spinte e controspinte nell’uno e nell’altro senso: sul tema possono consultarsi, tra gli altri, Rordorf, Il codice della crisi e dell’insolvenza in tempi di pandemia, in www.giustiziainsieme.it, 8 aprile 2020; Ambrosini, La “falsa partenza” del codice della crisi, le novità del decreto liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, in www.ilcaso.it, 21 aprile 2020; Ventoruzzo-Agostinelli, Un’opportunità per ripensare il Codice della crisi d’impresa, in www.lavoce.info, 23 aprile 2020; Panzani-Arato, Il codice della crisi: un rinvio o un addio?, in www.ilcaso.it, 5 ottobre 2020.

[2] Nello stesso senso cfr. D’Attorre, La formulazione legislativa dei principi generali nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in AA.VV., La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, p. 253, secondo il quale “la tecnica legislativa dell’impiego dei principi assolve, comunque, una sua peculiare funzione, nella misura in cui rende vincolante per l’interprete il richiamo alle finalità dichiarate dal legislatore, orientando lo sviluppo del percorso interpretativo secondo traiettorie coerenti agli obiettivi ed ai valori di cui sono o dovrebbero essere espressione i principi formulati”.

[3] Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, destinato al volume Le crisi dell’impresa e del consumatore. Liber amicorum di Alberto Jorio, a cura di Ambrosini, di prossima edizione per i tipi della Zanichelli, p. 3 del dattiloscritto.

[4] D’Attorre, La formulazione legislativa dei principi generali nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., p. 257.

[5] Per un approfondimento del tema, anche alla luce delle previsioni contenute nella Direttiva UE, cfr. Ambrosini, L’emersione tempestiva della crisi e il concordato preventivo del terzo: dall’idea del “Progetto Rordorf” alle previsioni del legislatore europeo, in destinato al volume Le crisi dell’impresa e del consumatore. Liber amicorum di Alberto Jorio, a cura di Ambrosini, cit..

[6] Sul tema si rinvia, in luogo di altri, a Montalenti, Gestione dell’impresa, assetti organizzativi e procedure di allerta dalla “Proposta Rordorf al Codice della crisi”, in AA.VV., La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, cit., p. 951 e ss., cui adde, per ulteriori riferimenti, Ambrosini, L’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e il rapporto con le misure di allerta nel quadro normativo riformato, in www.ilcaso.it, 15 ottobre 2019.

[7] Cfr., sul punto, Rordorf, op. cit., p. 7 del dattiloscritto, ove il rilievo secondo il quale la disposizione “evidenzia – attraverso l’impiego dell’avverbio “anche” – come la cura dell’adeguatezza degli assetti non abbia soltanto quella finalità, ma sia un filo conduttore destinato a segnare l’intera vita dell’impresa pur quando non vi sia alcuna crisi all’orizzonte”.

[8] In materia la letteratura è davvero vastissima. In luogo di altri si vedano, nell’ambito delle rispettive trattazioni su negozio giuridico e contratto in generale, Galgano, Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, Milano, 2002, pp. e 499 ss., e, più di recente, Alpa, Il contratto in generale, I. Fonti, teorie, metodi, ivi, 2014, pp. e 512 ss., ove ampi riferimenti.

[9] Cfr., anche per riferimenti, Trapuzzano, sub artt. 1175 e 1375, in Codice civile, diretto da Di Marzio, Milano, 2016, pp. 1328 e 1739.

[10] Così Bianca, Diritto, civile, 4, L’obbligazione, Milano, 1992, p. 380.

[11] Rordorf, op. cit., p. 19 del dattiloscritto.

[12] Rordorf, op. cit., p. 26 del dattiloscritto.

[13] Tra le molte v. Cass., 30 marzo 2018, n. 7974, in Pluris-cedam.utetgiuridica.it, cui adde, in precedenza, Cass. 5 agosto 2013, n. 18612, in Danno e Resp., 2013, 1089; Cass., 18 aprile 2011, n. 8863, in Contratti, 2011, p. 984; Cass., 11 gennaio 2010, n. 230, in Vita Notar., 2011, 139. In dottrina v., ex aliis, Meo, I crediti professionali nel concordato preventivo tra “prededuzione” e adempimento contrattuale, in www.rivistaodc.eu, 2016; Fabiani Concordato preventivo e divieto (non previsto nella legge) di pagamenti dei compensi professionali. Il pensiero unico recente dei giudici di merito, in Fallimento, 2017, pp. e 583 ss.; Ambrosini, Appunti in tema di prededuzione del credito del professionista nel concordato preventivo e nell’eventuale successivo fallimento, in www.osservatorio-oci.it, 2017.

[14] Cass. 18 giugno 2019, n. 16224, in Ced Cassazione; Cass. 6 marzo 2018, n. 5254, in www.ilcaso.it; Cass. 4 novembre 2015, n. 22450, in Giustizia Civile Massimario 2015; Cass. 5 marzo 2015, n. 4486, in Ilfallimentarista.it, 2015; Cass. 6 febbraio 2015, n. 2264, in Diritto & Giustizia, 2015.

[15] Cass. 2 luglio 2020, n. 13596, in Ced Cassazione; Cass. 9 gennaio 2020, n. 220, in www.ilcaso.it;Cass. 10 ottobre 2019, n. 25471, in www.dirittobancario.it; Cass. 30 marzo 2018, n. 7974, in Ced Cassazione. Ma v., da ultimo, Cass. 15 gennaio 2021, n. 639, in www.ilcaso.it.

[16] Procura Generale presso la Corte di Cassazione, Relazione conclusiva alla causa r.g. n. 6578/2015, p.g. Soldi, 23 novembre 2020, inedita.

[17] Come chi scrive ha altrove osservato, le disposizioni relative al controllo giudiziale sulla fattibilità economica del piano risolvono un’annosa questione, fra le più dibattute nel vigore della vecchia legge fallimentare. Ed invero, in passato la Corte di Cassazione aveva ripetutamente escluso che al tribunale fosse consentito scrutinare la realizzabilità del piano, sul presupposto che una valutazione siffatta competesse, in prima battuta e sul piano tecnico, all’attestatore e che rientrasse poi nell’ambito delle previsioni dei creditori circa le loro prospettive di soddisfacimento (Cass. SS.UU. 23 gennaio 2013, n. 1521, in Ced Cassazione, e pronunce successive). Di conseguenza, ove i creditori avessero dubitato dell’effettiva realizzabilità del piano e della possibilità di ottenere un trattamento migliore che in caso di fallimento, tale prognosi negativa si sarebbe verosimilmente tradotta in un voto contrario al concordato. Una successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità aveva sancito la sindacabilità del profilo in questione da parte del tribunale nelle (sole) ipotesi di manifesta inidoneità del piano a perseguire l’obiettivo del risanamento dell’impresa, senza per questo infrangere la barriera della sottrazione al controllo giudiziale della fattibilità economica del piano (Cass. 7 aprile 2017, n. 9061, in Dir. fall., 2019, p. 213).

La scelta del legislatore del Codice, seppur per vari aspetti discutibile, è stata di segno opposto: in ogni fase del concordato il tribunale ha il potere-dovere di verificare che il piano risulti fattibile dal punto di vista economico, oltre ovviamente allo scrutinio (di natura squisitamente giuridica) in ordine all’ammissibilità della domanda concordataria. Alla stregua di quanto stabilito dal comma 1 dell’art. 47, pertanto, può affermarsi che il tribunale è tenuto a respingere la domanda di concordato sotto il profilo della non fattibilità economica ogniqualvolta: (i) il piano risulti ictu oculi irrealizzabile (caso, per vero non frequente, in cui il tribunale già dispone di tutti gli elementi necessari senza bisogno di approfondimenti tecnici di sorta; (ii) il parere richiesto dal tribunale al commissario giudiziale metta in luce, con ragionevole certezza, l’irrealizzabilità del piano. Negli altri casi, quand’anche sussistano dubbi sulla fattibilità del piano (che del resto, per sua natura non è – né può essere – connotato da certezza quanto al risultato), il tribunale non può bloccare l’iter della domanda e deve consentire che la prognosi circa l’effettiva realizzabilità del piano sia effettuata dai creditori attraverso l’esercizio del voto (così Ambrosini, Accesso alle procedure di regolamentazione della crisi e dell'insolvenza,in Pacchi-Ambrosini, Diritto della crisi e dell'insolvenza, Bologna, 2020, pp. 100-101).

[18] Non risulta invero facilmente configurabile un piano che realizzi l’obiettivo del massimo soddisfacimento dei creditori senza essere, ad un tempo, conveniente per costoro.

[19] Ambrosini, Accesso alle procedure di regolamentazione della crisi e dell'insolvenza, cit., p. 109, ove il rilievo che “può ben darsi il caso di una ristrutturazione aziendale la cui durata – calcolando anche il periodo della procedura di allerta – ecceda l’anno e in costanza della quale venga a un certo punto meno il divieto di azioni individuali di natura esecutiva o cautelare: il che comporta il rischio di un serio vulnus non solo alla par condicio creditorum, ma anche alla possibilità stessa che la ristrutturazione vada a buon fine. Da qui l’opportunità di un ripensamento in sede europea rispetto a un vincolo così stringente, in presenza del quale il legislatore nazionale non sembrava in effetti disporre, purtroppo, di alcun margine di discrezionalità”. Stesso concetto è stato espresso e sviluppato nel contributo in lingua inglese Stay of individual enforcement actions: Eu Directive vs. italian (current and future) law, in AA.VV., La Directiva de la Ue 1023/2019 sobre insolvencia (estudios desde diferentes ordenamientos), diretto da Candelario Macias-Pacchi, di prossima edizione per i tipi di Tirant lo Blanch.

[20] Cass., SS.UU., 3 ottobre 2011, n. 20144, in www.dejure.it.


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