CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 17/09/2018 Scarica PDF
La riforma della disciplina della crisi e dell'insolvenza: motus in fine velocior
Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte OrientaleSommario: 1. Premessa: motus in fine velocior. – 2.Quale spazio per interventi “correttivi”? – 3. Criticità nella disciplina delle misure di allerta. – 4. Scelte discutibili e profili di incostituzionalità nell’accesso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza. – 5. Previsioni da modificare in materia di concordato preventivo.
1. Premessa: motus in fine velocior
Sembrerebbe davvero (ma il condizionale è più che mai d’obbligo) che si sia finalmente prossimi al varo della riforma organica del nostro diritto concorsuale. Stando a rumors sempre più insistenti, infatti, i testi dei decreti delegati dovrebbero venire licenziati dal Ministero della Giustizia entro la fine del corrente mese, per poi approdare, previo concerto del Ministero dell’Economia e delle Finanze e di quello dello Sviluppo Economico, in Parlamento ai fini del rilascio dei necessari pareri da parte delle competenti Commissioni.
Ciò dovrebbe consentire, se non si va errati, lo “slittamento” di sessanta giorni del termine per l’esercizio della delega (dal 14 novembre 2018 al 14 gennaio 2019), in modo da evitare tempi eccessivamente compressi per completare l’articolato processo, che avrebbero comportato il serio rischio di non riuscire a condurre la nave in porto.
Questa positiva accelerazione dovrebbe, invece, consentire di rispettare i tempi; e l’intenso lavoro svolto negli ultimi mesi dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia dovrebbe altresì porre rimedio almeno ad alcuni dei difetti che, ad avviso della maggior parte degli “addetti ai lavori”, costellano le bozze di decreti redatte, a onor del vero in tempi giugulatori, dalla Commissione di riforma.
Di qui il senso delle riflessioni che seguono, già peraltro pubblicate, in una differente e più ampia versione (incentrata anche sulle criticità della legge delega), alla fine di agosto.
2. Quale spazio per interventi “correttivi”?
Immediatamente dopo la divulgazione della bozza del “Codice della crisi e dell’insolvenza” è stato possibile constatare due tipi di reazioni, l’una di segno opposto all’altra. Da un lato, un giudizio ampiamente favorevole (già solo per il fatto di aver messo mano in modo finalmente organico – o quasi – alla materia[1]), a cominciare dall’introduzione – da molti, in effetti, lungamente invocata – delle cc.dd. misure di allerta[2]; dall’altro, un atteggiamento prevalentemente (e talora aspramente) critico sui contenuti della riforma, con riguardo sia ai princìpi ispiratori – e dunque alle scelte di fondo – della legge delega[3], sia alla loro minuta declinazione.
Qualcosa di analogo, per vero, era capitato a valle dei lavori della Commissione ministeriale incaricata di redigere il testo della legge delega, ma in questo caso le critiche si erano appuntate soprattutto sull’asserita “timidezza” del complessivo disegno riformatore[4] e assai meno sui suoi contenuti, apprezzati anzi dai più. La maggior parte dei commentatori in sede convegnistica avevano messo in luce, piuttosto, il peggioramento che aveva caratterizzato, a loro dire (e non a torto), il passaggio dalla “bozza Rordorf”[5] al testo sottoposto dal Governo al Parlamento e da quest’ultimo solo parzialmente corretto.
Il testo finale della legge delega contiene, in effetti, diversi princìpi sui quali sarebbe senz’altro opportuno intervenire in senso modificativo[6]; si tratterebbe tuttavia – è chiaro – di una scelta foriera della conseguenza di differire ancora una volta il varo della riforma. Merita allora concentrarsi, a questo stadio del “cantiere”, sulla bozza del decreto delegato, nell’eventualità che se ne completi il processo di approvazione senza riaprire quel “vaso di Pandora” in cui un nuovo intervento sulla legge delega (seppur, forse, astrattamente desiderabile[7]) rischierebbe di tradursi.
Con un’indefettibile precisazione. Fermo, infatti, il riconoscimento del poderoso lavoro svolto dalla Commissione, cui occorre comunque guardare con il debito rispetto, va detto nondimeno che la fretta con cui l’articolato è stato varato e una serie di previsioni connotate in senso latamente – ma perniciosamente – “ideologico” rendono il testo in questione sensibilmente perfettibile.
Da questo punto di vista, il fatto che a capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, che sta da tempo lavorando al varo del testo finale, sia stato posto di recente un insigne fallimentarista non può che far ben sperare. A condizione, tuttavia, che venga inserita innanzitutto una previsione di cui allo stato non vi è traccia e che appare invece indispensabile: una congrua vacatio legis (non inferiore a un anno, anche se sarebbero senz’altro preferibili 18-24 mesi) affinché possa esservi il tempo di preparare adeguatamente un sistema che oggi non sembra assolutamente pronto per un’applicazione immediata delle novità normative. Vacatio grazie alla quale si renda possibile modificare nelle more – a quel punto con eventuale legge ad hoc, visto che la delega non contempla il decreto correttivo (o inserendo in quest’ultima la relativa previsione) – quelle disposizioni che, a un più ponderato esame (frutto di un’imprescindibile simulazione delle ricadute concrete), dovessero risultare inopportune; valicando, in tal modo, anche i confini della legge delega, che presenta le obiettive criticità di cui si diceva e creando le condizioni per adeguare la disciplina, se del caso, a quanto sarà stabilito nella Direttiva europea in materia[8], evitando che la riforma italiana, per così dire, nasca già vecchia.
Le brevi e frammentarie riflessioni svolte qui in appresso sono limitate ad alcuni aspetti della disciplina degli strumenti di allerta, dell’accesso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza e del concordato preventivo[9], pur nella consapevolezza che svariate altre parti dell’articolato sarebbero da rivedere (e saranno probabilmente riviste)[10].
3. Criticità nella disciplina delle misure di allerta
L’attuazione delle delega su questo punto qualificante della riforma[11] appare per lo più coerente con l’impostazione data, come si diceva, dal legislatore delegante (di là dal giudizio che di essa può darsi). Vi sono nondimeno alcuni aspetti su cui sarebbe bene intervenire in senso modificativo.
Desta anzitutto perplessità la scelta di cui all’art. 15, 5° c., di rendere applicabili gli strumenti di allerta anche alle imprese minori, salvo soggiungere, con formulazione un po’ generica (e come tale potenzialmente foriera di disomogeneità applicative), “compatibilmente con la loro struttura organizzativa”.
Ed invero, l’esperienza insegna come la ristrutturazione delle piccole imprese sia disagevole proprio a causa delle loro dimensioni, sicché la previsione in esame rappresenta, con buona probabilità, un eccesso del mezzo rispetto al fine (dato il modesto allarme sociale che la loro crisi suscita). Per tacere del fatto che un perimetro applicativo troppo ampio comporta un appesantimento del lavoro dei soggetti preposti alle segnalazioni, a cominciare dagli enti tributari e previdenziali, a inevitabile scapito della qualità complessiva del servizio.
Sarebbe dunque opportuno espungere il quinto comma della norma e ogni altra disposizione da esso derivante.
Il nodo più delicato è peraltro quello degli obblighi di segnalazione di cui agli artt. 17 e 18.
Anche qui l’esperienza dimostra, al di là della materia delle crisi d’impresa, che un eccesso di flussi informativi ne rende più difficoltosa e meno rapida (dunque complessivamente meno efficiente) l’elaborazione.
Paradigmatico è il caso del quarto comma dell’art. 17, ai sensi del quale gli intermediari finanziari, “nel momento in cui comunicano al cliente variazioni o revisioni negli affidamenti, ne danno notizia anche agli organi di controllo societari, se esistenti”[12].
Cominciamo con l’osservare che la norma è verosimilmente viziata da eccesso di delega, dal momento che all’art. 4 della legge n. 155/2017 si parla esclusivamente di creditori pubblici qualificati e tali non sono le banche: il che basterebbe di per sé a suggerire la soppressione del precetto.
In ogni caso, la disposizione in esame si rivela inopportuna, in quanto comporta che gli organi di controllo societari vengano letteralmente sommersi da una mole impressionante di dati, non tutti realmente utili all’emersione tempestiva della crisi. Ma se proprio non si volesse rinunciare (per vero incomprensibilmente) a detta norma, andrebbe prevista soltanto la segnalazione della revoca degli affidamenti, indicandone altresì un importo minimo.
Ancor più criticabile è inoltre il livello delle soglie di cui al secondo comma dell’art. 18. Tutti gli importi di cui alle lettere a), b) e c), infatti, risultano troppo bassi e sono destinati – se confermati – a creare serie difficoltà al funzionamento del sistema per via del verosimile eccesso di segnalazioni.
Per quanto concerne poi, specificamente, il momento in cui scatta l’obbligo di segnalazione a carico dell’esattore, vale a dire quando il credito viene iscritto a ruolo, esso appare tardivo rispetto all’esigenza della precoce epifania della crisi; anche se va detto che, tecnicamente, l’esattore viene investito della posizione proprio con la trasmissione del ruolo, mentre prima di tale momento è l’agenzia delle entrate che provvede alla segnalazione.
Fra le criticità meritevoli di segnalazione – ma altre ve ne sarebbero da porre in luce – vi è infine quella relativa all’incarico che il debitore, ai sensi del secondo comma dell’art. 24, può conferire ai componenti del collegio dell’Organismo di composizione della crisi ai fini della presentazione della domanda per l’accesso al concordato preventivo o per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione.
Ora, l’evidente rischio di conflitti d’interessi e comunque di un vulnus alla terzietà dell’organo consiglia senz’altro, ad avviso di molti e anche di chi scrive, l’eliminazione della norma in parola.
In linea generale e di là dalle singole previsioni, data l’estrema delicatezza di questa parte di disciplina e delle sue implicazioni per la vita delle imprese, ci si augura vivamente che il “prodotto normativo finito” risulti per quanto possibile prudente ed equilibrato.
4. Scelte discutibili e profili di incostituzionalità nell’accesso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza
Il legislatore delegato ha optato, improvvidamente, per l’eliminazione tout court del c.d. automatic stay, abrogando di fatto, nel contempo, l’istituto del concordato con riserva quale oggi disciplinato.
Va detto subito che questa scelta non è frutto dei lavori della Commissione che ha redatto la bozza dei princìpi di legge delega (in cui la questione non era stata impostata in tali termini) e che essa non discende neppure, come conseguenza necessaria, dalla legge delega quale approvata poi dal Parlamento.
L’art. 6, 1° c., lett. b), invero, demanda al Governo di “procedere alla revisione della disciplina delle misure protettive, specialmente quanto alla durata e agli effetti, prevedendone la revocabilità, su ricorso degli interessati, ove non arrechino beneficio al buon esito della procedura”.
Orbene, rivedere la disciplina non equivale ad abrogare in toto un istituto (il concordato con riserva, per l’appunto), né, con ogni probabilità, rinunciare al caposaldo di un’intera stagione riformatrice quale l’automatic stay. E ciò è tanto più vero se si considera il fatto che la stessa legge delega, alla successiva lett. c), menziona espressamente il deposito della domanda di concordato “anche ai sensi dell’articolo 161, sesto comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”. Il che significa che, se una volontà va attribuita al legislatore delegante in base al senso proprio delle parole utilizzate, essa non è certamente di stampo abrogante, ma, esattamente all’opposto, all’insegna dell’espressa conservazione dell’istituto in parola.
I rilievi che precedono consentono quindi di sostenere fondatamente che la rinuncia, da parte del legislatore delegato, al concordato con riserva e con esso all’automatic stay appaia costituzionalmente illegittima per eccesso di delega[13].
E neppure sembra trattarsi di scelta imposta, nei termini di cui si discorre, dalla proposta di Direttiva UE, giacché, anche volendo anticipare l’adeguamento del nostro ordinamento alle prescrizioni in essa contenute, sarebbero stati sufficienti, verosimilmente, un contingentamento dei tempi e, soprattutto, la revocabilità degli effetti sospensivi ad opera del giudice.
Con ciò non si vuole negare che vada posto rimedio all’utilizzo improprio e distorsivo che dello strumento è stato fatto in passato. Ma occorre parimenti riconoscere che un siffatto utilizzo è stato efficacemente limitato dalla giurisprudenza attraverso il ricorso all’abuso del diritto e/o del processo, oltre che per via di un’interpretazione rigorosa dell’odierna disposizione sulla proroga del termine.
Se dunque è corretto “stringere le maglie” del sistema, anzitutto con la previsione della revoca, al cospetto di certe situazioni, del provvedimento di concessione dei termini (e su questo aspetto, non a caso, il principio di delega si concentra), risulta per converso senz’altro eccessivo negare che la presentazione della domanda rechi con sé la sospensione delle azioni esecutive e cautelari contro il debitore, che è condizione essenziale per trattare con i creditori ed elaborare il piano di superamento della crisi senza avere “la pistola puntata alla testa”.
E invece, sull’altare della compressione delle odierne prerogative del debitore, in effetti probabilmente eccessive, si è sacrificato uno strumento che, adeguatamente riequilibrato, è a ben vedere funzionale a creare le condizioni per un’efficace ristrutturazione dei debiti.
A livello di bozza di decreto delegato, tuttavia, vi è il modo per correggere almeno in parte questo vulnus, superando così anche il consistente dubbio di incostituzionalità. E’ infatti sufficiente integrare l’art. 44 con un ulteriore comma del seguente, possibile, tenore: “Con il deposito del ricorso i creditori per titolo o causa anteriore al deposito stesso non possono, sotto pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore”, disciplinando altresì la sorte di tale divieto nel prosieguo della procedura e correggendo di conseguenza il successivo art. 58, che demanda il divieto di azioni esecutive e cautelari a un provvedimento del tribunale, oltre tutto meramente eventuale.
Sempre nell’ottica di non rendere eccessivamente difficoltosa l’attività di ristrutturazione, occorrerebbe aumentare i termini, oggettivamente alquanto ristretti, per la presentazione del piano, stabilendo, alla lett. a) del primo comma dell’art. 48, un termine perentorio compreso fra quarantacinque e novanta giorni, essendo irrealistico, specie nelle situazioni più complesse, pretendere che proposta, piano e relativa documentazione vengano predisposti in un arco temporale compreso fra i trenta e i sessanta giorni dall’udienza (il cui esito, per sua natura non scontato, il debitore è incline ad attendere).
Almeno altrettanto grave è il difetto contenuto nel disposto dell’art. 58, 1° c., sui provvedimenti cautelari adottabili nel corso del procedimento ex art. 45. In base a tale previsione, infatti, il tribunale può, “su istanza di parte” (?), porre sotto sequestro l’azienda o il patrimonio del debitore ove ciò venga ritenuto idoneo ad assicurare in via provvisoria l’attuazione della sentenza che omologa il concordato o l’accordo di ristrutturazione.
La norma è francamente aberrante[14]: quale imprenditore deciderà di accedere allo strumento del concordato (e a fortiori dell’accordo di ristrutturazione) se dovrà mettere in conto che la sua azienda e il suo patrimonio possono venire sequestrati prima ancora di una decisione del tribunale sull’accesso alla procedura? L’interrogativo è evidentemente retorico.
L’ansia di armonia sistematica deve evidentemente aver “preso la mano” ai redattori della parte di decreto relativa al procedimento unitario: solo così, infatti, si giustifica una norma di oggettiva pericolosità per i pervasivi effetti di cui è foriera (oltre che di discutibile utilità), che si pone fra l’altro in flagrante controtendenza rispetto all’obiettivo della tempestiva emersione della crisi e al ribadito favor per le soluzioni negoziate della stessa. Senza dire dei possibili dubbi di incostituzionalità (i) per eccesso di delega (di un precetto così invasivo non vi è la minima traccia nella legge delega); (ii) per lesione della libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), non risultando l’ipotesi normativa in questione strumentale al perseguimento dell’utilità sociale; (iii) per irragionevolezza (art. 3 Cost.), stante la sproporzione del mezzo rispetto all’obiettivo perseguito, nonché per incongrua equiparazione nel trattamento, giacché la norma considera sullo stesso piano istituti – accordi di ristrutturazione, concordato preventivo e liquidazione giudiziale – che occorre invece disciplinare in modo differenziato.
E’ dunque lecito confidare nella recisa espunzione della norma nella parte in cui si riferisce al concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione, potendo essa mantenersi con riguardo alla liquidazione giudiziale (non diversamente da quanto già oggi previsto dal vigente art. 15).
Inutilmente “afflittiva” è pure la norma relativa alle spese che il debitore sarà chiamato a versare prima ancora dell’ammissione al concordato (art. 48, 1° c., lett. d). Anche alla luce dell’intervenuta abbreviazione dei termini di cui si diceva, infatti, questo onere si giustifica assai poco, oltre a schiudere la porta a prassi eterogenee per via del singolare riferimento alla “misura necessaria fino all’approvazione da parte dei creditori”, non facilmente calcolabile.
La disposizione dell’art. 51. 1° c., lett. d), circa il 50% delle spese necessarie per l’intera procedura risulta invero fare ampiamente alla bisogna, per cui la lett d) dell’art. 48, 1° c., andrebbe soppressa.
5. Previsioni da modificare in materia di concordato preventivo
Sempre seguendo l’ordine dell’articolato, può osservarsi come sia opportuno menzionare, nell’elencazione delle varie declinazioni della continuità indiretta (art. 89, 2° c., seconda parte), anche l’attribuzione delle attività dell’impresa a un assuntore. E’ ben vero che la norma chiude con l’espressione “o a qualunque altro titolo”, ma un chiarimento esplicito sarebbe preferibile, specie tenendo conto della crescente importanza pratica che il concordato con assunzione è venuta ad assumere negli ultimi anni.
Il terzo comma della norma introduce, come stabilito dalla legge delega, il criterio della prevalenza, che rappresenta una delle scelte più infelici del legislatore delegante (peraltro frutto di un improvvido emendamento parlamentare), in quanto condanna all’inammissibilità domande di concordato in continuità foriere di un più elevato soddisfacimento dei creditori, per il sol fatto che questi vengono soddisfatti in misura (seppur minimamente) superiore dal ricavato della dismissione di cespiti aziendali, con un criterio meramente quantitativo del tutto insoddisfacente. Proprio per tale ragione, la previsione – ineliminabile se non modificando la delega – andrebbe integrata con la precisazione che dal calcolo in questione vanno scomputate quelle risorse che, sebbene ricavate dalla vendita di beni, vengono reimmesse, in base a piano e proposta di concordato, nel ciclo produttivo, andando così a supportare la continuità aziendale. Il che consentirebbe, al contempo, di chiarire che detti proventi non vanno necessariamente destinati a beneficio immediato dei creditori.
Nel terzo comma, relativo al c.d. quid pluris esterno prescritto nel caso di concordato liquidatorio, sarebbe preferibile riprendere l’espressione della legge delega (“aumentare in misura apprezzabile il soddisfacimento dei creditori”), lasciando un minimo di duttilità e discrezionalità all’interprete; tanto più che quel che conta è l’osservanza della soglia “generale” del 20%, essendo la convenienza del concordato rispetto alla liquidazione giudiziale insita nella necessità dell’apporto ab externo. E ciò anche in ragione del fatto che il riferimento all’aumento “di almeno il 10%” ha già dato luogo, nei primi commenti, a ben tre letture diverse fra loro[15], sicché sarebbe comunque opportuno precisare espressamente che detto incremento va posto a raffronto con il livello di soddisfacimento che i creditori chirografari avrebbero conseguito in assenza del quid pluris. Occorre peraltro riconoscere che formulazioni normative disancorate da criteri quantitativi chiari – basti pensare alla “notevole sproporzione” di cui alla vecchia disciplina della revocatoria fallimentare, o alla locuzione “consistente e durevole” di cui all’odierno art. 67, 3° c., lett. b) – non abbiano dato, nella pratica, grande prova di sé.
L’art. 91 sulla moratoria dei privilegiati nel concordato in continuità andrebbe esplicitamente coordinato con l’art. 114, 5° c., nel senso che quest’ultimo (peraltro applicabile – anche o soltanto? – ai concordati liquidatori) contempla la dilazione “per oltre un anno dalla data di presentazione della domanda”, mentre il primo – che fissando un preciso limite massimo dovrebbe considerarsi “prevalente” – autorizza “una moratoria fino a due anni dall’omologazione”.
L’art. 92, 1° c., n. 5), richiede che il piano indichi “le azioni risarcitorie, revocatorie e recuperatorie esperibili”. Il precetto tuttavia si colloca, a ben vedere, ai confini con l’inesigibilità della prestazione, specie considerando il poco tempo concesso nel nuovo sistema al debitore per costruire il piano di concordato; senza dire dalla dubbia compatibilità di una disposizione siffatta, nella parte in cui ricomprende (implicitamente ma chiaramente) le azioni di responsabilità contro gli amministratori in carica, con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di nemo tenetur se detegere, andando tale norma ben oltre la disclosure, necessaria secondo la giurisprudenza ormai consolidata, circa gli eventuali atti di frode commessi anteriormente alla presentazione della domanda. Sarebbe dunque senz’altro preferibile mantenere la soluzione adottata dalla legge vigente (cfr. l’art. 172 come novellato nel 2015), continuando a demandare tali approfondimenti alla relazione del commissario giudiziale.
Il secondo comma dell’art. 92 è fra le disposizioni meno felici dell’intero decreto delegato. Essa rende facoltativa l’attestazione dell’esperto circa la veridicità dei dati e la fattibilità del piano, a meno che si tratti di (i) modifiche sostanziali della proposta o del piano, ovvero (ii) dello scrutinio, nel concordato in continuità, del requisito del miglior soddisfacimento dei creditori.
In proposito, va anzitutto rilevato come tale disposizione appaia eccedere i limiti della legge delega, la quale, all’art. 6, 1° c., lett. c), richiede di “fissare le modalità di accertamento della veridicità dei dati aziendali e di verifica della fattibilità del piano”. Ed invero, rendere un’attività prevista dalla legge – quella dell’attestatore – da obbligatoria a (tendenzialmente) facoltativa non sembra, obiettivamente, rientrare nel perimetro concettuale delle “modalità” di accertamento e di verifica. Per quel che può valere il profilo della ricostruzione normogenetica, inoltre, la proposta di eliminare o almeno rendere facoltativa l’attestazione non venne fatta propria dalla sottocommissione “competente” in materia (di cui chi scrive ha fatto parte) e non fu quindi sottoposta al plenum. Non a caso, non vi è alcuna menzione nella legge delega della volontà di rinunciare in tutto o in parte a tale istituto, né essa pare evincibile in via interpretativa (fermo restando che una novità di tale rilievo sarebbe dovuta essere – e sarebbe stata – prevista in modo chiaro ed esplicito). Già solo in base a questo consistente dubbio di incostituzionalità, pertanto, sarebbe bene espungere il secondo comma dell’art. 92 dal testo finale.
Nel medesimo senso, in ogni caso, depongono alcune convergenti considerazioni di (in)opportunità.
In primo luogo, non è dato scorgere, se non nell’ottica del contenimento dei costi della ristrutturazione, la ragione per cui rinunciare a un supporto prezioso per il commissario giudiziale e per il tribunale (nonché, in ultima analisi, per i creditori) come l’attestazione[16], rendendola di regola facoltativa. Per di più, tale scelta si pone in controtendenza rispetto all’accresciuto controllo giudiziale sulla fattibilità del piano, quale si evince chiaramente, a tacer d’altro, dal disposto degli artt. 51, 1° c., 52, 3° c. (in entrambi i quali si legge “anche con riferimento alla fattibilità del piano”), e dell’art. 90, 2° c. (che prescrive che il piano “abbia concrete possibilità di realizzazione”): il tribunale ai fini dell’espletamento di tale attività di verifica e il commissario ai fini della formulazione, già in sede di ammissione, dei propri rilievi dovrebbero poter continuare a fruire dei controlli e delle analisi svolti, a monte, dall’attestatore.
In secondo luogo, altrettanto poco comprensibile è rendere opzionale l’attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano, in certi casi assai complesso, per poi richiederla obbligatoriamente nel caso di modifiche del piano medesimo, o anche della sola proposta (sebbene l’attestazione riguardi esclusivamente, come la norma stessa dispone, la fattibilità del piano); modifiche che devono bensì essere sostanziali, ma che di regola risultano meno rilevanti delle “colonne portanti” del piano (specie se in continuità), che andrebbero dunque, a fortiori, attestate a prescindere da successive, eventuali, modifiche.
In terzo luogo, la norma limita l’attestazione obbligatoria all’ambito della continuità aziendale per quanto concerne il requisito del miglior soddisfacimento dei creditori. La soluzione è corretta con riguardo all’odierno assetto ordinamentale[17], ma forse, nella prospettiva riformatrice, sarebbe stato preferibile estendere il requisito al concordato liquidatorio, considerato anche il fatto che la Cassazione già oggi pare riguardarlo alla stregua di una clausola generale, insita nell’istituto concordatario in quanto tale[18]. La norma, poi, non sancisce (anzi sembra escludere) la necessità che per scrutinare il miglior soddisfacimento dei creditori l’esperto effettui la previa verifica circa la veridicità dei dati e la fattibilità del piano; laddove la prima attività presuppone necessariamente la seconda, per cui un chiarimento sul punto appare comunque indefettibile.
Restando per un attimo al novero dei professionisti che coadiuvano l’imprenditore nella soluzione della crisi, non può tacersi – a costo di essere tacciati di corporativismo “interessato” – il fatto che le previsioni di cui agli artt. 8 e 9 risultano penalizzanti per i consulenti dell’imprenditore (e ciò senza dire, a monte, della discutibile scelta del legislatore delegante di trasformare, ai fini della prededuzione, una prestazione di mezzi com’è tipicamente quella professionale in prestazione di risultato[19]).
Ed infatti, tenuto conto della mole di attività necessaria a imbastire una seria ristrutturazione aziendale e delle differenti professionalità che ciò richiede, le percentuali fissate dal primo comma dell’art. 8 appaiono decisamente troppo basse. Lo stesso è a dirsi per la misura massima dell’acconto pretendibile di cui al secondo comma, giacché in svariate situazioni (basti pensare all’accordo di ristrutturazione) la maggior parte del lavoro viene svolto prima del deposito della domanda. Né il problema può essere liquidato, per vero sbrigativamente, affermando che saranno i soci, se del caso, a metter mano al portafoglio.
E’ dunque lecito auspicare un raddoppio delle percentuali in questione e, comunque, un loro significativo incremento.
Quanto alla prededucibilità dei crediti professionali di cui alle lettere c) e d) dell’art. 9, non sembra giustificata la limitazione al 75%, non avendo siffatti crediti nulla a che fare, per loro natura, con quelli derivanti dai finanziamenti effettuati dai soci di cui all’odierno art. 182-quater, 3° c. (ove il limite previsto è dell’80%). Giuridicamente, un credito professionale è meritevole del beneficio della prededuzione o non lo è, sicché la “meritevolezza parziale” di cui all’ipotesi normativa in questione non persuade affatto.
Il rischio insito nell’impostazione adottata dalla Commissione di riforma nel redigere i testi in esame, in definitiva, è di imboccare la strada, che già in alcuni casi concreti è stata pericolosamente battuta – come hanno dimostrato i risultati (non) conseguiti in diversi tentativi di salvataggio –, del race to the bottom quanto a qualità del supporto consulenziale, con inevitabili conseguenze negative, in ultima analisi, sul funzionamento del sistema, al quale invece una più equilibrata riduzione dei costi professionali della ristrutturazione potrebbe effettivamente giovare.
Passando al tema delle offerte concorrenti, il primo comma dell’art. 96 continua a riferirsi, oltre che all’azienda o a rami di essa, a “specifici beni”, laddove l’esperienza pratica ha messo in luce come ciò, in molti casi, costituisca un eccesso del mezzo (l’obbligo di procedura competitiva) rispetto al fine (scardinare i concordati “chiusi”), aumentando durata e costi del concordato. Sarebbe quindi opportuno limitare l’operatività del precetto ai beni di non modico valore, le cui condizioni di vendita siano cioè tali da incidere in modo non trascurabile sul livello di soddisfacimento del ceto creditorio.
La norma inoltre, nell’ultima parte del primo comma, si limita a dichiarare applicabile la disciplina della procedura competitiva all’ipotesi dell’affitto di azienda, senza precisare la sorte del relativo contratto rispetto alla possibile incompatibilità con il pieno dispiegarsi del principio competitivo. Andrebbe invece colta l’occasione per chiarire questo delicato nodo interpretativo (va messa all’asta l’azienda affittata, o il contratto di affitto viene meno e l’azienda viene venduta “libera”?), stanti le sue rilevanti implicazioni pratiche e le attuali, persistenti, incertezze interpretative; tanto più che neppure il secondo comma appare idoneo a fornire tale pur necessario chiarimento.
Più in generale, sarebbe bene – dato il diffondersi di orientamenti spiccatamente eterogenei sul punto – definire in modo perspicuo i confini del perimetro applicativo della norma, chiarendo che ne restano fuori tanto il concordato con assunzione, quanto i mutamenti della compagine sociale attraverso trasferimenti di azioni o quote, aumenti di capitale, ecc. (anche se, francamente, la lettura che conduce ad applicare l’odierno art. 163-bis a questi ultimi casi non appare accettabile, dal momento che la norma si riferisce solo a beni del debitore e che la variazione della titolarità di beni di terzi, quali sono i soci, non incide in alcun modo sulla sfera patrimoniale dei creditori).
Per quanto concerne due fattispecie oggetto, anche nel recente passato, di serrato dibattito come quelle di ordinaria amministrazione e di atti di frode, sarebbe opportuno dettarne, rispettivamente agli artt. 99 e 111, una definizione più esplicitamente coerente con gli approdi giurisprudenziali in materia, dal punto di vista sia del pregiudizio per il ceto creditorio, sia dell’elemento soggettivo in capo al debitore. Ciò consentirebbe indubbiamente di eliminare – o quanto meno di ridurre in modo significativo – le eterogeneità applicative tuttora non infrequenti.
In tema di voto, stante la lettura “elastica” che è stata data dalla Commissione al testo della legge delega, sarebbe importante rendere la disciplina concorsuale finalmente armonica con il resto dell’ordinamento civilistico, notoriamente retto dal principio della non significatività del silenzio (qui tacet neque dicit, neque negat, neque utique fatetur). Pertanto, i creditori non votanti andrebbero scomputati dal quorum deliberativo intervenendo in questo senso sul disposto dell’art. 115, giacché il loro atteggiamento astensionistico non è, obiettivamente, riconducibile né a un assenso, né a un dissenso[20]. D’altronde, la regola del silenzio-diniego non si rinviene nella disciplina del nuovo concordato “fallimentare”, né in quella sul sovraindebitamento: motivo in più per armonizzare tutto il sistema.
L’art. 114, al sesto comma, introduce la regola dell’esclusione dal voto e dal computo delle maggioranze i creditori in conflitto d’interessi. La definizione che ne viene fornita – “creditori portatori di un interesse in conflitto con il miglior soddisfacimento dei creditori, fatte salve la cause legittime di prelazione” – appare tuttavia piuttosto generica, oltre che vagamente tautologica. La sua auspicata riformulazione potrebbe tener conto dei princìpi espressi nella decisione resa da ultimo in materia dalle Sezioni Unite della Cassazione[21].
Resta il dubbio, non solo in chi scrive[22], che la trasposizione “forzosa” dell’istituto del conflitto d’interessi all’ambito concordatario (frutto della legge delega) mal si concili con il fatto che la massa dei creditori rappresenta pur sempre un consesso (i) che non si è formato volontariamente e (ii) che non è caratterizzato da una vera comunanza d’interessi e d’intenti[23].
Senza dire che non risulta armonico un sistema nel quale la situazione di conflitto viene risolta talora con l’esclusione dal voto, talaltra con la suddivisione in classi[24]. Emblematico è il caso della proposta concorrente, che all’art. 114 si prevede – come peraltro già oggi accade – possa essere votata dallo stesso proponente, laddove andrebbe stabilita, di contro, la sua recisa esclusione dal voto[25].
Per quanto concerne i finanziamenti effettuati “in esecuzione di un concordato preventivo ovvero di un accordo di ristrutturazione omologato” (dove tra l’altro non è del tutto chiaro se il participio “omologato” al singolare si riferisca, come peraltro sembrerebbe, anche al concordato), desta forti perplessità, dal punto di vista della tutela dell’affidamento dei terzi, la prevista possibilità che il rango prededucibile venga meno.
In particolare, andrebbe senz’altro espunto il riferimento all’eventualità in cui il piano sia risultato, seppur con valutazione ex ante, “manifestamente inattuabile”, disciplinata tanto alla lett. a), quanto alla lett. b) dell’art. 106. Ed invero, tali previsioni sono verosimilmente viziate da eccesso di delega, giacché il principio di cui all’art. 6, lett. o), della legge n. 155/2017 si riferisce esclusivamente al “caso di atti in frode ai creditori” e a questa sola ipotesi (effettivamente contemplata alla lett. a) dell’art. 106) il legislatore delegato dovrebbe attenersi. Può inoltre soggiungersi che la norma risulta criticabile anche sotto altro profilo, nella misura in cui lede l’affidamento che il soggetto finanziatore ha ragionevolmente riposto nell’attività del tribunale (e nel caso di concordato pure del commissario giudiziale): se il piano era davvero manifestamente inattuabile sin dall’origine, si sarebbe dovuta respingere la relativa domanda di (ammissione e di) omologazione, per cui è iniquo che l’ipotetico errore ridondi a danno del finanziatore, a meno che questi, appunto, fosse colluso con il debitore per frodare i di lui creditori.
Quanto infine all’art. 124 in tema di risoluzione, non bisognerebbe lasciarsi sfuggire l’occasione per alcuni chiarimenti importanti, relativi a problemi che emergono con frequenza nella pratica[26]: a cominciare dalla risoluzione ante tempus, ove risulti manifesta l’impossibilità prospettica di pagare per intero i crediti privilegiati; per arrivare – aspetto ancor più rilevante – alla declaratoria di fallimento omisso medio, vale a dire senza la necessità della previa risoluzione, una volta decorso il termine dell’anno dalla scadenza fissata per l’ultimo adempimento del debitore. E in proposito merita ricordare che, mentre con le due ordinanze del 2017 (nn. 17703 e 29632) la Cassazione ha affermato la possibilità del fallimento omisso medio, le Sezioni Unite, nelle note sentenze nn. 9935 e 9936 del 15 maggio, hanno di contro sancito, correttamente, il principio in base al quale “l’omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l’annullamento del concordato”.
Ove possibile, andrebbe infine chiarito il concetto di inadempimento nelle due tipologie concordatarie (con particolare riguardo al raggiungimento, nella fase esecutiva, della percentuale di soddisfacimento dei creditori chirografari stabilita nella proposta), giacché è precisamente su questo terreno che si sono registrate, non da oggi, le maggiori divergenze in dottrina e in giurisprudenza.
Che “fresh start” normativo sarebbe senza provare a chiarire il maggior numero di problemi interpretativi (e quindi applicativi) possibile?
[1] E’ in effetti diffusa l’opinione di quanti sottolineano come, fino ad oggi, “la “riforma”, per usare un termine forse “ridondante”, non sia nata da un approfondimento teorico globale e, quindi, da un quadro di riferimento complessivo, bensì da iniziative “occasionali”, dettate dalla necessità di affrontare situazioni concrete o, sovente, di correggere le modifiche introdotte”: così, ad esempio, Sandulli-D’Attorre, Manuale delle procedure concorsuali, Torino, 2016, p. XI, nonché Nigro-Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Bologna, 2017, pp. 28 ss. E in proposito si veda, con la consueta, peculiare, efficacia, Rordorf, Prefazione ad Ambrosini, Il nuovo diritto della crisi d’impresa: l. 132/15 e prossima riforma organica, Bologna, 2016, pp. 2-3, il quale osserva che, a partire dal biennio 2005-2006, “nel settore delle procedure concorsuali (ma non solo in quello), alla relativa staticità della pregressa situazione normativa è subentrato un periodo di mutamenti continui, segnato quasi annualmente da nuovi interventi legislativi, per lo più realizzati con lo strumento della decretazione d’urgenza e, quindi, con ulteriori continue modifiche di volta in volta apportate ad ogni decreto legge dalla relativa legge di conversione. Una sorta di interminabile sciame sismico che ha destabilizzato questo settore, (…) creando non poche complicazioni agli interpreti. E ciò per almeno due ragioni. Anzitutto perché il rincorrersi di disposizioni sempre nuove inevitabilmente fa sorgere spinosi problemi di diritto intertemporale, imponendo di verificare continuamente quale regime sia applicabile, ratione temporis, alla fattispecie di volta in volta in esame. Poi perché le norme vivono anche e soprattutto nell’interpretazione che se ne dà, e questa, a propria volta, richiede un tempo fisiologico di sedimentazione per potersi consolidare ed offrire garanzie di (almeno relativa) stabilità, mentre il continuo mutare del lato normativo ostacola il consolidarsi della giurisprudenza e fa sì che l’interprete si trovi sempre più spesso a doversi confrontare con problemi ancora inesplorati”.
[2] Su cui v., in luogo di altri, Jorio, Su allerta e dintorni, in Le proposte per una riforma della legge fallimentare, a cura di Arato e Domenichini, Milano, 2017, pp. 55 ss.; Panzani, Le procedure di allerta e conciliazione, ivi, pp. 65 ss.
[3] Di Marzio, La riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Osservazioni sulla legge delega, Milano, 2018. In senso contrario De Matteis, I principi generali della legge delega di riforma delle procedure concorsuali, in Dir. fall., 2017, I, p. 1295, ove il deciso plauso “al legislatore per “la forza e il coraggio” dimostrati nel superare forze lobbistiche e ostacoli ideologici, compiendo un deciso passo in avanti nella disciplina del diritto concorsuale”. Per una lettura “intermedia”, che mette in evidenza luci e ombre della legge delega (e dello schema di decreto delegato), v. le stimolanti riflessioni di Jorio, La riforma della legge fallimentare tra utopia e realtà, in corso di pubblicazione negli Studi in memoria di Michele Sandulli.
[4] Fabiani, Di un ordinato ma timido disegno di legge delega sulla crisi d’impresa, in Fallimento, 2016, p. 263. Più critico Di Marzio, op. cit., p. 132, secondo il quale “resta l’impressione di assistere ad un’operazione di retroguardia, in cui si è cercato di depotenziare alcune fondamentali acquisizioni del nuovo diritto della crisi di impresa senza avere il coraggio di una radicale sconfessione a vantaggio di una proposta alternativa sufficientemente credibile”.
[5] Per un primo esame della bozza di disegno di legge delega varata dalla Commissione Rordorf v. Ambrosini, Il nuovo diritto della crisi d’impresa: l. 132/15 e prossima riforma organica, cit., pp. 139 ss.
[6] Cfr., in luogo di altri, Di Marzio, op. cit., passim.
[7] Come chi scrive ha osservato nell’articolo Crisi d’impresa, perché la riforma va completata subito, pubblicato su Il Messaggero del 9 giugno 2018.
[8] In argomento si vedano, tra gli altri e per ulteriori riferimenti, Panzani, La proposta di Direttiva della Commissione UE in tema di regime di ristrutturazione preventiva dell’impresa, seconda chance ed esdebitazione, in Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria, diretto da Ambrosini, cit., pp. 1087 ss.; Stanghellini, La proposta di direttiva UE in materia di insolvenza, in Fallimento, 2017, pp. 873 ss.;
[9] Non viene invece affrontata in questa sede quella parte di disciplina, pur importante e innovativa, che va ormai comunemente sotto il nome di “diritto societario della crisi”. In argomento v. però, proprio sui profili de jure condendo, Nigro-Vattermoli, Osservazioni critiche (e minime) allo schema di riforma delle procedure concorsuali in tema di “diritto societario della crisi”, in www.giustiziacivile.com, 21 agosto 2018. E sulla disciplina vigente v., tra i saggi più recenti e in luogo di altri, Ibba, Il nuovo diritto societario tra crisi e ripresa (Diritto societario quo vadis?), in Riv. soc., 2016, pp. 1026 ss., e Montalenti, Diritto dell’impresa in crisi, diritto societario concorsuale, diritto societario della crisi: appunti, in Giur. comm., 2018, I, pp. 62 ss.
[10] Una per tutte: la persistente impossibilità per il tribunale di svolgere indagini officiose circa la sottoponibilità del debitore a liquidazione giudiziale, laddove una previsione siffatta scongiurerebbe l’apertura di molte procedure a carico di imprenditori “sotto soglia”, che ricadrebbero così opportunamente nel perimetro del sovraindebitamento (debbo lo spunto a una conversazione con il Pres. Luciano Panzani).
[11] Per un’interessante panoramica dell’istituto, visto anche nella sua dimensione comparatistica, si veda, tra gli altri, il lavoro monografico di De Matteis, L’emersione anticipata della crisi d’impresa. Modelli attuali e prospettive di sviluppo, Milano, 2017, ove ampi riferimenti.
[12] In realtà, durante i lavori della Commissione è circolata l’indiscrezione che essa fosse almeno in parte orientata a varare una norma ad ancor più ampio (e ancor più inopportuno) spettro. Al che chi scrive aveva osservato, nell’articolo Non bisogna tradire lo spirito del riordino, in Sole 24 Ore del 26 novembre 2017, pp. 1-2, che “l’accelerazione impressa ai lavori dalla politica rischia fatalmente di essere cattiva consigliera. Basti pensare all’onere di segnalazione dei fondati indizi di crisi, che sembra si voglia inopportunamente porre a carico delle banche e degli altri intermediari finanziari, nonché delle organizzazioni sindacali”.
[13] Stesso rilievo in Bozza, L’enigma del concordato con riserva nella bozza del codice della crisi e dell’impresa, in www.ilcaso.it, 30 luglio 2018, p. 11, secondo il quale “escludere che il debitore possa presentare un ricorso analogo a quello oggi previsto dal sesto comma dell’art. 161 va contro il dettato della legge delega”.
[14] Non a caso, attenta dottrina ha osservato che il recupero di sovranità giudiziaria sancito dalla riforma raggiunge, in questa previsione, “effetti sconcertanti”: così Bozza, op. cit., p. 16, il quale giustamente aggiunge: “Un intervento così invasivo è concepibile nel caso delle proposte alternative per fronteggiare l’inerzia o addirittura l’ostruzionismo del debitore alla attuazione della proposta altrui (attuale art. 185 e futuro art. 123), ma non può essere permesso per realizzare la proposta dello stesso debitore dal momento che la sua inadempienza è già sanzionata con la risoluzione e senza peraltro collegarlo a precise circostanze” (ivi, p. 17).
[15] Come ricorda Gaffuri, La nuova disciplina del concordato preventivo, in www.ilfallimentarista.it, 9 agosto 2018, pp. 2-3.
[16] Come si è ritenuto di osservare durante il periodo dei lavori della Commissione (Riforma fallimentare al nodo attestatore, in Sole 24 Ore del 21 novembre 2017, p. 38), l’istituto dell’attestazione del piano concordatario è pur sempre “uno degli architravi della riforma del 2005 (riforma che la legge delega non ha affatto inteso sovvertire). I princìpi e le prassi elaborati negli anni in tema di indipendenza dell’attestatore, insieme alla sua responsabilizzazione anche sul piano penale, costituiscono oggi un presidio sostanzialmente adeguato, anche se probabilmente migliorabile”.
[17] A. Rossi, Il miglior soddisfacimento dei creditori (quattro tesi), in Fallimento, 2016, p, 646; Ambrosini, Concordato preventivo con continuità aziendale: problemi aperti in tema di perimetro applicativo e di miglior soddisfacimento dei creditori, in www.ilcaso.it, 25 aprile 2018, p. 6. Contra, però, Patti, Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, in Fallimento 2013, p. 1107.
[18] Cass., 19 febbraio 2016, n. 3324, in Fallimento, 2016, p. 791.
[19] Per una critica all’impostazione di parte della giurisprudenza orientata in questi termini sia consentito rinviare ad Ambrosini, Appunti in tema di prededuzione del credito del professionista nel concordato preventivo e nell’eventuale successivo fallimento, in www.osservatorio-oci.org, giugno 2017.
[20] La proposta era stata avanzata da chi scrive nel contributo Problemi in tema di voto nel concordato preventivo, in Fallimenti & Società, 12 dicembre 2017.
[21] Cass., S.U., 27 luglio 2018, n. 20282, in Fallimento, 2018, p. 960, con commento di D’Attorre, Le sezioni unite riconoscono (finalmente) il conflitto d’interessi nei concordati.
[22] E v. infatti, in luogo di altri Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, p. 158: “deve ritenersi che in materia concorsuale non possano essere traslati automaticamente principi acquisiti nel diritto societario e che quindi in tanto il conflitto rilevi in quanto il legislatore lo valorizzi e non ritenga, invece, tale situazione cedente rispetto all’esigenza di portare a conclusione la crisi d’impresa”. Analogamente Censoni, Il concordato preventivo, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Jorio e Sassani, Milano, 2016, p. 325. In senso contrario cfr. tuttavia Sacchi, Concordato preventivo, conflitto di interessi fra creditori e sindacato dell’autorità giudiziaria, in Fallimento, 2009, pp. 32 ss.; Fabiani, Brevi riflessioni su omogeneità degli interessi ed obbligatorietà delle classi nei concordati, ivi, pp. 437 ss.; D’Attorre, Il conflitto d’interessi fra creditori nei concordati, in Giur. comm., 2010, I, pp. 392 ss. Sul tema si vedano altresì Terranova, Conflitti d’interessi e giudizio di merito nelle soluzioni concordate delle crisi d’impresa, in AA. VV., La riforma della legge fallimentare, Milano, 2011, in partic. p. 174 ss., e Calandra Buonaura, Disomogeneità di interessi dei creditori concordatari e valutazione di convenienza del concordato, in Giur. comm., 2012, I, pp. 14 ss.
[23] Alle medesime conclusioni perviene il recente lavoro monografico di G. Nuzzo, L’abuso del diritto di voto nel concordato preventivo, Roma, 2018, passim (in partic. pp. 34 ss.).
[24] Sono debitore dell’osservazione a Vittorio Zanichelli.
[25] Conforme D’Attorre, Le sezioni unite riconoscono (finalmente) il conflitto d’interessi nei concordati, cit., p. 971, secondo il quale sarebbe “più opportuno ed efficiente estendere la regola dell’esclusione del voto anche al creditore-proponente”. Per la medesima critica de jure condito v. già Fabiani, L’ipertrofica legislazione concorsuale fra nostalgie e incerte contaminazioni ideologiche, in www.ilcaso.it, 6 agosto 2015, p. 12, e Ambrosini, Il nuovo diritto della crisi d’impresa: l. 132/15 e prossima riforma organica, cit., p. 101.
[26] Relativamente ai quali si rinvia, fra i contributi più recenti, ad Ambrosini, La risoluzione del concordato preventivo e la (successiva?) dichiarazione di fallimento: profili ricostruttivi del sistema, in www.ilcaso.it, 6 settembre 2017, e a Ratti-Pezzano, L’irrealizzabile esecuzione del concordato preventivo: il fallimento senza risoluzione, in Fallimento, 2018, pp. 744 ss..
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