CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 04/08/2013 Scarica PDF
Appunti in tema di concordato con continuità aziendale
Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte OrientaleSommario: 1. La fattispecie; 2. Segue: la questione dell'affitto di azienda; 3. Le peculiarità del piano e della relazione dell'esperto nel concordato con continuità aziendale; 4. La moratoria del pagamento dei creditori privilegiati; 5. La prosecuzione dei contratti con la pubblica amministrazione; 6. La perdita del capitale; 7. La datio in solutum; 8. Il pagamento dei debiti pregressi; 9. Il rapporto con l'art. 2740 c.c.; 10. L'esecuzione del concordato in continuità.
1. La fattispecie
La novella del 2012, oltre ad aver innovato alcuni importanti aspetti della
disciplina del concordato preventivo, ha il merito di aver contribuito a
chiarire meglio il significato di termini che, in passato, erano stati talvolta
considerati meri sinonimi.
Oggi, la legge offre indici testuali inequivoci che consentono di distinguere
tra la domanda (da proporsi con ricorso), il piano e la proposta di concordato.
Ancorché nulla vieti d'inserire questi tre elementi in un unico documento, sul
piano logico essi costituiscono momenti distinti, tanto che nel caso di
concordato "con riserva" la domanda viene formulata prima del varo
del piano e della proposta.
Il legislatore ha altresì fornito - per la prima volta - la definizione del
piano (più precisamente, del suo contenuto): in forza dell'art. 161, 1° comma,
lett. e), esso deve recare la descrizione analitica delle modalità e dei tempi
di adempimento della proposta. Pertanto, nonostante lo stretto legame tra il
piano e la proposta, neppure essi coincidono: la seconda rappresenta l'offerta
di soddisfacimento prospettata ai creditori, il primo il programma attraverso
la cui esecuzione l'imprenditore in crisi si propone di onorare gli impegni
scaturenti dall'omologazione.
La migliore enucleazione della pluralità di aspetti nei quali si articola
l'iniziativa del debitore non si traduce in un limite all'autonomia privata: la
novella (in ciò confermando la precedente impostazione) si è astenuta dal
predeterminare le caratteristiche del percorso da sottoporre ai creditori,
confermando che l'elaborazione del concreto contenuto (economico e giuridico)
del piano e della proposta di concordato spetta al ricorrente, mentre compete
ai creditori valutarne il merito, anche sotto il profilo della convenienza. Di
qui l'affermazione - valida ancora oggi - che il piano e la proposta di
concordato non devono necessariamente potersi inscrivere in tipi
predeterminati: la relativa costruzione è, al contrario, tendenzialmente
libera, con conseguente possibilità di spaziare tra le forme del concordato per
cessione dei beni, in continuità, misto, con o senza garanzia, provvisto o meno
di un assuntore.
D'altro canto, pur senza comprimere lo spazio di manovra dell'imprenditore, il
legislatore ha posto due norme speciali, la cui applicazione discende dalla
peculiare tipologia di piano adottato: da un lato, il concordato per cessio
bonorum è regolato dall'art. 182 (che scatta "se il concordato consiste
nella cessione dei beni e non dispone diversamente"), dall'altro, quello
con continuità aziendale è disciplinato dall'art. 186-bis (il quale opera
"quando il piano di concordato di cui all'articolo 161, secondo comma,
lettera e) prevede la prosecuzione dell'attività di impresa da parte del
debitore, la cessione dell'azienda in esercizio ovvero il conferimento
dell'azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova
costituzione").
L'introduzione di questa seconda disposizione rappresenta una delle più
rilevanti novità della novella del 2012. Benché l'ampio tenore dell'art. 160
consentisse, già in passato, di ritenere ammissibile il concordato basato sulla
prosecuzione dell'attività d'impresa1, oggi esso trova - per la prima volta -
una specifica regolamentazione e una precisa definizione a livello normativo,
la quale presenta non poche affinità con l'impostazione propria della legge
Prodi-bis, in materia di amministrazione straordinaria. Come noto, infatti,
l'art. 27 d. lgs. n. 270/1999 stabilisce che il recupero dell'equilibrio
economico della attività imprenditoriali può avvenire tramite la
ristrutturazione economica e finanziaria dell'impresa (sulla base di un
programma di risanamento di durata non superiore a due anni) o, in alternativa,
tramite la cessione dei complessi aziendali (adottando un programma di
prosecuzione dell'esercizio dell'impresa di durata non superiore ad un anno).
Ebbene, anche l'odierna disciplina del concordato preventivo
declina la continuità aziendale in senso tanto soggettivo quanto oggettivo2:
essa, invero, sussiste sia che l'imprenditore prosegua l'attività in proprio3,
sia che egli proceda alla cessione del complesso produttivo a un soggetto
terzo, indipendentemente dalla forma di trasferimento, essendo ammessi la
compravendita come il conferimento (anche in una realtà di nuova costituzione).
In entrambi i casi trovano applicazione le regole di cui all'art. 186-bis, che
sembrerebbe fondare una disciplina ad applicazione necessaria.
Non può tuttavia sottacersi che il tenore della disposizione, ancorché
perspicua in astratto, rischia nondimeno di sollevare qualche difficoltà
interpretativa ogniqualvolta ci si confronti con la concreta costruzione del
piano, non sempre chiaramente improntato alla continuità aziendale come
alternativa "secca" alla liquidazione. Mentre non vi è dubbio che
l'art. 186-bis vada applicato quando l'imprenditore si proponga di proseguire
la medesima attività, servendosi dei cespiti ricompresi nel proprio patrimonio
(dei quali viene pertanto esclusa l'alienazione, in quanto strumentali
all'impresa) e destinando i proventi al soddisfacimento dei creditori, o quando
prospetti l'alienazione "in blocco" dell'azienda e la stessa
costituisca, nella sostanza, la totalità dell'attivo, meno certa è
l'attribuzione della qualità di concordato con continuità aziendale ove ci si
trovi al cospetto di un piano "misto", nel quale alla prosecuzione
dell'attività si affianchi la liquidazione dei beni estranei al perimetro
aziendale, che talvolta rappresentano la parte preponderante dell'attivo (come
accade quando nel patrimonio dell'imprenditore sia ricompresso un ampio
patrimonio immobiliare non strettamente strumentale all'attività d'impresa).
In altre parole, nell'ipotesi - non infrequente - di concordato misto si rende
necessario acclarare se vadano applicate le regole di cui all'art. 182, quelle
di cui all'art. 186-bis o entrambe.
Quest'ultima soluzione presta il fianco all'obiezione - difficilmente
superabile - che i regimi in esame presentano profili di contrasto che ne
rendono sostanzialmente impraticabile l'applicazione congiunta. Nel caso del
concordato per cessio bonorum, infatti, si prevede la nomina del liquidatore
giudiziario, superfluo nell'ipotesi di piano con continuità aziendale. Per
contro, quest'ultimo postula una peculiare costruzione del piano e un
significativo ampliamento dell'oggetto della relazione di attestazione, la
possibilità di prevedere la moratoria sui pagamenti ai privilegiati e la
prosecuzione dei contratti con le pubbliche amministrazioni; tutti elementi che
difficilmente possono trovare piena cittadinanza in uno scenario liquidatorio.
A tale stregua, non sembrano esservi alternative all'adozione della teoria dell'assorbimento
o della prevalenza, vale a dire di quel criterio ermeneutico che, nel caso di
contratto misto, conduce all'applicazione della disciplina dello schema
negoziale tipico al quale siano riconducibili gli elementi prevalenti, senza
peraltro escludere ogni rilevanza giuridica di quelli ulteriori4. Di
conseguenza, tutte le volte in cui la prosecuzione dell'attività d'impresa si
riveli funzionale alla liquidazione (come accade quando il temporaneo
mantenimento della rete commerciale sia strumentale all'alienazione della merce
presente in magazzino a condizioni più favorevoli, o quando la cessione
dell'azienda risulti ancillare - in termini qualitativi e quantitativi -
rispetto alla liquidazione atomistica della residua parte del patrimonio), non
vi è ragione per disapplicare le regole di cui all'art. 182, sicché dovrà
escludersi l'operatività dell'art. 186-bis, salvo che per quegli aspetti
comunque compatibili con la fattispecie concreta (in particolare, viene in
considerazione la disposizione di cui al secondo comma, lett. b), del predetto
articolo, in base al quale l'esperto è chiamato ad attestare la funzionalità
della continuazione aziendale al miglior soddisfacimento dei creditori). Al
contrario, laddove il piano sia incentrato sulla prosecuzione in proprio
dell'attività o sul trasferimento dell'azienda, il regime da osservare è quello
dell'art. 186-bis, salva la possibilità d'ipotizzare l'applicazione delle
modalità di vendita di cui all'art. 182 in relazione alla dismissione dei beni
non strumentali.
2. Segue: la questione dell'affitto di azienda
Uno dei problemi più controversi, date anche le sue implicazioni di ordine
pratico, attiene alla riconducibilità dell'affitto di azienda all'ambito
applicativo dell'art. 186-bis,
posto che la norma, accanto alla fattispecie della c.d. continuità diretta
(cioè la prosecuzione dell'attività ad opera dello stesso imprenditore in
crisi), non fa alcuna menzione di detta ipotesi, parlando solo della cessione
di azienda in esercizio e del suo conferimento.
In proposito, occorre anzitutto distinguere l'affitto "fine a se
stesso" da quello prodromico al trasferimento del complesso aziendale o di
un ramo di esso, giacché il primo pacificamente non rientra nel perimetro della
fattispecie in esame, come lo stesso tenore letterale dell'art. 186-bis
dimostra in modo sufficientemente chiaro.
Quanto all'ipotesi di affitto propedeutico alla cessione, si deve distinguere a
seconda che la stipulazione del relativo contratto costituisca un elemento del
piano concordatario (come tale di futura realizzazione), o che essa, invece, si
sia già verificata all'epoca del deposito del ricorso ex art. 161.
Il primo caso - come chi scrive ha avuto modo di osservare ripetutamente nelle
occasioni convegnistiche successive all'entrata in vigore della riforma - pare
riconducibile senza soverchie difficoltà alla fattispecie in esame, purché, si
ribadisce, l'affittuario si impegni irrevocabilmente all'acquisto5.
Naturalmente, la fattibilità del piano dipende, in tale evenienza, dai flussi
derivanti dal pagamento sia dei canoni, sia del prezzo di acquisto (calcolato,
di regola, al netto dei canoni "in conto prezzo"), sicché il
contenuto dell'attestazione deve incentrarsi, in tale ipotesi, sull'idoneità
dell'affittuario-promissario acquirente a far fronte ai propri impegni, grazie
non soltanto al patrimonio di cui dispone o alle garanzie su cui è in grado di
fare affidamento, ma anche alla realizzazione di un adeguato piano industriale.
In questo scenario, quindi, le indicazioni prescritte dalla lett. a) del
secondo comma dell'art. 186-bis non possono non tenere conto che la
"prosecuzione dell'attività d'impresa prevista dal piano di
concordato" è affidata dal piano stesso a un soggetto diverso
dall'imprenditore in crisi, con tutto ciò che ne consegue.
Il secondo caso, quello del contratto di affitto (recante l'impegno
all'acquisto6) già pendente alla presentazione della domanda di concordato, è
più controverso ed invero controvertibile, giacché non sembra questa,
obiettivamente, la fattispecie considerata dal legislatore nel dettare la
norma, specie là dove essa postula la necessità di indicare i costi e i ricavi
attesi dalla prosecuzione dell'attività, nonché le risorse finanziarie
necessarie e le relative modalità di copertura.
Nell'invocare un siffatto argomento ostativo, tuttavia, non bisogna dare per
presupposto ciò che, al contrario, deve costituire oggetto di dimostrazione,
vale a dire che la lett. a) del secondo comma dell'art. 186-bis integri un
precetto ad applicazione necessaria: perché, se così non fosse, potrebbe
risultare più arduo negare che il cash flow possa essere rappresentato, in
parte anche preponderante, dal versamento dei canoni di affitto e delle rate di
prezzo.
Soltanto nell'ipotesi in cui l'intero patrimonio aziendale e, dunque, tutta
l'attività d'impresa vengano affidati all'affittuario prima dell'ammissione al
concordato si pone, a mio avviso, un problema delicato: non già, però, perché
non vi è continuità aziendale diretta, ma in quanto il debitore potrebbe
ritenersi a quel punto privo della qualità di imprenditore commerciale,
indispensabile per l'accesso alla procedura, potendosi dubitare che vada
considerato tale chi si occupi della mera riscossione dei pagamenti dalle mani
dell'affittuario-promissario acquirente, per di più senza la prospettiva di
tornare in possesso dell'azienda (anche se va subito soggiunto che si tratta di
un caso-limite, visto che oggetto del contratto è quasi sempre un ramo di
azienda e non il compendio integrale e che il debitore prosegue direttamente le
residue, seppur circoscritte, attività imprenditoriali).
Com'è chiaro, peraltro, il tema della cessazione della qualità d'imprenditore
commerciale merita un approfondimento che esula dall'ambito del presente
lavoro. Ed infatti, si ritiene in dottrina che l'imprenditore si mantenga tale
nonostante il definitivo abbandono dell'attività caratteristica e fino a quando
non abbia completato la liquidazione dei cespiti aziendali: il che equivale a
dire, nella sostanza, che anche la liquidazione è a tutti gli effetti attività
d'impresa7. Senza dire della necessità di distinguere tra imprenditore persona
fisica e imprenditore collettivo: mentre nel primo caso la dimostrazione
dell'intervenuta cessazione dell'attività d'impresa preclude, di per sé sola,
l'accesso al concordato (potendo il dato fattuale prevalere su quello
pubblicitario), nel secondo rileva anzitutto l'elemento della cancellazione dal
registro delle imprese, salvo che essa sia stata disposta in via officiosa8 ; e
ciò - probabilmente - in forza della tendenziale coincidenza tra esistenza
della società ed esercizio dell'attività d'impresa, essendo, come noto, i casi
di società senza impresa di incerta configurabilità e, comunque, alquanto
marginali9 . A ciò si aggiunga che, in ogni caso, l'esclusione dal fallimento
(e dal concordato) opera soltanto una volta che sia trascorso l'anno dalla
cancellazione dal registro delle imprese (e, per gli imprenditori individuali,
dal momento, anche anteriore, in cui si sia verificata la cessazione
dell'attività)10, con la conseguenza che in quel lasso di tempo deve comunque
ritenersi ammissibile la presentazione del ricorso per concordato preventivo.
Tornando all'esegesi dell'art. 186-bis, un altro aspetto che rende, almeno in
apparenza, difficoltosa l'applicazione della norma al caso dell'affitto già
pendente è la formulazione del primo comma, nella misura in cui se ne inferisca
la necessità che sia il piano a prevedere la cessione dell'azienda (e non un
contratto sottoscritto prima del deposito della domanda). In realtà, se si
ammette - come pare in effetti possibile - che il piano faccia riferimento a un
contratto già in essere e che si fondi sull'esecuzione di esso (ciò che la
norma non pare escludere), il campo si sgombra anche di questo ulteriore
ostacolo.
La soluzione al problema che ci occupa, come si vede, non è né certa né
univoca, anche se la tesi restrittiva sembra muovere dal presupposto, per vero
discutibile, che l'imprenditore in crisi, nel momento in cui chiede di essere
ammesso al concordato, debba essere ancora alla testa della propria impresa,
mentre la realtà dimostra che spesso la stipulazione del contratto di affitto,
con la dislocazione in capo a soggetti terzi dell'onere della gestione,
rappresenta precisamente quella garanzia di continuità aziendale non altrimenti
perseguibile. Del resto, lo spartiacque cui si deve a mio avviso ricorrere è di
tipo oggettivo, non soggettivo: ciò che conta è che l'azienda sia in esercizio
(non importa se ad opera dell'imprenditore stesso o di un terzo) tanto al
momento dell'ammissione al concordato, quanto all'atto del suo successivo
trasferimento (cui essa dev'essere - si torna a ripetere - dichiaratamente
destinata11 ), apparendo in tal caso incontestabile che il rischio d'impresa
continui a gravare, seppur indirettamente, sul soggetto in concordato e che
l'andamento dell'attività incida, in ultima analisi, sulla fattibilità del
piano.
Va comunque chiarito, per quanto forse superfluo, che anche nell'eventualità di
ritenuta inconciliabilità tra affitto di azienda in essere e disposto dell'art.
186-bis non ci si troverebbe, beninteso, di fronte all'alternativa fra lo
scioglimento di detto contratto ante deposito del ricorso e la riqualificazione
del concordato con liquidazione atomistica dei beni, ma semplicemente
all'impossibilità di applicare la predetta disciplina, ferma la natura di
concordato "di fatto in continuità".
3. Le peculiarità del piano e della relazione dell'esperto nel concordato con
continuità aziendale
Ove il concordato preveda la continuità aziendale (nella forma della
prosecuzione dell'attività in capo all'imprenditore insolvente o, in
alternativa, della cessione a un terzo), si applicano - come si diceva -
disposizioni peculiari in relazione al piano di concordato e alla relazione di
attestazione.
Il piano di cui all'art. 161, 2° comma, lett. e), deve contenere - oltre alle
modalità e ai tempi di esecuzione della proposta - l'analitica indicazione dei
costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività, delle risorse
finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura.
La disposizione mira a fornire ai creditori adeguata evidenza, anche sotto il
profilo economico e patrimoniale, delle conseguenze della continuazione
aziendale, affinché essi possano soppesare con attenzione e cognizione di causa
l'ammontare delle risorse destinate a tale scopo e, pertanto, sottratte -
quantomeno in prima battuta - all'immediato soddisfacimento dei creditori.
L'esposizione, particolarmente complessa nell'eventualità di prosecuzione
dell'attività in proprio (in questa ipotesi, infatti, il piano deve tradursi in
un vero e proprio business plan, con la previsione degli investimenti, dei
costi ordinari e straordinari, nonché dei flussi in entrata ragionevolmente
attesi), tende a semplificarsi per il caso di cessione (tanto più se preceduta
da un periodo di affitto). L'intervento di un terzo sul quale venga traslato il
rischio d'impresa consente al debitore ricorrente di limitarsi a enucleare gli
incassi derivanti dai canoni e dal pagamento del prezzo, ferma la necessità di
verificare la solvibilità del cessionario (il che spesso passa per
l'accertamento, anche in sede di attestazione, della ragionevolezza del
relativo business plan, ancorché estraneo al piano di concordato).
A ciò si aggiunga che, diversamente da quanto accade nell'amministrazione
straordinaria (la quale mira alla conservazione dei complessi aziendali e alla
salvaguardia dei livelli occupazionali), il concordato preventivo, quand'anche
connotato dalla continuità aziendale, resta a tutti gli effetti una procedura
concorsuale finalizzata al perseguimento dell'unico obiettivo del miglior
soddisfacimento dei creditori. Di qui la disposizione di cui all'art. 186-bis,
2° comma, lett. b): la relazione del professionista di cui all'art. 161, 3°
comma, deve attestare che la prosecuzione dell'attività d'impresa prevista dal
piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
Pertanto, occorre acclarare che i proventi dell'attività caratteristica o, in
alternativa, l'incasso derivante dalla collocazione dell'azienda in
funzionamento sul mercato, consentano di corrispondere ai creditori un importo
più elevato di quello che, con ogni ragionevole probabilità, essi riceverebbero
nel contesto di uno scenario liquidatorio.
In questa luce, non sorprende la prescrizione di cui all'art. 186-bis, 6°
comma, il quale stabilisce che se nel corso di una procedura concordataria con
continuità aziendale l'esercizio dell'attività d'impresa cessa o risulta
manifestamente dannoso per i creditori, senza che si proceda a modificare il
piano e la proposta in senso liquidatorio, il tribunale provvede ai sensi
dell'art. 173.
4. La moratoria del pagamento dei creditori privilegiati
L'art. 186-bis, 2° comma, lett. c), stabilisce che "il piano può prevedere,
fermo quanto disposto dall'articolo 160, secondo comma, una moratoria sino ad
un anno dall'omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio,
pegno o ipoteca,
salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la
causa di prelazione. In tal caso, i creditori muniti di cause di prelazione di
cui al periodo precedente non hanno diritto al voto".
Il richiamo al secondo comma dell'art. 160 l. fall. segna con chiarezza la
distinzione tra moratoria e falcidia: mentre quest'ultima attiene al quantum
del soddisfacimento (che con riguardo ai creditori privilegiati deve essere
integrale, nei limiti - beninteso - della capienza del bene sul quale insiste
la garanzia, stimato nella prospettiva della liquidazione fallimentare), la
prima riguarda il tempo dell'adempimento. Nulla quaestio nel caso in cui il
piano preveda la cessione del cespite dato in garanzia, come può accadere anche
nello scenario di concordato "misto" con (prevalente) continuità
aziendale, nella misura in cui nell'attivo siano ricompresi beni ritenuti non
"strategici" per la (o, comunque, non funzionali alla) prosecuzione
dell'attività dell'impresa. In questo caso, infatti, non vi è la necessità (né,
a quanto parrebbe, la possibilità) di invocare con fondamento la moratoria ex
lege: il pagamento del creditore munito di prelazione avviene successivamente
alla vendita del bene.
Quando invece il piano concordatario preveda che il bene oggetto della garanzia
resti nella disponibilità del debitore (perché funzionale alla prosecuzione
dell'attività), il soddisfacimento del creditore munito di prelazione può
essere differito fino ad un anno dall'omologazione.
Di tale prescrizione sembra possibile fornire due letture antitetiche: la
prima, muovendo dal rilievo che i creditori privilegiati soddisfatti per intero
non votano, circoscrive la durata della moratoria all'anno, escludendo che
possa essere prevista una dilazione maggiore (salvo, probabilmente, che ciascun
singolo creditore privilegiato coinvolto manifesti il proprio assenso al
riscadenzamento)12.
Tale lettura si basa sul rilievo che la moratoria non deroga all'art. 55 l.
fall. (richiamato dall'art. 169 l. fall.), con la conseguenza che gli interessi
continuano a maturare anche nel periodo di dilazione (pur divenendo esigibili
solo al termine dello stesso), con la conseguenza che non sarebbe possibile
ipotizzare un meccanismo compensativo del maggior sacrificio sul piano
temporale. In altre parole, se - e ciò in effetti sembra condivisibile - gli
interessi maturano anche nel periodo di moratoria legale e questa dura al
massimo un anno, il debitore non potrebbe prospettare l'allungamento della
dilazione a fronte della corresponsione di ulteriori interessi, dal momento che
essi non costituiscono una prestazione aggiuntiva in grado di bilanciare la
dilazione.
Senonché, il tenore letterale della norma lascia aperto un diverso percorso
ermeneutico, che valorizza l'ultima parte della disposizione, la quale -
attraverso la locuzione "in tal caso" - sembra riconnettere
l'esclusione dal voto alla condizione che il pagamento avvenga entro l'anno. Di
qui la possibilità di una lettura a contrario, la quale conduce ad ammettere la
dilazione al di sopra dell'anno, compensata tuttavia dall'attribuzione al
privilegiato soddisfatto integralmente, ma con ritardo, del diritto di
pronunciarsi sulla proposta13 .
Questa seconda interpretazione sembra preferibile non solo perché aderente alla
lettera della norma, ma anche per ragioni sistematiche: il nuovo art. 182-bis
l. fall. ammette, al primo comma, il differimento ex lege del pagamento dei
creditori estranei all'accordo, stabilendo - anche in quel caso - una moratoria
automatica che prescinde dal consenso dei creditori, a condizione che sia
contenuta nei centoventi giorni; al di là del predetto termine la dilazione non
è proibita, ma presuppone l'inclusione nell'accordo del soggetto che la subisce
e l'ottenimento del suo consenso.
Senza dire che la limitazione della moratoria all'anno rischia di rivelarsi un
ostacolo difficilmente superabile nella costruzione di un piano di concordato
in continuità (quantomeno nella forma della ristrutturazione pura):
ogniqualvolta i beni sui quali insiste la garanzia siano funzionali alla
prosecuzione dell'impresa, infatti, la provvista per il soddisfacimento delle
pretese munite di prelazione è giocoforza fornita dai soli flussi di cassa
dell'attività, i quali di regola assumono consistenza significativa solo in un
orizzonte temporale di medio periodo, non certo entro l'anno dall'omologazione.
In questa prospettiva, tenuto conto che la voluntas legis appare obiettivamente
orientata a favorire le procedure concordatarie e - segnatamente - quelle
capaci di coniugare l'interesse dei creditori (pur sempre destinato a
prevalere) con l'interesse alla prosecuzione dell'attività d'impresa, sembra
ragionevole fornire dell'art. 186-bis, 2° comma, lett. c), l'interpretazione
che ravvisa nello stesso un'ulteriore "arma" a disposizione
dell'imprenditore intenzionato a perseguire una soluzione della propria crisi
alternativa al fallimento; non - come invece accadrebbe ove si accedesse alle
letture più
restrittive - un ulteriore limite all'autonomia nella formulazione del piano.
In altre parole, oggi la legge (che per la prima volta ha posto l'accento sui
profili temporali del piano, ora espressamente richiamati dall'art. 161, 1°
comma, lett. e)) ammette apertis verbis che una parte delle risorse
astrattamente liquidabili possano essere sottratte al processo di immediata
liquidazione per essere reimmesse nel processo produttivo, a condizione che
l'esperto attesti che ciò sia funzionale al migliore soddisfacimento dei
creditori. Da ciò può derivare - del tutto fisiologicamente - il differimento
del pagamento dei creditori privilegiati; in questo scenario, essi perdono la
propria posizione di tendenziale indifferenza rispetto alla proposta di
concordato, il che giustifica l'attribuzione agli stessi del diritto di voto.
Pertanto, in linea di principio, il voto viene concesso nella misura in cui ai
privilegiati sia riservato un trattamento diverso da quello di default, il
quale prevede che il pagamento avvenga (i) per l'intero, indipendentemente
dalla capienza del bene sul quale insiste la prelazione e (ii) immediatamente
dopo la cessione del bene dato in garanzia o, nel concordato in continuità che
non preveda l'alienazione del cespite, entro l'anno dall'omologazione o, se
successivo, entro il momento in cui la pretesa giunga a scadenza. Le deviazioni
dallo schema "standard" sono ammissibili, a condizione che siano
osservati i criteri di cui all'art. 160, 2° comma, e che sia riconosciuto il
diritto di voto, anche nel caso di semplice dilazione; diritto, questo, da
commisurarsi alla porzione di pretesa colpita dalla decurtazione o dal ritardo
nel versamento.
Di conseguenza, il creditore privilegiato che venga soddisfatto in percentuale
ha diritto di votare per la frazione di pretesa scaduta al chirografo; allo
stesso modo, il creditore privilegiato soddisfatto per l'intero, ma in due
rate, l'una "tempestiva" (secondo i meccanismi propri del concordato)
e l'altra "tardiva", dovrà essere ammesso al voto solo per
l'ammontare della seconda. Naturalmente, le due forme di sacrificio possono
combinarsi, sicché il creditore privilegiato falcidiato che venga altresì
pagato con ritardo verrà ammesso al voto per l'intero.
Non sembra infatti ravvisabile un obiettivo criterio quantitativo al quale
ancorare il voto del creditore privilegiato soddisfatto con ritardo, tenuto
conto della circostanza che la dilazione è compensata dal decorso degli
interessi, il che rende difficoltoso instaurare una qualche forma di
equivalenza tra giorni di ritardo e punti percentuali persi; pertanto, il
ritardo, quand'anche contenuto, sembra attribuire il voto per l'intera somma
corrisposta con dilazione, ancorché la stessa sia di breve durata. Non può
dunque escludersi del tutto il rischio di utilizzo strumentale della dilazione
(che potrebbe essere impiegata al fine di "diluire" il peso del
dissenso dei chirografari), ma tali inconvenienti risultano largamente
ridimensionati ove si ritenga che il creditori privilegiati soddisfatti per
intero ma con ritardo vadano necessariamente segregati in una classe ad hoc
(essendo il relativo trattamento incommensurabile rispetto a quello dei
creditori decurtati nel quantum): in tal caso, occorrerà raggiungere non solo
la maggioranza dei crediti, ma anche quella delle classi.
Una questione di peculiare rilevanza pratica - alla quale, per vero, si è già
fatto cenno - è quella relativa al decorso degli interessi in costanza di
moratoria, su cui la legge nulla dice (il problema attiene, naturalmente, ai
soli interessi espressione della c.d. fecondità naturale del denaro - quindi
quelli legali e, ove pattuiti, quelli convenzionali - e non anche agli
interessi moratori: aspetto, questo, non trascurabile in materia di crediti
commerciali).
L'impossibilità per i creditori muniti di prelazione di pretendere il pagamento
prima dello spirare della moratoria annuale potrebbe essere interpretata nel
senso che si sia voluto introdurre un differimento ex lege dell'originario
termine di scadenza, dal che discenderebbe la non debenza di quegli interessi
che, senza la previsione dell'art. 186-bis, 2° comma, lett. c), sarebbero in
tale periodo maturati, in virtù dell'art. 55 l. fall., espressamente richiamato
dall'art. 169. E non può in effetti escludersi che precisamente questa fosse
l'intenzione del riformatore, tenuto anche conto dell'ottica di favor verso
l'istituto.
In senso contrario, tuttavia, si potrebbe osservare che la norma, per com'è
formulata, non fa slittare il termine di scadenza, ma esclude l'esigibilità di
crediti ancorché venuti a scadenza, che come tali sono per loro natura
produttivi di interessi. Nel silenzio della norma sul punto, infatti, sembrano
potersi invocare i princìpi generali sulle obbligazioni pecuniarie e, in
particolare, il disposto dell'art. 1282, 1° c., c.c., ai sensi del quale i
crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno
diritto, salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente.
Tale conclusione appare corroborata, altresì, dalla lettura conservativa sul
piano costituzionale, quanto meno nell'ottica di chi dubita della legittimità
di detta moratoria. Ed invero, la decorrenza degli interessi, vista nella sua
funzione "indennitaria", dovrebbe concorrere a scongiurare il rischio
che si ravvisino, nella fattispecie in esame, gli estremi dell'"esproprio
senza indennizzo".
Com'è stato osservato, poi, la previsione relativa alla restrizione del diritto
di voto di cui all'ultimo periodo della disposizione può reggere solo nel caso
in cui il sacrificio sia limitato alla dilazione e non anche al diritto di
riscuotere interessi14.
A tale stregua, la possibilità di escludere la maturazione degli interessi, in
deroga all'art. 55, 1° co., l. fall., come richiamato dall'art. 169, seppur
coerente con la presumibile intenzione del legislatore (trovandoci
probabilmente al cospetto di un caso in cui lex minus dixit quam voluit),
risulta, sul piano del diritto positivo, oggettivamente problematica.
5. La prosecuzione dei contratti con la pubblica amministrazione
L'art. 186-bis stabilisce che, fermo quanto previsto nell'art. 169-bis, i
contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche
stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto
dell'apertura della procedura, con la
precisazione che gli eventuali patti contrari sono inefficaci. In particolare,
l'ammissione al concordato preventivo non impedisce la continuazione di
contratti pubblici se l'esperto attesta la conformità al piano e la ragionevole
capacità di adempimento. Di tale continuazione può beneficiare, in presenza dei
requisiti di legge, anche la società cessionaria o conferitaria d'azienda o di
rami d'azienda cui i contratti siano trasferiti. Il giudice delegato, all'atto
della cessione o del conferimento, dispone la cancellazione delle iscrizioni e
trascrizioni.
La legge precisa altresì che l'ammissione al concordato preventivo non
impedisce la partecipazione a procedure di assegnazione di contratti pubblici,
quando l'impresa presenta in gara:
a) la relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'art.
67, 3° comma, lettera d), che attesti la conformità al piano e la ragionevole
capacità di adempimento del contratto;
b) la dichiarazione di altro operatore in possesso dei requisiti di carattere
generale, di capacità finanziaria, tecnica, economica nonché di certificazione,
richiesti per l'affidamento dell'appalto, il quale si è impegnato nei confronti
del concorrente e della stazione appaltante a mettere a disposizione, per la
durata del contratto, le risorse necessarie all'esecuzione dell'appalto e a
subentrare all'impresa ausiliata nel caso in cui questa fallisca nel corso
della gara ovvero dopo la stipulazione del contratto, ovvero non sia per
qualsiasi ragione più in grado di dare regolare esecuzione all'appalto.
Proprio quest'ultimo requisito, per vero, non appare di agevole verificazione
(ben potendo l'imprenditore concorrente determinarsi in modo meno
"altruista"; il che induce il debitore in crisi a guardare con
maggior interesse, in questi casi, ai diversi strumenti di cui agli artt. 67 e
182-bis. Va ancora osservato che l'impresa in concordato può concorrere anche
riunita in raggruppamento temporaneo di imprese, purché non rivesta la qualità
di mandataria e sempre che le altre imprese aderenti al raggruppamento non
siano assoggettate ad una procedura concorsuale. In tal caso la dichiarazione
di cui alla lett. b) può provenire anche da un operatore facente parte del
raggruppamento.
6. La perdita del capitale
Il concordato in continuità è, per sua natura, crocevia di norme di diritto
concorsuale e di diritto societario. Tra queste ultime assume particolare
rilievo l'art. 2484, 1° comma, n. 4, c.c., il quale annovera tra le cause di
scioglimento la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale in
conseguenza di perdite. In passato, la norma trovava applicazione anche con
riferimento alla società in concordato, con la conseguenza che la prosecuzione
dell'attività presupponeva necessariamente che si procedesse alla
ricapitalizzazione, la quale tuttavia non doveva obbligatoriamente preesistere
all'adozione del piano (in tal caso, infatti, il primo - e indispensabile -
tassello del risanamento sarebbe stato posto al di fuori della procedura),
potendone al contrario rappresentare uno degli elementi, del quale doveva
naturalmente darsi adeguato conto nella relazione di attestazione.
A tale stregua, già in passato si era sostenuto che, sino a quanto il piano non
fosse stato eseguito, la società in concordato avesse la possibilità di
continuare a svolgere l'attività caratteristica nonostante l'intervento di una
causa di scioglimento15 . Ciò non sembrava potersi considerare, di per sé, una
deviazione patologica dalla disciplina codicistica, trattandosi al contrario di
iniziativa che - essendo dichiaratamente finalizzata a conseguire l'obiettivo
del riequilibrio dei conti dell'impresa - integrava una forma di gestione
conservativa dell'integrità e del valore del patrimonio aziendale; e ciò anche
alla luce del fatto che da tempo si ammette, pacificamente, la possibilità di
proseguire l'attività anche durante la fase di liquidazione, fatta salva la
necessaria autorizzazione assembleare. Naturalmente, allo scopo di scongiurare
condotte opportunistiche, era necessario che la prospettiva di going concern
fosse supportata da elementi concretamente verificabili, quali la
ragionevolezza dell'ipotesi di risanamento in continuità da realizzarsi
attraverso l'implementazione delle misure indicate nel piano (oggetto
dell'attestazione dell'esperto) o, laddove si prospettasse l'intervento di un
soggetto terzo, la sussistenza di trattative relative all'affitto o alla
cessione dell'azienda.
Tale impostazione è stata espressamente accolta dalla novella del 2012, la
quale ha introdotto l'art. 182-sexies, che stabilisce che, alla data del
deposito della domanda per l'ammissione al concordato preventivo (anche a norma
dell'art. 161, 6° comma) e sino all'omologazione non si applicano gli articoli
2446, 2° e 3° comma, 2447, 2482-bis, 4°, 5° e 6° comma, e 2482-ter c.c. Per lo
stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o
perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, n. 4, e 2545-duodecies c.c.
La disposizione pare foriera di ricadute anche sul piano contabile. Quand'anche
l'erosione del capitale imponga (in astratto) l'adozione di criteri di
liquidazione, la possibilità di mantenere attiva l'impresa in vista del suo
risanamento può costituire una ragione idonea a giustificare l'applicazione,
quantomeno in relazione ad alcune poste, di una prospettiva di going concern,
il che di regola consente di circoscrivere l'ampiezza delle svalutazioni e, di
conseguenza, di contenere - per quanto possibile - le perdite.
La valutazione di questi aspetti si rivela particolarmente critica quando il
termine per l'approvazione del bilancio venga a scadere nell'imminenza del
deposito della domanda. Alla tesi secondo la quale l'incombente potrebbe
ritenersi superato dalla predisposizione della situazione patrimoniale
aggiornata richiesta dall'art. 161 l. fall. sembra doversi preferire quella che
ritiene in ogni caso necessario procedere alla formazione e all'approvazione
del bilancio, anche in ragione del fatto che esso - a differenza della predetta
situazione patrimoniale aggiornata - è accompagnato dalla relazione del
collegio sindacale e del revisore, oltre ad essere assoggettato a peculiari
disposizioni in materia di pubblicità. Resta nondimeno l'obiettiva difficoltà
connessa alla scelta di adeguati criteri di stima delle singole poste, i quali
probabilmente non possono
prescindere dal contenuto del piano (o, se ancora non elaborato nel dettaglio,
dalle relative linee-guida), fermo restando che, quando sia prospettata la
continuità aziendale nonostante l'intervenuto azzeramento del capitale, è
opportuno dar conto nella nota integrativa dei diversi valori che
discenderebbero dallo scenario liquidatorio.
7. La datio in solutum
Nel contesto del concordato con continuità aziendale talvolta l'imprenditore
offre ai creditori, anziché un ammontare in numerario, un certo numero di
azioni proprie (in alcuni casi di futura emissione), secondo un determinato
"rapporto di cambio" tra crediti e titoli; rapporto, questo,
destinato a variare nell'ipotesi in cui siano previste classi. Questa modalità
di soddisfacimento è senz'altro ammissibile nella misura in cui sia rivolta ai
chirografari, i quali dovranno manifestare il proprio consenso al riguardo,
mentre pare difficilmente praticabile in relazione a soggetti muniti di
privilegio insistente su beni capienti (o, comunque, nei limiti della capienza
degli stessi), esclusi dal voto e, pertanto, impossibilitati a esprimersi circa
tale peculiare modalità di soddisfacimento16.
Di conseguenza, salvo ipotizzare che costoro vadano considerati come in qualche
modo lesi nei loro diritti e quindi ammessi al voto, l'unica strada
percorribile appare quella della ricerca del relativo assenso (necessariamente
unanime) in sede extraconcorsuale: solo ove essi accettino di modificare la
propria pretesa pecuniaria in diritto alla dazione di determinati titoli, senza
che ciò implichi rinunzia al privilegio, la proposta concordataria potrà
ritenersi ammissibile. In questa prospettiva, deve ritenersi consentito al
debitore illustrare, in sede di ricorso, una proposta condizionata, dando atto
di aver avviato trattative con i privilegiati destinatari dell'offerta e
riservandosi di comunicare al giudice delegato e al commissario l'esito delle
stesse prima della data fissata per l'adunanza dei creditori; momento entro il
quale - per il caso di insuccesso dell'iniziativa - si dovrà procedere alla
modifica della proposta, pena la revoca dell'ammissione ex art. 173 l. fall.
8.
Il pagamento dei debiti pregressi
Spesso la prosecuzione dell'attività d'impresa non può prescindere
dall'immediato soddisfacimento di una parte dei crediti pregressi, al fine di
garantirsi la collaborazione di fornitori strategici di beni e servizi.
Pagamenti siffatti, se effettuati in costanza di procedura, costituiscono atti
di tra ordinaria amministrazione e, come tali, vanno autorizzati ai sensi
dell'art. 167, 2° comma, l. fall. Ancora più a monte, tuttavia, sorgono seri
dubbi sulla stessa legittimità di questi versamenti, i quali devono ritenersi
preclusi ogniqualvolta abbiano l'effetto di sovvertire l'ordine della cause di
prelazione (il quale - come noto - costituisce un limite invalicabile anche con
riferimento alla formazione delle classi). Pertanto, in tutti i casi in cui il
pagamento del debito pregresso verso il fornitore strategico chirografario
sortisca l'effetto di preferirlo ai privilegiati, sia sotto il profilo
quantitativo (problema che si pone solo nel caso di falcidia dei creditori
muniti di prelazione), sia - soprattutto - dal punto di vista temporale
(questione che si presenta pressoché invariabilmente), l'operazione deve
intendersi contra legem.
Di qui l'introduzione di una norma ad hoc (art. 185-quinquies l. fall.) che
prevede espressamente la possibilità di effettuare pagamenti strategici, a
condizione che l'imprenditore ne faccia richiesta nel ricorso ex artt. 160 ss.
l. fall. e ottenga l'autorizzazione del tribunale (al quale è attribuito il
potere di acquisire sommarie informazioni); sempre che un professionista in
possesso dei requisiti di cui all'art. 67, 3° comma, lett. d), l. fall. attesti
che le prestazioni che il debitore intende remunerare siano essenziali per la
prosecuzione della attività di impresa sino all'omologazione e che tale
prosecuzione sia funzionale ad assicurare la migliore soddisfacimento dei
creditori. Manca, forse, solo l'espressa statuizione circa la prededucibilità
di tali importi, che sarebbe stata opportuna al fine di fugare ogni dubbio
circa la possibilità di derogare alla par condicio creditorum.
9. Il rapporto con l'art. 2740 c.c.
La dottrina e la giurisprudenza17 tendono ad escludere che il concordato per
cessio bonorum possa prevedere la cessione solo parziale dei beni, sul
presupposto che l'art. 2740 c.c., applicabile a qualsiasi debitore, vale a
fortiori per l'imprenditore in stato di crisi. L'unica deroga può ravvisarsi
nell'ipotesi di patrimonio illiquido ma ultracapiente, nel qual caso il piano
concordatario potrà prevedere esclusivamente l'alienazione dei beni funzionali
a ripianare l'intera esposizione debitoria, con soddisfacimento integrale di
tutti i creditori (incluse le pretese vantate a titolo di interessi sui crediti
pecuniari): in altre parole, può ipotizzarsi che il debitore dia mandato al
liquidatore giudiziale di procedere all'alienazione dei beni nella misura in
cui ciò si renda necessario per coprire il fabbisogno concordatario, con
l'intesa che il quid pluris venga retrocesso all'imprenditore.
Al contrario, quando sia presentato un concordato in continuità, deve ritenersi
fisiologico che l'imprenditore resti in possesso del proprio patrimonio, al
netto degli assets non strumentali ceduti e degli importi da versare ai
creditori. Ciò nondimeno, ogniqualvolta si sia chiamati a raffrontare lo
scenario concordatario con quello fallimentare (com'è previsto dall'art. 160,
2° comma, l. fall. per il caso di falcidia del privilegio e come accade, almeno
di regola, quando i creditori procedono a valutare la convenienza della
proposta), dovranno essere tenuti in considerazione tutti i beni ipoteticamente
liquidabili dal curatore, inclusi quelli dei quali non si preveda la cessione
in ambito concordatario.
10. L'esecuzione del concordato in continuità
Durante la fase di esecuzione del concordato in continuità l'imprenditore ha il
potere di compiere qualsiasi atto, inclusi quelli di straordinaria
amministrazione e senza necessità di ottenere l'autorizzazione di cui all'art.
167, 2° comma, l. fall., anche in considerazione del fatto che al commissario
non spettano poteri di co-gestione, ma semplicemente prerogative di vigilanza e
monitoraggio circa l'esatto adempimento del piano. Gli eventuali
disallineamenti rispetto a esso sono causa di risoluzione quando risultino
idonei a determinare in grave inadempimento.
Tali disallineamenti possono dipendere, oltre che dalla condotta
dell'imprenditore, dall'evolversi della situazione di mercato in senso non
pienamente conforme a quello previsto dal piano, con conseguente necessità di
modificarne gli assunti.
Senonché, ogni variazione alla proposta di concordato deve ritenersi preclusa
successivamente all'inizio delle operazioni di voto. Ne deriva che eventuali
modificazioni sono possibili solo a patto di ottenere il consenso di tutti i
creditori non ancora soddisfatti. In alternativa, l'imprenditore dovrà
procedere alla rinuncia alla domanda di concordato, depositando un nuovo
ricorso ex artt. 160 ss. l. fall. Naturalmente, è opportuno che tra i due
momenti non si crei alcuno iato temporale, atteso che, in difetto,
riprenderebbero vigore, secondo alcuni, le istanze di fallimento presentate
prima del deposito della prima domanda, mentre, secondo altri, detti
procedimenti andrebbero dichiarati estinti per effetto dell'intervenuta
omologazione, per cui occorrerebbe la presentazione di un'istanza ex novo;
fermo restando che - anche in ragione del lasso di tempo intercorso e della,
sia pur parziale, esecuzione del vecchio piano - prima di procedere alla
dichiarazione di fallimento si renderà necessario verificare la persistenza del
requisito dell'insolvenza.
*) Il presente contributo riproduce il contenuto del paragrafo sul concordato
in continuità di cui al saggio Profili giuridici della crisi d'impresa alla
luce della riforma del 2012, in Ambrosini-Andreani-Tron, Crisi d'impresa e
restructuring, Milano, 2013, 79 ss.
1) Cfr., ex aliis, MANDRIOLI, Struttura e contenuti dei "piani di
risanamento" e dei progetti di "ristrutturazione" nel concordato
preventivo e negli accordi di composizione negoziale delle situazioni di
"crisi", in Le nuove procedure concorsuali per la prevenzione e la
sistemazione delle crisi d'impresa, a cura di BONFATTI-FALCONE, Milano, 2006,
461; ESPOSITO, Il piano del concordato preventivo tra autonomia privata e
limiti legali, in AMBROSINI (a cura di), Le nuove procedure concorsuali,
Torino, 2008, 543; FABIANI, Diritto fallimentare. Un profilo organico, Bologna,
2011, 610 ss.
2) FABIANI, Riflessioni precoci sull'evoluzione della disciplina della
regolazione concordata della crisi d'impresa (appunti sul d.l. 83/2012 e sulla
legge di conversione), in Ilcaso.it, II, 303/2012, osserva che "la nozione
di continuità aziendale utilizzata dal legislatore è spuria in quanto sono
accomunate al medesimo destino sia quelle imprese in cui l'azienda in esercizio
viene trasferita (o conferita ) a terzi sia quelle in cui l'attività d'impresa
resta in capo al medesimo imprenditore (non importa, qui, se affiancato da
nuovi investitori)". E v. anche MAFFEI ALBERTI, sub art. 186-bis, in
Commentario breve alla legge fallimentare, diretto da Maffei Alberti, 2013,
1238.
3) Prima della novella del 2012, la prosecuzione dell'attività da parte
dell'imprenditore in stato di crisi in via diretta era considerata l'unica
fattispecie di concordato con continuità aziendale (noto anche come concordato
per ristrutturazione: v., in proposito ARATO, Il concordato preventivo con
continuazione dell'attività d'impresa, in BONELLI (a cura di), Crisi d'imprese:
casi e materiali, Milano, 2011, 157), mentre si tendeva a far ricadere il
trasferimento del complesso produttivo nel genus del concordato per cessio
bonorum (cfr. AMBROSINI, Il piano di concordato e l'eventuale suddivisione dei
creditori in classi, in AMBROSINI-DEMARCHI-VITIELLO, Il concordato preventivo e
la transazione fiscale, Bologna, 2009, 30).
4) Cfr., tra le più recenti pronunce di legittimità, Cass., 12 dicembre 2012,
n. 22828, in Diritto & Giustizia, 2012.
5) Perentorio, sul punto, MAFFEI ALBERTI, op. cit., 1328: "nessun dubbio
che, in tal caso, la norma in esame si applichi direttamente, per espressa
previsione del 1° co., laddove si fa riferimento ad un piano che preveda la
cessione dell'azienda in esercizio".
6) Non parrebbe sostanzialmente diversa dalla fattispecie descritta nel testo,
sotto il profilo in questione, l'ipotesi dell'affitto con contestuale
preliminare di vendita, peraltro di regola caratterizzato dalla presenza di una
condizione riferita agli sviluppi del procedimento concordatario (condizione
sospensiva fino all'ammissione della domanda, o condizione risolutiva in caso
di diniego dell'omologazione).
7) Cfr., tra gli altri, BONFANTE-COTTINO, L'imprenditore, in COTTINO (diretto
da), Trattato di diritto commerciale, I, Padova, 2001, 555-556
8) LAMANNA, sub art. 10, in JORIO (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare,
I, Bologna, 2006, 258 ss.
9) DI SABATO, Diritto delle società, Milano, 2011, 21 ss.
10) CAVALLI, I presupposti del fallimento, in AMBROSINI-CAVALLI-JORIO, Il
fallimento, in COTTINO (diretto da), Trattato di diritto commerciale, XI, 2,
Padova, 2009, 88 ss.
11) E v. MAFFEI ALBERTI, op. loc. cit., secondo il quale "potrà
configurarsi una continuità aziendale soltanto se nella proposta concordataria
sia prevista come obbligatoria la cessione dell'azienda all'affittuario".
12) LAMANNA, La legge fallimentare dopo il decreto sviluppo, Milano, 2012, pp.
61 e ss.
13) In questo senso si è espresso FABIANI, Riflessioni precoci sull'evoluzione
della disciplina della regolazione concordata della crisi d'impresa (appunti
sul d.l. 83/2012 e sulla legge di conversione), cit., 24, secondo il quale
"i creditori privilegiati debbono essere pagati subito, e non maturano
diritto di voto, quando la liquidazione concordataria è temporalmente
comparabile con la liquidazione fallimentare, talché non vantano un interesse
all'una soluzione rispetto all'altra, mentre quando si assiste ad un
disallineamento, allora il voto va riconosciuto". Osserva, in proposito,
ARATO, Il concordato con continuità aziendale, in Ilfallimentarista.it, 7, che
"è pacifico (e lo era già prima dell'attuale riforma) che il
soddisfacimento dei creditori privilegiati potesse avvenire in via dilazionata
e senza interessi, ove questi ultimi fossero stati inseriti in un'apposita
classe e avessero approvato la proposta concordataria con il proprio voto
favorevole. In tali casi, nulla vieta(va) che la "moratoria", ovvero
la dilazione, avesse una durata anche superiore ad un anno".
14) LAMANNA, La legge fallimentare dopo il decreto sviluppo, cit., 62.
15) ARATO, Il concordato preventivo con continuazione dell'attività di impresa,
in BONELLI (a cura di), Crisi di impresa: casi e materiali, Milano, 2011, 137 e
ss.
16) Il recupero dell'equilibrio economico, patrimoniale e finanziario
dell'impresa mediante la conversione dei crediti concorsuali in azioni è stato,
ad esempio, il nucleo della proposta di concordato formulata dalle società del
Gruppo Ventaglio. In sintesi, lo scenario elaborato dalle società con l'ausilio
dei propri advisors, contemplava: (i) l'accollo dei debiti delle società del
gruppo da parte della holding, la quale avrebbe altresì rilevato il patrimonio
aziendale (costituito, principalmente, dall'avviamento), proseguendo
nell'esercizio dell'attività caratteristica; (ii) la conversione nel capitale
della holding di tutti i crediti chirografari e di quelli privilegiati di rango
inferiore al privilegio ex art. 2751-bis c.c.; (iii) ottenuta l'omologazione
dei concordati, le società controllate sarebbero state fuse nella capogruppo
partecipata dai creditori. La proposta (più dettagliatamente descritta da
BONELLI, Le insolvenze di grandi gruppi: i casi Alitalia, Chrysler, Socothern,
Viaggi del Ventaglio, Gabetti, Risanamento e Tassara, in Crisi di imprese: casi
e materiali, a cura di Bonelli, Milano, 2011, 152) è stata ritenuta ammissibile
dal Tribunale di Milano, il quale, tuttavia, dopo aver constatato che "la
proposta concordataria può prevedere il soddisfacimento dei creditori
privilegiati mediante assegnazione di azioni, purché il debitore dimostri di
una prevedibile deteriore sorte degli stessi in sede liquidatoria, ai sensi
dell'art. 160, secondo comma, l. fall.", ha rilevato la non fattibilità
del concordato, disponendone la revoca ex art. 173 (cfr. Trib Milano, 18 luglio
2010, in Fallimento, 2010, 1216).
17) Sul punto cfr., anche per riferimenti, AUDINO, sub art. 161, in MAFFEI
ALBERTI (diretto da), Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2013,
1058.
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