CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 30/11/2015 Scarica PDF

Il diritto della crisi d'impresa nella legge n. 132 del 2015 e nelle prospettive di riforma

Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte Orientale


Sommario: 1. Premessa. - 2. Il contenuto della domanda di concordato. - 3. Segue. La questione della percentuale di soddisfacimento dei creditori. - 4. Segue. Il trattamento dei privilegiati falcidiati. - 5. Il tema delle prerogative del tribunale e del ceto creditorio. - 6. Il nuovo concordato liquidatorio e i rapporti con quello in continuità. - 7. Modifiche e rinuncia alla domanda. - 8. Le proposte concorrenti. - 9. I nuovi compiti dell’attestatore. - 10. Le offerte concorrenti. - 11. I contratti pendenti. - 12. Cenni ad altre novità in tema di concordato. - 13. Finanza interinale. - 14. Disciplina transitoria. - 15. Lacune della novella in materia di concordatoe brevi considerazioni de jure condendo. - 16. Accordi di ristrutturazione con creditori bancari e convenzioni di moratoria. - 17. Un flash sulle novità in tema difallimento. - 18 Segue. La prosecuzione dei giudizi dopo la chiusura. - 19. Conclusioni: controriforma o “correzioni di rotta”? - 20. Prospettive di riforma: princìpi generali e misure di allerta. - 21. Segue:concordato preventivo, accordi di ristrutturazione e piani di risanamento.

 

 

1. Premessa

La riforma del 2005, ancorché riduttivamente definita, in allora, “miniriforma” (in quanto prodromica alla riscrittura dell’intera disciplina del fallimento, che infatti avrebbe visto la luce l’anno successivo), ha rappresentato la novità più dirompente in materia concorsuale dal 1942 ai giorni nostri: basti pensare al forte depotenziamento del rimedio revocatorio, all’abrogazione dell’amministrazione controllata, al mutamento “fisionomico” del concordato preventivo e all’introduzione degli istituti dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e dei piani attestati di risanamento, nonché all’impatto che tutto ciò ha avuto negli ultimi due lustri sulla gestione della crisi delle imprese italiane.

A dieci anni di distanza un altro (ennesimo) intervento correttivo del legislatore - la legge n. 132 del 6 agosto 2015 (pubblicata sul supplemento ordinario n. 50 della Gazzetta Ufficiale del 20 agosto ed entrata in vigore il giorno successivo), che ha convertito il d.l. n. 83 del 27 giugno 2015 - porta con sé modifiche rilevanti della disciplina della crisi d’impresa.

La novella non giunge inattesa. È quanto meno dall’epoca del “Decreto del Fare” del 2013 che vanno sviluppandosi, in varie sedi, riflessioni dirette a novellare la legge fallimentare quale consegnataci dalla riforma del 2012; riflessioni cui è stata impressa un’accelerazione sul finire del 2014 (e dunque in epoca anteriore all’istituzione, ad opera del Ministro della giustizia, della commissione di riforma), quando hanno cominciato a prendere corpo diverse iniziative in ambito bancario, confindustriale e istituzionale.

Non a caso, alcune delle innovazioni di cui all’odierna riforma (offerte concorrenti, finanziamenti interinali nel pre-concordato, finanziamenti urgenti a sostegno della continuità aziendale, ecc.) erano già contenute nella bozza del c.d. Investment Compact circolata appunto a fine 2014, peraltro non recepite nella versione finale del decreto legge n. 3 del 24 gennaio 2015 (“Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti”), complice, fra l’altro, la ritenuta impraticabilità politica dell’ipotesi, prevista in tale bozza, di derogare alla disciplina in tema di usura relativamente ai finanziamenti autorizzati ex artt. 182-quinquies e 167 e concessi da soggetti vigilati dalla Banca d’Italia.

L’odierna “miniriforma” rappresenta il punto di arrivo di questo percorso e il “precipitato” di interessi legittimamente portati avanti, di là dal giudizio sulle singole disposizioni, da settori assai importanti del sistema economico.

Volendo per un momento prescindere dal merito della novella, peraltro in buona parte condivisibile, non può sottacersi che il recentissimo intervento solleva legittime e fondate perplessità quanto al metodo. Ed invero, non si sottraggono facilmente a censura né l’aver fatto ancora una volta ricorso alla decretazione d’urgenza (per di più al cospetto di disposizioni di dubbia necessità e urgenza: ma questo è un vizio purtroppo comune a molte materie oggetto di legiferazione), né l’essersi in certa misura sovrapposto ai lavori della Commissione di riforma istituita a gennaio 2015 dal Ministro della giustizia, la quale proprio a fine luglio (cioè pochi giorni prima della legge di conversione del decreto n. 83) aveva varato una prima bozza di legge delega per la riforma organica del diritto fallimentare, inclusa la disciplina dell’insolvenza del debitore civile e quella dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

 Senza dire dell’incoercibile tendenza del nostro legislatore a modificare a ritmo continuo la normativa, nella speranza – non è dato sapere quanto illusoria – di affrontare in modo più efficace la difficile congiuntura economica anche attraverso lo strumentario concorsuale. Con il duplice inconveniente di mutare con eccessiva frequenza il quadro normativo di riferimento (cosa di per sé non positiva per gli operatori economici e per il sistema nel suo complesso) e di non attendere il tempo necessario al formarsi di un’esperienza pratica sufficiente ad affrontare i problemi interpretativi in modo più ponderato e uniforme.

Con i rilievi di carattere “metodologico” che precedono non si intende ovviamente ridimensionare l’importanza della miniriforma dell’agosto scorso, né negare l’opportunità di svariate novità fra quelle introdotte.

Provando a gettare fin da subito uno sguardo d’insieme sui contenuti normativi, ciò che emerge con maggior evidenza è l’obiettivo di riequilibrare (sebbene, forse, attraverso una troppo brusca “oscillazione del pendolo”) il rapporto fra debitore e creditori, ritenuto – a torto o a ragione – eccessivamente sbilanciato a favore del primo nell’impostazione fatta propria dalla riforma del 2012. E lo strumento “principe” individuato a tal fine dal legislatore del 2015 è quello della contendibilità dell’impresa in crisi, come si evince plasticamente dalla disciplina delle offerte e delle proposte concorrenti, le cui finalità – si legge nella Relazione illustrativa al disegno di legge presentato alla Camera dei deputati il 27 giugno 2015 – “sono quelle di massimizzare la recovery dei creditori concordatari e di mettere a disposizione dei creditori concordatari una possibilità ulteriore rispetto a quella di accettare o rifiutare in blocco la proposta del debitore”.

L’altra “anima” della legge n. 132/2015, di segno diverso (se non opposto) e come tale inevitabilmente foriera di criticità sul piano della coerenza interna dell’intervento normativo, è rappresentata dall’intento di evitare abusi nel ricorso al concordato e, comunque, effetti eccessivamente penalizzanti per i creditori; obiettivo, questo, perseguito in particolare attraverso la fissazione della soglia minima del 20% per il soddisfacimento dei crediti chirografari nel concordato liquidatorio.

Al riguardo deve ammettersi, se non si vuole mancare di onestà intellettuale, che essere stati costretti a discutere, nell’imperio della legislazione previgente, in ordine alla proponibilità o meno di un concordato con “soddisfazione” per il ceto chirografario nella misura dello 0,0003%[1] ha voluto dire che un certo segno era stato passato; sebbene alcuni di noi continuino a ritenere che la reintroduzione di una percentuale minima, specie così elevata, sia verosimilmente destinata a comportare un incremento dei fallimenti e con esso un ulteriore carico per la – già cronicamente affaticata – giustizia civile, senza apprezzabili vantaggi per i creditori, cui viene in tal modo sottratta la possibilità di scegliere fra un concordato con soddisfacimento compreso, ad esempio, fra il 15% e il 19,9% (in sé non disprezzabile) e, appunto, un fallimento[2]. Oltre tutto senza distinguere, come invece sarebbe stato d’uopo, fra cessione dei beni sic et simpliciter e proposta (pur sempre liquidatoria ma) contemplante apporti di soggetti terzi.

Per altro verso, va detto che né quest’ultima previsione, né quella sulla inammissibilità di proposte concorrenti ove la proposta del debitore assicuri il pagamento di almeno il 40% dei chirografi nel concordato liquidatorio o di almeno il 30% nel concordato in continuità appaiono misure concretamente idonee a provocare la tempestiva emersione della crisi, laddove sarebbe stato opportuno (oltre che, questo sì, urgente) individuare equilibrati strumenti di allerta in grado di impedire la dispersione del residuo valore dei beni aziendali e l’aggravamento del dissesto. Come emerge chiaramente dai primi dati resi disponibili da alcuni tribunali, il risultato fin qui conseguito è piuttosto quello di una sensibile diminuzione delle domande di concordato.

Occorre nondimeno riconoscere, chiudendo sul punto, che la novità appare coerente con un trend normativo improntato a un crescente disfavore nei confronti del concordato liquidatorio, come i lavori della Commissione di riforma (ormai di pubblico dominio) sembrano in effetti confermare[3]. Pur con l’importante e assai opportuna precisazione – di cui alla bozza di legge delega – che alla c.d. continuità indiretta non si applica la disciplina del concordato liquidatorio e che il ricorso a quest’ultimo è ammissibile (senza soglie percentuali) quando vi sia l’apporto dall’esterno di un quid pluris, purché non di irrisoria entità.

Alla tendenza a ridimensionare lo spatium operandi del concordato liquidatorio non pare d’altronde estranea l’attenzione al contenimento, per quanto possibile, dei costi delle procedure concordatarie (di cui pure occorre tener conto nel teorico raffronto con il fallimento); e non a caso nella Raccomandazione della Commissione Europea del 12 marzo 2014 si fa espresso riferimento alla riduzione dei “costi di ristrutturazione a carico di debitori e creditori” (“Considerando” n. 11).


2. Il contenuto della domanda di concordato

Fra le novità più significative nel novero di quelle in materia di concordato preventivo vi è sicuramente l’avvenuta modifica dell’art. 161, integrato alla fine della lettera e) del secondo comma con la seguente disposizione: “in ogni caso, la proposta deve indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”[4].

La formulazione della norma induce a focalizzarsi sul concetto di utilità, adoperato dal legislatore per lo più in ambito penale (“denaro o altre utilità”) e raramente utilizzato in campo civile (nel codice risulta impiegato limitatamente – a quanto consta – agli istituti del fondo patrimoniale, del fondo dominante nella servitù e della gestione di affari altrui: artt. 169, 1027 e 2031).

Il termine “utilità”, per vero, ha fatto il suo contestuale ingresso nella legge fallimentare anche in un altro punto, là dove, al primo comma dell’art. 172, si richiede al commissario di illustrare, nella propria relazione, “le utilità che, in caso di fallimento, possono essere apportate dalle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie che potrebbero essere promosse nei confronti di terzi”.

La ratio della disposizione di cui all’anzidetto dell’art. 161, 2° c., lett. e), appare perspicua: scongiurare la presentazione di domande che lascino – come si legge nella Relazione illustrativa – “del tutto indeterminato e aleatorio il conseguimento di un’utilità specifica per i creditori”: donde la prescrizione che le utilità spettanti ai creditori siano appunto enucleate in modo specifico e risultino misurabili sul piano economico[5].

A risultati interpretativi analoghi, peraltro, era già pervenuta la giurisprudenza nel perseguire lo scopo – e nell’affermare giustamente la necessità – di una genuina e consapevole formazione del consenso da parte del ceto creditorio.

Sotto il profilo esegetico, può osservarsi come il legislatore abbia fatto volutamente ricorso a un’espressione generica e in quanto tale comprensiva di ogni tipo di utilità suscettibile di valutazione economica; concetto, questo, da intendersi in sostanza come sinonimo di “vantaggio economico” latamente inteso.

Sembrano quindi rientrarvi, almeno con riguardo al concordato in continuità, benefici assai diversi dal denaro e dall’attribuzione di beni in natura, potendosi andare dalla prosecuzione di rapporti commerciali con determinati fornitori alla salvezza dalla revocatoria di atti altrimenti destinati, con tutta probabilità, alla declaratoria di inefficacia: quindi vantaggi per i creditori sia in termini di maggiori introiti che di minori esborsi rispetto all’ipotesi fallimentare.

Per com’è appunto formulata, la previsione in esame pare aprire, in prospettiva, alla possibilità di configurare anche nel nostro ordinamento le cc. dd. classi a zero (cui la Cassazione ha fin qui negato “diritto di cittadinanza”), sulla falsariga dell’istituto della zeroklass proprio del sistema tedesco; e nella medesima direzione potrebbero invero muovere i lavori della Commissione di riforma.

Quanto poi all’espressione “ciascun creditore” di cui alla previsione in esame, essa va necessariamente interpretata, ove si voglia munirla di significato anche sotto il profilo operativo (si pensi ai concordati con centinaia, quando non migliaia, di creditori), come riferita, in realtà, a ciascuna categoria di creditori.

         

3. Segue. La questione della percentuale di soddisfacimento dei creditori

Come si diceva, la citata lett. e) del secondo comma dell’art. 161 fa espresso riferimento alle utilità che il proponente “si obbliga ad assicurare”.

La norma risulta sufficientemente perspicua da condurre l’interprete ad affermare che la percentuale di soddisfacimento dei creditori menzionata dal debitore nel ricorso non potrà d’ora in poi limitarsi a un’indicazione di massima, ma dovrà costituire oggetto di un preciso impegno in tal senso.

Essa potrà tuttavia continuare a essere indicata in un range compreso fra un minimo e un massimo, a condizione che la “forbice” sia ragionevolmente contenuta: non basta infatti un precetto normativo a eliminare quell’alea che è per sua natura consustanziale a qualsiasi cessione di beni da realizzarsi in un certo arco temporale e come tale soggetta a variabili di diverso genere (e lo stesso dicasi, a fortiori, nel caso di prosecuzione dell’attività d’impresa); alea che sarebbe irrealistico voler forzosamente comprimere. E tale range, in base al criterio della mediana, potrebbe essere compreso, ad esempio, tra il 18 e il 22 per cento, sebbene la parte bassa della “forchetta” si collochi al di sotto della soglia legale minima.

L’innovazione, lungi dall’avere carattere di interpretazione autentica, conferma puntualmente che la norma previgente non poteva che leggersi nel senso della non vincolatività della percentuale indicata, come predicato da lungo tempo in dottrina[6] e come condiviso dalla nota sentenza resa dalla Cassazione a Sezioni Unite nel gennaio del 2013[7]. Tanto che si è avvertita come ineludibile la necessità di un intervento ad hoc sul punto.

Va peraltro dato conto, in proposito, di un possibile diverso scenario interpretativo, il quale, incentrandosi sul disposto dell’ultimo comma dell’art. 160 (che fissa la soglia minima del 20% per i chirografari nel concordato liquidatorio) – e valorizzando, da un lato, il fatto che l’art. 161, 2° c., lett.e), non fa menzione del carattere cogente della percentuale indicata, né per vero della stessa, dall’altro, l’elasticità del concetto di “utilità” –, muove dall’ipotesi che soltanto nel concordato liquidatorio (del resto l’unico istituto a proposito del quale il legislatore ha chiaramente disposto in merito) sia configurabile una percentuale vincolante, tenuto conto, fra l’altro, che quello in continuità può prevedere anche – quando non addirittura esclusivamente – utilità e modalità satisfattive diverse dal pagamento (questo solo, a ben vedere, “percentualizzabile” in senso proprio). Senza considerare la circostanza – verosimilmente non irrilevante ai nostri fini – che la norma sulla risoluzione non è stata toccata dalla novella.

Relativamente al (solo) concordato liquidatorio, potrebbe poi sostenersi che la misura dell’inadempimento vada calcolata in base non già alla percentuale indicata nella domanda, ma al mancato conseguimento del 20%, di tal che non vi sarebbe inadempimento ove la percentuale di soddisfacimento concretamente realizzata rimanesse pur sempre al di sopra della soglia del 20% (o poco al di sotto di essa).

Ciò avrebbe fra l’altro il pregio, oltre che di garantire maggiore “tenuta” ai concordati in continuità, di scongiurare la tentazione, per il debitore, di effettuare valutazioni “iperprudenziali” dell’attivo per minimizzare il rischio dell’inadempimento. Certo, non va dimenticato, specie da parte degli imprenditori più “disinvolti”, lo spettro dell’occultamento di parte dell’attivo ex art. 173, 1° c.; tuttavia, potrebbe forse sostenersi che la percentuale indicata astringa il debitore nei soli limiti del 20% e che l’eventuale “delta” fra quanto prospettato in aumento rispetto a tale soglia (specie ove chiaramente prospettato come best case) e quanto in concreto realizzato non dia luogo a inadempimento.

Il che, sulla base di questa differente prospettazione, significherebbe in ultima analisi che la percentuale deve considerarsi vincolante, nel concordato liquidatorio, soltanto nei limiti del 20% di legge (oltre che nei casi in cui il debitore, “incautamente”, si impegni in modo esplicito al conseguimento di una determinata percentuale)[8].

Su questo che rappresenta, obiettivamente, uno degli aspetti più delicati della novella merita dar conto di un’autorevole corrente di pensiero, la quale muove dal presupposto che “si deve spiegare come mai, se il legislatore avesse voluto dire che il debitore si deve obbligare al pagamento di una percentuale di almeno il 20%, non l’abbia detto espressamente, posto che il sostantivo “obbligazione” e il verbo “obbligarsi” sono ovviamente tra i più usati nel linguaggio giuridico e (…) lo stesso legislatore che utilizza il termine assicurare nella lettera a) dell’art. 4 utilizza l’espressione “si obbliga ad assicurare” nella lettera b) dello stesso articolo, il che, se non altro, ci dice due cose: che conosce il verbo obbligarsi e che assicurare non significa obbligarsi, posto che altrimenti dovrebbe leggersi “si obbliga ad obbligarsi”[9]. In base a questa impostazione “assicurare” significa allora che “la proposta ma più propriamente il piano devono dare al creditore chirografario la certezza che dalla liquidazione dei beni si otterrà almeno la richiamata percentuale e cioè devono essere portati elementi concreti che rendano certo, in difetto di eventi assolutamente imprevedibili, che il risultato sarà raggiunto. Ciò equivale a dire che il piano e la conseguente proposta non potranno più essere affidati ad una generica previsione di una ripresa del mercato o a valutazioni fatte sulla base di parametri svincolati dal mercato reale: se si prospetta che un immobile sarà venduto entro un certo tempo e ad un determinato prezzo non varranno più affermazioni sostanzialmente generiche o richiamo a valori statistici ma si dovranno portare elementi concreti, quali rogiti recenti di immobili con le stesse caratteristiche ceduti al prezzo ipotizzato, promesse irrevocabili di acquisto, garanzie di interventi di terzi per integrare l’insufficiente realizzo et similia[10].

Ora, quello testé prospettato sembra rappresentare l’obiettivo minimo perseguito dal legislatore. Per appurare se la norma va invece interpretata in termini più “esigenti” – come non è affatto da escludere – occorre evidentemente attendere il formarsi di una prassi giurisprudenziale sul punto.

   

4. Segue. Il trattamento dei privilegiati falcidiati

L’inserimento di una percentuale minima, dettato con riferimento ai soli creditori chirografari, è destinato a spiegare i propri effetti, sia pure indirettamente, anche sul versante dei creditori privilegiati, ai quali non può essere destinato un trattamento deteriore, quantomeno nella misura in cui la causa di prelazione insista su un bene idoneo a consentire un reale soddisfacimento.

Nulla quaestio, naturalmente, nell’ipotesi in cui il piano e la proposta contengano l’impegno di onorare per intero le passività privilegiate. Al contrario, laddove il debitore faccia ricorso allo strumento di cui all’art. 160, 2° comma, l. fall. (che – com’è noto – consente di offrire al soggetto assistito da prelazione un soddisfacimento parziale, purché non inferiore e quello che egli conseguirebbe, in caso di liquidazione, grazie alla propria collocazione preferenziale sul ricavato del cespite), occorre coordinare tale previsione con il requisito aggiunto dal nuovo quarto comma dell’art. 160 l. fall.

Orbene, laddove si ritenga – con la dottrina maggioritaria[11] – che la frazione della pretesa rimasta insoddisfatta nonostante la prelazione debba scadere al chirografo, il combinato disposto delle due disposizioni sembra dare origine a un meccanismo in base al quale al creditore privilegiato va assicurato il trattamento risultante alla somma di due componenti: in primo luogo, egli ha diritto di ricevere in pagamento un ammontare non inferiore a quello che otterrebbe in caso di alienazione del bene sul quale insiste la garanzia, tenuto conto del suo valore di mercato; in seconda battuta, egli gode del diritto di essere soddisfatto, sulla porzione residua del credito, alla stregua di un qualsiasi creditore chirografario, con conseguente applicazione (limitatamente a questa quota) della soglia minima del 20% (ferma, naturalmente, la possibilità di stabilire l’inserimento di questa posizione in una specifica classe).

Tale soluzione non pare condivisa da chi – richiamandosi a quella giurisprudenza di legittimità che esclude l’applicabilità al concordato preventivo dell’art. 54, 1° comma, l. fall. (in forza del quale – com’è noto – il creditore privilegiato non soddisfatto integralmente concorre con i chirografari nelle ripartizioni dell’attivo residuo per quanto ancora gli spetti)[12] – nega che la porzione insoddisfatta del credito munito di prelazione (parzialmente) incapiente “scada” al chirografo, ritenendo sufficiente che la pretesa privilegiata, complessivamente considerata, sia resa oggetto di un trattamento non deteriore di quello che deriverebbe dalla liquidazione, salvo aggiungere che esso non potrebbe comunque collocarsi al di sotto del pagamento del 20% del nominale, attesa l’impossibilità di prospettare ai privilegiati un quid inferiore a quello previsto per chirografari[13].

La tesi, ancorché suggestiva, sembra nondimeno prestare il fianco a obiezioni difficilmente superabili. Non può anzitutto sottacersi che, ogniqualvolta la Cassazione ha negato l’applicazione, al concordato preventivo, della regola di cui all’art. 54, 1° comma, l. fall., lo ha fatto non già al fine di escludere che il creditore privilegiato possa ottenere una qualche forma di soddisfacimento per la frazione di pretesa rimasta “scoperta” a causa dell’incapienza del bene oggetto della prelazione, bensì per affermare la necessità di assicurargli comunque il soddisfacimento integrale, indipendentemente dalla consistenza del bene oggetto di garanzia e, finanche, dalla sua esistenza; fatta eccezione – naturalmente – per il solo caso in cui il debitore si sia avvalso dello strumento di cui all’art. 160, 2° comma, l. fall.[14].

A ciò si aggiunga che l’assenza, nel concordato, di un meccanismo di accertamento del passivo e di soddisfacimento dei creditori ammessi tramite formali riparti (come invece avviene del fallimento) rende probabilmente inconferente il richiamo all’art. 54, 1° comma, l. fall. (non a caso escluso dalle disposizioni cui fa rinvio il pur novellato art. 169 l. fall.[15]), senza che ciò possa peraltro impedire di ritenere che il credito che non trovi (in tutto o in parte) soddisfacimento sulla garanzia vada equiparato alle poste ab origine prive di collocazione preferenziale.

Ma non è tutto. Se davvero si vuole ritenere che il soddisfacimento di cui all’art. 160, 2° comma, l. fall. esaurisca il trattamento da riservarsi ai privilegiati muniti di prelazione su un bene (parzialmente) incapiente, occorre allora rassegnarsi alla possibilità che – nell’eventualità di cespite di valore modesto, quantomeno in relazione all’ammontare della pretesa – essi possano ricevere un soddisfacimento deteriore di quello riservato ai chirografari. Ove non si acceda all’opinione del parziale “scadimento” al chirografo, infatti, resterebbe certamente inapplicabile (almeno in via diretta) la soglia del 20%, chiaramente riferita alle sole poste chirografarie. Né sembra possibile recuperare indirettamente tale previsione inferendone l’osservanza dal divieto di alterare l’ordine delle cause di prelazione, atteso che esso si limita a prescrivere la necessità di rispettare i privilegi esistenti alla data di apertura del concorso. Senonché, quando la prelazione, pur concessa negozialmente o discendente dalla legge, insista su un bene privo di valore o addirittura non rinvenibile nel patrimonio del debitore, non si vede come da ciò possa scaturire la necessità di riservare al titolare del credito un soddisfacimento migliore di quello riservato chirografari, il che comporterebbe – a ben vedere – l’inammissibile estensione della portata della prelazione a beni diversi da quelli sui quali essa insiste.

Anche al fine di scongiurare letture di dubbia compatibilità con il sistema (quale sarebbe quella che, a fronte della previsione di una percentuale minima per i soli chirografari, dischiuda la porta a stralci più consistenti per i privilegiati con collocazione preferenziale su beni largamente incapienti), resta in definitiva preferibile la soluzione – non a caso maggioritaria – di ritenere che la quota insoddisfatta ex art. 160, 2° comma, l. fall., vada considerata alla stregua di una passività chirografaria, come tale assoggettata alla previsione di cui al quarto comma del medesimo articolo.

   

5. Il tema delle prerogative del tribunale e del ceto creditorio

La nuova disciplina ripropone, in termini parzialmente mutati, il tema non (sol)tanto delle prerogative del tribunale[16], quanto soprattutto di quelle dei creditori.

Va da sé che, se la proposta prevede una percentuale inferiore al 20%, o se dall’esame del ricorso e della documentazione allegata emerge ictu oculi che essa non è raggiungibile (tipicamente, perché l’attivo disponibile non risulta sufficiente a coprire il fabbisogno, di là da quanto – in ipotesi erroneamente – indicato dal debitore), il tribunale è tenuto a decretare l’inammissibilità della domanda.

Fuori da questi casi eclatanti (per vero rari), il tribunale continua a dover condurre le verifiche che la (ormai consolidata) giurisprudenza in materia prevede, da cui esula – com’è noto – lo scrutinio in ordine alla fattibilità economica del piano, non essendovi ragione, pur alla luce della novellata disciplina (che non a caso nulla dice in merito ai poteri del tribunale), per disattendere i princìpi sanciti sul punto dalla citata decisione delle Sezioni Unite.

Né vi è spazio, francamente, per forzature interpretative che volessero ad esempio appigliarsi, in senso contrario, all’utilizzo del verbo “assicurare”, le quali si rivelerebbero scopertamente improntate a perniciose nostalgie “retroguardiste” che si confida siano invece, ormai, definitivamente superate. Mentre ad altra conclusione si sarebbe dovuti giungere se il legislatore fosse intervenuto – come in effetti da alcuni invocato – a modificare, rafforzandoli, i poteri del tribunale, ovvero a ripristinare l’iniziativa ufficiosa (o quanto meno ad opera del commissario giudiziale) ai fini della risoluzione. Ma si deve per l’appunto prendere atto che nulla di tutto ciò è avvenuto e trarne le debite conseguenze sul piano interpretativo.

Non muta, dunque, la fisionomia dei poteri giudiziali, che risultano peraltro ampliati nella fase di esecuzione del concordato in virtù della previsione di cui all’ultimo comma dell’art. 185[17], in base al quale il tribunale, al fine di dare compiuta esecuzione alla proposta presentata dal terzo e omologata, può revocare l’organo amministrativo, se si tratta di società, e nominare un amministratore giudiziario (salvo attribuire i poteri propri di quest’organo al liquidatore giudiziale, ove nominato).

Altro profilo, intimamente collegato al precedente, attiene all’eventualità in cui, secondo le risultanze della relazione commissariale ex art. 172, non sia possibile conseguire la percentuale indicata dal debitore, bensì altra minore percentuale.

Ebbene, così come il tribunale non fa alcun atto di fede relativamente al contenuto del piano e dell’attestazione, analogamente non può prendere “per oro colato” quanto sostenuto, sebbene da una posizione di terzietà (che è cosa diversa dall’indipendenza: fatto, questo, oggettivamente non trascurabile), dal commissario giudiziale, ma è chiamato a valutare comparativamente le due prospettazioni e ad accordare la propria preferenza, in termini di maggiore attendibilità, a quella più coerente, completa e congruamente motivata.

Solo nell’ipotesi di conclamata non fattibilità del piano nella misura assicurata dal debitore può dunque farsi luogo, non diversamente da quanto accaduto fino a oggi, alla revoca dell’ammissione al concordato ex art. 173. E altrettanto dicasi, evidentemente, per quanto concerne i poteri del tribunale in sede di omologazione.

Più penetranti divengono, al contrario, le prerogative dei creditori.

Ed invero, lo scostamento dalla percentuale promessa dal debitore comporta, con certezza nel concordato liquidatorio, la possibilità per ciascun creditore di chiedere la risoluzione del concordato[18]. Il secondo comma dell’art. 186, peraltro, stabilisce che il concordato non si può risolvere ogniqualvolta l’inadempimento abbia scarsa importanza, sicché deve trattarsi di uno scostamento significativo rispetto alla prospettazione iniziale.

Facendo allora applicazione dei princìpi elaborati dalla giurisprudenza con riferimento all’art. 1455 c.c. (con l’avvertenza che in ambito concordatario non ci si trova al cospetto di una parte adempiente di un contratto in corso di esecuzione, bensì di un credito, essendo stato il negozio fonte della pretesa creditoria già interamente eseguito ex uno latere), deve ritenersi che l’inadempimento comporti la risoluzione non tanto, in base a una risalente pronuncia di Cassazione[19], quando il contratto non sarebbe stato concluso se l’inadempimento fosse stato previsto, bensì piuttosto in applicazione del c.d. criterio di proporzionalità, tenendo cioè conto, secondo un più recente arresto dei giudici di legittimità[20], del valore che la parte dell’obbligazione inadempiuta ha rispetto al tutto.

   

6. Il nuovo concordato liquidatorio e i rapporti con quello in continuità

Come già ricordato, all’art. 160 è stato aggiunto un quarto comma, che così testualmente recita: “In ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all’art. 186-bis”.

La novità costituisce il recepimento delle istanze da tempo provenienti da una parte cospicua del mondo imprenditoriale e che tuttavia pare (implicitamente) fondato sull’equivoco che un fallimento sia preferibile per i creditori chirografari rispetto a un concordato inferiore al 20%: il che non trova fondamento nei dati esperienziali, sotto il profilo sia della misura del soddisfacimento (considerata soprattutto la scarsa efficacia del rimedio revocatorio a seguito della novella del 2005), sia dei tempi di incasso (d’ora in poi, peraltro, auspicabilmente “influenzati” dal disposto dell’art. 104-ter).

A prescindere da questo rilievo, la norma denota un diverso atteggiamento del legislatore a seconda che il concordato sia liquidatorio o in continuità[21], in ciò discostandosi sensibilmente dall’impostazione della riforma del 2012, caratterizzata da un favor indifferenziato per la soluzione concordataria.

E proprio i profili distintivi fra le due fattispecie vengono in evidenza dal punto di vista esegetico, giacché risulta oggi più importante che mai (ai fini della stessa valutazione di ammissibilità della domanda) appurare cosa debba intendersi per concordato liquidatorio.

Ora, non è ragionevole pensare che il legislatore della riforma non fosse edotto dell’annoso dibattito sulla riconducibilità all’art. 186-bis della c.d. continuità indiretta, sicché non sembra peregrino ipotizzare che, ove avesse voluto escluderla, ben avrebbe potuto parlare espressamente di “continuità aziendale diretta”. L’aver fatto invece riferimento al concordato “di cui all’articolo 186-bis”, che continua a menzionare, come possibile declinazione dell’istituto, la cessione dell’azienda in esercizio, sembra in qualche modo “portare ulteriore acqua” alla tesi che riconduce il caso del trasferimento di azienda nel perimetro applicativo della norma di cui trattasi, quand’anche la cessione sia preceduta da un contratto di affitto anteriore al concordato, contenente l’impegno dell’affittuario all’acquisto (ipotesi, quella in parola, non incompatibile con la parte di disciplina dell’art. 186-bis ad applicazione necessaria e non del tutto scevra da rischio d’impresa)[22].

Questa tesi, da tempo propugnata da chi scrive[23] sulla scorta del rilievo, fra l’altro, che la norma è innegabilmente imperniata su un concetto di continuità in senso oggettivo, è andata progressivamente affermandosi in giurisprudenza[24], come testimonia un recente e pregevole provvedimento del più grande tribunale italiano, ove si afferma che “anche il concordato cd. con continuità indiretta è ascrivibile alla categoria del concordato con continuità aziendale, dovendosi avere riguardo alla continuazione della vita dell’azienda sia che avvenga in capo all’originario imprenditore sia che avvenga in capo a terzi affittuari o acquirenti. (…) Pertanto, l’affitto stipulato prima della presentazione della domanda di concordato, come quello da stipularsi in corso di procedura concordataria, non è, ove vi sia la previsione di successiva cessione dell’azienda in esercizio, di ostacolo all’applicabilità della disciplina tipica del concordato in continuità, essendo l’affitto un mero strumento giuridico ed economico finalizzato proprio ad evitare una perdita di funzionalità ed efficienza dell’intero complesso aziendale in vista di un suo successivo passaggio a terzi”[25].

D’altronde, le conclusioni in parola risultano coerenti, a ben vedere, con uno dei tratti salienti delle recenti riforme in campo concorsuale, che consiste nella valorizzazione dell’impresa rispetto all’imprenditore, in un contesto cioè nel quale assume rilevanza centrale l’attività imprenditoriale a prescindere dal soggetto che di volta in volta la esercita.

Va detto, ad ogni buon conto, che il problema pare destinato a una soluzione definitiva da parte del legislatore, dal momento che nei princìpi generali contenuti nella bozza di legge delega redatta dalla Commissione ministeriale per la riforma del diritto concorsuale, all’art. 2, lett. g), si prevede espressamente che la continuità aziendale abbia luogo “anche per il tramite di un diverso imprenditore”.

Altro aspetto gravido di corollari applicativi è quello del concordato in cui coesistano una componente di continuità aziendale e una liquidatoria, dal momento che ci si deve interrogare se l’obbligo di assicurare il pagamento di almeno il 20% dei chirografari trovi applicazione nel caso di concordato c.d. misto.

La risposta secondo la quale la semplice presenza di una componente liquidatoria dovrebbe comportare l’osservanza della soglia minima non persuade. Anzi, il favor del legislatore (anche) di quest’ultima riforma per il concordato in continuità dovrebbe indurre a ritenere, semmai, l’esatto contrario, vale a dire che la presenza di elementi di continuità aziendale (purché non di irrisoria rilevanza rispetto al tutto) giustifichi di per sé l’applicazione dell’art. 186-bis e quindi l’esclusione dell’obbligo relativo al 20%.

Diversamente, non sembrano residuare alternative al ricorso al criterio c.d. della prevalenza (teorizzato in materia, fra i primi, da chi scrive[26]), con la conseguenza che la predetta soglia andrebbe rispettata ogniqualvolta le utilità ricavabili dalla liquidazione dei beni estranei al perimetro aziendale in continuità rappresentino la parte preponderante dell’attivo concordatario.

Va poi preso in esame, pur sinteticamente, il tema dei profili di interferenza fra la previsione dello sbarramento del 20% e il concordato in continuità, giacché si può essere tentati di predicare una sorta di (pur limitato) “ribaltamento” di questo requisito di ammissibilità su tale tipologia di concordato; e ciò sulla scorta del disposto dell’art. 186-bis, 2° c., lett. b), ai sensi del quale la relazione del professionista “deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”: di tal che l’attestatore non potrebbe pronunciarsi positivamente tutte le volte in cui l’opzione liquidatoria consenta il raggiungimento del 20% mentre quella fondata sulla continuità no.

Una conclusione siffatta, comportante una non trascurabile “ingessatura” del sistema, può tuttavia ritenersi, forse, non “obbligata”.

In primo luogo, la formulazione dell’art. 160, u.c., è inequivoca nel sancire l’inapplicabilità della soglia minima al concordato in continuità, per cui richiederne il raggiungimento ove essa possa risultare astrattamente attingibile nello scenario liquidatorio (pena la necessità di prediligere quest’ultimo) rischia di porsi contra tenorem legis.

In secondo luogo, la nuova disciplina – come ripetutamente osservato – si caratterizza per un favor per il concordato in continuità assai più accentuato rispetto a quello (sensibilmente diminuito) per il concordato liquidatorio, sicché la tesi che obbliga il debitore a presentare un concordato con cessio bonorum al 20% quando vorrebbe (e potrebbe) invece presentarne uno in continuità – poniamo – al 18% potrebbe considerarsi contra rationem legis.

Senza dire che, interpretando il requisito della funzionalità al miglior soddisfacimento dei creditori come rapportato alle alternative concretamente praticabili, dovrebbe prendersi in considerazione il solo scenario fallimentare, dal momento che la liquidazione concordataria – in quanto non voluta dal debitore – risulta perseguibile solo in astratto, avendo il debitore optato, appunto, per la continuazione dell’attività d’impresa.

Non può negarsi, ad ogni modo, come la questione appaia obiettivamente controvertibile (specie tenuto conto della primazia, nel concordato a differenza che nell’amministrazione straordinaria, della tutela dei creditori “a prescindere” da altri interessi) e comunque meritevole, data la sua rilevanza, di maggior approfondimento.

Tornando all’analisi dell’ultimo comma dell’art. 160, la norma, riferendosi sic et simpliciter alla soglia del 20%, solleva una delicata questione relativamente all’ipotesi di suddivisione dei creditori in classi. Ci si deve infatti domandare se lo sbarramento sia destinato a valere per ciascuna classe (di tal che non potrebbero darsi classi di chirografari con soddisfacimento inferiore al 20%), oppure se detta soglia possa configuarsi come “criterio mediano”, nel qual caso basterebbe che ai creditori chirografari fosse assicurato in media il 20% (donde l’ammissibilità, ad esempio, di una domanda con previsione di tre classi, rispettivamente al 15, 18 e 27 per cento).

Com’è chiaro, in assenza di sicuri appigli testuali la presentazione di una domanda come quella da ultimo prefigurata non appare priva di rischi, anche se l’approccio ermeneutico più prudente e rigoroso introduce un elemento di disparità di trattamento fra concordato liquidatorio e concordato in continuità (ferma, peraltro, la facoltatività della divisione in classi).

In via interpretativa, sembra peraltro possibile, valorizzando l’espressione “ammontare”, ipotizzare una classificazione dei creditori chirografari in base alla quale una o più classi si situino al di sotto del 20 per cento, a condizione che il complessivo “monte crediti” non risulti inferiore al 20 per cento (pena un utilizzo potenzialmente abusivo della divisione in classi)[27].

La disposizione in commento, inoltre, parla non già, a differenza del primo comma, di “soddisfazione dei crediti”, ma di “pagamento”.

Ora, l’espressione pagamento è adoperata dal codice civile anzitutto – com’è noto – a proposito delle obbligazioni pecuniarie (Sezione I del Capo VII del Titolo I) e, segnatamente, nelle disposizioni dedicate al “debito di somma di denaro”, vale a dire gli artt. 1277, 2° c., 1278, 1279 (nella rubrica) e 1280.

Stando quindi alla formulazione letterale del nuovo precetto, il concordato liquidatorio non potrebbe contemplare modalità satisfattive diverse dal pagamento di somme di denaro; mentre era stato proprio il passaggio dal termine “pagamento” usato dalla legge del 1942 alla parola “soddisfazione” introdotta dalla novella del 2005 a indurre a predicare, del tutto correttamente, “il venir meno dell’obbligo previsto dall’art. 1277 c.c.”[28].

Allargando lo sguardo ad altre previsioni (che non distinguono in base alla tipologia di concordato), ci si avvede tuttavia che la legge continua a parlare di soddisfazione dei crediti “attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie” (art. 160, 1° c., lett. a); e che anche la previsione di cui alla citata lettera e) del secondo comma dell’art. 161 – ciò che più conta, trattandosi appunto di norma nuova – ricorre all’espressione, volutamente generica, di “utilità”.

Delle due dunque l’una: o ci si arresta al dato testuale dell’ultimo comma dell’art. 160, e allora non vi è alcun residuo spazio, nel concordato liquidatorio, per modalità satisfattive diverse dal pagamento (dationes in solutum e quant’altro), con evidente disparità di trattamento (ma non per questo censurabile sul piano costituzionale, attenendo all’esercizio della discrezionalità legislativa) rispetto al concordato in continuità; oppure si valorizza il quadro generale (riferito al concordato tout court), sminuendo in tal modo la portata innovativa della norma anzidetta[29].

Occorre ad ogni modo riconoscere che il canone dell’interpretazione letterale rende la seconda soluzione non agevolmente predicabile, donde la verosimile necessità di effettuare il pagamento di almeno il 20% dei chirografari in denaro, ferma la possibilità, nel caso di percentuale superiore a quella minima, di adempiere con altre forme all’obbligazione pari all’eventuale “delta”. A meno di voler enfatizzare la scarsa qualità del “prodotto” legislativo in esame (non diversamente, purtroppo, da molti altri) al punto da inferirne l’assenza di una precisa volontà di escludere modi satisfattivi diversi dal pagamento: soluzione che l’innegabile trascuratezza formale del dato normativo non consente, per vero, di escludere.

   

7. Modifiche e rinuncia alla domanda

La novella in commento tocca espressamente, al secondo comma dell’art. 172 (introdotto ex novo)[30], la delicata questione della modifica della domanda di concordato.

Dopo aver prescritto che, nell’eventualità in cui vengano presentate proposte concorrenti, il commissario giudiziale deve depositare in cancelleria e comunicare ai creditori, dieci giorni prima dell’adunanza, una relazione integrativa e che questa deve contenere, di regola, una comparazione particolareggiata delle diverse proposte, continua come segue: “Le proposte di concordato, ivi compresa quella presentata dal debitore, possono essere modificate fino a quindici giorni prima dell’adunanza dei creditori”.

Come si vede, la formulazione del precetto non lascia spazio a dubbi in ordine al fatto che l’ultimo momento utile per la modifica di tutte le proposte sia il quindicesimo giorno anteriore a quello dell’adunanza. E l’abrogazione del secondo comma dell’art. 175[31], che in precedenza individuava tale momento nell’inizio delle operazioni di voto, conferma inequivocabilmente – ove ve ne fosse bisogno – l’assunto.

Nulla stabilisce la legge a proposito della rinuncia alla domanda[32], per cui può porsi il dubbio se il predetto termine debba considerarsi operante anche in tale, pur diversa, ipotesi.

All’interrogativo deve con tutta probabilità rispondersi negativamente. Modifica e rinuncia sono invero istituti nettamente distinti, sul piano sia ontologico che teleologico. La modifica implica la conferma che si intende percorrere la strada intrapresa, ancorché con qualche variante (non necessariamente sostanziale) rispetto all’impostazione originaria. La rinuncia, al contrario, presuppone una scelta di natura abdicativa: il debitore non vuole proseguire l’iter concordatario.

Non è quindi possibile far dire alla norma ciò che essa non ha previsto, né, verosimilmente, voluto prevedere, pena un’eccessiva forzatura nell’approccio ermeneutico, oltre tutto non supportabile dal ricorso all’eadem ratio stante, appunto, l’innegabile alterità concettuale fra modifica e rinuncia.

Né pare fondato sostenere che la presentazione di proposte da parte di terzi sterilizzi, dopo lo spirare del termine anzidetto, le facoltà abdicative del debitore. E’ infatti dubbio che egli debba restare “prigioniero” della procedura concordataria per il sol fatto dell’intervenuta attivazione ad opera di un soggetto terzo. Sembra vero anzi il contrario: in un sistema in cui la proposta concorrente non può precedere, ma deve necessariamente seguire, l’iniziativa del debitore, la proposta del terzo sta e cade con la domanda presentata dall’imprenditore[33].

Se così è, il debitore appare facoltizzato a rinunciare alla propria domanda non solo fino all’inizio (o meglio alla conclusione) delle operazioni di voto, ma fors’anche, non essendo il concordato assimilabile sic et simpliciter a un contratto, fino al momento in cui si chiuda il giudizio di omologazione, come si evince dal recente puntuale arresto della Cassazione in materia, secondo il quale “la rinuncia alla domanda di concordato preventivo, la quale si traduce sostanzialmente in un abbandono della relativa proposta, atteggiandosi come revoca della stessa, non è ammissibile una volta che il concordato sia stato omologato”[34].

Occorre tuttavia dar conto di una possibile diversa prospettazione, tesa a valorizzare la proposta del terzo e, conseguentemente, a limitare i poteri abdicativi del debitore e il loro effetto potenzialmente "ostruzionistico". In quest’ottica di comprensibile favor per il nuovo istituto potrebbe anche invocarsi, come base di un ragionamento a fortiori, il disposto dell'art. 185: posto che il legislatore censura severamente i ritardi e le omissioni del debitore rispetto al necessario adeguamento alla proposta del terzo approvata e omologata, a maggior ragione – seppur implicitamente – non potrebbe legittimamente configurarsi, prima del voto e comunque dell’omologazione, il ritiro della domanda volto a paralizzare la proposta del terzo. Ove dunque si ritenesse di aderire a questa impostazione, la rinuncia al concordato dovrebbe verosimilmente ritenersi preclusa per il sol fatto che un terzo abbia presentato la propria proposta. L’unico spazio residuo per la rinuncia, a quel punto, parrebbe ravvisabile nell’ipotesi in cui i creditori abbiano approvato la proposta non già del terzo bensì del debitore, il quale ben potrebbe quindi rinunciarvi fino all’omologazione.

Quest’ultima soluzione, peraltro, desta sicure perplessità con riferimento all’ipotesi in cui il debitore abbia proposto un concordato in continuità e il terzo uno liquidatorio. Tranne nel caso di palese maggior convenienza di quest’ultimo, infatti, l’idea che l’imprenditore intenzionato a proseguire l’attività non possa rinunciare al concordato per impedire al terzo di fare prevalere la propria opzione liquidatoria potrebbe ritenersi confliggete con la libertà della sua iniziativa economica: al punto che appare forse predicabile una lettura costituzionalmente orientata, tale da confermare, quanto meno in tal caso, la legittimità della rinuncia.

Più in generale, pare arduo, in assenza di una norma in tal senso, comprimere il diritto del debitore alla rinuncia, tanto più in un sistema che è basato sulla legittimazione del solo debitore a dar vita al procedimento concordatario: opinare diversamente – si è infatti affermato – “significherebbe trasformare il concordato preventivo da procedura “volontaria” in procedura “coattiva”, soluzione forse possibile, ma che non è stata (ancora) accolta dal legislatore”[35]. Salvo, forse, voler equiparare la proposta concorrente all’intervento autonomo nel giudizio concordatario, in quanto essa potrebbe allora ritenersi, per così dire, dotata di vita propria (ma anche qui le criticità, sul piano processualistico, non mancano)[36].

 La questione, ad ogni modo, potrebbe risultare superata ove venisse recepita, nel disegno di legge delega per la riforma organica del diritto concorsuale, l’idea di configurare, a certe condizioni, la legittimazione autonoma del terzo a presentare domanda di concordato[37].

   

8. Le proposte concorrenti

La novità più significativa in materia di concordato preventivo è rappresentata, con tutta probabilità, dall’introduzione di un istituto fino a oggi sconosciuto dal nostro diritto concorsuale: le proposte concorrenti[38].

La fattispecie è disciplinata dai nuovi commi quarto e seguenti dell’art. 163 ed è incardinata sulla previsione in base alla quale uno o più creditori rappresentanti almeno il 10% dei crediti risultanti dalla situazione patrimoniale ex art. 161, 2° c., lett. a)[39], possono presentare una proposta concorrente di concordato e il relativo piano almeno trenta giorni prima dell’adunanza dei creditori.

La ratio della norma è resa palese da quanto osservato nella Relazione illustrativa sul punto, ove si individuano due concomitanti obiettivi: impedire al debitore di presentare proposte che non riflettano il valore reale dei suoi beni e stimolare investitori e compiere operazioni di risanamento aziendale, creando così i presupposti per la nascita di un mercato dei distressed debts.

Nondimeno, già alcuni dubbi si sono affacciati in dottrina circa l’opportunità della previsione in esame, connotata da potenzialità latamente espropriative dell’imprenditore e come tale ritenuta da qualcuno in contrasto con i princìpi costituzionali, giacché si consentirebbe a un terzo “di appropriarsi dell’azienda e dell’impresa altrui, attuandosi, in violazione dell’art. 42 Cost., un esproprio a favore di un privato non collegato ad un pubblico interesse”[40].

Rinviando ad altra sede l’ineludibile approfondimento della questione, può tuttavia osservarsi che tali dubbi, in sé forse non insuperabili (quanto meno nel caso in cui l’imprenditore sia insolvente e non già in semplice stato di crisi[41]), assumerebbero maggiore consistenza ove si ritenesse (erroneamente) che la sola presenza di proposte concorrenti, o comunque la loro approvazione, precluda al debitore di rinunciare alla domanda (che è concetto pur sempre diverso dalla proposta), atteso che dall’opzione adottata dal nostro legislatore si evince – come si diceva nel paragrafo precedente – che la proposta concorrente sta e cade con la domanda del debitore, nel senso che può nascere solo grazie ad essa e con il venir meno di quest’ultima è destinata fatalmente a essere caducata[42]; il che vale, a fortiori, nell’ipotesi di revoca disposta dal tribunale ai sensi dell’art. 173.

Restando alla disciplina positiva, occorre rimarcare che le proposte concorrenti non sono ammissibili se e nella relazione di cui all’articolo 161, terzo comma, il professionista “attesta” che la proposta di concordato del debitore “assicura”[43] il pagamento di almeno il quaranta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari o, nel caso di concordato con continuità aziendale, di almeno il trenta per cento degli stessi.

La proposta, poi, può prevedere l’intervento di terzi, nonché un aumento di capitale con esclusione o limitazione del diritto di opzione ove si tratti di società per azioni o a responsabilità limitata, sulla falsariga di quanto stabilito da altri ordinamenti.

La legge, inoltre, ha giustamente cura di precisare quali crediti vadano considerati ai fini del computo della soglia del 10% ed esclude quelli della società che controlla la debitrice, delle società da essa controllate e di quello sottoposte a comune controllo, mentre ricomprende i crediti derivanti da “acquisti successivi alla presentazione della domanda di cui all’articolo 161”.

Il fatto che l’incipit del quarto comma dell’art. 163 reciti “Uno o più creditori”, enfatizzato da qualcuno, non sembra sufficiente a precludere la presentazione di una proposta concorrente a quanti abbiano acquistato la qualità di creditori successivamente all’iniziativa concordataria del debitore. La ratio della norma consiste invero, dichiaratamente, nell’ampliare il più possibile la platea dei soggetti legittimati, sicché un’interpretazione basata esclusivamente sulla successione delle singole parole e non sul significato complessivo della previsione (che non esclude, anzi consente, la soluzione qui propugnata) sembra porsi contra rationem legis.

Ciò trova puntuale conferma nella Relazione illustrativa, ove si legge in proposito: “La ratio di questo insieme di modifiche normative risiede nella possibilità di consentire ai creditori, o ad altri imprenditori che acquistino crediti verso l’impresa in crisi, di presentare proprie proposte ai creditori, qualora ritengano di poter gestire meglio l’attività e siano disponibili a immettere nuovi capitali” (corsivo aggiunto).

Ne consegue che deve ritenersi legittimato alla presentazione di una proposta concorrente, con ogni probabilità, anche chi sia diventato creditore per effetto di acquisti successivi al deposito della domanda da parte dell’imprenditore.

Destano invece perplessità, sotto il profilo della tutela dell’intero ceto creditorio, due previsioni improntate a eccessivo favor per il terzo proponente: la facoltà di limitare la relazione ex art. 161, 3° c., sulla fattibilità del piano agli aspetti non scrutinati dal commissario (e di ometterla quando non ve ne siano) e, soprattutto, l’attribuzione del diritto di voto ai creditori che abbiano presentato una proposta concorrente: ancora una volta – si è detto al riguardo – “nel sistema è stato ripudiato un principio sacrosanto, quello del divieto di agire in conflitto di interessi, che nel nostro ordinamento stenta a decollare ovunque”[44].

Nei casi in cui la proposta concorrente preveda la classificazione del ceto creditorio (il che costituisce un onere per il terzo che voglia esprimere il proprio voto), essa va sottoposta al previo giudizio del tribunale, conformemente al precetto generale circa la verifica della corretta formazione delle classi.

La “difesa” del debitore dalle proposte concorrenti è affidata dalla legge a quanto previsto al terzo comma dell’art. 175, ai sensi del quale egli può esporre le ragioni per le quali non ritiene ammissibili o fattibili le eventuali proposte concorrenti.

La fattispecie della proposta concorrente presenta inoltre profili di emersione in altre disposizioni.

Ai sensi dell’art. 172, nell’eventualità in cui vengano presentate proposte concorrenti, il commissario giudiziale deve depositare in cancelleria e comunicare ai creditori, dieci giorni prima dell’adunanza, una relazione integrativa che deve contenere, di regola, una comparazione particolareggiata delle diverse proposte (sebbene il legislatore abbia omesso di sancire, a differenza che per le offerte concorrenti, che debba trattarsi di proposte fra loro comparabili[45]).

All’art. 177[46] è stabilito che, quando sono poste al voto più proposte di concordato, si considera approvata quella che ha conseguito la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto. In caso di parità prevale quella del debitore o, quando la situazione si ponga con riguardo a due proposte di creditori, quella presentata per prima. Laddove, invece, nessuna delle proposte concorrenti poste al voto sia stata approvata dalla maggioranza dei creditori ammessi al voto (e, se del caso, da quella delle classi), il giudice delegato, con decreto da adottare entro trenta giorni dalla chiusura delle operazioni di voto, sottopone nuovamente ai creditori la sola proposta che abbia conseguito la maggioranza relativa dei crediti ammessi al voto, fissando il termine per la comunicazione ai creditori e quello a partire dal quale essi, nei venti giorni successivi, possono far pervenire il proprio voto.

L’art. 185 prevede infine che il debitore è tenuto a compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla proposta di concordato presentata da uno o più creditori, a condizione - naturalmente - che essa sia stata approvata e omologata. Coerentemente, ogniqualvolta il commissario giudiziale rilevi che il debitore non stia provvedendo al compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla suddetta proposta o, comunque, ne stia ritardando il compimento, deve senza indugio riferirne al tribunale, il quale, sentito il debitore, può attribuire al commissario i poteri necessari a provvedere in luogo del debitore al compimento degli atti a questo richiesti. E questa disposizione appare ispirata a modelli stranieri e, segnatamente, al mandataire en justice della legge francese (ma anche l’ordinamento tedesco, il primo a introdurlo nel 2011, e quello spagnolo contemplano istituti analoghi).

   

9. I nuovi compiti dell’attestatore

Dalle disposizioni relative alle soluzioni negoziate della crisi si ricava l’avvenuta previsione di una serie di nuovi compiti in capo all’attestatore[47].

In primo luogo, va osservato come i precetti circa lo sbarramento del 20% nel concordato liquidatorio e l’indicazione delle utilità specificamente individuate ed economicamente valutabili per i creditori si riferiscano non già al piano, bensì alla proposta, che non è oggetto di attestazione. Pare nondimeno arduo sostenere che l’esperto possa prescindere completamente da tali aspetti. Non è infatti attestabile, ovviamente, un piano collegato a una proposta difforme dai predetti requisiti, né lo è un piano nell’ambito del quale le valutazioni dei beni aziendali siano strumentalmente “piegate” all’esigenza di raggiungere la soglia percentuale di cui all’ultimo comma dell’art. 160.

L’osservanza di questa norma è richiesta – come più volte ricordato – solo nel caso di concordato liquidatorio. Occorre tuttavia tenere ben presente che, ai sensi dell’art. 186-bis, un piano in continuità aziendale in tanto risulta attestabile in quanto appaia idoneo a realizzare il miglior soddisfacimento dei creditori. Ne consegue, non diversamente dal passato, che la maggior convenienza dello scenario liquidatorio preclude la continuazione dell’attività; e che non è quindi possibile optare per la continuità aziendale solo al fine di evitare il conseguimento della soglia del 20% tutte le volte in cui la dismissione dei cespiti, in luogo del loro persistente utilizzo, consentirebbe un maggior vantaggio per il ceto creditorio.

Sempre in tema di valutazioni comparative, va rimarcato che ai sensi del nuovo art. 172 il commissario deve illustrare, nella propria relazione, le utilità che, in caso di fallimento, possono essere apportate dalle azioni risarcitorie, recuperatorie esperibili dal curatore nei confronti di terzi. Ora, sempre con riferimento allo scrutinio in ordine al miglior soddisfacimento dei creditori, sembra oggi più difficile sostenere, alla luce appunto della suddetta previsione (seppur riferita al commissario), che l’attestatore possa prescindere dalle utilità ricavabili dall’esperimento di tali azioni, sicché anch’egli deve verosimilmente farsi carico di tali aspetti.

In tema di proposte concorrenti, poi, la legge – com’è noto – ne nega l’ammissibilità al cospetto di una proposta del debitore che assicuri il pagamento di almeno il 40% dell’ammontare dei crediti chirografari o, nell’ipotesi di concordato di continuità, del 30% di esso.

La norma peraltro non si accontenta, comprensibilmente, che ciò sia indicato nella proposta, ma richiede che la circostanza sia “certificata” dall’esperto: il sesto comma dell’art. 163, infatti, recita: “il professionista attesta che la proposta di concordato del debitore assicura il pagamento…” (corsivo aggiunto). E siccome la conseguenza di tale attestazione è l’inammissibilità della proposta concorrente, appare evidente la delicatezza della posizione dell’esperto, anzitutto rispetto al terzo proponente, ma anche ai creditori, che potrebbero vantare motivi di doglianza ove la proposta del terzo risultasse in realtà foriera di maggiori benefici per costoro[48].

Tale previsione non consente tuttavia, sul piano generale, di riconfigurare in chiave più rigorosa compiti e responsabilità dell’attestatore, dovendosi disattendere l’impostazione di chi è tentato di far leva su di essa per predicare un “mutamento morfologico” di questa figura, con quanto ne conseguirebbe in termini di maggior severità della nuova disciplina: il che, in realtà, non è[49]. Un conto infatti è assicurare direttamente un determinato livello di soddisfacimento (cosa che può fare solo il proponente), altro conto è verificare che la proposta del debitore comporta (recte: risulta in grado di comportare) tale risultato, nel senso della sua ragionevole idoneità a conseguirlo.

Si è allore rilevato, in dottrina, che “se si vuole dare un qualche significato a tale espressione lessicale può forse ritenersi che in questo caso il legislatore abbia voluto un’attestazione particolarmente “forte”. Con la conseguenza che il professionista, pur rimanendo nel solco dell’attestazione richiesta in ogni giudizio di fattibilità, dovrà accentuare il grado di attendibilità della valutazione prognostica, non essendo sufficiente un’attestazione di mera probabilità di avveramento di un risultato, il pagamento del 30 o 40%, che il legislatore vuole, al contrario, che sia assicurato”[50].

Anche nel nuovo art. 182-septies vi è un profilo di emersione del tema che ci occupa, dal momento che il quinto comma, col quale è stato introdotto nel nostro ordinamento la “convenzione di moratoria”, subordina l’estensione degli effetti di tale convenzione ai creditori bancari non aderenti non solo alla circostanza che costoro siano stati informati dell’avvio delle trattative e siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede, ma anche al fatto che il professionista ex art. 67, 3° c., lett. d), “attesti l’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici fra i creditori interessati dalla moratoria”. Scrutinio, questo, afferente in realtà più ad aspetti giuridici che non propriamente aziendalistici.

Il novellato art. 182-quinquies, invece, si pone per così dire in controtendenza rispetto all’accresciuto spazio di intervento dell’attestatore. Ed invero, il nuovo terzo comma, relativo ai finanziamenti funzionali a urgenti necessità dell’azienda, si caratterizza, sotto il profilo che ci occupa, per l’assenza della figura dell’attestatore. E la cosa si spiega agevolmente sol che si consideri l’urgenza che connota la situazione tipizzata dalla norma, come conferma il fatto che la mancanza dei finanziamenti in questione comporta un pregiudizio imminente e irreparabile all’azienda. Non vi è dunque il tempo, in questi casi, di “mettere in pista” l’attestatore, per cui la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per ottenere l’autorizzazione ai finanziamenti prededucibili è affidata – né potrebbe essere altrimenti – al ricorso presentato dal debitore, che assolve in tal modo a una funzione “autocertificativa”.

Come anticipato nell’esordio del paragrafo, i compiti dell’attestatore risultano, alla luce delle nuove norme, ulteriormente accresciuti. Più in generale, tale figura, a dispetto delle critiche (talora, per vero, eccessive), resta centrale nel sistema delle soluzioni negoziate della crisi, in virtù del fatto che rimane titolare delle prerogative attribuitele in occasione degli ultimi interventi riformatori e continua a essere espressione di una scelta del debitore: il che, come chi scrive ha più volte osservato, pare adeguatamente controbilanciato dalle rigorose previsioni in tema di indipendenza e di responsabilità penale.

   

10. Le offerte concorrenti

Il nuovo istituto delle offerte concorrenti[51] si è venuto a inserire in un contesto caratterizzato, fino a oggi, da una spiccata valorizzazione dell’autonomia del debitore, inclusa, secondo molti, la facoltà di presentare un concordato “chiuso” rispetto a possibili interessamenti del mercato all’acquisto, in tutto o in parte, dei cespiti aziendali. Le nuove norme, come si è correttamente osservato in dottrina, “pur senza proclamare formalmente l’abbandono dei principi, introducono un regime sostanziale e procedurale di segno completamente diverso, che consente (sia pur in limitate ipotesi) la perdita della disponibilità del proprio patrimonio da parte del debitore, con ricadute di rilievo tanto sul piano procedurale, quanto sul piano sostanziale”[52].

Ai sensi del primo comma nel nuovo art. 163-bis, quando il piano di concordato si basa, in tutto o in parte, sull’offerta di un soggetto già individuato relativa al trasferimento in suo favore, anche prima dell’omologazione, dell’azienda, di uno o più rami della stessa o di specifici beni, a fronte di un corrispettivo in denaro o comunque a titolo oneroso, il tribunale ricerca ulteriori interessati all’acquisto, disponendo l’apertura di un procedimento competitivo, cui deve farsi luogo anche nel caso in cui il debitore abbia già stipulato un contratto – tipicamente un preliminare – che miri al trasferimento non immediato del cespite. La medesima discipina si applica, nei limiti della compatibilità, anche agli atti da autorizzare ai sensi dell’art. 161, settimo comma, in costanza di concordato “con riserva”, nonché all’affitto di azienda, o di uno o più rami di azienda.

Spetta al decreto che dispone l’apertura della procedura competitiva stabilire: le modalità di presentazione di offerte irrevocabili, dovendone in ogni caso assicurare la comparabilità; i requisiti di partecipazione alla gara; le forme e i tempi di accesso alle informazioni rilevanti, gli eventuali limiti al loro utilizzo e le modalità con cui il commissario debba fornirle a coloro che ne facciano richiesta; la data dell’udienza per l’esame delle offerte e, più in generale, tutte le modalità di svolgimento dell’iter, incluse quelle relative alle garanzie da prestarsi e alle forme di pubblicità. A quest’ultimo riguardo, il provvedimento dispone in ogni caso disposta la pubblicità sul portale delle vendite pubbliche di cui all’art. 490 c.p.c., stabilendo altresì l’aumento minimo del corrispettivo che le offerte concorrenti devono prevedere.

La legge precisa altresì che l’offerta già ricevuta dal debitore (e menzionata nel piano) diviene irrevocabile – ove non abbia già tale caratteristica[53] – dal momento in cui sia modificata in conformità a quanto previsto dal decreto del tribunale, sempre che venga prestata la garanzia dallo stesso stabilita.

È possibile disporre la presentazione delle offerte in forma segreta, ma esse sono efficaci solo se conformi a quanto previsto dal provvedimento, ferma l’impossibilità di sottoporle a condizione. In ogni caso, esse sono rese pubbliche all’udienza fissata per il loro esame, alla presenza degli offerenti e di qualunque interessato.

Nell’ipotesi di offerte migliorative il giudice dispone la gara, che può avere luogo alla stessa udienza o a una immediatamente successiva, con obbligo, però, di concludere le operazioni prima dell’adunanza dei creditori, quand’anche il piano preveda che la vendita o l’aggiudicazione abbia luogo dopo l’omologazione.

Laddove l’offerta risultata vittoriosa non coincida con quella originaria, il suo autore è automaticamente liberato dalle obbligazioni eventualmente assunte nei confronti del debitore e il commissario dispone, in suo favore, il rimborso delle spese sostenute per la formulazione dell’offerta, entro il limite massimo del tre per cento del prezzo in essa indicato. Nel medesimo scenario, il debitore è tenuto a modificare il piano e la proposta di concordato in conformità all’esito della gara.

Ora, fra le numerose questioni che vengono in evidenza (e che risultano, in questa sede, insuscettibili anche solo di compiuta enucleazione) vi è quella relativa al momento in cui viene presentata l’offerta, atteso che il primo comma dell’art. 163-bis si riferisce al caso in cui il piano concordatario comprenda detta offerta. In proposito, pare da condividere l’impostazione in base alla quale, se la proposta di concordato “contiene una vera e propria offerta di acquisto o affitto, dovrà applicarsi il regime dell’art. 163 bis, mentre se l’offerta è assente nella proposta e viene formulata successivamente, la competitività sarà quella disposta dall’art. 182 V comma”[54].

Merita inoltre rimarcare il fatto che l’art. 163-bis non richiama le disposizioni di cui agli artt. 105 ss.

Secondo alcuni, esse sarebbero nondimeno applicabili, nella misura in cui il procedimento competivivo è sostanzialmente equiparabile a una vendita forzata, atteso che essa avviene da parte dell’autorità giudiziaria (o, comunque, sotto il suo controllo) e indipendentemente dalla volontà del debitore, trrattandosi di meccanismo posto a presidio dell’interesse dei creditori[55].

Nel medesimo senso parrebbe deporre il quinto comma dell’art. 182, il quale stabilisce, in via generale, che alle vendite, alle cessioni e ai trasferimenti legalmente posti in essere dopo il deposito della domanda di concordato (o, comunque, esecutivi dello stesso) si applicano gli articoli da 105 a 108-ter, in quanto compatibili; con la precisazione che le cancellazioni delle iscrizioni relative a eventuali diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti, dei sequestri conservativi e di qualsiasi altro vincolo sono effettuate su ordine del giudice, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel decreto di omologazione (limitatamente – beninteso – agli atti successivi alla sua emanazione).

Di conseguenza, deve ragionevolmente ritenersi che la vendita possa essere delegata a un professionista ai sensi dell’art. 591-bis c.p.c. e, soprattutto, che ogniqualvolta l’alienazione attenga a un complesso aziendale resti esclusa la solidarietà passiva dell’acquirente per i debiti sorti prima della cessione.

Occorre tuttavia considerare attentamente il punto di vista secondo il quale detto mancato richiamo integrale “degli artt. da 105 a 108 ter nell’art. 163 bis e il rinvio alla regolamentazione disposta dal tribunale escludono che in quest’ultimo caso possa applicarsi la disciplina residua delle vendite fallimentari (ad. es. in tema di sospensione della vendita da parte del giudice delegato o del curatore/commissario) ed il relativo regime impugnatorio”[56].

In ogni caso si pongono ulteriori e non trascurabili problemi di coordinamento tra la disciplina delle offerte concorrenti e quella delle consultazioni sindacali cui l’art. 105, terzo comma, rinvia nei casi di trasferimento solo parziale dei lavoratori. Più nel dettaglio, la procedura di cui all’art. 47 l. n. 428/1990 prevede tempistiche che potrebbero presentare qualche difficoltà di interrelazione con il termine fissato per l’adunanza dei creditori, senza dire del diverso interesse dell’imprenditore a impegnarsi seriamente nelle trattative con i rappresentanti dei lavoratori a seconda che esse vertano su una offerta alla quale egli abbia aderito o su una proposta concorrente, quando non del tutto ostile[57].

Il disposto dell’art. 163-bis è poi destinato a sollevare problemi di compatibilità con alcune fattispecie particolari, dal versamento dei canoni “in conto prezzo” alla clausola di prelazione. Su quest’ultima, come noto, la Cassazione a Sezioni Unite si era espressa in senso permissivo[58] e non pare che da tale insegnamento ci si debba oggi discostare, relativamente non solo alla prelazione legale ma anche a quella convenzionale.

 

11. I contratti pendenti

Le novità introdotte in materia di contratti pendenti al momento della presentazione della domanda di concordato[59] sono eminentemente rivolte a risolvere dubbi interpretativi sollevati in dottrina e in giurisprudenza con riguardo alla disciplina previgente (oltre a regolamentare specificamente i rapporti di leasing).

Il chiarimento di maggiore rilevanza sistematica e applicativa attiene al perimetro della fattispecie: il mutamento della rubrica dell’art. 169-bis (che passa da “Contratti in corso di esecuzione” a “Contratti pendenti”) e l’inequivoco tenore del primo comma conducono ad affermare senza tema di smentita che la norma va riferita esclusivamente ai contratti ineseguiti o non ancora compiutamente eseguiti da entrambe le parti e che conseguentemente non rientrano nel relativo ambito né i cc.dd. contratti unilaterali (com’è a dirsi per la maggior parte di quelli di credito bancario), né quelli bilaterali a prestazioni corrispettive completamente effettuate ex uno latere.

La novella ha poi specificato che:

(i) il tribunale deve sentire l’altro contraente;

(ii) scioglimento e sospensione hanno effetto dalla comunicazione del provvedimento autorizzativo al contraente in bonis;

(iii) resta ferma la prededuzione dei crediti conseguenti ad eventuali prestazioni eseguite legalmente e conformemente agli accordi o agli usi negoziali dopo la pubblicazione della domanda di concordato.

In particolare il punto sub (ii) conferma che quello del debitore è un diritto relativamente (in quanto subordinato all’autorizzazione) potestativo e che quindi egli può ben decidere di non avvalersene pur avendo ottenuto il placet giudiziale.

Meno sintonica con detta qualificazione appare, di contro, l’obbligo di previa instaurazione del contraddittorio di cui al punto (i): sarebbe forse stato preferibile affidare l’eventuale convocazione dell’altro contraente alla valutazione discrezionale del giudice, anche a tutela della celerità ed efficienza del procedimento. La previsione, in ogni caso, è riferita alla sola ipotesi di scioglimento, sicché deve ritenersi che con riguardo alla sospensione non vi sia obbligo di far luogo all’audizione dell’altro contraente.

Opportunamente, data la rilevanza pratica dell’istituto, il legislatore ha poi introdotto, come ultimo comma dell’art. 169-bis, una disposizione ad hoc per l’ipotesi di scioglimento del contratto di locazione finanziaria, sancendo i medesimi principi stabiliti in campo fallimentare dall’art. 72-quater e declinandoli come segue: il concedente ha sempre diritto alla restituzione del bene; se vi è una differenza fra la maggior somma ricavata dalla vendita e il residuo credito in linea capitale, essa va versata al debitore; se invece il concedente vanta un credito in ragione della differenza fra residuo credito e ricavato dalla vendita, esso va soddisfatto come credito anteriore al concordato.

La previsione in esame continua a non affrontare il tema – che rimane pertanto affidato all’elaborazione interpretativa – del rapporto con l’eventuale azione di risoluzione promossa dal contraente in bonis. Resta ovviamente fermo, in proposito, quanto disposto, con riferimento al concordato in continuità dall’art. 186-bis, ai sensi del quale i contratti pendenti, inclusi quelli stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto dell’apertura del concordato e che sono inefficaci eventuali patti contrari.

   

12. Cenni ad altre novità in tema di concordato

Fra le novità destinate ad avere maggiore impatto dal punto di vista pratico vi è sicuramente l’abrogazione del meccanismo del silenzio-assenso.

La previsione – inserita “in zona Cesarini” fra gli emendamenti apportati al decreto – è innegabilmente improntata a un minor favor nei confronti del concordato[60]; anche se va detto che il suo mantenimento sarebbe risultato difficilmente compatibile, con ogni probabilità, con l’ipotesi della presentazione di proposte concorrenti.

Peraltro, sarebbe stato forse preferibile stabilire, contestualmente al ripritino del silenzio-diniego, che i voti dei creditori silenti non andassero computati ai fini del quorum, in modo da non annettere valenza di sorta all’inerzia dei creditori, tanto più al cospetto di un silenzio oggettivamente non significativo né in un senso né nell’altro.

L’espunzione del silenzio-assenso pare destinata a riproporre il tema, in precedenza assorbito dal predetto meccanismo, del voto favorevole espresso anteriormente al deposito della relazione commissariale. In proposito, si oscilla da tempo fra l’idea di valorizzare la libera autodeterminazione dei creditori (ancorché, in ipotesi, disinformata) e, all’opposto, la necessità di esprimere un consenso informato, che per definizione non può prescindere dalla possibilità di consultare la relazione di cui all’art. 172. Oggi quest’ultima opzione, fondata più su princìpi che su previsioni specifiche, potrebbe forse trovare un appiglio testuale nella circostanza che l’art. 175, disciplinante la discussione in adunanza della proposta di concordato, risulta integrato da un ultimo comma che esordisce con “Sono sottoposte alla votazione dei creditori…”, potendo ciò indurre a ritenere inefficaci i voti espressi prima che si tenga l’adunanza medesima; anche se è lecito dubitare del fatto che l’introduzione di quest’ultimo precetto mirasse (anche) a porre nel nulla i consensi manifestati “ a scatola chiusa”.

Interessanti sono poi le integrazioni apportate all’art. 182, la cui rubrica suona oggi non più “Provvedimenti in caso di cessione dei beni”, ma “Cessioni”.

Cominciamo con l’osservare che l’incipit della norma continua a recitare: “Se il concordato consiste nella cessione dei benni e non dispone diversamente”. Nondimeno, deve condividersi il rilievo secondo il quale la mancata abrogazione di quest’ultimo inciso costituisce probabilmente “un mero refuso, come sembra doversi ritenere, se si vuole applicare l’art. 163 bis ai concordati con cessione dei beni “chiusi” che costituiscono l’obiettivo dichiarato della riforma, la cui legittimità formale si sosteneva proprio sulla presenza di tale norma”[61].

Oltre al riferimento alla pubblicità ex art. 490, 1° c., c.p.c., di cui al primo comma, è il quinto comma la sede delle novità più significative. In primo luogo, l’applicabilità degli artt. da 105 a 108-ter, in quanto compatibili, è riferita in modo puntuale “alle vendite, alle cessioni e ai trasferimenti legalmente posti in essere dopo il deposito della domanda di concordato o in esecuzione di questo”. In secondo luogo, si chiarisce l’estensione dell’effetto purgativo delle cessioni, dovendosi oggi ricomprendervi quelle poste in essere sia (in ipotesi) nella fase “prenotativa” (non a caso nella Relazione illustrativa si fa espressa menzione “anche delle cessioni effettuate prima dell’ammissione alla procedura di concordato”), sia dopo l’ammissione ma prima dell’omologazione (oltre a quelle effettuate in esecuzione del concordato omologato).

Il mancato riferimento alla figura del liquidatore giudiziale depone chiaramente nel senso dell’applicabilità della norma anche a soggetti diversi da questi, sicché essa pare destinata a operare tanto nei casi di mancata nomina del liquidatore giudiziale (perché a monte la proposta l’ha esclusa), quanto nelle ipotesi di trasferimento di beni non strumentali alla continuità aziendale ex art. 186-bis. Fattispecie, quest’ultima, relativamente alla quale va ribadita, una volta di più al cospetto della novella, l’impossibilità di far luogo alla nomina di un liquidatore giudiziale, come del resto già in precedenza affermato da dottrina e giurisprudenza dominanti[62].

Particolarmente importanti sul piano pratico, poi, sono le modifiche dei termini di cui ai novellati artt. 172 e 181, entrambi influenzati dall’eventualità di proposte concorrenti. D’ora in avanti il commissario giudiziale dovrà depositare la propria relazione in cancelleria almeno quarantacinque giorni prima dell’adunanza dei creditori e l’omologazione dovrà intervenire entro nove mesi (termine che continua a essere non perentorio) dalla presentazione del ricorso, ferma la possibilità di proroga di sessanta giorni.

Non va infine trascurata un’attenzione, assai più spiccata rispetto al passato, alla dimensione penalistica del fenomeno concordatario, che si evince non solo dagli innesti effettuati agli artt. 236 e 236-bis[63] (collegati all’introduzione dell’art. 182-septies), ma anche dall’aggiunta dell’ultimo comma dell’art. 165[64], ai sensi del quale il commissario giudiziale è tenuto a comunicare “senza ritardo” al pubblico ministero i fatti che possono rilevare ai fini delle indagini preliminari, nonché dalla prevista trasmissione al pubblico ministero di copia degli atti e dei documenti depositati a norma del secondo e del terzo comma dell’art. 161. Né pare estranea, seppur indirettamente (e in linea teorica), all’ambito penale la previsione di cui al primo comma dell’art. 172 circa l’obbligo commissariale di illustrare le utilità che, in caso di fallimento, potrebbero ricavarsi dall’esperimento di azioni risarcitorie e revocatorie.

   

13. Finanza interinale

Sono essenzialmente due le novità contenute nell’art. 182-quinquies[65], dirette entrambe a facilitare il reperimento di risorse finanziarie ai fini del buon esito del concordato: la possibilità per il tribunale di autorizzare finanziamenti prededucibili anche nella fase c.d. prenotativa e l’introduzione della nuova tipologia dei finanziamenti funzionali a urgenti necessità relative all’esercizio dell’impresa.

Con l’integrazione apportata al primo comma viene opportunamente chiarito che il finanziamento può essere autorizzato prima che siano stati presentati proposta e piano concordatari; e in proposito nella Relazione illustrativa si legge che “non è necessario che il debitore depositi l’intera documentazione richiesta per l’ammissione alla procedura di concordato”.

Restano bensì ferme sia la necessità, per l’esperto, di verificare il fabbisogno finanziario complessivo sino all’omologazione e di attestare la funzionalità del finanziamento alla migliore soddisfazione dei creditori, sia la possibilità, per il tribunale, di assumere se del caso sommarie informazioni. Ma la prassi di richiedere al debitore il deposito della bozza del piano (e dell’attestazione) subordinandovi il provvedimento autorizzativo, già in passato considerata da alcuni, in assenza di dati testuali a conforto, praeter legem, deve oggi ritenersi, probabilmente, contra legem.

Assai più significativa è la disposizione in tema di finanziamenti urgenti, la cui disciplina appare ispirata a quella statunitense dei cc. dd. first day orders[66].

L’elemento cardine della norma è l’urgenza, ribadita (in modo apparentemente ridondante) con riferimento tanto all’autorizzazione (“in via d’urgenza”) quanto alle esigenze dell’impresa (“urgenti necessità relative all’esercizio dell’attività aziendale”). Il che trova riscontro nel più importante requisito di cui va dato atto nel ricorso, vale a dire il “pregiudizio imminente ed irreparabile” che deriverebbe all’azienda dall’impossibilità di disporre dei finanziamenti (riguardo ai quali occorre specificare altresì la destinazione e l’impossibilità del debitore di reperire altrimenti la provvista).

Non si tratta quindi dei finanziamenti interinali veri e propri, ma di quelle (di regola modeste) risorse di cui l’impresa ha impellente bisogno, in vista della richiesta dei (più ingenti) finanziamenti necessari a supportare l’attività aziendale durante la procedura: donde la superfluità dell’attestazione di funzionalità alla migliore soddisfazione dei creditori, peraltro incompatibile con i tempi tipici di situazioni di urgenza come quelle che la norma mira a disciplinare.

Prima di decidere sulla richiesta autorizzativa il tribunale assume sommarie informazioni sul piano e sulla proposta in corso di elaborazione e convoca il commissario giudiziale (ove nominato); può inoltre sentire “senza formalità” i principali creditori. Quest’ultima previsione, diretta a consentire l’acquisizione di ulteriori elementi utili ai fini del decidere, dovrebbe consentire un contemperamento fra le esigenze di celerità (che infatti impongono un meccanismo deformalizzato) e l’opportunità di valutare le informazioni di cui dispongono i creditori, unitamente al loro atteggiamento verso il debitore.

Di dubbia pertinenza appare invece il riferimento, contenuto nell’ultima parte del comma in esame, al “mantenimento di linee di credito autoliquidanti”, giacché a ben vedere non di finanziamento si tratta bensì di contratto pendente, soggetto come tale all’applicazione dell’art. 169-bis.

A dispetto del tenore letterale della disposizione in commento (che, menzionando soltanto il sesto comma dell’art. 161, pare circoscriverne l’operatività, in caso di concordato, alla domanda “prenotativa”), sembra logico ritenere che l’autorizzazione in parola possa venire richiesta anche nell’ipotesi di concordato “pieno”, in conformità a quanto correttamente previsto con riguardo all’accordo di ristrutturazione, attraverso il richiamo sia al primo che al sesto comma dell’art. 182-bis. Una lettura di segno opposto, ancorché aderente al dato testuale (peraltro frutto di un probabile lapsus), risulterebbe francamente irrazionale e perniciosamente limitativa dell’ambito di applicazione della norma.

   

14. Disciplina transitoria

Questione delicata, anche e soprattutto per le sue implicazioni pratiche, è quella relativa al momento a partire dal quale deve trovare applicazione la nuova disciplina, a cominciare dalle regole che presiedono alla domanda di concordato.

La volontà del legislatore in ordine alla decorrenza della novella nel suo complesso emerge chiaramente dalle “Disposizioni transitorie e finali”, che si riferiscono, ai fini in esame, ai “procedimenti di concordato preventivo introdotti successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione”. E il ricorso ai concetti di “introduzione” e di “procedimento” consente di sgombrare ogni dubbio circa l’inapplicabilità della riforma (con l’eccezione espressamente prevista dal secondo comma dell’art. 23 del decreto legge) a tutte le domande di concordato, con o senza riserva, depositate prima di tale data.

Né pare sostenibile sottrarre al ragionamento fin qui condotto le previsioni, come quella relativa alla soglia del 20%, inserite in sede di emendamenti parlamentari. Anzi, una conferma in senso contrario proviene per l’appunto dal testo definitivo, che contiene un’unica deroga al principio anzidetto, là dove stabilisce che le (sole) disposizioni di cui all’art. 1 (inerenti alla finanza interinale ex art. 182-quinquies) “si applicano ai procedimenti di concordato preventivo introdotti anche anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Se ciò è vero, deve concludersi che lo spartiacque individuato dal legislatore ai fini che ci occupano consiste nel momento di introduzione del procedimento concordatario (si ripete, con o senza deposito della proposta e del piano attestato).

Per altro verso, vanno guardati con circospezione i tentativi di annettere carattere processuale a questa o quella disposizione, specie quando dettati dall’intento di ampliare artificiosamente il novero delle disposizioni processuali, invocando il semplice fatto che trattasi di istituti connotati, come nel caso del concordato, anche da profili procedimentali.

Ne deriva che l’unico criterio dotato di un adeguato livello di certezza e affidabilità appare quello anzidetto, destinato verosimilmente a valere per l’intera nuova disciplina, inclusa l’abrogazione del silenzio-assenso (che non pare definibile norma processuale in senso proprio, trattandosi fra l’altro di manifestazione di volontà esprimibile anche al di fuori dell’adunanza; per tacere dei profili latamente “negoziali”, e quindi tipicamente sostanziali, del rapporto fra debitore e creditori che aderiscano alla di lui proposta).

Ogni diversa soluzione si rivelerebbe, a ben vedere, foriera tanto di pericolose disomogeneità applicative, quanto di incertezze per gli operatori economici, che hanno riposto legittimo affidamento, nel momento in cui hanno optato per la soluzione concordataria, su un quadro normativo affatto differente. E sono precisamente queste incertezze che il legislatore dovrebbe cercare (e per vari aspetti, in quest’occasione riformatrice, ha tentato) di evitare e da cui un interprete consapevole delle “ricadute” delle proprie decisioni dovrebbe saggiamente rifuggire.

Non a caso, i maggiori tribunali italiani (da Roma a Milano, da Torino a Bari, da Bologna a Genova, da Monza a Brescia) si sono orientati – a quanto consta – nel senso anzidetto.

   

15. Lacune della novella in materia di concordato e brevi considerazioni de jure condendo

Non è possibile, in questa sede, dar conto di tutte le persistenti lacune della disciplina in tema di concordato di cui il riformatore non si è fatto carico.

Merita peraltro segnalare, in particolare, due aspetti colpevolmente trascurati dalla novella: le norme applicabili all’ipotesi di continuità aziendale indiretta e la prededuzione dei finanziamenti in caso di successivo fallimento.

Desta oggettiva sorpresa, per vero, il fatto che, nel dettare una disposizione – come l’ultimo comma dell’art. 160 – basata sul discrimine concordato liquidatorio/concordato in continuità, si sia totalmente pretermesso l’annoso e rilevante problema dell’affitto di azienda.

A ben vedere, sarebbe stato sufficiente inserire, come ultimo comma dell’art. 186-bis, una previsione del seguente tenore “Il presente articolo si applica, in quanto compatibile, ai casi nei quali l’azienda sia oggetto di contratto di affitto, anche se stipulato anteriormente alla domanda di concordato”. E con l’occasione, intervenendo sempre sull’art. 186-bis (invece inopinatamente trascurato, a dispetto della sua importanza e dell’urgenza di un intervento chiarificatore) si sarebbe potuto – e dovuto – precisare che, nel caso di moratoria ultrannuale, i creditori privilegiati hanno diritto di voto per l’intero ammontare dei rispettivi crediti.

Analoga sorprendente lacuna si ravvisa in materia di finanziamenti prededucibili, giacché la legge continua a tacere in ordine alla persistenza – che andava invece stabilita ex professo – del rango prededuttivo dei relativi crediti nell’eventualità in cui l’impresa sia successivamente assoggettata a fallimento o ad amministrazione straordinaria.

Ma molte altre sono state, nell’ambito di questa “miniriforma”, le occasioni di chiarimento mancate in materia di concordato, dalla delimitazione dei poteri del tribunale alla questione degli atti di frode, alla disciplina della fase esecutiva e così via.

Più in generale, la novella risente della mancanza di un disegno realmente organico, nonché, esaminando il decreto e i successivi emendamenti “in controluce”, di una solo parziale coerenza interna e univocità di intenti.

Senza dire delle perplessità che suscita la scelta di affidare il perseguimento dell’obiettivo di una più tempestiva emersione della crisi (aspetto, anche questo, che si sarebbe dovuto affrontare con urgenza) a strumenti quali le proposte concorrenti in luogo delle misure di allerta, contemplate invece opportunamente nella bozza di legge delega varata dalla Commissione di riforma istituita a gennaio 2015. E proprio dallo sviluppi di quei lavori – il cui vasto perimetro va dai presupposti soggettivi e oggettivi del fallimento al sovraindebitamento del debitore “civile”, dalle soluzioni negoziate della crisi all’amministrazione straordinaria – è lecito attendersi un più meditato intervento e un (lungamente atteso e a questo punto indefettibile) riordino della meteria concorsuale nel suo insieme.

   

16. Accordi di ristrutturazione con creditori bancari e convenzioni di moratoria

Fra le disposizioni inserite ex novo vi è l’art. 182-sexies, diretto a disciplinare, facilitandoli, gli accordi fra debitore e creditori finanziari nel caso in cui almeno la metà dell’indebitamento sia verso banche e altri intermediari autorizzati[67].

L’istituto si confoigura quale “sottotipo” degli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis[68] e la natura integrativa della nuova disciplina è denotata chiaramente dal primo comma di tale disposizione, che – com’è stato osservato – “definisce il suo contenuto quale integrazione alla disciplina generale dell’articolo 182 bis e correttamente ne identifica l’elemento caratterizzante nella introduzione della possibilità di derogare agli articoli 1372 e 1411 c.c., vale a dire dei principi generali secondo cui il contratto ha forza di legge tra le parti e non produce effetti rispetto ai terzi, come pure che la stipulazione a favore di terzi può avere effetto solo quando questi accettino di profittarne”[69].

Scopo della norma è quello di estendere, a determinate condizioni, gli effetti dell’accordo alle banche non aderenti[70], fermi restando i diritti dei creditori non bancari (anche se, a dire il vero, atteggiamenti “ostruzionistici” si riscontrano ancor più di frequente, nella prassi, da parte di alcuni fornitori[71]). Di qui l’espressa deroga al principio consensualistico ex art. 1372 c.c. e alla disciplina del contratto a favore del terzo di cui all’art. 1411 c.c.[72] (sebbene si dovrebbe forse più appropriatamente parlare di contratto “a sfavore” del terzo, atteso che questi ha dichiarato di non volervi prender parte…).

L’antecedente normativo del nuovo istituto si rinviene nella Section 895 del Companies Act britannico del 2006 (company restructuring – schemes of arrangement), ove è previsto che la maggioranza dei tre quarti di una classe di creditori possa vincolare all’accordo la minoranza di essa e il cui maggior vantaggio competitivo rispetto ai company voluntary arrangements viene ravvisato nella sua cogenza anche per i creditori privilegiati (“secured creditors”)[73]. Il nuovo art. 182-septies presenta affinità anche con la sauvegarde financière accélerée della riforma della legge francese avvenuta nel 2010, relativamente alla quale la dottrina francese ha peraltro posto in evidenza, in chiave critica, sia l’applicazione circoscritta ai creditori bancari, sia la mancanza di riservatezza[74].

I presupposti applicativi della disposizione nostrana consistono nel fatto che, previa individuazione di una o più categorie di creditori con posizione giuridica e interessi economici omogenei, (i) i creditori estranei all’accordo che appartengono alla medesima categoria siano stati informati dell’avvio delle trattative e siano stati posti in condizione di parteciparvi in buona fede e che (ii) i creditori aderenti rappresentino almeno il 75% dei crediti della categoria. In tal caso il debitore può appunto chiedere che gli effetti dell’accordo vengano estesi ai creditori non aderenti che appartengono a detta categoria[75].

Il riferimento, di cui al terzo comma, alle ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni antecedenti alla pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese non va inteso nel senso della loro inefficacia (come invece accade ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 168), bensì, alla luce della formulazione letterale del precetto (“Ai fini di cui al precedente comma non si tiene conto delle ipoteche giudiziali…”), nel senso della loro irrilevanza ai fini dell’individuazione delle categorie di creditori omogenei. La previsione, comunque, non è esattamente un portento di perspicuità.

Le condizioni cui la norma in esame subordina l’omologazione dell’accordo da parte del tribunale, oltre all’avvenuto svolgimento delle trattative in buona fede, sono le seguenti:

- le banche non aderenti devono avere posizione giuridica e interessi economici omogenei a quelli delle banche aderenti;

- le banche non aderenti devono aver ricevuto informazioni complete e aggiornate ed essere state poste in grado di partecipare alle trattative;

- le banche non aderenti devono poter essere soddisfatte dall’esecuzione dell’accordo in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.

Ci si potrebbe domandare se sia configurabile un’omologazione parziale (evidentemente quando il debitore ne abbia interesse): la risposta affermativa condurrebbe ad ammettere un decreto del Tribunale che, nell’omologare l’accordo, accerti la sua inefficacia nei confronti di uno o più creditori[76]. Ma il punto merita più approfondita riflessione.

Il quinto comma dell’articolo in esame ha poi attribuito diritto di cittadinanza a un nuovo istituto dell’ordinamento concorsuale: la convenzione di moratoria.

Essa rappresenta il recepimento a livello normativo di una prassi assai diffusa in materia, in base alla quale le imprese in crisi, attraverso lo strumento del c.d. standstill, “comprano tempo” in vista dell’individuazione del rimedio più acconcio a risolvere la situazione.

Il meccanismo previsto dal legislastore è analogo a quello dell’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari (comunicazione dell’avvio delle trattative, possibilità di parteciparvi, omogeneità di posizione giuridica e interessi economici dei creditori interessati dalla moratoria); con la non trascurabile differenza che l’intesa non è suscettibile di omologazione, potendo peraltro proporre opposizione quelle banche che non intendono subire gli effetti della moratoria[77].

Correttamente, il penultimo comma dell’art. 182-septies precisa, con riferimento tanto all’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari quanto alla moratoria, che in nessun caso ai creditori estranei possono essere imposti l’esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti. Desta tuttavia qualche perplessità, dal punto di vista dell’utilità concreta della previsione, l’aver inserito nel predetto novero anche “il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti”[78], giacché è precisamente questa una delle esigenze più fortemente avvertite dall’impresa in crisi e, quindi, uno degli aspetti cruciali delle operazioni di ristrutturazione dei debiti; anche se la ratio di tale limitazione va probabilmente ricercata nella necessità di preservare l’autonomia della banca nello scrutinio del merito creditizio.

La seconda parte del comma in parola chiarisce infine opportunamente che non è considerata nuova prestazione la prosecuzione del contratto di leasing.

   

17. Un flash sulle novità in tema di fallimento

La disciplina del fallimento è stata modificata in diversi punti, a cominciare dalla figura del curatore.

La maggiore novità del riformato art. 28 è data dall’istituzione presso il Ministero della giustizia di un registro nazionale dei curatori, nonché dei commissari e dei liquidatori giudiziali. Ciò va salutato con favore, stante il commendevole perseguimento dell’obiettivo della trasparenza delle procedure di nomina e, implicitamente, della rotazione degli incarichi.

Non è stata invece mantenuta, all’esito dell’iter di conversione del decreto, l’incompatibilità tra le funzioni di commissario giudiziale e di curatore nell’eventuale successivo fallimento della stessa impresa. La ratio sottesa a tale previsione del decreto legge era perspicua e forse non del tutto priva di motivazioni, sebbene quanto si legge(va) in proposito nella Relazione illustrativa – “Il commissario non deve svolgere le proprie funzioni nella prospettiva di assumere, in caso di successivo fallimento, il ruolo di curatore” – suonava obiettivamente ingeneroso nei riguardi di quanti (e non sono pochi) hanno sempre adempiuto ai doveri dell’ufficio commissariale in modo serio e disinteressato.

Sempre all’art. 28 si è giustamente provveduto a chiarire che l’incompatibilità scatta per il fatto di aver concorso al dissesto, a prescindere dall’epoca in cui ciò sia avvenuto (donde l’espunzione del riferimento ai due anni anteriori al fallimento), mentre assai meno chiara – e verosimilmente foriera di problemi operativi – è la previsione in base alla quale la nomina a curatore è effettuata “tenuto conto delle risultanze dei rapporti riepilogativi di cui all’art. 33, quinto comma”[79].

La previsione sul compenso del curatore è stata opportunamente integrata con la precisazione che la liquidazione di ogni acconto dev’essere preceduta, di regola, da un progetto di riparto parziale, sebbene ciò conduca inevitabilmente a un incremento delle formalità procedurali e, quindi, dei tempi di incasso.

La centralità della materia delle crisi d’impresa nell’ambito dell’odierna giustizia civile trova puntuale conferma nell’ultimo comma dell’art. 43, ai sensi del quale le controversie in cui è parte un fallimento devono essere trattate con priorità. Come pure va data positiva accoglienza (pur con un caveat circa l’assai ridotta tutela del terzo dal punto di vista processuale) all’integrazione della norma sull’inefficacia degli atti a titolo gratuito[80], i beni oggetto dei quali saranno d’ora in avanti acquisiti al fallimento mediante semplice trascrizione della sentenza dichiarativa, mentre la tutela (per vero debole) dei terzi colpiti da detta “sanzione” è affidata all’esperimento del reclamo ex art. 36: a riprova del giusto sfavore con cui la legge considera gli atti palesemente estranei alla fisiologia dell’attività d’impresa quali sono, appunto, quelli senza corrispettivo per l’imprenditore poi fallito.

Di notevole rilevanza pratica è inoltre l’addendum apportato al primo comma dell’art. 107: tanto per l’affermata possibilità che nelle vendite il versamento del prezzo sia rateale, quanto in virtù del richiamo, ove applicabili, agli artt. 569, 574 e 587, c.p.c. (limitatamente ai commi oggetto di rimando), nonché all’art. 490, 1° c., c.p.c., relativamente all’effettuazione della relativa pubblicità almeno trenta giorni prima della vendita al fine di assicurare la massima informazione e partecipazione dei soggetti interessati[81].

   

18. Segue. La prosecuzione dei giudizi dopo la chiusura

Il cardine delle nuove disposizioni sul fallimento – come già ricordato – ruota intorno all’esigenza di buon andamento e celerità della procedura, che viene a costituire, per così dire, la “stella polare” che gli organi del fallimento sono chiamati a osservare costantemente.

Ed invero, le disposizioni sulla chiusura della procedura nonostante la persistente pendenza di giudizi (modellate sulla falsariga di quanto disposto in tema di crisi bancarie dall’art. 92 del d.lgs. n. 385 del 1993) rispondono alla dichiarata finalità, coerente anche con la c.d. Legge Pinto, di accelerare detta chiusura, completando la liquidazione, per quanto possibile, nel termine di due anni[82].

Se è vero che in base all’esperienza la chiusura dei fallimenti è, in effetti, pressoché invariabilmente ritardata dal contenzioso civile in essere, non può tuttavia escludersi che alle nuove norme venga attribuita una sorta di carettere “finzionistico”, il che potrebbe non apparire idoneo a scongiurare le sanzioni comunitarie per irragionevole durata del processo, precisamente sulla scorta del rilievo che a chiudersi è bensì il fallimento ma non già i giudizi in cui esso è parte, tenuto anche conto della permanenza in carica di curatore e giudice delegato, seppure ai soli fini di quanto previsto dall’art. 118.

Il problema interpretativo che sembra aver attratto la maggiore attenzione da parte dei primi commentatori è quello del perimetro applicativo, dal momento che non risulta perspicuo il riferimento alla permanenza della legittimazione processuale “ai sensi dell’art. 43”.

A tutta prima, a tale menzione potrebbe annettersi portata restrittiva. In realtà, una soluzione siffatta non rispecchierebbe la finalità chiaramente perseguita dal legislatore, che per certo non è nel senso di escludere le cc.dd. azioni di massa e, più in generale, i giudizi a cognizione piena. L’interpretazione corretta è dunque quella risultante da un’operazione ermeneutica di tipo “ortopedico”, in virtù della quale la norma va letta, in sostanza, come “amputata” dal riferimento all’art. 43[83].

E’ di contro dubbio che rientrino nell’ambito di operatività della norma le azioni esecutive. Invero, non si tratta qui di pretermettere il suddetto riferimento, bensì – com’è stato rilevato – “di misconoscere il fatto che la norma parli di “giudizi” e relativi “stati e gradi”, concetti propri della giurisdizione cognitiva ma estranei (almeno quello di “gradi” del giudizio) a quella esecutiva” [84]. Sebbene occorra riconoscere che l’opzione restrittiva non appaia improntata a ragionevolezza, comportando fra l’altro una – potenzialmente significativa – compressione delle aspettative dei creditori rispetto ai benefici ritraibili da esecuzioni forzate in corso, della quale non è dato scorgere la giustificazione.

 L’applicazione della nuova disciplina in materia è insomma destinata a dar luogo a più di un problema, sia teorico, sia pratico (basti pensare al tema della cancellazione della società dal registro delle imprese); senza dire dei corollari di natura fiscale (imposta sul reddito, note di variazione, ecc.), di cui il legislatore non sembra pienamente avvertito.

   

19. Conclusioni: controriforma o “correzioni di rotta”?

Come può dirsi pressoché di qualsiasi riforma legislativa, la novella in esame presenta varie luci, ma anche alcune ombre.

Di là dalle critiche “metodologiche” di cui alla premessa e da alcune imprecisioni del testo normativo, le disposizioni dettate in tema di offerte concorrenti, cessioni, contratti pendenti, finanza interinale e altre qui non oggetto di indagine (quale il nuovo art. 182-septies, peraltro inopportunamente circoscritto ai creditori finanziari, laddove spesso il problema, in concreto, è rappresentato anche e soprattutto dai fornitori) vanno salutate con sostanziale favore.

La disciplina delle proposte concorrenti suscita invece qualche riserva (specie per i “poteri taumaturgici” che il legislatore sembra annettere loro – come si diceva – rispetto al problema della tempestiva emersione della crisi), mentre le previsioni relative alla soglia di sbarramento per il concordato liquidatorio sollevano schiette perplessità, in particolare dal punto di vista della loro utilità nell’ottica del salvataggio delle imprese; tanto più al cospetto delle affermazioni di principio contenute nella Relazione illustrativa, ove in proposito si valorizza espressamente “la riuscita del concordato, che, non deve essere dimenticato, costituisce la procedura di maggiore portata e rilievo per la ristrutturazione e il recupero del credito verso l’impresa in crisi”.

E proprio muovendo da quest’ultimo rilievo e tentando, all’esito delle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti, una conclusione di carattere generale, può osservarsi come l’insieme delle disposizioni prese in esame renda oggettivamente arduo, quanto meno sul piano sistematico, definire l’odierna novella in termini di vera e propria “controriforma”. Essa infatti tiene fermi i capisaldi delle riforme del 2005 e del 2012: la centralità dell’istituto concordatario, l’accesso alla procedura rimesso in via esclusiva al debitore, la fase “con riserva” di presentazione del piano, l’attestazione del piano ad opera di professionista di designazione “privatistica”, il forte arretramento dell’eterotutela giudiziale dei creditori, il favor (oggi ancor più marcato) per la continuità aziendale, la possibilità di ottenere lo scioglimento o la sospensione dei contratti in essere, l’assenza di maggioranze per teste, la risoluzione a iniziativa dei soli creditori, la prededucibilità dei finanziamenti all’impresa in crisi, ecc.

Non vi è dunque stato, a ben vedere, un revirement “strutturale” del legislatore, quanto piuttosto una serie di – pur significative – “correzioni di rotta”. Certo, il numero dei concordati è destinato a diminuire anche sensibilmente, come pure i casi di approvazione ottenuta grazie al silenzio-assenso; ma ciò attiene al piano “quantitativo” delle conseguenze pratiche della novella, non al profilo “qualitativo” del riformato assetto ordinamentale.

La vera “cifra” del recente intervento sta – come si accennava in esordio – nell’oscillazione del pendolo della tutela degli interessi protetti: da un assetto molto (forse, per certi aspetti, troppo) incentrato sulla tutela del debitore (non a caso corretto, cammin facendo, dalle previsioni sulla nomina del commissario nel concordato con riserva e sull’obbligo di relazioni informative periodiche) a uno maggiormente attento alle istanze di protezione del ceto creditorio nell’ottica di incrementarne le prospettive di soddisfacimento.

In questo quadro si inscrive l’oggettivo minor favore per la soluzione concordataria in quanto tale, come testimoniano, più ancora di altre previsioni, la soglia minima del 20% per i chiorografari nel concordato liquidatorio e l’intervenuta abolizione del meccanismo del silenzio-assenso ai fini dell’approvazione della proposta. Il che potrebbe condurre, in prospettiva, a una “rivitalizzazione” del concordato fallimentare, notoriamente sottratto a entrambe le predette limitazioni; mentre in taluni casi di grandi imprese insolventi potrebbero non ravvisarsi alternative all’accesso, omisso medio, all’amministrazione straordinaria in presenza di aziende ancora in esercizio.

L’auspicio è che tali novità, a cominciare da quelle programmaticamente dirette all’apertura alla concorrenza nel concordato, conducano all’effettiva creazione di quel “mercato” delle imprese in crisi e dei distressed debts cui i princìpi di contendibilità e di competitività dichiaratamente mirano e non invece a uno sterile – e anzi dannoso – incremento dei fallimenti e delle connesse “esternalità” negative.

Nondimeno, e senza voler indulgere a facili scetticismi, resta il dubbio che le nuove norme, anche a causa delle persistenti incertezze e lacune della disciplina (basti pensare, rispettivamente, al rango prededucibile dei finanziamenti e alle misure di allerta), siano idonee a comportare, nel breve termine, un beneficio effettivo e tangibile per il mondo delle imprese e per il sistema economico nel suo complesso. Per il più proficuo perseguimento di questi fini occorre invero attendere la riforma organica delle procedure concorsuali, che in molti, dopo gli alacri lavori della Commissione Rordorf, si augurano, a questo punto, davvero imminente.

   

20. Prospettive di riforma: princìpi generali e misure di allerta

Come ben noto, il 24 febbraio del 2015 è stata istituita dal Ministro della Giustizia una commissione incaricata di elaborare lo schema di disegno di legge delegarecante la delega al Governo per “la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”.

Il documento, varato a fine luglio e il cui contenuto è stato spesso descritto (talora verbatim) nell’ambito delle numerose occasioni convegnistiche che si sono succedute negli ultimi mesi, è stato da poco opportunamente reso pubblico per decisione del suo Presidente Renato Rordorf, al dichiarato fine di suscitare un dibattito il più ampio possibile sulle scelte allo stato operate dalla Commissione, tuttora oggetto di riflessione al proprio interno in vista delle imminenti audizioni e interamente rimesse, in ogni caso, alle future valutazioni di Governo e Parlamento.

In questa sede si intende condurre, nell’ottica di cui sopra, un primissimo tentativo di sintesi ragionata dell’elaborato in questione[85], con riferimento alla materia del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione; non senza una rapida ricognizione, tuttavia, dei princìpi generali che dovrebbero ispirare l’ulteriore riforma (ormai indefettibile, in quanto, appunto, finalmente organica) e dei tratti salienti dell’istituto più innovativo: le procedure di allerta e di mediazione.

Cominciamo col delineare il perimetro della bozza di legge delega: la riscrittura delle procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, la nuova disciplina della composizione della crisi da sovraindebitamento di cui alla legge 27 gennaio 2012, n. 3, e successive modificazioni, il riordino dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 e delle misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza di cui al decreto legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito con modificazioni dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39, e successive modificazioni, nonché la revisione del sistema dei privilegi e delle garanzie.

Quanto ai “referenti sovranazionali” di cui il Governo è chiamato a tener conto nel futuro esercizio della delega, essi sono costituiti dalla normativa dell’Unione europea e, in particolare, del Regolamento (UE) 2015/848 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alle procedure di insolvenza, della Raccomandazione della Commissione n. 2014/135/UE e dei principi della Model Law elaborati in materia di insolvenza dall’Uncitral; con specifico riguardo alle procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza del datore di lavoro, poi, viene sancita la necessità di armonizzarle con le forme di tutela del reddito dei lavoratori che trovano fondamento nella Carta sociale europea e nelle Direttive 1980/987/CE e 2002/74/CE.

 Nella parte dello shema di legge delega dedicato ai princìpi generali è stabilito che il Governo, nel provvedere a riformare in modo organico le procedure concorsuali, si attenga ai seguenti criteri direttivi:

a) sostituire il termine “fallimento” e suoi derivati con espressioni equivalenti, quali “insolvenza” o “liquidazione giudiziale”, adeguando dal punto di vista lessicale anche le relative disposizioni penali, ferma restando la continuità delle fattispecie criminose;

b) eliminare l’ipotesi del fallimento d’ufficio di cui all’articolo 3, primo comma, decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270;

c) introdurre una definizione dello stato di crisi, mantenendo l’attuale nozione di insolvenza di cui all’articolo 5, regio decreto 16 marzo 1942, n. 267;

d) adottare un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore, ispirato al vigente articolo 15, regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 e con caratteristiche di particolare celerità, anche in fase di reclamo, prevedendo la legittimazione ad agire dei soggetti con funzioni di controllo e vigilanza sull’impresa, ammettendo l’iniziativa del pubblico ministero in ogni caso in cui egli abbia notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza, specificando la disciplina delle misure cautelari, attribuendo poteri cautelari anche alla corte d’appello e armonizzando il regime delle impugnazioni, con particolare riguardo al regime di efficacia delle pronunce rese dalla corte d’appello in sede di reclamo avverso i provvedimenti di apertura della procedura di liquidazione giudiziale, ovvero di omologa del concordato;

e) assoggettare al procedimento di accertamento dello stato di crisi o di insolvenza ogni categoria di debitore, sia esso persona fisica o giuridica, ente collettivo, consumatore, professionista o imprenditore esercente un’attività commerciale, agricola o artigianale, con esclusione dei soli enti pubblici, disciplinandone distintamente i diversi esiti possibili, con riguardo all’apertura di procedure di regolazione concordata o coattiva, conservativa o liquidatoria, tenendo conto delle relative peculiarità soggettive e oggettive, in particolare assimilando il trattamento dell’imprenditore che dimostri di rivestire un profilo dimensionale inferiore a parametri predeterminati, in linea con il vigente articolo 1, regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, a quello riservato a debitori civili, professionisti e consumatori, di cui al successivo articolo 9;

f) recepire, ai fini della disciplina della competenza territoriale, la nozione europea di “centro degli interessi principali del debitore” (COMI);

g) dare priorità di trattazione, salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche per il tramite di un diverso imprenditore, riservando la liquidazione giudiziale ai casi nei quali non venga proposta idonea soluzione alternativa;

h) uniformare e semplificare, in raccordo con il processo civile telematico, la disciplina dei diversi riti speciali previsti dalle disposizioni in materia concorsuale;

i) ridurre la durata e i costi delle procedure concorsuali, anche attraverso misure di responsabilizzazione degli organi di gestione e di contenimento delle ipotesi di prededuzione, anche con riguardo ai compensi dei professionisti, al fine di evitare che il pagamento dei crediti prededucibili assorba in misura rilevante l’attivo delle procedure;

j) riformulare le disposizioni che hanno originato contrasti interpretativi, al fine di favorirne il superamento, in coerenza con i principi espressi dalla presente legge delega;

k) assicurare la specializzazione dei giudici addetti alla materia concorsuale: i) attribuendo ai tribunali sede delle sezioni specializzate in materia di impresa la competenza sulle procedure concorsuali, e sulle cause da esse originate, relative alle imprese in amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevante dimensione, adeguando gli organici degli uffici giudiziari la cui competenza risulti ampliata; ii) mantenendo invariati i vigenti criteri di attribuzione della competenza per le procedure di crisi o insolvenza del consumatore, del professionista e dell’imprenditore in possesso del profilo dimensionale ridotto di cui alla lettera e); iii) individuando tra i tribunali esistenti, sulla base di parametri quantitativi, quali piante organiche, flussi delle procedure concorsuali e numero di imprese iscritte nel registro delle imprese, quelli competenti alla trattazione delle procedure concorsuali relative alle restanti imprese.

Fra gli obiettivi perseguiti in via dichiaratamente prioritaria dal legislatore vi è quello di introdurre misure idonee a provocare l’emergere più tempestivo della crisi. E’ previsto infatti che siano introdotte procedure di allerta e mediazione, dotate di natura non giudiziale e confidenziale e finalizzate, appunto, a incentivare l’emersione anticipata della crisi e ad agevolare lo svolgimento di negoziati assistiti tra debitore e creditori.

Il meccanismo è incentrato su oneri informativi posti a carico di determinati soggetti, sia interni che esterni all’impresa, e sulla conseguente attivazione dell’organismo di composizione della crisi, diretta a individuare rapidamente gli strumenti atti a superare lo stato di crisi.

Più precisamente, nella bozza di legge delega si colloca in capo agli organi di controllo societari, al revisore contabile e alle società di revisione l’obbligo di avvisare immediatamente l’organo amministrativo della società dell’esistenza di fondati indizi della crisi e, in caso di omessa o inadeguata risposta, di informare direttamente il competente organismo di composizione della crisi.

Si stabilisce altresì che creditori qualificati, come l’agenzia delle entrate, gli agenti della riscossione delle imposte e gli enti previdenziali, debbano – pena la responsabilità dirigenziale – segnalare immediatamente all’imprenditore, o agli organi di amministrazione e controllo della società, il perdurare di inadempimenti di importo rilevante, coordinando detti obblighi con quelli di informazione e vigilanza spettanti alla Consob.

L'organismo di composizione della crisi – recte, l’apposita sezione specializzata degli organismi previsti dalla legge 27 gennaio 2012, n. 3 e dal decreto ministeriale 24 settembre 2014, n. 202 – a seguito delle segnalazioni ricevute o su istanza del debitore deve convocare immediatamente, in via riservata e confidenziale, il debitore medesimo, nonché, ove si tratti di società dotata di organi di controllo, anche questi ultimi, al fine di individuare nel più breve tempo possibile, previa verifica della situazione patrimoniale, economica e finanziaria in essere, le misure idonee a porre rimedio allo stato di crisi.

Su istanza del debitore, detto organismo, anche all'esito dell'audizione di cui sopra, affida ad un mediatore scelto tra soggetti di adeguata professionalità nella gestione della crisi d'impresa, iscritti presso l'organismo stesso, l’incarico di addivenire ad una soluzione concordata della crisi tra debitore e creditori, entro un congruo termine, prorogabile solo a fronte di positivi riscontri delle trattative, precisando altresì le condizioni in base alle quali gli atti istruttori della procedura possono essere utilizzati nell’eventuale fase giudiziale.

A tutela della più efficace conduzione delle trattative, il debitore può chiedere al giudice l’adozione, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, delle misure protettive necessarie a condurre in porto i negoziati; misure di cui i decreti delegati stabiliranno poi durata, effetti, regime pubblicitario, competenza a emetterle e revocabilità (anche d’ufficio nel caso di atti in frode ai creditori).

Un aspetto delicato concerne le modalità di reazione dell’ordinamento al fatto che il debitore ricorra tempestivamente o meno alla procedura e ne favorisca o meno l’esito positivo. Ebbene, l’articolato in esame contempla “misure premiali” per gli imprenditori che risultino compliant e “misure sanzionatorie” per quelli che, al contrario, ingiustificatamente ostacolino tale procedura o comunque non vi ricorrano pur in presenza dei relativi presupposti. Nel novero dei rimedi sanzionatori è espressamente prevista l’introduzione di un’ulteriore fattispecie di bancarotta semplice ai sensi degli articoli 217 e 224.

Il sistema di incentivi e disincentivi appare in effetti il più adatto ad affrontare efficacemente il problema, anche se, relativamente ai primi, sarebbe opportuno inserire una precisazione del tipo “anche di natura fiscale e penale”; e ciò non tanto per scongiurare, un domani, rischi di eccesso di delega (l’esperienza anche recente testimonia di leggi delega assai più generiche che sono andate, ciò nondimeno, esenti da censure), quanto piuttosto per esplicitare già in questa fase la chiara intenzione del legislatore in tal senso.

Il dubbio che alcuni hanno già sollevato riguarda la reale efficacia di un meccanismo che, per così dire, non prevede una “chiusura del cerchio”, dal momento che non sono previsti altri provvedimenti oltre alla convocazione dell’organismo di composizione della crisi e che la nomina del mediatore è pur sempre subordinata all’iniziativa del debitore. Donde ad esempio l’ipotesi, già da taluno affacciata, che la palla passi a quel punto al tribunale delle imprese, con relativo potere, previa audizione dell’imprenditore, di designare d’ufficio il mediatore.

Da parte di altri si osserva però che in realtà la procedura di allerta ha come obiettivo principale la “mediazione” con i creditori, donde la naturale conseguenza di tenere la procedura il più possibile riservata e fuori dalle aule giudiziarie e l’opportunità di concentrarsi piuttosto, in questa fase, sugli organismi di composizione della crisi e sulle caratteristiche ritenute necessarie a gestire l'allerta.

Quel che è certo è che si tratta di uno strumento alquanto innovativo, che come tale va approcciato in modo laico ed empirico, rifuggendo da preconcetti e apriorismi culturali di ogni genere.

Per questa ragione non può escludersi che entri a far parte del dibattito anche l’idea di “importare” il modello tedesco della c.d. black list dei cattivi pagatori[86], in ipotesi attraverso l’invio alle camere di commercio di un report periodico sulla regolarità dei pagamenti da parte delle imprese.

In ogni caso, l’esperienza insegna che questioni di fondo come questa trovano la loro sede elettiva, in termini di composizione dei diversi interessi in gioco, nel dibattito parlamentare, da cui uscirà – com’è corretto che sia – il risultato definitivo della mediazione politica in materia.

Tornando all’esame della bozza di legge delega, emerge chiaramente come l’introduzione di tali misure non possa non riflettersi sulle previsioni codicistiche relative all’imprenditore e alle imprese collettive. Ciò spiega la necessità, espressamente sancita nell’articolato in esame, di prevedere, in particolare, il dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché il loro obbligo di attivarsi per l’adozione tempestiva di uno degli strumenti contemplati dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero di detta continuità.

Come si vede, tali regole appaiono destinate a operare anche nelle società di minori dimensioni che non abbiano un’adeguata struttura di governance e finiscono per integrare, nel caso di inosservanza, un’autonoma fattispecie di responsabilità a carico di amministratori e sindaci.

   

21. Segue: concordato preventivo, accordi di ristrutturazione e piani di risanamento

Le innovazioni più rilevanti contenute nella bozza di legge delega in materia di concordato preventivo sono due: la legittimazione del terzo a presentare ab origine la domanda di concordato (e non semplici proposte concorrenti rispetto a quella, necessariamente iniziale, del debitore) e l’abrogazione del concordato liquidatorio, tranne nel caso di apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori.

Beninteso, la legittimazione del terzo a promuovere il procedimento nei confronti del debitore è circoscritta all’ipotesi in cui questi versi in stato di insolvenza; essa andrà inoltre disciplinata nel doveroso rispetto del principio del contraddittorio e con l’indefettibile adozione di adeguati strumenti di tutela del debitore, per il caso di successivo inadempimento del terzo.

Al fine di scongiurare iniziative strumentalmente pregiudizievoli per il debitore, sarebbe opportuno chiarire altresì che il terzo non può limitarsi alla domanda “prenotativa” di cui all’art. 161, 6° c.

La norma, ove ben “calibrata”, avrebbe verosimilmente l’effetto di costituire un incentivo, ulteriore rispetto alle misure di allerta, alla tempestiva emersione della crisi; senza dire del fatto che ciò eliminerebbe in radice il problema connesso alla rinuncia al concordato da parte del debitore che volesse con ciò precludere la proseguibilità della proposta concorrente.

Quanto alla norma inerente al concordato liquidatorio, essa si colloca nel solco di un progressivo disfavore nei confronti di questo istituto, come denotano chiaramente le innovazioni introdotte in proposito dalla legge n. 132 del 2015. Viene giustamente fatta salva, peraltro, l’ipotesi in cui il debitore, volendo comunque sottrarsi alla liquidazione giudiziale pur non potendo proseguire l’attività d’impresa, riesca a reperire risorse esterne tali da innalzare significativamente (e quindi in misura non irrisoria) il livello di soddisfazione dei creditori.

Naturalmente, i decreti delegati avranno cura di disciplinare nel dettaglio tale situazione, anche nell’ottica di garantire che le risorse in questione provengano effettivamente ab externo e non siano invece l’effetto di “manovre” maliziosamente poste in essere nel tempo dall’imprenditore.

Altra novità di rilievo è rappresentata dalla futura soppressione dell’adunanza dei creditori, previa regolamentazione delle modalità telematiche di esercizio del voto e di formazione del contraddittorio sulle richieste delle parti, nonché dall’adozione di un sistema di calcolo delle maggioranze anche “per teste” limitatamente all’ipotesi in cui un solo creditore sia titolare di crediti pari o superiori alla maggioranza di quelli ammessi al voto, oltre all’introduzione di un’apposita disciplina delle situazioni di conflitto d’interesse.

L’articolato contempla poi, sempre in tema di concordato preventivo, (i) la revisione della disciplina delle misure protettive, specie quanto a durata ed effetti, prevedendone la revocabilità, su ricorso degli interessati, ove non arrechino beneficio al buon esito della procedura; (ii) la fissazione delle modalità di accertamento della veridicità dei dati aziendali e di verifica della fattibilità del piano, nonché la determinazione dell’entità massima dei compensi spettanti ai professionisti incaricati dal debitore, da commisurarsi proporzionalmente all’attivo dell’impresa soggetta alla procedura; (iii) l’esplicitazione dei poteri del tribunale, con particolare riguardo alla valutazione della fattibilità del piano, tenuto conto dei criteri desumibili da consolidati orientamenti del giudice di legittimità; (iv) la regolazione del diritto di voto dei creditori con diritto di prelazione il cui pagamento sia dilazionato e dei creditori soddisfatti con utilità diverse dal denaro.

E’ altresì prevista l’integrazione della disciplina relativa ai i rapporti pendenti, con particolare riferimento: ai presupposti della sospensione e, dopo la presentazione del piano, anche dello scioglimento; al procedimento e al ruolo del commissario giudiziale; agli effetti, in relazione agli esiti possibili della procedura, nonché alla decorrenza e alla durata nell’ipotesi di sospensione; alla competenza per la determinazione dell’indennizzo e ai relativi criteri di quantificazione.

Si contempla inoltre una più dettagliata disciplina della fase di esecuzione del piano, anche con riguardo agli effetti purgativi ed alla deroga alla solidarietà passiva di cui all’articolo 2560 del codice civile, e con limitazione del controllo giudiziale sul piano non liquidatorio ai tempi strettamente necessari per il riequilibrio della situazione finanziaria del debitore; nonché la fissazione dei presupposti per l’estensione degli effetti esdebitatori ai soci illimitatamente responsabili che siano garanti della società, con eventuale distinzione tra garanzie personali e reali.

Si prevedono infine il riordino e la semplificazione delle varie tipologie di finanziamento alle imprese in crisi (il che in sede di decreto delegato potrà costituire l’occasione, fra l’altro, per garantire finalmente stabilità al rango prededucibile di detti finanziamenti nell’eventuale successiva liquidazione giudiziale: anche se sarebbe preferibile menzionare da subito questo aspetto) e la regolamentazione dei crediti da imposta sul valore aggiunto nel concordato preventivo privo di transazione fiscale, tenendo conto anche delle pronunce della Corte di Giustizia U.E.

Quanto al caso di procedura riguardante una società di capitali, si è stabilito di introdurre un’apposita disciplina diretta a:

a) esplicitare presupposti, legittimazione ed effetti dell’azione sociale di responsabilità e dell’azione dei creditori sociali, in conformità ai principi dettati dal codice civile;

b) prevedere che, in caso di aumento di capitale con esclusione o limitazione del diritto di opzione, ai sensi dell’articolo 2441, quinto comma, del codice civile, nella determinazione del prezzo delle azioni da emettere si tenga esclusivamente conto della situazione patrimoniale della società al momento dell’apertura della procedura;

c) prevedere che, in caso di operazioni di trasformazione, fusione o scissione poste in essere nel corso della procedura: i) l’opposizione dei creditori possa essere proposta solo in sede di controllo giudiziale sulla legittimità della domanda concordataria; ii) gli effetti delle operazioni siano irreversibili, anche in caso di risoluzione o annullamento del concordato, salvo il diritto al risarcimento dei soci o terzi danneggiati, a norma degli articoli 2500-bis e 2504-quater del codice civile; iii) non spetti ai soci il diritto di recessoin conseguenza di operazioni incidenti sull’organizzazione o sulla struttura finanziaria della società.

L’articolato ha inteso prefigurare anche l’ipotesi di gestione unitaria della procedura di concordato preventivo di gruppo, stabilendo:

a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico commissario giudiziale e il deposito di un unico fondo per le spese di giustizia;

b) ove contemplata, un’unica adunanza dei creditori, ferma restando la votazione separata dei creditori di ciascuna impresa;

c) gli effetti dell’eventuale annullamento o risoluzione della proposta unitaria omologata;

d) l’esclusione dal voto delle imprese del gruppo che siano titolari di crediti nei confronti delle altre imprese assoggettate alla procedura;

e) i criteri per la formulazione del piano unitario di risoluzione della crisi del gruppo, eventualmente attraverso operazioni contrattuali e riorganizzative infragruppo funzionali alla continuità aziendale e al miglior soddisfacimento dei creditori, fatta salva la tutela endoconcorsuale per i soci e i creditori delle singole imprese, nonché per ogni altro controinteressato.

Per quanto riguarda i piani attestati di risanamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti e le convenzioni di moratoria, di cui si dice giustamente che vanno incentivati, la novità di maggiore importanza concerne la possibilità per il debitore, che nell’ambito di soluzioni non esclusivamente liquidatorie concluda l’accordo di ristrutturazione (ovvero una convenzione di moratoria) con creditori, anche diversi da banche e intermediari finanziari, rappresentanti almeno il settantacinque per cento dei crediti di una o più categorie giuridicamente ed economicamente omogenee, di estenderne gli effetti ai creditori della medesima categoria non aderenti, purché coinvolti nelle trattative.

Viene opportunamente fatto salvo, in tal caso, il loro diritto di opporsi all’omologazione in caso di (i) frode, (ii) non veridicità dei dati aziendali, (iii) inattuabilità dell’accordo ovvero (iv) praticabilità di soluzioni alternative più soddisfacenti.

La disposizione testé descritta suona quanto mai opportuna, dal momento che il legislatore del 2015, nell’introdurre una norma – l’art. 182-septies – diretta esclusivamente agli intermediari finanziari, ha trascurato il fatto che nella pratica sono spesso alcuni fornitori a indulgere a condotte ostruzionistiche (quando non, nei casi patologici, scopertamente ricattatorie). In tal modo la legge delega verrebbe a colmare un’oggettiva lacuna del nostro ordinamento.

Sempre con riferimento all’accordo di ristrutturazione, si stabilisce altresì di eliminare o ridurre la soglia del sessanta per cento dei crediti prevista nell’articolo 182-bis ove il debitore non proponga la moratoria del pagamento dei creditori estranei, di cui al primo comma di detto articolo, né richieda le misure protettive previste nel successivo sesto comma.

Anche questa novità va salutata con favore, dal momento che nella situazione prefigurata dall’anzidetta previsione (peraltro non frequentissima nella pratica) il debitore non fruisce né della dilazione, né delle misure protettive, sicché pare senz’altro sufficiente la maggioranza semplice dei creditori.

Si prevede infine opportunamente:

a) di assimilare la disciplina delle misure protettive degli accordi di ristrutturazione dei debiti a quella prevista per la procedura di concordato preventivo, nei limiti di compatibilità;

b) di estendere gli effetti dell’accordo ai soci illimitatamente responsabili, alle medesime condizioni previste nella disciplina del concordato preventivo; prevedendo che il piano attestato abbia forma scritta, data certa e contenuti analitici;

c) di imporre la rinnovazione delle prescritte attestazioni nel caso di successive modifiche, non marginali, dell’accordo o del piano (disposizione, quest’ultima, gravida di corollari applicativi, dato il numero crescente di situazioni in cui si rende necessario procedere alla modifica del piano).



* Il presente saggio, che costituisce lo sviluppo dell’Introduzione all’opera collettanea La nuova riforma del diritto concorsuale. Commento operativo al d.l. n. 83/2015 conv. in l. n. 132/2015, Torino, 2015, pp. 1 ss., è destinato, con le integrazioni del caso, a un volume dello stesso autore di prossima pubblicazione per i tipi dell’editrice Zanichelli. Il contenuto dei paragrafi 2, 3, 5, 6 e 7 riflette parzialmente quanto già esposto da chi scrive, all’indomani della legge di conversione, nell’articolo La disciplina della domanda di concordato preventivo nella “miniriforma” del 2015, in ilcaso.it.

[1] Si tratta del noto caso deciso da Trib. Roma, 16 aprile 2008, in Dir. fall., 2008, II, p. 150, risolto attingendo all’istituto della (mancanza di) causa del contratto.

[2] Appare legittimo interrogarsi se non ci si trovi qui al cospetto di un caso di overdeterrence: se infatti lo scopo della norma era quello di restituire serietà all’istituto del concordato, sarebbe ragionevolmente bastata una soglia più bassa, in ogni caso non superiore al 10%. E non può escludersi che taluno abbia pensato al 20% “in prima battuta”, ma con l’idea poi di “atterrare”, all’esito della mediazione in sede politica, su una percentuale significativamente inferiore: purtroppo, così non è poi stato.

[3] In dottrina, da ultimo, Panzani, Introduzione ad Ambrosini, Il diritto della crisi d’impresa dopo la riforma del 2015, in corso di pubblicazione per i tipi della Zanichelli, p. 5 del dattiloscritto (destinato altresì al Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Cagnasso e Panzani, di prossima pubblicazione per i tipi della Utet), il quale invoca, de jure condendo, “l’abrogazione dell’istituto, conservando soltanto il concordato in continuità (in cui va inserito beninteso anche il caso dell’affitto d’azienda)”.

[4] In argomento, ex aliis, Bogoni,sub art. 161. Domanda di concordato, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale. Commento operativo al d.l. n. 132/2015 conv. in l. n. 132/2015, Torino, 2015, pp. 117 ss.

[5] Per una valutazione fortemente critica v. però Panzani, op. cit., p. 3 del dattiloscritto, secondo il quale da tale previsione “deriva che, se non è possibile pagare almeno in percentuale minima tutti i creditori, chirografari e non, si deve far luogo al fallimento, distruggendo l’azienda, salvo che un terzo sia in grado di acquistarla dal fallimento stesso (…). La norma inserita nel teso del d.l., che non figurava nella prima stesura, reca enorme danno alle prosepettive di conservazione dell’impresa e muove in sostanza dall’idea che salvare un’impresa in difficoltà significa pregiudicare quelle sane. È il concetto della legge fallimentare del 1942, ripudiato dal moderno diritto fallimentare di tutti gliu Stati”. Quasi un panegirico della norma, come pure di quella che ha introdotto la soglia del 20% per i chirografari nel concordato liquidatorio, si rinviene, all’opposto, in Lamanna, La legge fallimentare dopo la miniriforma del D.L. n. 83/2015, in Officina del Diritto – Il civilista, Milano, 2015, pp. 6-7 e p. 23.

[6] Per un’efficace sintesi del dibattito e per i riferimenti essenziali v. Fabiani, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca al codice civile, Bologna, 2014, pp. 182 ss.

[7] Cass., S.U., 23 gennaio 2013, n. 1521, pubblicata da tutte le riviste di diritto commerciale, fra cui Dir. fall., 2013, II, p. 1, con nota di Didone, Le Sezioni Unite e la fattibilità del concordato preventivo, e Fallimento, 2013, p. 109, con commento di Fabiani, La questione “fattibilità” del concordato e la lettura delle Sezioni Unite.

[8] Nello stesso senso Nardecchia, Le modifiche alla proposta di concordato, in ilcaso.it, 2015, p. 12, il quale osserva: “La proposta presenta quindi un contenuto necessario ed indisponibile (assicurazione del pagamento del 20% dell’ammontare dei crediti chirografari) ed uno eventuale, rimesso alla piena disponibilità del debitore (prospettazione di pagamento o soddisfazione del rimanente 80%). Prestazione diversa ed ulteriore che può fungere da parametro per valutare la convenienza della proposta e la fattibilità del piano, ferma restando la facoltà del debitore di assumere un ulteriore obbligo di adempimento, che vada ad aggiungersi a quello “legale” riguardante la percentuale del 20%”.

[9] Zanichelli, Il ritorno della ragione o la ragione di un ritorno?, in ilcaso.it, 2015, p. 5.

[10] Zanichelli, op.cit., p. 6.

[11] V., per tutti, Bozza, Il concordato preventivo (Tavola rotonda), in Jorio (a cura di), Il nuovo diritto delle crisi d’impresa, Milano, 2009, 40.

[12] Cass., 6 novembre 2011, n. 24970, in Dir. fall., 2014, II, 223.

[13] Nardecchia, op. cit., 17-18, ritiene “legittima una proposta che preveda di soddisfare i creditori privilegiati nei soli limiti del ricavato in caso di liquidazione del bene oggetto di garanzia, non riservando alcuna risorsa per la soddisfazione dei crediti incapienti, purché essi siano pagati con tale ricavato in misura superiore a quella riservata ai chirografari (e quindi maggiore, quanto meno, a quella del 20%). Discorso diverso va fatto per i crediti ai quali sia riservata una soddisfazione “privilegiata” sul ricavato dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione inferiore al 20% ovvero a quella eventualmente superiore riservata ai creditori chirografari. Tali creditori dovranno essere necessariamente pagati in una percentuale pari o superiore a quella riservata ai creditori chirografari e ciò non in forza dell’art. 54 l. fall., ma delle regole proprie del concordato, che impongono […] il rispetto delle cause legittime di prelazione”.

[14] Cfr., oltre a Cass., 6 novembre 2013, n. 24970, cit., Cass., 17 maggio 2013, n. 12064, in ilcaso.it, la quale ha stabilito che “la disciplina del concordato preventivo […], caratterizzata dalla inapplicabilità dell’art. 54 legge fall., e dalla condizione essenziale ed indefettibile dell’integrale pagamento dei creditori privilegiati, comporta che, a differenza del fallimento, la mancanza nel compendio patrimoniale del debitore del bene gravato da privilegio non ne impedisce l’esercizio, con la conseguenza che il credito resta privilegiato ed è concretamente riconoscibile la prelazione in sede di riparto dell’attivo. In un tale contesto, infatti, il privilegio assume rilevanza esclusivamente come qualità del credito, che, ex art. 2745 cod. civ., sorge privilegiato in ragione della sua causa secondo le disposizioni di legge, mantenendo, poi, tale qualità per l'intera procedura”.

[15] Sulle modifiche introdotte dalla legge di conversione n. 132/2015 al d.l. 83/2015 all’art. 169 l. fall., cfr. Becucci,sub art. 169. Norme applicabili, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 191 ss.

[16] Fra i contributi più stimolanti in argomento, nel novero di quelli apparsi all’indomani della riforma del 2005, si veda La Malfa, La crisi dell’impresa, il piano proposto dall’imprenditore e i poteri del tribunale nel nuovo concordato preventivo, in ilcaso.it., cui adde, fra i molti intervenuti successivamente sulla questione, Panzani, Il decreto correttivo della riforma delle procedure concorsuali (Prima Parte), in Quotidiano Giuridico Ipsoa, 2007, pp. 1 e ss.; Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, pp. 182 ss.; Jorio, Fattibilità del piano di concordato, autonomia delle parti e poteri del giudice, in Giur. comm., 2012, II, pp. 1107 ss., ove un’ampia ricostruzione delle problematiche e numerosi riferimenti.

[17] In argomento, Pezzano,sub art. 185. Esecuzione del concordato, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 320 ss.

[18] Sul tema v., tra gli altri, Nardecchia, La risoluzione del concordato preventivo, in Fallimento, 2012, pp. 260 ss.; Casa, Risoluzione del concordato preventivo e fallimento, ivi, 2013, pp. 53 ss.; Fauceglia, Diritto civile e concordato preventivo: una convivenza difficile, ivi, 2015, pp. 356 ss.

[19] Cass. 19 luglio 1959, n. 2235, in Mass. Giust. civ., 1959.

[20] Cass., 7 giugno 1993, n. 6367, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 1209.

[21] In proposito, si era ritenuto di prospettare, de jure condendo, l’opportunità di “una più netta differenziazione, anche sotto il profilo del favor, fra concordato liquidatorio e concordato con continuità aziendale” (Ambrosini, Il concordato preventivo, in AA.VV., Le altre procedure concorsuali, in Trattato di diritto fallimentare, diretto da Vassalli-Luiso-Gabrielli, IV, Torino, 2014, p. 18). E il testo della emananda legge delega, a quanto emerso anche in sede di audizioni parlamentari, potrebbe spingersi oltre, di fatto eliminando il concordato liquidatorio se non nell’ipotesi di quid pluris esterno.

[22] Per un approfondimento sul punto sia consentito rinviare ad Ambrosini, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in ilcaso.it, p. 9, ove il rilievo secondo il quale lo spartiacque cui si deve ricorrere “è di tipo oggettivo, non soggettivo: ciò che conta è che l’azienda sia in esercizio (non importa se ad opera dell’imprenditore stesso o di un terzo) tanto al momento dell’ammissione al concordato, quanto all’atto del suo successivo trasferimento” (assunto ripreso, fra le altre decisioni sul punto, da Trib. Cuneo, 29 ottobre 2013 – invero pressoché verbatim –, nonché da ultimo da Trib. Roma, 24 marzo 2015, in ilcaso.it.). Nello stesso senso, fra gli altri, Arato, Il concordato preventivo con riserva, Torino, 2013, p. 149; Tombari, Alcune riflessioni sulla fattispecie del concordato con continuità aziendale, in ilfallimentarista.it; Patti, Il pagamento di debiti anteriori ex art. 182-quinquies, 4° comma, legge fall. in favore dell’affittuario in continuità aziendale, in Fallimento, 2014, p. 196. Contra, da ultimo, Fabiani, Concordato preventivo, cit., p. 194, ove il rilievo (che non appare peraltro decisivo) secondo cui in tal caso “il debitore, pur se non perde la qualifica di imprenditore si trasforma in “imprenditore quiescente” perché solo al momento della cessazione del contratto di affitto riprenderà, a pieno, il suo ruolo”.

[23] Pur nella consapevolezza degli “onori e oneri” che ciò comporta, a cominciare dall’attestazione “rafforzata”.

[24] Trib. Bolzano, 10 marzo 2015, in ilcaso.it; Trib. Reggio Emilia, 21 ottobre 2014, ivi; Trib. Avezzano, 22 ottobre 2014, ivi; Trib. Vercelli, 13 agosto 2014, ivi; Trib. Cuneo, 29 ottobre 2013, ivi; Trib. Mantova, 19 settembre 2013, ivi; Trib. Monza, 11 giugno 2013, ivi; Trib. Firenze, 19 marzo, 2013, in ilfallimentarista.it, e molti altri, in parte inediti.

[25] Trib. Roma, 24 marzo 2015, cit. La decisione contiene l’ulteriore assunto in base al quale “il contenuto dell’attestazione dovrà incentrarsi sull’idoneità dell’affittuario e promissario acquirente a far fronte ai propri impegni (…), ma anche sulla realizzazione di un adeguato piano industriale.” Quest’ultima affermazione, che chi scrive era stato fra i primi a prospettare in dottrina, appare oggi, re melius perpensa, meritevole di rimeditazione.

[26] Appunti in tema di concordato preventivo con continuità aziendale, cit., p. 5. Nello stesso senso in giurisprudenza, fra le altre decisioni conformi, v. da ultimo Trib. Roma, 24 marzo 2015, cit., ove si legge che, “in ipotesi di concordato misto, in parte liquidatorio ed in parte con continuità aziendale, per individuare le norme da applicare nel caso concreto occorre verificare se le operazioni di dismissione previste, ulteriori rispetto all’eventuale cessione dell’azienda in esercizio, siano o meno prevalenti, in termini quantitativi e qualitativi, rispetto al valore dell’azienda che permane in esercizio”.

[27] Sul punto v. anche. Nardecchia, op. cit., p. 13, secondo il quale “il riferimento “all’ammontare dei crediti chirografari” fa ritenere che il legislatore abbia ritenuto legittima la previsione di pagamenti differenziati per classi, anche inferiori, per alcune, al 20%, purché la detta soglia sia rispettata facendo riferimento al complessivo ammontare dei crediti chirografari”.

[28] Zanichelli, I concordati giudiziali, cit., p. 150.

[29] In merito ai possibili profili di illegittimità costituzionale sollevati dall’innesto dei nuovi artt. 160 ult. comma e 178 ult. comma, l. fall. ad opera della legge di conversione del d.l. n. 83/2015 v. (con rilievi, peraltro, non insuperabili) Bottai, sub art. 160. Presupposti per l’ammissione alla procedura, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 110 ss.

[30] In argomento, Spadaro,sub art. 172. Operazioni e relazione del commissario, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 240 ss.

[31] Sul punto, Spadaro,sub art. 175. Discussione della proposta di concordato, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 251 ss.

[32] Fra i saggi più recenti dedicati in maniera specifica all’argomento cfr. Ambrosini-Aiello, La modifica, la rinuncia e la ripresentazione della domanda di concordato preventivo, in ilcaso.it, e Bellé, La modifica e il ritiro della domanda di concordato preventivo, in Fallimento, 2015, pp. 645 ss.

[33] De jure condendo, in dottrina si era prospettata l’opportunità, anche nell’ottica di favorire una più tempestiva emersione della crisi, di consentire a terzi di proporre per primi e in via autonoma la domanda di concordato, inizialmente con riserva, per dare al debitore la possibilità di attivarsi e presentare egli stesso il piano concordatario, “assorbendo” così l’iniziativa dei terzi: cfr., in luogo di altri, Jorio, La riforma fallimentare: pregi e difetti delle nuove regole, in Giur. comm., 2013, I, p. 712.

[34] Cass. 28 aprile 2015, n. 8575, così massimata in ilcaso.it.

[35] D’Attorre, Le proposte di concordato preventivo concorrenti, in Fallimento, 2015, p. 1174.

[36] V. infra, nota 42.

[37] E al riguardo v. infra, par. 21.

[38] Sul tema, con ampiezza, Panzani, op. cit.; D’Attorre, op. cit., pp. 1163 ss; Ratti,sub art. 163. Ammissione alla procedura e proposte concorrenti, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 134 ss.

[39] Soglia, questa, ritenuta da D’Attorre, op. cit., p. 1165, nota 8, “ingiustificatamente alta e penalizzante, imponendo di fatto agli operatori interessati di rivolgersi al ceto bancario per acquisire i crediti necessari al raggiungimento della soglia minima”.

[40] Così Bozza, Brevi considerazioni su alcune norme della ultima riforma, in Fallimenti e Società.it, 2015, p. 12, il quale soggiunge: “Se ciò può essere giustificato nel concordato fallimentare, che presuppone la dichiarazione di insolvenza del debitore e lo spossessamento dello stesso proprio ai fini della liquidazione dei suoi beni, non lo è altrettanto nel concordato preventivo, ove manca l’accertamento della insolvenza e il debitore, che potrebbe anche versare in uno stato di crisi reversibile, dispone ancora del suo patrimonio, pur se sotto la vigilanza del commissario, e la legge gli concede la libertà di gestire la crisi nel modo che crede più opportuno”. In senso analogo, ma invocando il principio di libertà di iniziativa economica, Panzani, op. cit., p. 12 del dattiloscritto, il quale afferma: “L’imprenditore è titolare dell’impresa e trovare una soluzione alla crisi spetta prima di tutto a lui. L’art. 41 Cost. tutela la libertà d’iniziativa economica. Consentire ad un soggetto terzo di acquisire l’impresa significa espropriare l’imprenditore di questo diritto (…). Pertanto la previsione della contendibilità nel caso in cui il debitore concordatario si trovi in stato di crisi, come previsto dalla recente riforma, può portare ad una questione di legittimità costituzionale per contrasto con il disposto dell’art. 41 Cost.”. Sul tema v. altresì Ratti,sub art. 163. Proposte concorrenti, cit., pp. 137 ss.

[41] Osserva Panzani, op. cit., p. 12 del dattiloscritto, che “se l’impresa è insolvente non vi sono problemi perché in questo caso la prosecuzione dell’impresa è interdetta senza il consenso dei creditori perché si realizza non con capitale di rischio, che più non esiste, ma con capitale di credito fornito involontariamente dai creditori posto che l’imprenditore si finanzia non pagandoli”.

[42] A una differente conclusione potrebbe forse giungersi, sul piano processualcivilistico, ove si ritenesse di qualificare la proposta concorrente alla stregua di un intervento autonomo nel giudizio concordatario, stante la possibilità per l’interveniente di proseguire nella domanda ancorché l’attore/ricorrente abbia rinunciato alla propria, a prescindere dall’originaria facoltà dell’interveniente stesso di radicare motu proprio l’iniziativa; anche perché l’eventuale rinuncia, per spiegare i propri effetti, presupporrebbe l’accettazione da parte dell’interveniente.

Senonché, occorre riconoscere come non sia agevole ricostruire il procedimento concordatario come un unico giudizio (dal ricorso all’omologazione), tanto più tenuto conto del peculiare oggetto che lo contraddistingue e che rende problematico ravvisare quella connessione oggettiva che sola, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., legittima l’intervento. Neppure questo percorso, insomma, consente di addivenire in modo lineare e pienamente persuasivo alla (pretesa) illegittimità – e comunque irrilevanza – della rinuncia.

[43] In proposito cfr. quanto osservato al successivo paragrafo 9.

[44] Fabiani, L’ipertrofica legislazione concorsuale fra nostalgie e incerte contaminazioni ideologiche, in ilcaso.it, 2015, p. 12.

[45] Cfr. Bozza, op. loc. cit., il quale pronostica che “sarà penalizzata l’intenzione di ristrutturare l’impresa in via diretta con un concordato in continuità dal momento che un terzo che intravede buone possibilità può intervenire (…) con una proposta di cessione dei beni, dato che non è richiesta alcuna omogeneità tra le proposte stesse”.

[46] In proposito v. Spadaro,sub art. 177. Maggioranza per l’approvazione del concordato, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 258 ss.

[47] Su ruolo e responsabilità dell’attestatore v., da ultimo, D’Orazio-Filocamo-Paletta, Attestazioni e controllo giudiziario nelle procedure concorsuali, Milano, 2015 (in partic. pp. 223 ss. e 483 ss.), nonché, anche alla luce della novella, Ambrosini-Tron (a cura di), Piani di ristrutturazione dei debiti e ruolo dell’attestatore alla luce dei “Principi di attestazione” e della riforma del 2015, di prossima pubblicazione per i tipi della Zanichelli.

[48] Cfr. Nardecchia, Le modifiche alla proposta di concordato, in ilcaso.it, 2015, ove il rilievo in base al quale dopo la novella del 2015 non vi possono essere più dubbi sul fatto che il giudizio di convenienza deve essere determinato esclusivamente in base a quanto tutti i creditori ricaverebbero in caso di una eventuale procedura concorsuale di fallimento.

[49] Nello stesso senso, con riferimento ai profili penali, Fontana, Brevi note riguardo agli effetti sul piano penale delle nuove norme in materia di concordato preventivo, in Ambrosini-Tron (a cura di), Piani di ristrutturazione dei debiti e ruolo dell’attestatore alla luce dei “Principi di attestazione” e della riforma del 2015, cit., il quale osserva che “sotto il profilo della responsabilità del professionista attestatore nulla è cambiato se non che la valutazione prognostica di ragionevole certezza ex ante della fattibilità del piano, dovendo necessariamente riflettere il contenuto dell’impegno assunto dal proponente e da questi illustrato nel sua concreta prospettiva di realizzazione tramite lo strumento del piano, nel caso di concordato liquidatorio ha come termine di riferimento non più una più o meno generica possibilità di soddisfacimento ma una percentuale di pagamento determinata che non può essere inferiore al 20%. Ovviamente ex post è fisiologico che in alcuni casi la valutazione di ragionevole certezza della fattibilità del piano si riveli fallace ma questo ovviamente non determina di per sé alcuna responsabilità per l’attestatore. Per configurare una responsabilità penale ci si dovrà comunque porre in una prospettiva ex ante e verificare se il giudizio di fattibilità, inevitabilmente ancorato a quello sulla veridicità dei dati aziendali, era stato fondato su una consapevole non valorizzazione di elementi rilevanti o una falsa rappresentazione degli stessi o su una discrasia tra criteri di verifica o di valutazione enunciati e criteri concretamente applicati”.

[50] Così Nardecchia, op. cit., p. 24.

[51] In argomento, con particolare ampiezza, La Malfa, Le offerte concorrenti, in corso di pubblicazione nel volume collettaneo Il diritto della crisi d’impresa dopo la riforma del 2015, a cura di Ambrosini (editrice Zanichelli), cui adde Nonno, La concorrenza nel concordato preventivo: offerte competitive e cessioni, in ilquotidianogiuridico.it; Ratti,sub art. 163-bis. Offerte concorrenti, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale. Commento operativo al d.l. n. 132/2015 conv. in l. n. 132/2015, Torino, 2015, pp. 156 ss.

[52] Così La Malfa, op. cit., p. 2 del dattiloscritto.

[53] Deve infatti rifiutarsi l’idea che la norma in esame non trovi applicazione ogniqualvolta l’offerta risulti già, ab initio, irrevocabile, giacché ciò, a tacer d’altro, si presterebbe a un agevole quanto inammissibile aggiramento del nuovo precetto.

[54] La Malfa, op. cit., p. 5 del dattoloscritto.

[55] Cfr. Varotti, Appunti veloci sulla riforma 2015 della legge fallimentare, in ilcaso.it, 2015, pp. 2-3.

[56] La Malfa, op. cit., p. 4 del dattoloscritto.

[57] Sul punto v. le articolate considerazioni di Varotti, op. loc. cit., il quale osserva, tra l’altro che, “mentre un accordo ai sensi dell’articolo 47 è sicuramente possibile tra imprenditore, terzo acquirente e sindacato, detto accordo potrebbe rimanere solo un mirggio nel caso in cui l’offerta concorrente di acquisto dell’azienda provenga da un terzi: con l’ulteriore conseguenza che questo terzo dovrà presumibilmente onerarsi dell’intero passivo derivante dai lavoratori dipendenti”.

[58] Cass., S.U., 27 luglio 2004, n. 14083, in Fallimento, 2005, p. 131.

[59] Su cui si vedano Martinelli, L’art. 169 bis l.f. dopo la novella del d.l. 83/2015 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 132/2015: The King is dead?, in Ilcaso.it, 2015; Benassi, Contratti pendenti nel concordato preventivo e audizione del terzo contraente nel nuovo art. 169-bis l.f.: prime riflessioni, in Ilcaso.it, 2015; Pezzano,sub art. 169-bis. Contratti pendenti, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 196 ss.

[60] Con accenti anche più critici v. Fabiani, L’ipertrofica legislazione concorsuale fra nostalgie e incerte contaminazioni ideologiche, cit., p. 13, il quale osserva come “tornare al sistema del voto esplicito per manifestare il consenso rappresenti un chiaro indizio della sfiducia verso i concordati e, ancora una volta, una soluzione distonica col concordato fallimentare; di sicuro vi saranno molti concordati che non risulteranno approvati perché ai creditori apatici tornerà comodo andare al traino dei creditori più importanti”.

[61] Così La Malfa, op. cit., p. 4 del dattiloscritto.

[62] Sul punto cfr., da ultimo, Lamanna, La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: un primo commento, in IlFallimentarista.it, 2015, p. 24, il quale osserva che le forme concordatarie diverse dalla cessio bonorum implicano che “il debitore preveda di tenere per sé tutti o almeno una parte dei beni che gli appartengono, il che lo rende libero di disporne come meglio crede (…). Dinanzi a tale libertà, correlata alla struttura ed alla funzione di tali forme di concordato, la nomina di un liquidatore giudiziale quando il debitore intenda vendere solo alcuni dei suoi beni (se per cessioni si intendano gli atti di vendita) sembra inconciliabilmente incoerente dal punto di vista sistematico”.

[63] In tema v. Ratti,sub artt. 236 e 236-bis. Concordato preventivo, e accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari, e convenzione di moratoria. Falso in attestazione e relazioni, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 334 ss.

[64] In argomento Ratti,sub art. 165. Commissario giudiziale, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit. pp. 185 ss.

[65] Cfr. Bottai,sub art. 182-quinquies. Disposizioni in tema di finanziamento e di continuità aziendale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 290 ss.

[66] Su due rilevantissimi casi in cui la rapidità d’intervento consentita dall’ordinamento statunitense ha consentito di non disperdere il valore delle aziende in crisi cfr. Peck, Il caso Lehman Brothers, in AA. VV., Grandi e piccole insolvenze: dal caso Chrysler alla crisi del consumatore, Torino, 2010, pp. 27 ss.; Gonzales, Il caso Chrysler, ivi, pp. 35 ss.

[67] In argomento cfr. Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e la convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività del contratto ed effetti sui creditori estranei, in ilcaso.it, 2015; Nisivoccia, Il nuovo art. 182 septies l.fall.: quando e fin dove la legge può derogare a se stessa?, in Fallimento, 2015, pp. 1181 ss.; Bombardelli,sub art. 182-septies. Accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 304 ss.

[68] Negli stessi termini si esprime Aiello, sub art. 182-septies, in Ambrosini-Trapuzzano (a cura di), Codice del fallimento, in corso di pubblicazione per i tipi di Nel Diritto Editore, p. 3 del dattiloscritto.

[69] Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e la convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività del contratto ed effetti sui creditori estranei, cit., p. 2.

[70] Si legge in proposito nella Relazione illustrativa: “non sono pochi i casi in cui la maggioranza (spesso la larga maggioranza) delle banche creditrici concorda con le proposte dell’impresa, ma alcune di esse, solitamente quelle che vantano crediti di importo minore, si dichiarano contrarie, impedendo così il successo dell’operazione e producendo risultati “subottimali per l’economia”.

[71] Non a caso, la bozza di legge delega per la riforma organica contempla la possibilità per il debitore, che nell’ambito di soluzioni non esclusivamente liquidatorie concluda l’accordo di ristrutturazione (ovvero una convenzione di moratoria) con creditori, anche diversi da banche e intermediari finanziari, rappresentanti almeno il settantacinque per cento dei crediti di una o più categorie giuridicamente ed economicamente omogenee, di estenderne gli effetti ai creditori della medesima categoria non aderenti, purché coinvolti nelle trattative, fatto salvo il loro diritto di opporsi all’omologazione in caso di frode, non veridicità dei dati aziendali, inattuabilità dell’accordo, ovvero praticabilità di soluzioni alternative più soddisfacenti.

[72] Per un’analisi (anche) civilistica del nuovo istituto v. Inzitari, op. cit.

[73] In argomento, da ultimo, Burbidge, Insolvency procedures in the United Kingdom, in Trattato di diritto fallimentare, diretto da Vassalli, Luido e Gabrielli, V, Torino, 2014, p. 293: “The advantages of a scheme of arrangements over a CVA is that the latter will not bind secured creditors, whereas a s.895 scheme can be applied to say a single class of secured creditors and once the requisite 75% majority is reached the minority secured creditors within the class will also be bound”.

[74] Cfr. Chaput, Le droit francais de la sauvegarde des entreprises, ivi, V, p. 177: “le législateur a retenu la technique compliquée d’une sauvegarde dont la portée ne concerne que les banquiers! Leur inconvénient majeur tient au fait que la sauvegarde (…) repose sur un jugement qui est rendu publique”.

[75] Cfr. Aiello, op cit, p. 6 del dattiloscritto, il quale osserva che, “laddove – com’è probabile – i criteri di formazione delle categorie nell’accordo si andranno definendo sulla falsariga di quelli che presiedono alla divisione in classi nel concordato preventivo, sembra potersi pronosticare che verranno in considerazione (…) anzitutto la forma tecnica del finanziamento (…), la presenza o meno di garanzie (…), nonché, soprattutto, il trattamento che ci si propone di riservare ai singoli componenti del ceto. (…). Pertanto, è verosimile che le categorie finiranno per formarsi in relazione alle singole previsioni della manovra, distinguendo”, il che potrebbe indurre a ritenere che “quando tutte le banche e gli intermediari finanziari presentino posizioni creditorie analoghe ed esse vengano trattate nello stesso modo non sia impossibile costruire una categoria unica; ciò che invece non pare ammissibile è che il consenso di una banca alla quale sia richiesta una prestazione determinata possa contribuire a coartare il consenso dell’istituto al quale siano rivolte istanze diverse”.

[76] Nello stesso senso v. Panzani, op. cit., p. 30 del dattiloscritto.

[77] Conforme Aiello, op. cit., p. 9 del dattiloscritto.

[78] Nella Relazione illustrativa si legge infatti che, “in sostanza, la maggioranza degli intermediari finanziari può imporre ai non aderenti solo la ristrutturazione del debito esistente (riscadenziamenti, modifiche ai tassi di interesse o riduzioni)”.

[79] In argomento cfr. Bogoni, sub art. 28. Requisiti per la nomina a curatore, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 33 ss.

[80] Sul tema v. Pezzano, sub art. 64. Atti a titolo gratuito, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 49 ss., il quale pone in luce tanto la completa carenza di controllo giurisdizionale nella fase acquisitiva, quanto l’inadeguatezza (e la verosimile incostituzionalità) del rimedio di cui all’art. 36 (ivi, pp. 52 ss.).

[81] Cfr. Bombardelli, sub art. 107. Modalità delle vendite, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 72 ss.

[82] Sul tema cfr. Montanari, La recente riforma della normativa in materia di chiusura del fallimento: primi rilievi, in ilcaso.it, 2015; Mancinelli, Brevi note sulla chiusura della procedura fallimentare in pendenza di giudizi, ivi; Spadaro,sub artt. 118 e 120. Casi di chiusura. Effetti della chiusura, in AA. VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, cit., pp. 80 ss.

[83] Conforme Montanari, op. cit., p. 7.

[84] Così Montanari, op. cit., pp. 8 e 9, il quale soggiunge: “Che, poi, una siffatta delimitazione dell’area applicativa della disposizione, ai soli, cioè, procedimenti cognitivi con esclusione di quelli esecutivi, finisca per risultare irragionevole e sin anco ridondare in termini di incostituzionalità, può forse concedersi. Ma i dati testuali che impongono quella delimitazione sono troppo univoci e concordi perché, ai denunciati profili di irragionevolezza/incostituzionalità, si possa porre rimedio in via meramente ermeneutica, in nome dei valori dell’interpretazione non solo teleologica ma anche costituzionalmente orientata”.

[85] Alla pubblicazione di commenti alla bozza di legge delega ha dato espressamente il proprio nulla osta il Presidente della Commissione di riforma Renato Rordorf.

[86] Uno spunto in tal senso è venuto dalle relazioni di Fontana e Paluchowski al convegno “Investire in Italia. Legalità e certezza delle regole come volano per la competitività”, tenutosi alla Camera dei Deputati, Aula dei Gruppi parlamentari, il 23 novembre 2015, cui hanno partecipato anche, nella sessione dedicata alla crisi d’impresa, il Pres. Rordorf, il Cons. Orlando, la Dott.ssa Panucci e chi scrive.


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