CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 31/05/2014 Scarica PDF

La deliberazione del concordato

Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte Orientale


Sommario: 1. L’adunanza dei creditori. – 2. La votazione – 3. Segue: l’ammissione provvisoria dei crediti contestati. – 4. Segue: il problema del conflitto d’interessi. – 5. L’approvazione del concordato.


     

1. L’adunanza dei creditori

Ai sensi dell’art. 163 l. fall., il giorno in cui deve tenersi, sotto la presidenza del giudice delegato, l’adunanza dei creditori è stabilito nel provvedimento di ammissione al concordato.

Nel caso in cui il commissario non sia stato in grado, a causa della complessità degli accertamenti e delle valutazioni richieste, di terminare la stesura della relazione, la seduta può essere aggiornata [1].

In ogni caso, ai sensi del primo comma dell’art. 172 – come novellato dal c.d. “decreto sviluppo-bis” – il decreto di ammissione e la relazione del Commissario devono essere comunicati via PEC ai creditori almeno 10 giorni prima dell’adunanza.

In sede di adunanza ogni creditore può farsi rappresentare da un mandatario speciale, con procura che può essere scritta senza formalità sull’avviso di convocazione. Quanto al debitore, egli (o chi ne ha la legale rappresentanza) deve invece intervenire personalmente e solo in caso di assoluto impedimento, accertato dal giudice delegato, può farsi rappresentare da un mandatario speciale.

Per ciò che riguarda lo svolgimento dell’adunanza, l’art. 175 richiede, anzitutto, che il commissario illustri la sua relazione e le “proposte definitive” del debitore. Quest’ultima locuzione solleva, non da oggi, il problema della modificabilità della proposta concordataria, dubitandosi in passato della possibilità di un suo mutamento radicale (tipicamente, da concordato con garanzia a cessio bonorum e viceversa) [2]. L’ampio margine lasciato dalla riforma all’autonomia privata induceva tuttavia a preferire, già alla luce della disciplina del 2005, la soluzione più permissiva, con la conseguenza, ad esempio, che il debitore poteva risolversi ad offrire ai creditori la cessione dei propri beni ove abbia dovuto constatare, medio tempore, l’ina­de­guatezza della garanzia prestata dal terzo.

Vi era peraltro da chiedersi se tali modifiche dovessero intervenire prima che il commissario illustrasse la propria relazione o se potessero invece aver luogo anche successivamente [3]. Ad avviso di chi scrive la seconda opzione interpretativa appariva preferibile [4], giacché fra l’altro è proprio dal tenore delle valutazioni compiute dall’ufficio commissariale che può scaturire l’esigenza di rivedere le condizioni inizialmente prospettate dal debitore; senza dire che il commissario può sempre chiedere al giudice delegato un differimento dell’adunanza onde potersi esprimere “con cognizione di causa” sulla nuova proposta, nell’interesse dei creditori.

L’essenziale è che detta modifica venga esplicitata prima che si dia corso alla votazione, dopo di che, perfezionandosi in virtù del voto della maggioranza l’accordo con i creditori, ciò non risulta più possibile.

E proprio in questi termini si è espresso il decreto correttivo del 2007, che ha aggiunto un nuovo comma all’art. 175, il quale prevede expressis verbis che la proposta concordataria diviene immodificabile solo nel momento in chi hanno inizio le operazioni di voto[5].

Come già in precedenza ricordato, peraltro, ogni modifica della domanda, se di carattere sostanziale, comporta la predisposizione, da parte dell’esperto, di un supplemento dell’attestazione, quando non, addirittura, di una relazione del tutto nuova (necessaria ogniqualvolta la variazione interessi l’impostazione stessa del piano o della proposta).

Indipendentemente da eventuali mutamenti nel contenuto della proposta, ciascun creditore partecipante all’adunanza, una volta che il commissario abbia terminato la lettura della propria relazione e fornito i chiarimenti eventualmente richiesti, ha facoltà di rappresentare le ragioni per le quali non ritiene ammissibile o accettabile la proposta di concordato, nonché di sollevare contestazioni sui crediti concorrenti.

Al debitore è consentito di rispondere e contestare a sua volta i crediti ed è fatto obbligo di fornire al giudice gli opportuni chiarimenti.

 

2. La votazione

La votazione può avvenire sia in adunanza sia per corrispondenza. Questa seconda alternativa è oggi valorizzata dal dato per cui la riforma ha soppresso il quorum per teste, con la conseguenza che «è venuta meno la struttura bifasica della votazione, che richiedeva la presenza necessaria dei creditori in udienza per il calcolo della maggioranza numerica; per cui, in ipotesi, potrebbe darsi un’adunanza deserta e una maggioranza dei crediti raggiunta tutta tramite volontà espresse per corrispondenza» [6].

L’art. 178, comma 4, precisa a riguardo che i voti ricevuti per telegramma, lettera, telefax o posta elettronica, purché pervengano entro i venti giorni successivi[7] alla chiusura dell’adunanza, sono annotati in calce al verbale e vengono in ogni caso considerati «ai fini del computo sulla maggioranza dei crediti»[8].

Per quanto il tenore letterale della norma (che menziona le lettere e i telegrammi pervenuti nei venti giorni successivi e non entro tale termine) potrebbe deporre nel senso dell’inefficacia dei voti espressi per corrispondenza e pervenuti prima della conclusione dell’adunanza, l’assenza di una specificazione normativa in merito al  termine iniziale di validità delle adesioni sembra consentire ai creditori la possibilità di esprimere il proprio assenso anche in epoca antecedente all’adu­nanza, purché – beninteso – esso sia manifestato in forma inequivoca e secondo modalità che consentano di fornirne agevolmente la prova[9].

In definitiva, il voto dei creditori può «giungere alla procedura, e per essa al commissario, in qualunque momento anteriore o posteriore all’adunanza, purché nei venti giorni dalla chiusura della stessa»[10].

D’altra parte, l’adunanza resta la sede più congrua per discutere la proposta di concordato, essendo il luogo deputato ad una manifestazione di voto resa più consapevole dalla possibilità di consultare la relazione del commissario giudiziale e di partecipare al contraddittorio tra i presenti.

Ove, al contrario, nei termini stabiliti non si raggiungano le maggioranze prescritte, il giudice delegato deve riferirne immediatamente al tribunale, che a sua volta è tenuto a segnalare la circostanza al pubblico ministero affinché questi promuova la dichiarazione di fallimento [11].

Una fra le novità apportate dal Decreto sviluppo più apertamente caratterizzate dal favor per l’istituto del concordato preventivo è quella che ha “importato” dalla disciplina del concordato fallimentare il meccanismo del c.d. silenzio assenso.

Con un vero e proprio capovolgimento copernicano di prospettiva, infatti, la riforma ha sancito la regola in base alla quale i creditori hanno l’onere di manifestare espressamente il proprio dissenso ove non intendano essere considerati implicitamente assenzienti rispetto alla proposta concordataria. Tale rilevante innovazione, destinata a favorire l’approvazione del concordato tutte le volte in cui la differenza tra assenzienti e dissenzienti sia esigua e comunque non eccessivamente marcata, comporta – come recita il nuovo ultimo comma dell’art. 178 – che i creditori che non hanno esercitato il voto entro l’adunanza, e non hanno fatto pervenire il proprio dissenso per telegramma o per telefax o per posta elettronica nei venti giorni successivi alla chiusura del verbale (termine da ritenersi incomprimibile dal giudice), si ritengono consenzienti e come tali sono considerati ai fini del computo della maggioranza dei crediti.

Il tenore di detta previsione pare idoneo a risolvere in radice, fra l’altro, il problema dei voti favorevoli espressi – come suol dirsi – “a scatola chiusa”, cioè prima del deposito della relazione commissariale ex art. 172. Ed invero, quand’anche tali voti dovessero considerarsi, alla stregua del principio del consenso informato, uti non essent (del che, peraltro, è lecito dubitare), ricadrebbero pur sempre nell’ambito di operatività del silenzio-assenso, dovendo pertanto computarsi come voti favorevoli.

La circostanza per cui l’offerta concordataria è suscettibile di variazione sino all’inizio delle operazioni di voto in sede di adunanza lascia intendere che i creditori che abbiano già espresso il loro parere possano revocarlo ed esprimere un’intenzione differente[12]; circostanza, questa, che può verificarsi anche quando il mutamento dell’opinione di quanti abbiano già votato sia determinato dai rilievi esposti dal commissario giudiziale. Come si è ha avuto modo di rilevare in un precedente lavoro, infatti, “l’ultimo momento utile per un mutamento in pejus della proposta sembra coincidere con lo svolgimento dell’adunanza, giacché, una volta che si è dato corso alla votazione, l’accordo con i creditori si considera perfezionato o meno a seconda dell’esito dello scrutinio” [13]. Né pare ostativa rispetto a questa impostazione l’eventualità che la maggioranza dei voti richiesti possa in astrat­to conseguirsi prima della votazione, dal momento che coloro che hanno inviato l’assenso scritto alla proposta paiono legittimati a revocarlo, esprimendo voto contrario in sede di adunanza.

Non sembra invece modificabile, una volta dichiarata chiusa l’adunanza, il voto espresso in quella sede (o in precedenza), dal momento che nei venti giorni successivi, possono prendere posizione, ai sensi dell’art. 178, comma 4, solo i creditori «che non hanno esercitato il voto».

Né appare configurabile, successivamente a tale momento, la rinuncia al privilegio da parte di quei creditori che vantino pretese assistite da cause di prelazione, donde l’inammissibilità dell’esercizio del voto da parte dei creditori rinunciatari.

La modifica del la voto è oggi contemplata, poi, nella diversa ipotesi – disciplinata dall’art. 179, comma 2 – di sopravvenuto mutamento delle condizioni di fattibilità del piano: in tal caso, il commissario ne deve dare avviso ai creditori, i quali possono modificare il voto precedentemente espresso costituendosi nel giudizio di omologazione [14].

Sotto questo profilo, è stata espressamente recepita la necessità, già posta in luce in dottrina, di interpellare nuovamente i creditori nel caso di mutamento delle condizioni di fattibilità in epoca successiva alla votazione, non potendo inferirsi sic et simpliciter dalle circostanze sopravvenute un atteggiamento negativo del ceto creditorio nei confronti della proposta concordataria.

Quanto alla rappresentazione formale dell’esito della votazione, la legge stabilisce che nel verbale siano inseriti i voti favorevoli e contrari dei creditori con l’indicazione nominativa dei votanti e dell’ammontare dei rispettivi crediti. Questo verbale è sottoscritto dal giudice delegato, dal commissario e dal cancelliere.

Ove nel giorno fissato non risulti possibile compiere tutte le operazioni, la loro continuazione viene rimessa dal giudice ad un’udienza successiva, da tenersi non oltre otto giorni, senza bisogno che gli assenti siano avvisati.

Per quanto concerne l’individuazione dei soggetti chiamati a esprimersi sulla proposta, sembra possibile fare applicazione, nel concordato preventivo, dell’art. 127, comma 6, l. fall., il quale dispone l’e­sclusione dal voto delle società controllanti, controllate e sottoposte a comune controllo che vantino diritti di credito nei confronti della debitrice.

Benché la norma in parola sia dettata in materia di concordato fallimentare, deve considerarsi possibile il ricorso all’analogia (o, comunque, al­l’in­terpretazione estensiva), senza che possa invocarsi, in senso contrario, il principio per cui ubi lex noluit tacuit, trattandosi di criterio ermeneutico notoriamente non decisivo, al quale va preferito quello dell’eadem ratio, anche in considerazione della circostanza che le due discipline sono state scritte in tempi diversi (quella del concordato preventivo nel 2005, quella del concordato fallimentare nel 2006) e non sono mai state completamente coordinate, neppure a seguito del decreto “correttivo” [15].

Tale impostazione, del resto, trova conforto nella giurisprudenza della Cassazione, la quale ha predicato la possibilità di estendere al concordato preventivo le norme previste in materia di concordato fallimentare, statuendo che, «in materia di risoluzione del concordato preventivo, si applica il principio per cui gli obblighi di restituzione posti dall’art. 140 l. fall. (dettato in materia di concordato fallimentare) a carico dei creditori costituiscono un effetto ordinario dell’apertura del fallimento consecutivo ogni qual volta non vi sia stata salvezza, nei pagamenti attuati in costanza della procedura concorsuale minore, delle clausole legittime di prelazione» [16].

E ciò senza invocare l’argumentum ab inconvenienti connesso al fatto che le scelte di un soggetto eterodiretto sono giocoforza destinate a soggiacere agli interessi della holding, con la conseguenza che, nelle situazioni più patologiche, si potrebbe addirittura addivenire ad un’acquisizione del controllo strumentale a “blindare” l’esito del voto, col risultato di una totale pretermissione degli interessi degli altri creditori.

 

3. Segue: l’ammissione provvisoria dei crediti contestati

Non è infrequente che una parte delle pretese fatte valere nei confronti dell’imprenditore in crisi siano dallo stesso contestate nel quantum o, addirittura, nell’an. La circostanza che il definitivo accertamento della pretesa sia demandato – com’è noto – all’ordinario giudizio di cognizione (attesa l’in­sussistenza, nel concordato preventivo, di uno speciale procedimento di accertamento del passivo), non sempre fornisce idonea e – soprattutto – tempestiva risposta a due rilevanti questioni che si pongono nel contesto della procedura, vale a dire, da un lato, la corretta rappresentazione della posta ai fini del piano, dall’altro, l’ammissione al voto.

Quanto al primo profilo, si ritiene che il debitore non possa prescindere, nell’illustrazione dei propri dati aziendali, dal menzionare tutte le passività, incluse quelle meramente potenziali (se del caso sotto forma di appositi fondi) e, per quanto qui più interessa, quelle oggetto di contestazioni. Come messo in luce dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, «la tesi che l’art. 160 legge fallimentare, non contemplando classi di “presunti creditori” […], consenta di escluderli dalla procedura, è priva di qualunque consistenza, non solo perché pregiudica gli interessi di coloro che non dispongono ancora dell’accertamento definitivo dei loro diritti, ma perché falsa le previsioni del piano di soddisfo dei crediti certi e non consente agli ammessi al voto di esprimere valutazioni prognostiche corrette, in difetto della conoscenza dell’area completa delle passività, comprese quelle sub iudice» [17].

Quanto al voto, mentre sembrerebbe potersi escludere che esso venga in considerazione con riguardo alle poste rappresentate dai fondi rischi per oneri futuri forfetariamente determinati (in relazione ai quali spesso si rivela del resto davvero arduo individuare l’effettivo titolare della pretesa), la situazione dei crediti contestati è più complessa. Com’è noto, l’art. 176, comma 1, l. fall. stabilisce che spetta al giudice delegato ammettere al voto (in tutto o in parte) quei soggetti che vantino pretese ritenute infondate dal debitore (e ai quali, ciò nondimeno, è pacificamente consentito partecipare all’adunanza [18]); fermo restando che la decisione circa la legittimazione a esprimersi sulla proposta rileva ai soli fini del calcolo delle maggioranze, senza pregiudicare l’efficacia delle successive pronunce definitive aventi ad oggetto la sussistenza del credito. Più nel dettaglio, il giudice delegato è chiamato a decidere sulla esistenza, sull’ammontare e sulla natura del credito [19], all’esito di un giudizio giocoforza di carattere sommario e basato sugli elementi conoscitivi e probatori a disposizione, oltre che sulle circostanze emerse dal contraddittorio degli interessati [20]. Ciò conduce all’ema­nazione di un decreto [21] che la stessa legge qualifica espressamente come provvisorio e che pertanto – almeno secondo una parte della giurisprudenza di merito – può essere revocato fino alla conclusione delle operazioni di voto [22].

Con riferimento al contenuto dell’accertamento, esso sembra risolversi in un esame del merito della controversia (ancorché connotato, come si è detto, da sommarietà): una volta valutati tutti gli elementi noti (anche grazie alle indagini svolte dal commissario e trasfuse nella relazione ex art. 172 l. fall.), il giudice delegato deve assumere la propria decisione sulla scorta di criteri di ragionevolezza e di adeguata probabilità. In questo quadro, in particolare, non sembra che si possa prescindere, ogniqualvolta la pretesa sia oggetto di autonomo contenzioso, dai provvedimenti emanati da altro giudice (non solo in un procedimento di merito o cautelare, ma anche ove il preteso creditore si sia semplicemente munito di un provvedimento monitorio, pur opposto), ancorché gli stessi non si siano ancora tradotti nella formazione di un giudicato. Di conseguenza, il creditore che abbia già ottenuto un provvedimento di segno favorevole (benché non definitivo) sembra poter essere escluso dal voto solo in presenza di chiari indici dell’elevato grado di probabilità del buon esito del gravame esperito dall’imprenditore in crisi.

L’opposizione al provvedimento del giudice delegato da parte del creditore illegittimamente escluso – da esercitarsi, ai sensi dell’art. 176, comma 2, l. fall. nelle forme dell’opposizione all’omologazione [23], senza onere di preventiva formale contestazione in adunanza [24] – è ammissibile solo nel­l’ipotesi di superamento della prova di resistenza [25], vale a dire quando, ove al soggetto in questione fosse stato consentito di esprimersi, si sarebbe prodotto un diverso risultato con riguardo al calcolo delle maggioranze relative al monte totale dei crediti o alle classi [26]. In altre parole, ogniqualvolta il creditore pretermesso (e contrario all’approvazione del concordato) intenda contestare la legittimità della propria esclusione dal voto, egli ha l’onere di proporre opposizione all’omologazione, facendo rilevare che, se l’elenco dei creditori fosse stato correttamente formato, il concordato non sarebbe risultato approvato.

Meno perspicuo è, invece, lo scenario che si presenta nell’ipotesi contraria, quando cioè il creditore escluso dal voto manifesti la volontà di aderire alla proposta di concordato: egli, infatti, ha interesse a far valere la propria posizione solo nella misura in cui – per effetto del superamento della prova di resistenza – essa si riveli determinante per le sorti della procedura. Senonché, il mancato raggiungimento delle maggioranze (pur viziato) impedisce, di per sé solo, la fissazione dell’udienza di omologazione (deputata dalla legge a dirimere il contrasto sulla legittimazione al voto), dovendosi pertanto ritenere che il creditore possa opporsi al provvedimento con cui il tribunale, accertato l’esito (negativo) della votazione, dichiara chiusa la procedura, se del caso impugnandolo unitamente alla sentenza dichiarativa di fallimento.

 

4. Il problema del conflitto d’interessi

Al fine di esaminare, pur nei limiti della presente trattazione, la delicata questione del conflitto d’interessi, conviene anzitutto muovere dalla relativa nozione, in forza della quale esso si manifesta ogniqualvolta il soggetto chiamato ad agire in conformità a un interesse individuato dalla legge come meritevole di tutela si trovi ad essere portatore, per conto proprio o di terzi, di istanze ulteriori, in (quantomeno potenziale) contrasto con l’interesse protetto dalla norma.

I casi paradigmatici conosciuti dal nostro ordinamento sono quelli del conflitto tra il rappresentante e il rappresentato (art. 1394 c.c.), nonché quelli che si ravvisano nel contesto societario: in particolare del socio in assemblea (artt. 2373 e 2479-ter, comma 2, c.c.) e dell’ammini­stra­tore in consiglio (artt. 2391 e 2475-ter c.c.). In queste ipotesi il conflitto si traduce in una patologia del rapporto: il contratto concluso dal rappresentante controinteressato è suscettibile di annullamento, su istanza del rappresentato e a condizione che il conflitto fosse conosciuto dal terzo (o, comunque, questi potesse riconoscerlo); parimenti impugnabili sono le deliberazioni del­l’assemblea o del consiglio di amministrazione assunte con il contributo del­l’azionista o dell’amministratore in conflitto (ferme le speciali disposizioni in materia di disclosure e obblighi di motivazione di cui all’art. 2391 c.c.).

Ancorché la circostanza che l’adunanza dei creditori sia retta dal principio maggioritario possa indurre – in astratto – ad accostarla all’assemblea dei soci di società di capitali, con riguardo alla prima il legislatore ha ritenuto di non dettare alcuna norma in tema di conflitto di interessi. Com’è noto, infatti, l’art. 177, comma 4, l. fall. (esattamente sovrapponibile all’art. 127, comma 5, l. fall., in materia di concordato fallimentare) si limita a stabilire l’esclusione dal voto e dal computo delle maggioranze del coniuge del debitore, dei suoi parenti e affini fino al quarto grado, nonché dei cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno prima della proposta di concordato. In altre parole, si prevede soltanto l’esclusione dal voto, oltre che del debitore (che può considerarsi in re ipsa), dei soggetti a lui riconducibili; e ciò allo scopo d’impedire, evidentemente, che proponente e destinatario dell’offerta vengano, di fatto, a coincidere, con conseguente “corto circuito” del meccanismo di approvazione del concordato (che si tradurrebbe, nella sostanza, nella stipulazione di un negozio dell’imprenditore con sé stesso). Alla medesima ratio va ricondotta, con ogni probabilità, la regola di cui all’art. 127, comma 6, l. fall. (peraltro non riprodotta con riguardo al concordato preventivo), la quale estende il perimetro dell’esclusione anche ai crediti delle società controllanti, controllate o sottoposte a comune controllo.

A tale stregua, l’unico conflitto che – stando al tenore letterale della dispo­sizione – la legge sembra ritenere rilevante ai fini del voto nel concordato preventivo (e fallimentare) attiene al legame tra creditore e debitore, mirandosi a impedire che chi approvi la proposta sia mosso dall’interesse di favorire l’imprenditore, anziché da quello, tipico del creditore, di aderire a una soluzione delle crisi davvero conveniente.

Alla luce del quadro normativo determinato dalla riforma, si è sviluppato un ampio dibattito avente ad oggetto la possibilità di far ricorso alla disciplina del conflitto di interessi nell’ambito del concordato preventivo, mutuando – nella sostanza – le regole previste per il voto dei soci nell’as­sem­blea della società per azioni. In questa cornice, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità, la prevalente giurisprudenza di merito e una consisten­te parte della dottrina sembrano essere addivenute alla conclusione dell’inapplicabilità della suddetta disciplina nel concordato preventivo.

Tale impostazione – oggi prevalente, anche alla luce dell’arresto della Cassazione di cui si dirà in appresso – poggia sul presupposto (invero non facilmente contestabile) che il contesto dell’adunanza è per natura dialettico (e, quindi, deputato alla comparazione e, se del caso, allo “scontro” tra interessi non coincidenti): esiste sempre – per definizione – una disomogeneità tra la posizione del debitore e quella del creditore chiamati a verificare la possibilità di raggiungere un accordo (sia pure in forme peculiari) circa la rinegoziazione dell’obbli­ga­zione. Il primo mira (tanto più laddove si preveda la continuazione dell’at­tività, con conseguente conservazione di una parte del patrimonio dell’im­pren­ditore in capo al medesimo) a ottenere il consenso del secondo contenendo al massimo l’esborso; il creditore tende, al contrario, a massimizzare il proprio ricavo. L’insuperabilità del conflitto tra creditore e debitore rende dunque superflua (quando non addirittura contradditoria) l’invoca­zione del conflitto d’interessi, non a caso disciplinato dal legislatore soltanto quando – come si è visto – si assegni a un determinato soggetto (il rappresentante, il socio o l’amministratore) il compito di adottare scelte idonee a perseguire un interesse terzo meritevole di tutela (rispettivamente, quello del rappresentato e della società).

Queste argomentazioni hanno fatto breccia – come accennato – nella giu­risprudenza di legittimità, la quale ha avuto modo di affermare che «la esistenza di una posizione di conflitto di interessi tra soggetti acquisisce giuridica rilevanza quale causa di vizio di un atto o di fonte di risarcimento del danno non in ogni caso ma solo allorquando vi sia un contrasto tra un centro autonomo di interessi (sia esso dotato o meno di personalità giuridica) e il suo rappresentante […] e quindi quando uno stesso soggetto compia un atto o manifesti una volontà rivestendo contemporaneamente due ruoli che potenzialmente potrebbero comportare scelte differenti» [27]. Non è un caso, del resto, che il conflitto d’interessi assuma peculiare rilevanza negli enti collettivi e, in particolare, nelle società, tenuto conto che i soci, con la sottoscrizione di un contratto con comunione di scopo, s’im­pegnano a preservare l’interesse dell’ente, con la conseguenza che, in quelle situazioni, l’eventuale conflitto «deve essere valutato con riferimento non già a configgenti interessi dei soci, bensì a un eventuale contrasto tra l’interesse del socio e l’interesse sociale inteso come insieme degli interessi riconducibili al contratto di società» [28].

Orbene, muovendo da questo dato la Corte ha messo in luce l’impos­sibilità di ravvisare tale situazione nel contesto dell’adunanza dei creditori, atteso che i singoli partecipanti traggono la propria legittimazione dalla sussistenza di un mero rapporto di credito con l’imprenditore (rispetto al quale esiste la suddetta relazione dialettica), senza essere astretti da alcun vincolo di solidarietà con gli altri creditori: in altre parole, ciascuno è chiamato a valutare la convenienza della proposta in concreto e dal proprio peculiare (e interessato) punto di vista, non in astratto, né nella prospettiva della massa considerata nel suo complesso[29]. Di qui il rilievo che il legame esistente tra i soci non è minimamente sovrapponibile al «rapporto tra creditori uti singuli e quali appartenenti alla massa nel momento in cui si esprimono nell’ambito dell’assemblea dei votanti per l’assorbente ragione che il fallimento [al pari del concordato: n.d.r.] non è un soggetto giuridico autonomo di cui i creditori siano in qualche modo partecipi e il complesso dei creditori concorrenti viene costituito in corpo deliberante in modo del tutto casuale e involontario così che non è avvinto da alcun patto che comporti, in qualche occasione, la necessità di valutare un interesse comune trascendente quello dei singoli» [30].

Ne discende la conclusione – cui è addivenuta la Cassazione – che il silenzio del legislatore in materia di conflitto d’interessi deve essere letto come il frutto di una ben precisa scelta, essendosi preferito affidare le  ipotesi (eccezionali) di esclusione dal voto a norme tassative e, come tali, di stretta interpretazione: «il legislatore, ben conscio della realtà, non ha inserito una norma generale sul conflitto di interessi nell’ambito delle votazioni ma ne ha, al contrario, escluso la sussistenza disciplinando specificatamente i casi di rilevanza del conflitto (art. 37-bis, c. 2; art. 40, c. 4; art. 127, c. 5 e 6; art. 177, u.c.), così che la partecipazione al voto è la norma mentre l’esclusione è l’eccezione e deve essere espressamente prevista» [31].

Questa soluzione si pone in piena coerenza con il rilievo – già fatto proprio dalla Corte costituzionale – che «il carattere concorsuale della ripartizione dell’attivo […] fa sì che ciascun creditore si atteggi rispetto a ciascun altro creditore homo homini lupus [32]. Le medesime parole sono state significativamente riprese dalla già menzionata giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che «nell’ambito della tutela del proprio credito […] ogni creditore è legittimamente (nell’ambito delle regole procedurali) homo homini lupus nel senso che può valutare esclusivamente il proprio interesse rappresentando unicamente sé stesso» [33].

Come si è detto, il carattere tassativo della disposizione di cui all’art. 177, comma 4, l. fall., oltre ad essere propugnato dalla Cassazione, è condiviso dalla prevalente giurisprudenza di merito, nell’ambito della quale si è osservato che «la norma di cui all’art. 177, V comma [oggi comma 4: n.d.r.] legge fallimentare, che esclude dal voto di approvazione del concordato preventivo il coniuge del debitore ed i suoi parenti ed affini fino al quarto grado, ha carattere eccezionale e non è applicabile al caso in cui le suddette persone fisiche esprimano il voto in qualità di rappresentanti di persone giuridiche, la cui distinta soggettività giuridica è riconosciuta dall’ordinamento societario, il quale tutela i soci dall’operato degli amministratori mediante appositi specifici strumenti» [34].

Le suddette considerazioni sono state altresì condivise da larga parte della dottrina, la quale ha concluso per la natura tassativa dell’art. 177, comma 4, con conseguente impossibilità di ampliare le ipotesi di esclusione dal voto [35].

A tale stregua, deve giocoforza affermarsi che la tesi prevalente coincide con quella che predica l’impossibilità di estendere al concordato preventivo la disciplina del conflitto d’interessi: una scelta siffatta, invero, non sembra trovare idoneo appiglio nel testo della legge; senza dire degli inconvenienti di cui la stessa sarebbe pressoché inevitabilmente foriera, tenuto conto che, ove si conferisse rilievo all’eterogenea pluralità degli interessi particolari dei creditori (come insegna la comune esperienza, infatti, è raro ravvisare una perfetta omogeneità tra le singole posizioni dei creditori), si sarebbe costretti a moltiplicare le fattispecie di conflitto. Basti pensare alla rilevanza che possono assumere, ai fini della concreta espressione del voto, aspetti quali l’interesse a non subire le revocatorie fallimentari o le azioni risarcitorie che verosimilmente sarebbero coltivate dal curatore; quello a proseguire i rapporti commerciali con l’imprenditore dopo l’omologazione o, al contrario, all’eliminazione dal mercato di un concorrente: con conseguente inaccettabile rischio d’incorrere nell’estensione dell’area del conflitto – nelle sue varie declinazioni – all’intera massa dei creditori.

A ciò si aggiunga che – come evidenziato dalla Cassazione – l’applica­zio­ne all’adunanza delle regole dettate in materia di assemblea dei soci sembra essere preclusa dall’assenza della eadem ratio: mentre con riguardo ai soci si pone la necessità di scongiurare che gli stessi esercitino le proprie prerogative in vista di un interesse diverso da quello della società (che gli stessi sono chiamati a perseguire, se del caso anteponendolo al proprio interesse particolare, in virtù delle obbligazioni assunte con la sottoscrizione del contratto sociale), i creditori sono chiamati – ben diversamente – a valutare la convenienza della proposta, senza essere stretti dal vincolo dell’os­servanza di alcun interesse terzo. In questo caso, infatti, non vi è alcuna comunione di scopo, ma unicamente un vincolo obbligatorio assunto dal debitore che, una volta divenuto tale, ha accettato di potersi liberare soltanto mediante l’esatto adempimento o, comunque, mediante una prestazione che il creditore reputi, nell’esercizio della propria discrezionalità (e fermo il principio maggioritario insito nella procedura di concordato), idoneo a raggiungere lo scopo.

La possibilità di applicare il conflitto d’interessi al creditore di società in concordato preventivo è stata invece propugnata da altra parte della dottrina, sia pur con accenti diversi [36].

Va detto tuttavia che quand’anche si volesse accogliere questa impostazione (minoritaria e, allo stato, contrastante con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità), non se ne potrebbe comunque trarre la conclusione dell’esclusione tout court dal voto del creditore in conflitto, essendo invece necessario procedere al suo inserimento in una classe separata [37].

Questa soluzione è confortata dallo stesso (controverso e, per vero controvertibile) “parallelo” con l’art. 2373 c.c., il quale circoscrive l’esclusione dal voto alla ipotesi tassative di cui al secondo comma (che fa divieto agli amministratori di votare nelle deliberazioni concernenti la propria responsabilità e ai componenti del consiglio di gestione di votare nelle deliberazioni concernenti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza), limitandosi a prevedere – per il caso di delibera assunta in conflitto d’interessi – la mera annullabilità della stessa, a condizione che il voto in conflitto sia risultato determinante e che la delibera sia idonea ad arrecare danno alla società.

Inoltre – com’è stato osservato – «se il creditore in conflitto ha interesse alla non approvazione del concordato e, quindi, vota in senso contrario, l’eventuale inserimento in una classe separata gli consentirebbe, in sede di omologazione, di sottoporre al tribunale anche il giudizio di convenienza sulla proposta concordataria, trattandosi di creditore appartenente ad una classe dissenziente (artt. 129, comma 5 e 180, comma 4, l. fall.). Diversamente, se gli viene rifiutato il voto, potrà solo chiedere al tribunale una verifica sulla regolarità della procedura» [38].

Del resto, l’esclusione pura e semplice del creditore controinteressato dal computo delle maggioranze si tradurrebbe, a ben vedere, in una compressione del diritto di credito difficilmente giustificabile: laddove davvero si sostenesse che il semplice fatto di essere portatore di un interesse ulteriore privi il creditore del diritto di esprimersi sulla proposta concordataria, si rischierebbe infatti d’incorrere in censure d’incostituzionalità per violazione dell’art. 42 Cost.

Del tutto minoritaria – e invero comprensibilmente – è infine quell’opi­nione (come si diceva pressoché isolata), la quale, facendo riferimento alla questione del conflitto d’interesso, ha affermato che, «nell’ambito del concordato preventivo, il voto espresso da un creditore totalmente controllato dalla società proponente ed altresì ammesso ad un concordato preventivo subordinato all’omologa di quello della società controllante, rappresenta una forma di abuso di voto in violazione dei principi di correttezza e buona fede che, ai sensi degli articoli 1175 e 1375 c.c., disciplinano ogni esplicazione dell’autonomia dei privati» [39]. Come si vede, peraltro, il predetto assunto è riferito alla peculiare fattispecie del controllo totalitario del proponente sulla società creditrice: fattispecie – questa – che sembra ricadere, più che nella generica situazione di conflitto d’interessi – nel caso di cui all’art. 127, comma 6, l. fall., disposizione speciale (dettata in materia di concordato fallimentare, ma talora ritenuta applicabile anche al concordato preventivo) che esclude dal voto le società del gruppo.

Alla stregua dei rilievi che precedono, pare oggettivamente arduo predicare l’esclusione tout court dal voto dei creditori contestati che ipoteticamente versino in conflitto d’interessi, proprio in ragione dell’assai dubbia configurabilità di questa fattispecie nell’ambito del concordato preventivo.

 

5. L’approvazione del concordato

Rispetto al passato, quando la legge richiedeva, ai fini dell’approvazione della proposta di concordato, una doppia maggioranza, per numero (la maggioranza dei votanti) e per importo (i due terzi dei crediti ammessi al voto), l’attuale disciplina risulta, da un lato, più semplice, non essendo più richiesta la maggioranza del creditori per numero [40], dall’altro, nell’ipotesi in cui i creditori siano stati suddivisi in classi, più articolata.

Il concordato – recita oggi l’art. 177 – è approvato se riporta il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto [41]. Sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze il coniuge del debitore, i suoi parenti e affini fino al quarto grado, i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno prima della proposta di concordato.

Evidentemente il legislatore, con il predetto divieto (peraltro non nuovo), ha inteso eliminare la possibilità che la volontà del ceto creditorio possa risultare in qualche modo inquinata dagli interessi di quei soggetti che intrattengano particolari rapporti personali con il debitore, i quali potrebbero esprimere il proprio acritico consenso o direttamente o a mezzo di soggetti appositamente interposti, con riferimento ai quali (se la cessione è avvenuta nell’arco temporale indicato dalla legge) opera una sorta di presunzione assoluta di simulazione [42].

Il precetto in parola sembra potersi estendere anche ai parenti ed affini di soci illimitatamente responsabili di società di persone [43], mentre la giurisprudenza ne esclude l’applicazione ai congiunti di soci ed amministratori di società di capitali [44]. Pacifico è che il divieto non si applichi al coniuge, parente o affine che si sia surrogato al creditore estraneo per effetto dell’a­dem­pimento di una garanzia personale, trovando applicazione l’art. 1949 c.c.

I creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca per i quali la proposta concordataria preveda il pagamento integrale non hanno diritto al voto, ancorché la garanzia sia contestata, a meno che rinuncino al diritto di prelazione. Tale rinuncia, che può essere anche parziale (purché non inferiore alla terza parte dell’intero credito fra capitale ed accessori), ha effetto ai soli fini del concordato, sicché, se il concordato non va a buon fine, la prelazione può essere fatta valere nel successivo fallimento.

Qualora i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca rinuncino in tutto o in parte alla prelazione, per la parte del credito non coperta da garanzia sono assimilati ai creditori chirografari.

Questa la disciplina positiva riguardo ai creditori privilegiati alla stregua della riforma del 2005. Come si è detto diffusamente in precedenza, peraltro, non era affatto certo, alla luce del complesso di disposizioni introdotte dal d.lgs. n. 5/2006 (segnatamente quelle sul concordato fallimentare e sulla transazione fiscale), che i titolari di crediti assistiti da prelazione dovessero venire soddisfatti integralmente. Al contrario, sembrava già in allora doversi ammettere che la proposta di concordato potesse prevedere il sacrificio di detti creditori – opzione recentemente avallata dal decreto correttivo del 2007 –, con il che occorreva rendere compatibile con tale ipotesi il disposto del previgente art. 177, comma 3; ed il solo modo per farlo pareva essere quello di ammettere al voto i creditori privilegiati le cui pretese fossero oggetto di falcidia, considerandoli, quoad effectum, alla stregua di creditori chirografari.

Il punto veniva messo in luce, in dottrina, muovendo dal corretto presupposto che la ragione giustificatrice della privazione del diritto di voto risiede nell’indifferenza del creditore rispetto all’esito del concordato. «Poiché normalmente – si è affermato – tale situazione corrisponde alla dicotomia chirografari/privilegiati, la norma è stata formulata con riguardo appunto alla natura del credito, e non al suo trattamento all’interno del piano concordatario» [45].

Sulla scorta di ciò, la possibilità di sottoporre a falcidia anche i privilegiati induceva a ritenere che «la situazione di fatto prevista dall’art. 177, terzo comma, che fa scattare la privazione del diritto di voto, non si verifica quando la proposta preveda che i creditori con prelazione vengano soddisfatti: a) in misura non integrale; b) benché integralmente, con forme diverse dal denaro; c) oppure, benché integralmente ed in denaro, a scadenza differita« [46] (salva l’eventualità in cui sia prevista la corresponsione di interessi, idonea ad impedire che il credito possa effettivamente reputarsi falcidiato), con la conseguenza per cui, già alla stregua delle riforme del 2005 e del 2006, restavano esclusi dal voto i soli privilegiati per cui sia previsto il pagamento integrale, immediato ed in denaro; vale a dire per gli unici soggetti che possono dirsi realmente indifferenti rispetto all’esito della procedura.

Al contrario, apparivano (ed appaiono tuttora) legittimati al voto tutti i privilegiati nella misura in cui le loro pretese creditorie vengano in qualche modo scarificate, sul piano quantitativo o temporale; il che amplia notevolmente i margini di manovra dell’imprenditore rispetto alla formulazione di una proposta potenzialmente idonea a riscuotere l’approvazione della maggioranza del ceto creditorio. A rigore, infatti, parrebbe sufficiente sottoporre i privilegiati un sacrificio meramente apparente (quale, ad esempio, la dilazione per un tempo minimo, senza corresponsione di interessi) per assicurarsi, oggi come allora, un buon numero di consensi in adunanza [47].

E tale soluzione è stata infine espressamente adottata dal legislatore con il d.lgs. del 2007, disponendo ora il terzo comma dell’art. 177 che i creditori muniti di prelazione per i quali non sia prevista la soddisfazione integrale «sono equiparati ai chirografari per la parte residua del credito».

Tale norma, oltre a sancire espressamente il diritto di voto dei privilegiati soggetti a falcidia, sembra peraltro dettare un’indicazione ulteriore, operando la loro piena assimilazione ai chirografari per la porzione di credito oggetto di sacrificio; il che, tuttavia, non appare coerente né sotto il profilo del trattamento economico, né sotto quello della misura in cui va computato ciascun voto.

Ed invero, mentre nel caso di parziale rinunzia alla prelazione si realizza effettivamente lo scadimento a chirografo di una parte del credito (con la conseguenza che esso varrà soddisfatto per l’intero nella frazione coperta da garanzia ed in percentuale per quanto riguarda la porzione oggetto di rinuncia), diversamente, quando il sacrificio sia imposto dal piano concordatario, «non si ha il pagamento integrale di una parte del credito, ma si ha invece un pagamento in percentuale del tutto», con la conseguenza che «non sono individuabili una parte soddisfatta integralmente ed una parte non soddisfatta per nulla, ma solo un credito che viene decurtato» [48].

La questione, peraltro, non è nuova, ma si era proposta già all’indomani delle riforme del 2005 e del 2006, quando, dovendosi stabilire un criterio per il calcolo del voto dei privilegiati assoggettati a falcidia, si era individuata quale norma di riferimento l’art. 177, comma 4, allora vigente, attinente proprio all’ipotesi del soggetto che rinunci volontariamente in tutto o in parte alla prelazione. Essa disponeva (non diversamente dall’attuale terzo comma) l’assimilazione di costui ai chirografari per la parte di pretesa non più coperta dalla privilegio; assimilazione, questa, che appare quanto mai opportuna posto che il creditore rinunciatario è destinato a ricevere il pagamento integrale ed immediato della parte di credito ancora assistita da prelazione (con riferimento alla quale egli non eserciterà il diritto di voto), mentre per la frazione scaduta a chirografo otterrà la percentuale prevista per la generalità dei chirografari (o per la classe nella quale verrà eventualmente inserito), acquisendo altresì il diritto di voto per l’importo corrispondente.

Già in passato, prendendo le mosse da tale indicazione, si era sostenuto che, nell’ipotesi di credito privilegiato sottoposto a falcidia dalla proposta del debitore, al creditore spetterebbe il diritto di voto per la sola percentuale non corrisposta [49]. Senonché tale impostazione nasconde «un difetto di fondo, e cioè non considera che in caso di pagamento parziale del creditore privilegiato (ad esempio al 90%) non si ha uno sdoppiamento del credito, di cui una parte (90%) rimane privilegiata, ed una parte (10%) diventa chirografaria, per cui è assurdo legittimare il voto solo per il 10% del credito; il realtà il credito viene assoggettato alla falcidia nella sua totalità, per cui il titolare dovrebbe votare per l’intero ammontare del suo diritto (…). Non v’è motivo di ritenere che i privilegiati possano votare solo per la quota di capitale pregiudicata, tanto più che tale importo (corrispondente, nell’esempio di prima, al 10%) è perso definitivamente e non viene invece parificato ai creditori chirografari, per essere pagato nella percentuale di questi ultimi. Ben diversa è la situazione di rinuncia volontaria a parte del privilegio (art. 177, co. III e IV): in questo caso una parte del credito rimane privilegiata e viene pagata nella percentuale concordataria; per questo motivo il voto spetta per la parte rinunciata. Diversamente ragionando si dovrebbe ammettere che i chirografari dovrebbero essere ammessi al voto non per l’intero ammontare del loro credito, ma solo per la parte pregiudicata dal piano di concordato (se la proposta prevedesse il pagamento dei creditori chirografari al 40%, solo per un importo pari al 60% del loro credito dovrebbero essere ammessi al voto i chirografari)» [50].

Tali rilievi, tuttavia, non hanno trovato spazio nel decreto correttivo, che ha recepito la soluzione opposta della parziale equiparazione ai chirografari; soluzione, questa, che sembra tuttavia foriera di inconvenienti assai rilevanti, posto che non si ha qui una parte residua del credito, ma unicamente una porzione non soddisfatta, mentre il voto va espresso – esattamente come accade per il chirografari sull’intero credito, con la conseguenza che “la limitazione del voto” – apparentemente disposta dal decreto correttivo – «alla parte del credito non soddisfatta può (…) avere degli effetti aberranti, che non si verificherebbero invece se il prelazionario non soddisfatto integralmente potesse votare per l’intero» [51].

Resta poi da chiedersi se i privilegiati assoggettati a falcidia debbano necessariamente formare una o più classi a sé, o possano piuttosto essere confusi con la massa dei chirografari. Pur in assenza di un’indicazione normativa univoca, va probabilmente preferita la prima soluzione, in quanto idonea a soddisfare il requisito secondo cui le diverse classi devono essere costituite tenendo conto della posizione giuridica dei componenti (art. 160, lett. c), nonché a consentire una più pregnante tutela dei privilegiati, dal momento che il dissenso della relativa classe impinge sul raggiungimento della maggioranza per classi di cui all’art. 177, comma 2 (mentre, prima della riforma del 2007, era sufficiente il parere negativo anche di una sola classe, pur dinanzi all’approvazione della maggioranza dei votanti, per determinare la reiezione della proposta, salva la possibilità di cram dawn da parte del tribunale) [52].

La suddetta disposizione implica rilevanti conseguenze proprio in sede di votazione, che merita analizzare sia alla luce della disciplina previgente sia sulla base delle innovazioni introdotte dal decreto correttivo.

Ove siano previste diverse classi di creditori il concordato era approvato – recitava la seconda parte del primo comma del previgente art. 177 – se riportava il voto favorevole dei creditori che rappresentassero la maggioranza dei crediti ammessi al voto nella classe medesima.

Per l’ipotesi, poi, in cui vi fossero una o più classi dissenzienti, il secondo comma della norma stabiliva che il tribunale poteva ciò malgrado approvare il concordato; ma perché questa approvazione “coatta” avesse luogo (si tratta – come noto – dell’istituto che negli Stati Uniti va sotto il nome di cram down) era richiesta la compresenza di tre condizioni: (i) che fosse stata conseguita “la maggioranza di cui al primo comma” (ii) che la maggioranza delle classi avesse approvato la proposta di concordato e (iii) che il tribunale ritenesse che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti potessero risultare soddisfatti dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.

Quanto alla condizione sub (i), il riferimento alla maggioranza di cui al primo comma dell’art. 177 non era, obiettivamente, dei più perspicui e difatti ha dato luogo a due opposte letture. La soluzione secondo la quale sarebbe bastato, al fine dell’approvazione, «la maggioranza numerica delle classi» [53] non appariva tuttavia condivisibile, dal momento che la richiamata disposizione postulava chiaramente il superamento della metà del “monte crediti” complessivo [54]; anche perché, diversamente opinando, si sarebbe la via alla possibilità di formare le classi in maniera artificiosa onde ottenere l’approvazione con una percentuale irrisoria di consensi [55].

La soluzione qui condivisa, del resto, risultava coerente con la funzione attribuita al tribunale, consistente nel verificare che, fermo il requisito della maggioranza dei crediti, non venisse arrecato un ingiustificato pregiudizio alle classi dissenzienti, di regola quelle più sacrificate dalla proposta concordataria [56].

Merita ancora precisare che l’organo competente alla verifica del conseguimento della prescritta maggioranza era (ed è), in base all’art. 180, com­ma 4, il Tribunale, anche se il persistente obbligo del giudice delegato di riferire al Tribunale in caso di mancata approvazione del concordato (frutto dell’omessa abrogazione dell’art. 179) induce a configurare una prima delibazione, pur non definitiva, in capo appunto al giudice delegato [57].

La condizione sub (ii) non poneva particolari problemi interpretativi.

Per ciò che attiene alla condizione sub (iii), essa attribuiva al tribunale una valutazione prognostica basata sulla simulazione degli effetti scaturenti dalle alternative in concreto praticabili.

Riguardo a quest’ultima espressione, si era sollevato l’interrogativo se il legislatore avesse inteso alludere, oltre che al fallimento, «alle alternative per i creditori derivanti da una diversa suddivisione in classi o dall’aboli­zione delle classi» [58]; anche se la sensazione è che il riferimento sia, piuttosto, alle alternative rispetto alla soluzione concordataria (intesa in astratto e non come in effetti prospettata) e quindi, essenzialmente, alla liquidazione fallimentare.

Quanto poi al fatto che il controllo del tribunale avesse qui ad oggetto la convenienza del concordato, un autore ha affermato che, in ragione dell’ambiguità e dell’incertezza ritenute insite nella valutazione previsionale in parola, «tale giudizio comparativo mostra di stagliarsi dalla tradizionale categoria della convenienza, che lascia ora spazio ad una ricostruzione virtuale del trattamento» [59]; al che si è persuasivamente replicato che il problema si pone nondimeno in termini di convenienza, atteso che «quanto conseguibile nel concordato, quand’anche consista nell’attribuzione di azioni della società assuntrice e quindi nella speranza di utili o di monetizzazione delle partecipazioni nell’impresa sostanzialmente risanata con la cancellazione dei debiti, è pur sempre comparabile con quanto teoricamente conseguibile nell’alternativa concretamente praticabile, cioè nella liquidazione concorsuale, che per i creditori chirografari può essere pari a zero» [60].

Su tale sistema ha peraltro fortemente inciso il decreto correttivo del 2007, che, prendendo le distanze dai risultati cui avevano condotto i primi due anni di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sull’istituto, ha riscritto integralmente l’art. 177 e, in particolare, il secondo comma, che ora dispone che, ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se la maggioranza dei crediti ammessi al voto «si verifica inoltre nel maggior numero di classi».

È venuto meno, quindi, sia il meccanismo del cram down (per lo meno in prima battuta) sia l’espresso rimando al primo comma, con la conseguenza che, nel caso di divisone in classi, non sembra oggi più necessario il consenso della maggioranza assoluta dei crediti [61], risultando al contrario sufficiente l’assenso manifestato dalla maggioranza delle classi, senza che il dissenso di una o più di esse imponga al tribunale una valutazione circa le alternative praticabili.

Il nuovo sistema, evidentemente ispirato a principi di semplificazione e di favor per il debitore istante, non sembra tuttavia andare indenne da critiche, soprattutto nella parte in cui sembra consentire che, tramite un abile strutturazione delle classi, l’imprenditore possa ottenere l’obiettivo che un esiguo gruppo di creditori si riveli capace di decidere le sorti del concordato, vincolando al proprio volere anche l’eventuale maggioranza contraria.

Gli unici strumenti atti ad impedire condotte finalizzate al raggiungimento di maggioranze di comodo paiono, da un lato, il controllo sulla corretta formazione delle classi che il tribunale continua ad esercitare ai sensi dell’art. 163 e, dall’altro, la possibilità, per ciascun creditore, di opporsi al­l’omologa.

Il decreto correttivo ha infatti previsto, al quanto comma dell’art. 180, che, in caso di proposta concordataria che contempli la suddivisione in classi del ceto creditorio, i singoli soggetti dissenzienti possono opporsi al­l’omologazione, vincolando il tribunale ad un provvedimento reiettivo del­l’istanza del debitore, salvo che si accerti che l’opponente viene effettivamente soddisfatto dal piano «in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili».

Pertanto, pur eliminato dalla fase dell’approvazione, il meccanismo del cram down viene ora ad inserirsi nella cornice del giudizio di omologa, senza che peraltro ciò comporti una mera inversione nell’ordine procedurale, ma determinando chiari effetti sul piano sostanziale, indiscutibilmente volti ad incentivare il debitore al ricorso alla soluzione concordataria.



*Il presente contributo è destinato a far parte del saggio monografico Il concordato preventivo, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Vassalli, Luiso e Gabrielli, in corso di stampa per i tipi dell’Editrice Giappichelli.

[1] Cfr. Caffi, Il concordato preventivo, in Il diritto fallimentare riformato, a cura di Schiano di Pepe, Padova, 2007, p. 643.

[2] Per i termini del dibattito e gli opportuni riferimenti v. Ivone, Sul problema della modificabilità della proposta di concordato preventivo: natura sostitutiva o integrativa del nuovo decreto di ammissibilità?, in Giur. comm., 1995, II, p. 84.

[3] Incerto rispetto alla soluzione da adottare Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare, Torino, 2005, p. 103.

[4] Opzione codificata nell’ordinamento tedesco dal § 240 dell’Insolvenzordnung.

[5] Secondo Cassandro, Deliberazione del concordato preventivo, in Cassandro-Ceschel-Nicita-Norelli, Il concordato preventivo, in Apice (diretto da), Trattato delle procedure concorsuali, vol. III, Torino, 2011, p. 359, «le modifiche della proposta poss(o)no essere introdotte anche direttamente nel corso dell’adunanza, fino a quando il giudice delegato, esaurita la discussione e decise le eventuali questioni sulla legittimazione al voto, non dichiari aperta la votazione».

[6] Demarchi, L’approvazione del concordato, in Ambrosini-Demarchi-Vitiello, Il concordato preventivo e la transazione fiscale, Bologna, 2009, p.165.

[7] Quanto allo spirare di tale termine, sembra preferibile, in assenza di una specifica disposizione normativa a riguardo,  che esso scada alla mezzanotte del ventesimo giorno successivo all’adunanza, giacché « l’ufficio del commissario giudiziale, dotato di fax non sottostà ad alcun vincolo se non quello delle ore ventiquattro dell’ultimo giorno utile» così Demarchi, L’approvazione del concordato, in Ambrosini-Demarchi-Vitiello, op. cit., p.165.

[8] La disposizione in parola, nel fare riferimento esclusivo alla «maggioranza dei crediti», non chiarisce se le intenzioni espresse per corrispondenza debbano essere altresì calcolate nella formazione delle maggioranze interne ad ogni singola classe; quesito, questo, al quale sembrerebbe doversi dare risposta affermativa, anche al fine di non vanificare la possibilità di manifestare il consenso a distanza ogniqualvolta la proposta concordataria preveda la divisione del ceto creditorio in un certo numero di sottoinsiemi omogenei.

[9] In questo senso Bozza, Il vecchio, l’attuale e il (forse) prossimo art. 173, ult. parte, della legge fallimentare, in Fallimento, 2007, nt. 11, secondo cui «una volta forniti i mezzi per informare gli interessati, questi sono liberi di determinarsi come meglio credono dal momento che si discute di diritti disponibili e di soggetti in piena capacità. Peraltro non è detto che il creditore che non partecipi all’udienza non esprima un voto consapevole, potendo egli essere un soggetto che, senza attendere la relazione del commissario, sia in grado, o per scienza diretta o con l’aiuto di suoi professionisti, di valutare la bontà e fattibilità del piano o, comunque di valutare che il concordato sia la soluzione preferibile rispetto al fallimento per motivi non sindacabili. Del resto, l’art. 178 (...) continua a ritenere validi i voti pervenuti nei venti giorni successivi all’adunanza – che, oggi, non richiedendo più l’art. 177 la maggioranza numerica dei creditori votanti, potrebbe anche essere andata deserta – e non è posto come condizione che il votante tardivo abbia partecipato alla stessa, né che abbia esaminato il verbale di udienza o visionato la relazione del commissario, né che abbia in qualche modo avuto notizia del contenuto di tali atti, per cui non è possibile distinguere, quanto a consapevolezza, tra chi vota prima o vota dopo l’assemblea; e ciò a tacere del fatto che la partecipazione all’adunanza assicura solo presuntivamente l’informazione, potendo il creditore, pur presente, non aver seguito o capito il dibattito o non aver esaminato la relazione del commissario». In senso parzialmente difforme v. Trib. Milano (decr.), 20 aprile 2007, Computer Support Italcard s.r.l. in liquidazione in c.p.c. Società Italiana Autori ed Editori, inedita, ove si evidenzia che la manifestazione di voto effettuata prima dell’adunanza dovrebbe ritenersi non informata e, come tale, non valida, sicché tali intenzioni necessiterebbero di una successiva conferma.

[10] Così Demarchi, L’approvazione del concordato, in Ambrosini-Demarchi-Vitiello, op. cit., p. 167. Si è altresì prospettata l’ipotesi, per vero non prevista, che il consenso venga esternato addirittura «prima della presentazione della proposta di concordato, così facilitando soluzioni rapide della crisi e aumentando la prevedibilità del loro esito», a condizione che il creditore specifichi il progetto cui intende aderire (per lo meno per quanto attiene alla classe di appartenenza) e che essa sia poi puntualmente recepita dalla domanda ex art. 160, non potendosi reputare valido il consenso reso in forma del tutto indeterminata od avente ad oggetto un piano non recepito dal debitore. Così Stanghellini, L’approvazione dei creditori nel concordato preventivo: legittimazione al voto, maggioranze e voto per classi, in Fallimento, 2006, p. 1065, secondo cui «la raccolta dei consensi anticipati potrebbe facilitare la diffusione della prassi degli accordi preconfezionati (prepackaged bancruptcy), da estendere ai dissenzienti previa loro consultazione, mediante concordato preventivo»; risultato, questo, che non è invece perseguibile attraverso l’omologa di un accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis, come evidenziato, tra gli altri, da Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Banca, borsa, tit. cred., 2006, I, p. 16.

[11] Con riferimento alle procedure aperte nel periodo compreso tra il marzo 2005 (emanazione del d.l. n. 35) ed il luglio 2006 (entrata in vigore della riforma organica del fallimento) si riteneva che, in tale evenienza, il tribunale dovesse disporre la convocazione del debitore in vista della dichiarazione di fallimento, a meno che questi non fosse già stato sentito a detti fini in precedenza, nel qual caso il fallimento poteva essere pronunciato direttamente.

[12] Cassandro, op. cit., 397.

[13] Ambrosini, La domanda di concordato preventivo, l’ammissione alla procedura e le prerogative del tribunale, in La riforma della legge fallimentare. Profili della nuova disciplina, a cura di Ambrosini, Bologna, 2006, p. 325, nota 4.

[14] In argomento, tra i contributi più recenti, v. Piazzola, Le nuove regole sul voto nel concordato preventivo, in Fallimento, 2013, p. 549.

[15] Cfr. Sacchi, Il concordato preventivo (Tavola rotonda), in AA., Il nuovo diritto delle crisi di impresa, a cura di Jorio, Milano, 2009, p. 54; contra Filocamo, Sub art. 177, inLa legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, a cura di Ferro, Padova, 2011, p. 2015.

[16] Così Cass., 3 agosto 2007, n. 17059, in Fallimento, 2008, p. 358.

[17] Cass., 26 luglio 2013, n. 13284, in IlCaso.it, I, p. 9583, cui adde, nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 9 febbraio 2011, ivi, I, p. 2921; App. Firenze, 18 ottobre 2012, ivi, I, p. 7993.

[18] Filocamo, Sub art. 176, inLa legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, a cura di Ferro, cit., p. 1321, osserva che «all’adun[anza] possono partecipare anche coloro che, pur non inseriti nell’elenco predisposto dal deb[itore] e verificato dal c[ommissario] g[iudiziale], ritengano di vantare nei confronti del deb[itore] crediti che li legittimano a votare la proposta concordataria».

[19] Audino, Sub art. 176, inCommentario breve alla legge fallimentare, a cura di Maffei Alberti, Padova, 2009, p. 1007.

[20] Pacchi, L’adunanza dei creditori, AA.VV., Il nuovo concordato prevenivo. Dallo tato di crisi agli accordi di ristrutturazione, Milano, 2005, p. 208, cui adde, in giurisprudenza, Trib. Ancona, 8 novembre 2007, in Fallimento, 2008, p. 347.

[21] Filocamo, Sub art. 176, cit., p. 1323.

[22] Secondo Trib. Novara, 20 marzo 2013, in IlCaso.it, i provvedimenti di ammissione o esclusione dal voto «hanno forma di decreto e possono essere revocati o modificati dallo stesso Giudice Delegato fino alla chiusura delle operazioni di voto, ciò significando che, esaurite le operazioni di voto e chiusa l’adunanza dei creditori, il quorum per il calcolo de le maggioranze si cristallizza (seppure in via provvisoria) e non è più modificabile dal Giudice Delegato».

[23] La circostanza che il provvedimento del giudice delegato sia inidoneo a incidere su diritti soggettivi (non pregiudicando l’accertamento della posta), induce a ritenere che non siano possibili ulteriori mezzi d’impugnazione, dovendosi in particolare escludere il ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111 Cost. (cfr. Filocamo, Sub art. 176, cit., p. 1323).

[24] App. Napoli, 6 agosto 2013, in Ilcaso.it, I, p. 9508, ha rilevato che «non v’è alcuna norma che imponga ai creditori non ammessi – ovvero ammessi per un importo inferiore a quello da loro vantato – nell’elenco dei creditori presentato dal debitore che abbia proposto il concordato, come eventualmente rettificato dal commissario giudiziale ai sensi dell’art. 171, co. 1, l.f., di contestare tale indicazione prima della chiusura dell’adunanza dei creditori».

[25] Trib. Terni, 7 novembre 2013, in Ilcaso.it, I, p. 9681.

[26] De Cicco, Sub art. 176, inCommentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, Milano, 2010, p. 686.

[27] Cass., 10 febbraio 2011, n. 3274, in Ilcaso.it.

[28] Cass., 12 dicembre 2005, n. 27387, in Giur. comm., 2007, II, p. 86.

[29] Nel medesimo senso, tra i contributi più recenti, Trentini, I concordati preventivi, Milano, 2014, 413 ss., il quale riscontra “un errore concettuale abbastanza evidente, ancorché diffuso: quello secondo cui il principio maggioritario si fonderebbe su un preteso interesse generale e collettivo comune a tutti i creditori, giustificato dal regime della concorsualità. Ma non vi è alcuna comunanza d’interessi tra i creditori concorrenti. Le procedure concorsuali sono, per antonomasia, il campo di battaglia in cui si scontrano gli interessi individuali, il bellum omium contra omnes: e questo è indiscutibile se si considera che la prospettive di soddisfazione del singolo creditore sono inversamente proporzionali al riconoscimento dei diritti degli altri creditori: nel fallimento (come nel concordato) la lite reale è tra i creditori, il rapporto tra i creditori è regolato dal canone homo homini lupus, non vi è alcun interesse comune dei creditori; anzi, gli interessi sono antagonistici, per definizione. Ciò che giustifica il principio maggioritario è unicamente la regola per cui, per poter assumere una qualsiasi deliberazione, in una comunità (se non si attribuisce la prevalenza secondo criteri autoritari) non vi è praticamente altro sistema se non quello di riconoscere il potere della maggioranza. E le procedure concorsuali non fanno eccezione”.

[30] Cass., 10 febbraio 2011, n. 3274, cit.

[31] Cass., 10 febbraio 2011, n. 3274, cit.

[32] C. cost., 22 aprile 1986, n. 102, in Dir. fall., 1986, II, p. 177.

[33] Cass., 10 febbraio 2011, n. 3274, cit.

[34] Trib. Reggio Emilia, 1° marzo 2007, in Ilcaso.it, cui adde, più di recente, Trib. Mantova, 7 marzo 2013, ivi, secondo cui «il socio accomandante di società in accomandita semplice ammessa al concordato preventivo, s creditore della società, può essere ammesso al voto non operando la previsione dell’art. 177 ult. co. L.F. che costituisce norma eccezionale soggetta ad interpretazione restrittiva, non suscettibile di interpretazione analogica»; nonché Id., 11 aprile 2013, ivi, il quale ha rilevato che, «nel concordato preventivo con classi, i creditori che appartengono alla classe composta dai crediti di rimborso dei soci per finanziamenti a favore della società postergati ai sensi dell’art. 2467 c.c. devono essere ammessi al voto, atteso che i crediti di cui sono titolari dono anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per concordato, ed esigibili, non trovando applicazione nella specie l’esclusione di voto prevista dal­l’art. 177, comma 4, L.F., che è norma eccezionale, soggetta ad interpretazione restrittiva, non suscettibile di interpretazione analogica».

[35] Cfr., tra gli altri, Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, p. 724; Manferoce, Sub art. 177, in Lo Cascio (diretto da), Codice commentato del fallimento , Milano, 2008, p. 1558; Pajardi, Codice del fallimento, Milano, 2009, p. 1457; Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, p. 412; Canale, Il concordato preventivo a cinque anni dalla riforma, in Giur. comm., 2011, I, p. 372.

[36] Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, Bologna, 2007, p. 223; Sacchi, Concordato preventivo, conflitto di interessi fra creditori e sindacato dell’autorità giudiziaria, in Fallimento, 2009, p. 32 ss.; Fabiani, Contratto e processo nel concordato fallimentare, Torino, 2009, p. 212 ss.

[37] Sacchi, op. ult. cit. p. 33, Fabiani, Brevi riflessioni su omogeneità degli interessi ed obbligatorietà delle classi nei concordati, in Fallimento, 2009, p. 441.

[38] D’Attorre, Il voto nei concordati ed il conflitto d’interessi fra creditori, in Fallimento, 2012, p. 766, cui adde Finardi, Le modifiche al regime di voto nel concordato preventivo e le conseguenze sui crediti postergati (riflessioni sul d.l. 83/2012 convertito, con modifiche, nella l. 134/2012), in Ilcaso.it, 2012, p. 11, il quale osserva che «la necessità nel concordato preventivo di includere il creditore in conflitto (postergato) in una classe autonoma ha l’effetto di immunizzare il suo voto rispetto al voto degli altri creditori non in conflitto» e «ciò costituisce un parallelismo con la soluzione contenuta nell’art. 2373 c.c., permettendo, nel caso ci fossero creditori dissenzienti in una classe dissenziente alla decisione ottenuta grazie alla maggioranza raggiunta con il voto della classe dei creditori postergati, di rimettere la stessa al controllo del Tribunale, ex art. 180 l.f.», con la conclusione che «prediligendo questa lettura si otterrebbe una coerenza del quadro normativo complessivo in quanto una situazione di conflitto d’interesse verrebbe disciplinata in modo analogo sia nel diritto societario che in materia concorsuale».

[39] Trib. Monza, 2 novembre 2011, in Ilcaso.it.

[40] Per un marchiano difetto di coordinamento, peraltro, tale maggioranza era ancora prevista dall’art. 178 (come riformulato in seguito alla riforma del 2005) relativamente alle adesioni pervenute per lettera o telegramma nei venti giorni successivi all’adunanza; ma la norma – com’è stato rilevato – «deve essere intesa nel senso che, non essendo più necessario raggiungere in adunanza la maggioranza per teste, i voti inviati successivamente sono comunque computati al fine del raggiungimento della maggioranza di solo capitale, ora sufficiente per l’approva­zione del concordato»: così Pacchi, L’adunanza dei creditori, cit., p. 217; nello stesso senso Gugliel­mucci, La riforma in via d’urgenza,cit., p. 104. E la stessa interpretatio abrogans vale per il riferimento alla doppia maggioranza di cui all’art. 179. Tali incongruenze sono peraltro state successivamente eliminate dal legislatore in sede di emanazione del decreto correttivo del 2007.

[41] Il chiaro favor mostrato dal legislatore verso l’istituto concordatario non ha fatto venir meno la necessità di ottenere la maggioranza dei consensi effettivamente espressi dai creditori, non essendo stata riproposta la diversa soluzione accolta dall’art. 4-bis, comma 8, d.l. n. 347/2003, come modificato dal d.l. n. 119/2004, convertito nella l. n. 166/2004, secondo cui «i creditori che non fanno pervenire il loro voto o che non si legittimano al voto (…) si ritengono favorevoli all’approvazione del concordato».

[42] Ravazzoni, Sub art. 177, inCommentario, diretto da Tedeschi, Torino, 1997, II, 4, p. 187.

[43] Cfr. Trib. Milano, 9 dicembre 1987, in Giur. comm., 1988, II, p. 609; Trib. Chieti, 5 settembre 1986, in Fallimento, 1987, p. 631; Trib. Prato, 16 febbraio 1982, in Dir. fall., 1982, II, p. 1126, i quali hanno sottolineato il carattere eccezionale della norma in parola; più sfumata la posizione di Pacchi, L’adunanza dei creditori, cit., p. 213.

[44] V. Trib. Chieti, 5 settembre 1986, cit.; Trib. Prato, 16 febbraio 1982, cit.; in dottrina Bonsignori, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare, Bologna-Roma, 1979, p. 369.

[45] Così Demarchi, Sub art. 177, in Ambrosini-Demarchi, Il nuovo concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2005, p. 125, il quale aggiunge che tale impostazione ha pure il pregio di colmare quelle lacune derivanti dall’avere la legge lasciato scoperte alcune ipotesi particolari: «Si pensi al caso – certamente non vietato – di concordato che preveda il pagamento integrale di una classe di chirografari (ad esempio i piccolissimi fornitori, che incidono in misura minima sui conti); applicando la regola generale, si dovrebbe ritenere che essi sono ammessi alla votazione, pur non essendo in alcun modo pregiudicati dal piano, ma la soluzione appare stridente con la ratio della norma, che è quella di consentire l’espressione di una volontà negoziale a coloro che in virtù del concordato vengono sacrificati nei loro diritti» (ivi, pp. 124-125).

[46] Così Stanghellini, L’approvazione dei creditori, cit., p. 1060. Nel vigore della disciplina ante riforma, infatti, la giurisprudenza aveva escluso l’ammissibilità non solo del pagamento in percentuale dei privilegiati, ma altresì del loro soddisfacimento non immediato (cfr. Cass., 26 novembre 1992, n. 12632, in Fallimento, 1993, p. 707; Cass., 17 novembre 1992, ivi, 507), sicché la previsione di una dilazione, oggi ammessa (per lo meno nei limiti evidenziati nel capitolo precedente), integra comunque una particolare categoria di falcidia, con la conseguenza che essa impone di riconoscere il diritto di voto a quanti ne siano colpiti.

[47] Una soluzione a tale inconveniente è stata offerta da chi ha affermato che solo il voto dei privilegiati soddisfatti in percentuale può essere computato ai fini del calcolo delle maggioranza, mentre per il caso in cui sia previsto un pagamento con mezzi diversi dal denaro o una dilazione, il consenso del privilegiato impingerebbe esclusivamente sulla fattibilità del piano e non anche sulla formazione delle maggioranze (Stanghellini, op. ult. cit., pp. 1061-1062). Verrebbero così ad introdursi due differenti tipologie di voto, secondo una distinzione che appare priva di sostrato normativo, dovendo piuttosto ritenersi che, ove ammesso, il voto del privilegiato sia valido a tutti gli effetti e quindi, in primis, ai fini della formazione della maggioranza.

[48] V. Demarchi, Prime considerazioni, in materia di concordato preventivo, sullo schema della riforma della riforma. Quale voto per i creditori privilegiati non soddisfatti integralmente?, in Quotidiano Giuridico/Ipsoa, 2007, 4.

[49] Panzani, La riforma delle procedure concorsuali. Il secondo atto, in www.ipsoa.it/ fallimento, 2006, p. 58; Perugini, La collocazione ed il soddisfacimento dei creditori privilegiati nel concordato preventivo, ivi, 2006, p. 11; Vitello, L’approvazione del concordato preventivo, relazione al convegno “La riforma della legge fallimentare: il nuovo concordato e gli accordi stragiudiziali”, Milano, 14-15 giugno 2005, ivi, 6; in giurisprudenza Trib. Modena, 13 aprile 2006, ivi.

[50] Così Demarchi, Sub art. 177, cit., pp. 125-126, nota 28; Giannelli, Concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti, piani di risanamento dell’impresa nella riforma delle procedure concorsuali. Prime riflessioni, in Dir. fall., 2005, p. 1163; Mandrioli, Il piano di ristrutturazione nel concordato preventivo tra profili giuridici e aspetti aziendalistici, in Fallimento, 2005, p. 1340.

[51] Cfr. Demarchi, Prime considerazioni, cit., p. 5, il quale, peraltro, evidenzia altresì come il problema sia destinato, nella pratica, ad assumere una rilevanza tutto sommato secondaria. Ed infatti, pur restando fermo che, «se si accede alla tesi che i privilegiati vengono pagati in percentuale, e nulla più, allora si dovrebbe ritenere che essi votino per tutto il credito, così come gli altri chirografari pregiudicati dal piano; val la pena però di osservare che in questo caso, essendo necessariamente inseriti i privilegiati in apposite classi, la percentuale di credito per cui è ammessa la votazione è indifferente, purché sia uguale per tutti i membri della classe. La questione assumeva rilevanza sotto il vecchio concordato, ove non erano previste le classi, per cui il differente peso del voto poteva influire sulle maggioranze per l’approvazione del concordato. Oggi, che i creditori sono raggruppati in classi (le quali approvano a maggioranza interna), la questione ha parso molta importanza; infatti i creditori privilegiati sia che votino per l’intero, sia che votino solo per la parte “residua” del credito, assumeranno comunque tutti lo stesso peso all’interno della singola classe».

[52] Al fine di chiarire meglio l’assunto, merita riportare l’esempio proposto da Stanghellini, L’approvazione dei creditori, cit., p. 1062, benché riferito alla normativa che prevedeva ancora il cram down. «Ipotizziamo che il debitore possieda un immobile di valore pari a euro 1.000.000, su cui sono iscritte cinque ipoteche: a) Banca 1, ipoteca contestuale per debito il cui capitale residuo è pari a euro 500.000; b) Banca 2, ipoteca giudiziale per debito pari a euro 300.000; c) Banca 3, ipoteca giudiziale per debito pari a euro 400.000; d) Banca 4, ipoteca giudiziale per debito pari a euro 100.000; e) Banca 2, ipoteca giudiziale per debito pari a euro 200.000.

È evidente che il valore dell’immobile compre integralmente solo le ragioni dei primi due creditori, copre solo per metà le ragioni del terzo creditore e non copre affatto le ragioni del quarto e del quinto creditore.

Il debitore potrebbe dividere i suoi creditori in cinque classi, formulando loro le seguenti proposte:

Classe A (Banca 1, Banca 2 + altri creditori con prelazione capiente): pagamento al 100%;

Classe B (Banca 3): pagamento al 65%;

Classe C (Banca 4, Banca 5): pagamento al 30%;

Classe D (chirografari bancari): pagamento al 30%;

Classe E) (chirografari comuni): pagamento al 35%.

In questo caso i creditori con ipoteca su bene incapiente potrebbero far sentire la loro voce votando come classi autonome contro la proposta, provocandone il rigetto o, qualora sussistano le altre condizioni per il cram down, imponendo al debitore e agli altri interessati l’onere di dimostrare che la proposta non arreca ai creditori della classe dissenziente alcun danno rispetto alle alternative concretamente praticabili».

[53] De Crescienzo-Panzani, Il nuovo diritto fallimentare, dal maxi emendamento alla legge. 80 del 2005, Milano, 2005, p. 47.

[54] E v. infatti Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza,cit., p. 105; Pacchi, L’adunanza dei creditori, cit., pp. 218-219; Bozza, L’organo deputato alla verifica della maggioranza nel nuovo concordato, in Fallimento, 2005, p. 803, nonché Demarchi, Sub art. 177, cit., pp. 116-117.

[55] «è ben vero – si è precisato – che al tribunale è consentito di verificare la correttezza dei criteri di formazione delle classi, ma la genericità dei presupposti (posizione giuridica e interessi economici omogenei) è tale per cui qualsiasi suddivisione è astrattamente giustificabile e il controllo giudiziale potrebbe nelle pratica rivelarsi niente più che una verifica formale» (Demarchi, op. loc. ult. cit., nota 3).

[56] Conforme Demarchi, op. ult. cit., p. 117.

[57] Tale aspetto è approfondito da Bozza, L’organo deputato,cit., p. 801 ss., il quale valorizza il ruolo del giudice delegato. Di segno opposto la decisione di Trib. Sulmona, 6 giugno 2005, cit., 793, che attribuisce la competenza al tribunale in composizione collegiale.

[58] Demarchi, Sub art. 177, cit., p. 118.

[59] Ferro, I nuovi strumenti di regolazione giudiziale dell’insolvenza e la tutela giudiziaria delle intese fra debitore e creditori: storia italiana della timidezza competitiva, in Fallimento, 2005, p. 593.

[60] Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza,cit., pp. 105-106, nota 60.

[61] Tuttavia, nel senso della persistente necessità che la proposta venga approvata dalla maggioranza assoluta dei creditori anche in caso di piano concordatario con divisione in classi depone il novellato art. 180, comma 1, che richiama le maggioranze di cui ai primi due commi dell’art. 177 in senso cumulativo e non – come sarebbe lecito attendersi – alternativo.



Scarica Articolo PDF