CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 24/04/2021 Scarica PDF
Inadempimento del concordato preventivo: fallimento omisso medio o previa risoluzione? La parola alle Sezioni Unite
Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte Orientale1. Premessa
La questione del c.d. fallimento omisso medio in caso di inadempimento del concordato preventivo tiene banco ormai da anni sia in dottrina che in giurisprudenza, complice il fatto che nella pratica si sono registrati – e continuano a registrarsi – numerosi casi in cui a posteriori non risulta possibile, per effetto di vari fattori, rispettare gli impegni originariamente assunti dal debitore nella propria proposta concordataria. Con la precisazione, per quanto superflua, che la legge distingue situazioni fra loro alquanto diverse: le une sono considerate alla stregua di eventi in qualche modo “fisiologici” (rilevando notoriamente anche l’inadempimento incolpevole del debitore)[1], vale a dire appunto i disallineamenti dai contenuti economici e temporali della proposta oggetto di omologazione (tanto più in un clima di perdurante crisi generale, per tacere della pandemia); le altre vanno invece ritenute schiettamente patologiche, in quanto connesse a dolosa esagerazione del passivo o a sottrazione o dissimulazione di una parte rilevante dell’attivo, che danno luogo infatti non già alla risoluzione del concordato, bensì al suo annullamento (art. 138, 1° c., richiamato dall’art. 186, u.c., l. fall.).
Non desta quindi stupore che la delicata problematica venga oggi portata all’attenzione delle Sezioni Unite della Suprema Corte. Né sorprende, pur senza essere scontata, l’elevata qualità del “veicolo di trasmissione”, cioè dell’ordinanza di rimessione redatta dalla Prima Sezione Civile (Pres. Cristiano, Cons. Est. Amatore), che si lascia notevolmente apprezzare per il rigore e la completezza dell’inquadramento sistematico, non facendo il Collegio mistero, peraltro, della propria propensione per la soluzione della necessaria previa risoluzione del concordato rispetto alla declaratoria di fallimento.
Le considerazioni svolte nel prosieguo mirano all’obiettivo, consapevolmente limitato, di fare semplicemente il punto sulla complessa questione alla luce delle “risultanze” del dibattito e di tracciare le possibili direttrici dei suoi ulteriori sviluppi.
2. Lo “stato dell’arte” in giurisprudenza e in dottrina
Nella prima occasione in cui il tema è stato affrontato a livello di giurisprudenza di legittimità, si è affermato che “non sussistono preclusioni alla dichiarazione di fallimento di società con concordato preventivo omologato ove si faccia questione - come non è contestato nella vicenda - dell’inadempimento di debiti già sussistenti alla data del ricorso ex artt. 160-161 l.f. e però modificati con detta omologazione, dovendosi verificare all’epoca della decisione così sollecitata i presupposti di cui agli artt. 1 e 5 l.f.; in tal caso l’azione esperita dal creditore costituisce legittimo esercizio della propria autonoma iniziativa ai sensi dell’art. 6 l.f., non condizionata dal precetto di cui all’art. 184 l.f. e dunque a prescindere dalla risoluzione del concordato preventivo, il cui procedimento andrebbe attivato - previamente o concorrentemente - solo se l’istante facesse valere non il credito nella misura ristrutturata (e dunque falcidiata), ma in quella originaria, circostanza nemmeno dedotta o prospettata in ricorso; detto principio si evince dalla caduta, già con la riforma del 2005-2006, di ogni automatismo tra risoluzione del concordato e fallimento, permettendo dunque l’art. 186 l.f., di provocare tale evento anomalo (o anche l’annullamento) senza però imporre alcuna dichiarazione officiosa di fallimento, ma questa scissione di prospettive non implica ovviamente neanche una preclusione a che la dichiarazione di fallimento si possa fondare su presupposti comuni che andranno accertati ex novo”[2].
Nella successiva ordinanza dello stesso anno (redatta dal medesimo estensore) la Suprema Corte ha precisato che “si tratta di dar corso ad un principio generale che permette ai soggetti legittimati ex artt. 6 e 7 l.f., di provocare la dichiarazione di fallimento del debitore commerciale insolvente, escludendosi che la specialità dell’art. 186 l.f., pur predicabile, abbia portata soppressiva delle prime disposizioni e dunque sia estesa a vicende diverse dal rapporto tra risoluzione del concordato e fallimento in consecuzione; che infatti la "nuova insolvenza" esprima continuità finanziaria con la precedente è questione di mero fatto, ciò che rileva essendo solo la circostanza obiettiva del mancato adempimento delle obbligazioni concordatarie fatto valere dal P.M. non per provocare la risoluzione del concordato e la riapertura del fallimento ex artt. 186-137 l.f. (dunque la reviviscenza dei crediti secondo la misura e le connotazioni ante procedura), bensì per ottenere (avendone questa volta legittimazione) la instaurazione di un fallimento ex novo, nel quale le obbligazioni idonee a sostenere il giudizio d’insolvenza (e in prospettiva il passivo concorsuale) sono quelle riscritte (cioè falcidiate e destrutturate rispetto al rango privilegiato) a seguito dell’omologazione oltre ad altre sopravvenute (e solo queste nella loro integralità)”[3].
Le due decisioni di cui trattasi, a ben vedere, non si sono fatte adeguatamente carico delle obiezioni emerse nel dibattito dottrinale[4] e difatti sono state oggetto di serrata critica nei contributi scientifici che ad esse sono seguiti. In particolare, si è correttamente osservato che “l’inopinato arresto del concordato, nella sua fase esecutiva, a mezzo della dichiarazione di fallimento e senza la previa risoluzione, creerebbe (…) una irreversibile cesura, che conduce ad una scissione temporale dell’insolvenza, compromettendo il naturale snodarsi della consecuzione e degli effetti che da essa discendono ai sensi dell’art. 69 bis, comma 2, l. fall. Del resto, il rapporto ipotattico che intercorre tra le due procedure, in virtù del quale il fallimento non potrà essere dichiarato sino all’esito negativo di quella specifica domanda di concordato, è infatti il frutto di un’esigenza ordinamentale che ha attribuito al concordato preventivo la funzione di prevenire - appunto - il fallimento attraverso una soluzione alternativa basata sull’accordo con la maggioranza dei creditori”[5].
Da altro e concorrente angolo visuale, si è inoltre posto l’accento sull’effetto “segregativo” del concordato e sul vincolo di destinazione impresso al patrimonio del debitore in funzione del soddisfacimento dei creditori anteriori: “la lettura dell’art. 168 l. fall., attraverso gli artt. 184 e 186 l. fall., non autorizza interpretazioni diverse da questa: i creditori concorsuali anche non convocati e i creditori, il cui credito (perlopiù in prededuzione) sia sorto legittimamente e in modo opponibile al patrimonio separato del debitore, prima della definitività del provvedimento di omologa (argomento tratto dal primo comma dell’art. 168 l. fall.), sono legati al vincolo imposto dall’art. 184 l. fall., dal quale potranno sciogliersi solo utilizzando il procedimento previsto dall’art. 186 l. fall. e non potranno in alcun modo aggredire il patrimonio separato del debitore concordatario”[6].
Quanto poi alla sussistenza del presupposto oggettivo da verificare in sede di fallimento, si è precisato dover ricorrere l’accertamento di una nuova insolvenza, “ivi inclusa la persistenza dei presupposti di cui all’art. 1, comma 2, l. fall., oltreché quello ostativo di cui all’art. 10 l.fall.”[7]. E l’insolvenza può notoriamente dirsi “nuova” solo ove sia riferibile a obbligazioni sopravvenute alla chiusura del procedimento di concordato, non potendo ripresentarsi quelle riconducibili all’originaria insolvenza, se non mediante la destituzione di quel provvedimento che, a sua volta, l’aveva rimossa[8].
Non è dunque un caso che buona parte della giurisprudenza di merito successiva ai citati arresti di legittimità abbia assunto posizioni in motivato e condivisibile dissenso rispetto ad essi[9]. In una pregevole, recente, decisione fiorentina, in particolare, si è osservato che “in dissonanza con quanto ritenuto dalla Corte di Cassazione (…) la eliminazione del fallimento di ufficio quale automatica conseguenza del fallimento, depone (in uno con le altre considerazioni che si sono sviluppate) proprio per la preclusione alla dichiarazione di fallimento senza previa risoluzione”, ritenendosi pertanto impossibile “dichiarare il fallimento prima e al di fuori della dichiarazione di risoluzione dello stesso ai sensi dell’art. 186 l. fall.”[10].
La Cassazione stessa, a circa due anni di distanza, è tornata sui propri passi, seppur incidentalmente nell’ambito di una pronuncia relativa ad un accordo di ristrutturazione dei debiti:“Meno consolidati paiono gli approdi di questa Corte sul tema, connesso al precedente, dei rapporti tra domanda di fallimento e concordato preventivo omologato, in fase di esecuzione, che pure sembrerebbero da declinare nei medesimi termini di preclusione/coordinamento sopra illustrati (e dunque con procedibilità dell’istanza di fallimento solo dopo la risoluzione del concordato), non solo perché la domanda di concordato rappresenta concettualmente un minus rispetto al concordato omologato, ma anche in considerazione del vincolo obbligatorio creato dall’art. 184, comma 1, legge fall. (non a torto descritto come proiezione concorsuale del principio civilistico di cui all’art. 1372 c.c.), dell’effetto esdebitatorio dell’omologazione (cui consegue il ritorno in bonis del debitore), della specialità della disposizione di cui all’art. 186 (ivi compreso il termine di decadenza annuale) rispetto all’art. 6 l. fall., e (non ultimo) dell’interesse concreto dei creditori alla declaratoria di fallimento nella misura originaria dei crediti, piuttosto che nella misura falcidiata, che finirebbe sostanzialmente per comportare solo un incremento dei costi per l’apertura di un’ulteriore procedura concorsuale (cfr. Cass. 2695/2016 per cui dopo l’omologazione la procedura concordataria deve ritenersi ancora pendente quando "uno dei creditori presenti istanza di risoluzione ai sensi dell’art. 186 l. fall.")”[11].
Ed è superfluo precisare che la natura di tale obiter dictum nulla toglie all’efficacia e persuasività delle osservazioni in esso formulate.
3. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite
Nel sottoporre da ultimo la questione alle Sezioni Unite, la Prima Sezione della Cassazione ha correttamente evidenziato le seguenti problematiche al fine della loro opportuna soluzione. E le affermazioni contenute nell’ordinanza di rimessione meritano di essere trascritte verbatim, in quanto forniscono un inquadramento puntuale ed esaustivo delle diverse questioni.
Al cospetto di un quadro, come quello testè descritto, oggettivamente “poliformico”, la Corte ritiene necessario appurare: “i) se integri un aggiramento dei presupposti applicativi e dei termini previsti dall’art. 186 l. fall., l’ammissibilità del fallimento senza la previa risoluzione del concordato, essendo questa soggetta a presupposti diversi (inadempimento di non scarsa importanza e rispetto di uno specifico termine annuale di decadenza), che potrebbero essere dunque elusi; ii) la compatibilità sistematica di una soluzione che preveda, da un lato, la possibilità di una dichiarazione di fallimento, in pendenza di una procedura di concordato preventivo, solo al verificarsi degli eventi di cui agli artt. 162,173,179 e 180 l. fall. e, dall’altro, consenta la dichiarazione di fallimento senza che analogo effetto impeditivo discenda dall’omologazione del concordato e dall’assenza della previa risoluzione di quest’ultimo, con ciò consentendo il fallimento del debitore "autonomamente" e non già in "consecuzione"; iii) l’ammissibilità, pertanto, del fallimento cd. omisso medio con il generale principio di coordinamento tra le procedure concorsuali sotteso all’eventuale pluralità di iniziative volte a regolare una medesima situazione di insolvenza o di crisi, con la prospettiva di privilegiare la soluzione concordataria, evidenziandosi, in tal modo, un eventuale squilibrio tra effetti preclusivi del fallimento determinati dalla mera presentazione della domanda di ammissione alla procedura concorsale e mancanza di tali effetti di fronte ad un concordato già ammesso ed omologato; iv) la compatibilità della soluzione favorevole alla tesi dell’ammissibilità della dichiarazione di fallimento con le statuizioni riconducibili alla due pronunce delle Sezioni Unite 15 maggio 2015, nn. 9935 e 9936, le quali hanno cristallizzato il principio del c.d. "coordinamento asimmetrico" tra la procedura concordataria e quella fallimentare, ammettendo la possibilità di dichiarare il fallimento, in pendenza di una procedura concordataria, solo allorquando il concordato sia stato definito con esito negativo, in seguito al verificarsi di uno degli eventi di cui agli artt. 162,173,179 e 180 l. fall.; v) la portata del vincolo obbligatorio del concordato per i creditori discendente dal disposto normativo di cui all’art. 184 l. fall. e della sua eventuale incidenza sulla legittimazione attiva alla declaratoria di fallimento senza previa risoluzione del concordato, considerato che anche la giurisprudenza di questa Corte ha considerato l’art. 184 l. fall., come la "proiezione concorsuale del principio civilistico di cui all’art. 1372 c.c." (Cass. 13850/2019, cit. supra); vi) l’ammissibilità di un sistema che preveda la coesistenza di due procedure con due distinte masse, quella concordataria originaria e quella fallimentare successiva, che potrebbe includere anche i beni eventualmente non considerati nella proposta di concordato; vii) l’ammissibilità di una dichiarazione di fallimento, senza la previa risoluzione del concordato, prima della scadenza dell’anno previsto dall’art. 186 l. fall., con il rischio della possibile violazione di quest’ultima disposizione normativa, posto che, sulla base di presupposti diversi e più ampi, si otterrebbe, in tal caso, il medesimo effetto della risoluzione, superando tuttavia i limiti normativamente previsti sia sotto il profilo della legittimazione attiva (ove, nell’art. 186 l. fall., sono solo i creditori che possono agire in risoluzione, mentre, ai sensi degli artt. 6 e 7, medesima legge, possono agire i creditori, il P.M. e il debitore) e sia sotto quello più stringente dei presupposti”.
4. Le questioni sul tappeto
Nel merito della tematica, chi scrive non può che ribadire le considerazioni – critiche rispetto alla fallibilità omisso medio – a suo tempo espresse nel già menzionato contributo dedicato ex professo all’argomento[12], le quali, fra l’altro, sono state ampiamente e puntualmente riprese nella suddetta ordinanza di rimessione.
Deve anzitutto osservarsi, infatti, che l’art. 186, norma “di chiusura” della disciplina concordataria, contempla, sul piano della sua formulazione letterale, la risoluzione del concordato e non già altri rimedi. Né risulta decisivo, in senso contrario, riferirsi all’art. 6 (e ai soggetti da esso legittimati) come regola valevole in tutte le situazioni di insolvenza, atteso piuttosto che l’art. 186 si pone in rapporto di specialità rispetto alla norma generale dell’art. 6, che trova appunto applicazione nella misura in cui non vi sia una lex specialis a disporre diversamente. Ed invero, la disciplina del concordato non consente di agire nei confronti del debitore per l’esatto adempimento degli obblighi concordatari (nel cui ambito si potrebbe essere tentati di far rientrare l’istanza di fallimento), bensì esclusivamente – come si è visto – per la risoluzione del concordato, dalla quale soltanto può scaturire il successivo – e consequenziale – fallimento. Ferma peraltro – come si dirà meglio in appresso al paragrafo 5 – la facoltà dei creditori, nell’ipotesi di concordato inadempiuto e non risolto, di tornare a poter agire in executivis sui beni del debitore (donde la sussistenza di una loro effettiva tutela, seppur diversa dal fallimento).
Né può invocarsi, a confutazione dell’assunto che precede, il rimando all’art. 15 operato dall’art. 137, a sua volta richiamato dall’art. 186, in quanto esso concerne, con tutta evidenza, profili meramente procedimentali, inidonei, come tali, a incidere sulla soluzione del problema in esame.
Deve inoltre rimarcarsi l’assenza di una norma che, nell’ambito del concordato preventivo, facoltizzi il debitore in proprio e il pubblico ministero a chiedere la “conversione” in fallimento di un concordato inadempiuto ma non risolto, a differenza, ad esempio, di quanto stabilito dagli artt. 162, 2° c., e 173, 2° c., per quanto riguarda il pubblico ministero.
Nel senso dell’ammissibilità del fallimento cd. omisso medio non può essere utilmente invocata neppure la risalente pronuncia della Corte costituzionale (Corte Cost., 2 aprile 2004, n. 106), secondo cui “una lettura delle norme impugnate conforme a Costituzione non preclude all’interprete di giungere alla opposta conclusione che – ferma l’obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura – anche in assenza della risoluzione del concordato possa giungersi non soltanto ad una dichiarazione di fallimento "in consecuzione" ma anche ad un’autonoma dichiarazione di fallimento” posto che il riferimento a tale pur autorevole arresto non risulta decisivo, per almeno due concorrenti ordini di ragioni: a) la sentenza (oltre tutto interpretativa di rigetto) è riferita alla legge fallimentare anteriore alle riforme del 2005 e del 2006, la quale contemplava, a tacer d’altro, sia il fallimento che la risoluzione d’ufficio e si inscriveva quindi in un quadro sistematico completamente diverso; b) la ratio decidendi è marcatamente collegata alla peculiarità del caso concretamente esaminato nel giudizio a quo, dal momento che si trattava nella specie di tutelare un creditore ingiustamente pretermesso da piano e proposta concordatari e che proprio per questo non aveva potuto agire tempestivamente per la risoluzione[13].
Pertanto, le decisione resa ormai quasi tre lustri fa dalla Consulta non risulta avere portata determinante ai fini della soluzione del problema che ci occupa, atteso appunto l’obiettivo da essa dichiaratamente perseguito (scongiurare vulnera di sorta al diritto di difesa del creditore) e non scorgendosi, in difetto, la ragione – come da ultimo rilevato in giurisprudenza – “per la quale in pendenza del termine per la risoluzione si dovrebbe ritenere superabile la previsione normativa di cui agli artt. 186 e137 l.f. che consente la dichiarazione di fallimento solo in consecuzione, previa risoluzione del concordato”[14].
A ulteriore supporto della tesi qui propugnata, vi è il rilievo in base al quale lo stato di crisi/insolvenza che ha dato luogo alla procedura concordataria viene rimosso, com’è noto, dall’effetto esdebitatorio dell’omologazione, da cui deriva il ritorno in bonis dell’impresa. Non basta il pur conclamato inadempimento a concretare un’insolvenza che soltanto la risoluzione del concordato può far rivivere. L’impresa, dunque, non può essere dichiarata fallita se non sulla scorta di una nuova insolvenza generatasi per effetto di obbligazioni contratte successivamente all’omologazione e rimaste inadempiute.
Vi è infine l’aspetto, non trascurabile, dell’argumentum ab inconvenienti connesso all’obiettivo incremento dei costi – a fronte di benefici oggettivamente limitati – scaturente dall’apertura di una nuova procedura concorsuale, con conseguente ulteriore erosione dell’attivo a disposizione dei creditori; per tacer dei dubbi sollevabili in ordine all’effettività dell’interesse concreto a provocare il fallimento[15].
In altri termini, è verosimile ritenere che le Sezioni Unite si faranno carico anche della frequente, concreta, inutilità di una dichiarazione di fallimento a fronte di un concordato inadempiuto, dal momento che i relativi benefici risultano, per esperienza pratica, quanto mai incerti, mentre gli ulteriori oneri scaturenti dalla nomina del curatore e dei suoi consulenti rappresentano, di contro, una certezza. E anche in questo caso la rilevanza dell’analisi costi/benefici deve far premio sul broccardo (peraltro pacificamente non decisivo a livello ermeneutico) adducere inconvenientem non est solvere argumentum.
Né sembra potersi trascurare, da questo punto di vista, l’attenzione prestata dal Codice della crisi al contenimento dei costi, come si evince in particolare, dalla disposizione dell’art. 6, connotata in chiave schiettamente limitativa della prededuzione[16].
5. La problematica delle azioni esecutive dopo l’omologazione.
Com’è ben noto, l’esperimento delle azioni esecutive (e cautelari) è impedito, in costanza di concordato, dal disposto dell’art. 168, che detta una preclusione di natura processuale, destinata a produrre effetto fino al decreto di omologazione.
Nella fase c.d. esecutiva del concordato, vale a dire dopo il ritorno in bonis del debitore, opera invece la preclusione sostanziale scaturente dall’effetto esdebitatorio di cui all’art. 184, in base al quale i creditori anteriori sono vincolati ai modi e ai tempi di soddisfacimento previsti nella proposta concordataria per le obbligazioni ristrutturate e, come tali, impossibilitati a promuovere azioni esecutive con riferimento a queste ultime. Con la giusta precisazione, nondimeno, che “sono senza dubbio proponibili dai creditori concorsuali, anche durante la fase esecutiva del concordato, azioni di condanna, i cui effetti però non potranno essere né quelli di alterare la par condicio creditorum, né di neutralizzare la falcidia concordataria, anche in assenza dell’eccezione di concordato da parte del debitore convenuto in giudizio”[17].
In tema di effetti di cui all’art. 184, merita ricordare che la configurazione del concordato preventivo come fenomeno legale di separazione tra patrimoni si deve all’intuizione di autorevole e risalente (seppur per molti versi ancora attuale) dottrina[18], la quale ha messo in luce che con il provvedimento di omologazione si dà vita a due distinte entità patrimoniali: quella vincolata al soddisfacimento dei creditori anteriori alla domanda di concordato e quella destinata ai creditori successivi e ai creditori muniti di pretese non opponibili al concordato[19].
Orbene, il presupposto della preclusione sostanziale ex art. 184 risiede nella inesigibilità dei crediti falcidiati e riscadenziati nel piano, non certo nell’avvenuta liberazione del debitore, che avviene soltanto, pacificamente, con l’esatta esecuzione del concordato. Ne consegue che in caso di violazione degli impegni concordatari questa “protezione” perde la sua stessa ragion d’essere: come osservato di recente in dottrina, “non sussiste il potere di agire in via esecutiva fintantoché non sussiste l’esigibilità del credito rispetto alla scadenza stabilita nella proposta omologata”[20].
Il sistema contiene dunque al proprio interno due rimedi: l’uno tipico ed esplicito, vale a dire l’azione di risoluzione del concordato per inadempimento, l’altro implicito, destinato a valere solo una volta spirato il termine decadenziale della predetta azione, sicché non è vero che i creditori che non si attivino tempestivamente per la risoluzione rimangono senza tutela ove li si privi della facoltà di chiedere il fallimento omisso medio, potendo essi nuovamente, nella situazione qui descritta, agire in executivis contro il debitore che si sia reso inadempiente ai propri obblighi concordatari.
Non a caso, la più recente giurisprudenza di merito ha sancito la necessità di tener ferma “la facoltà dei creditori, nell’ipotesi di concordato inadempiuto e non risolto, di poter agire in executivis sui beni del debitore a tutela delle rispettive ragioni creditorie”[21].
La stessa Corte di Cassazione d’altronde afferma giustamente, proprio nell’ordinanza di rimessione in esame, come “non sia possibile ricollegare l’effetto esdebitatorio discendente dall’omologazione del concordato preventivo all’ipotesi di concordato inadempiuto e non risolto, posto che tale soluzione, unitamente all’opzione dell’inammissibilità del fallimento senza previa risoluzione del concordato, entrerebbe in tensione con i principi costituzionali posti a presidio dell’esercizio giurisdizionale dei diritti di tutela del credito”.
6. La “bussola” interpretativa del Codice della crisi
La riforma di cui alla legge delega del 2017 e al decreto delegato del 2019, non ancora fortunatamente entrata in vigore (ed anzi destinata a essere non marginalmente “rimaneggiata” da prossimi interventi legislativi)[22], si è fatta carico di risolvere numerosi snodi interpretativi emersi in sede di applicazione dell’odierna legge fallimentare.
Di là dai nuovi istituti introdotti, infatti, riveste notevole importanza il principio di delega in base al quale occorre “riformulare le disposizioni che hanno originato contrasti interpretativi, al fine di favorirne il superamento, in coerenza con i princìpi stabiliti dalla presente legge” (Art. 2, co. 1, lett. m), l. 19 ottobre 2017, n. 155).
E a tale principio il legislatore del 2019 aveva fatto ricorso più volte nella riformulazione della disciplina del concordato preventivo. Erano nondimeno rimasti in ombra alcuni aspetti, ancorché rilevanti dal punto di vista operativo, che sono stati segnalati, fra gli altri, dalla Commissione istituita dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili per la formulazione di proposte in vista dell’emanazione del c.d. Decreto correttivo.
Chi scrive, che di tale commissione ha avuto l’onore di far parte, aveva rappresentato la necessità di sciogliere per via normativa alcuni residui dubbi ermeneutici in materia di concordato preventivo, a cominciare dalla “perimetrazione” del principio di competitività e, appunto, dalla questione del fallimento omisso medio.
Orbene, il Decreto correttivo del 2020 ha posto rimedio all’originario mancato intervento su quest’ultimo profilo, chiarendo ex professo che “il tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo”.
Viene pertanto in evidenza quanto affermato, seppur in obiter dictum, nel 2020 dalle Sezioni Unite della Cassazione[23] (e giustamente richiamato dall’ordinanza di rimessione di cui trattasi) proprio con riferimento alla portata sul piano interpretativo della disciplina riformata, che notoriamente costituisce parte integrante dell’ordinamento nonostante la persistente vacatio legis: la possibilità di rinvenirvi norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare è ammessa nella misura in cui si possa configurare, nello specifico segmento, “un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro”: continuità fra “vecchio” e “nuovo” articolo 186 che non sembra, nella specie, possa essere seriamente messa in discussione.
Non pare dunque possibile prescindere dall’inequivoca indicazione fornita dal legislatore della riforma nel senso della necessaria, previa, risoluzione del concordato; il che costituisce un’ulteriore, significativa, conferma della bontà della soluzione da tempo offerta dalla prevalente dottrina in materia.
7. La risoluzione ante tempus
Correttamente, infine, l’ordinanza qui in esame pone l’ulteriore tema, connesso a quello principale, della risoluzione anticipata rispetto alla scadenza del termine previsto nel piano.
In proposito, merita ribadire che non è configurabile, in linea di principio, la risoluzione del concordato preventivo anteriormente alla scadenza stabilita per l’adempimento. Solo nell’ipotesi, non frequente nella pratica, di conclamata e irreversibile impossibilità di adempiere da parte del debitore (si pensi alla distruzione dei beni aziendali per caso fortuito e all’assenza di adeguate coperture assicurative) una domanda di risoluzione anticipata potrebbe essere considerata ammissibile e meritevole di accoglimento. Fatto salvo il caso, naturalmente, in cui il protrarsi della fase esecutiva del concordato comporti un obiettivo danno per i creditori e che esso risulti evitabile, appunto, solo con l’anticipata “conversione” in fallimento.
Secondo la più avvertita giurisprudenza, i creditori concordatari avrebbero il diritto di agire per la risoluzione nel (solo) caso in cui, prim’ancora dello spirare del termine di esecuzione, sia emersa con certezza l’impossibilità di soddisfare “in qualche misura i creditori chirografari e, integralmente, i creditori privilegiati, ove non falcidiati”[24].
In altri termini, può farsi luogo a risoluzione anticipata limitatamente alle situazioni nelle quali si constati “l’impossibilità di realizzare la promessa soddisfazione dei creditori, a prescindere da eventuali rilievi di colpa imputabili o all'impresa proponente o agli organi incaricati di procedere alla liquidazione del patrimonio dell'impresa e/o dalle ragioni dell'insuccesso, che possono anche essere legate ad una mancata rispondenza del mercato a reiterati tentativi di vendita”[25]. Non possono dunque di per sé bastare, ai fini che ci occupano, tentativi di vendita non andati a buon fine[26].
Con la precisazione che la possibilità di una risoluzione ante tempus non è in alcun modo idonea a giustificare l’anticipazione del dies a quo, essendo l’abbreviazione del termine contraria al dato normativo, “chiaro e inequivocabile”[27], ed avendo esso l’inammissibile effetto di danneggiare i creditori.
Quanto infine al dies ad quem dell’azione, la norma è altrettanto perspicua nell’individuarlo nell’anno dal termine fissato (nella proposta del debitore) per l’ultimo adempimento previsto dal concordato. E non è evidentemente in alcun modo possibile sostenere che l’azione sia proponibile fino a quando non sia stato posto in essere l’ultimo adempimento: diversamente opinando, infatti, il termine decadenziale verrebbe fatto decorrere non in base a quanto stabilito dalla norma, bensì, contra rationem legis, da quando sia posto in essere il tardivo adempimento, che oltre tutto, a ben vedere, potrebbe non verificarsi mai.
8. Conclusioni
Volendo trarre le fila di quanto si è venuto fin qui esponendo, si ritiene fondatamente predicabile, sotto il profilo dell’interpretazione letterale, logica e sistematica, la correttezza dei seguenti assunti:
(i) la disposizione dell’art. 186 si configura, da un lato, quale lex specialis rispetto all’art. 6, dall’altro, quale norma di chiusura di un sistema che, alla stregua della sua evoluzione, può dirsi connotato da un persistente favor per il concordato;
(ii) il tenore della previsione in parola (comprensivo del termine decadenziale per la risoluzione) e la sua funzione nel sistema, nonché la ricostruzione della ratio legis alla luce del suddetto favor, depongono nel senso della impossibilità di far luogo a fallimento senza la previa risoluzione del concordato;
(iii) nel medesimo senso ci si deve orientare in base al disposto degli artt. 168 e 184, da essi evincendosi una “segregazione” patrimoniale insensibile, in assenza di risoluzione, alle aggressioni dei singoli creditori che non si attivino per la risoluzione e dello stesso pubblico ministero che insti per il fallimento omisso medio;
(iv) l’impossibilità di una declaratoria di fallimento omisso medio vale certamente nell’ipotesi in cui sia ancora pendente il termine annuale per la risoluzione, pena la flagrante violazione dell’art. 186 dal punto di vista della legittimazione attiva e dei presupposti normativi (termine decadenziale di un anno e inadempimento non di scarsa importanza), ma deve tenersi ferma anche nel caso di concordato inadempiuto e non risolto, riprendendo in tal caso i creditori la facoltà di agire coattivamente per il recupero di crediti a quel punto non più inesigibili;
(v) il fallimento può essere chiesto a prescindere dalla previa risoluzione solo in caso di nuova insolvenza, scaturente cioè dall’inadempimento di obbligazioni assunte successivamente al decreto di omologazione e non anche per essere state disattese le obbligazioni discendenti dalla (non) esecuzione del concordato omologato;
(vi) la suddetta impostazione trova rilevante – se non decisiva – conferma nella formulazione dell’art. 119 del Codice della crisi, la cui valenza sul piano interpretativo, come di recente sancito (in obiter) dalle Sezioni Unite, non è revocabile in dubbio;
(vii) a ciò vanno aggiunte le non lievi implicazioni, sul piano pratico, dell’argumentum ab inconvenienti, dal momento che l’esperienza insegna che la conversione in fallimento di un concordato inadempiuto è foriera di costi certi (il compenso del curatore fallimentare e dei suoi consulenti) e di benefici quanto mai incerti per i creditori (tenuto anche conto del lungo tempo trascorso); per tacere delle istanze sottese alla ragionevole durata delle procedure (non elisa dalla circostanza che si tratterebbe qui di consecutio fra procedure), anche per quanto attiene all’impatto sul buon funzionamento della “macchina” della giustizia;
(viii) la risoluzione ante tempus è configurabile esclusivamente in quelle situazioni nelle quali emerga con certezza l’impossibilità di soddisfare integralmente i creditori privilegiati non oggetto di legittima falcidia e comunque di riconoscere un livello di soddisfacimento non irrisorio ai creditori chirografari.
[1] Cass., 20 giugno 2011, n. 13446, in www.ilcaso.it, secondo cui la valutazione dell’inadempimento ha natura del tutto oggettiva e può dipendere anche da una causa di impossibilità sopravvenuta non imputabile al debitore; cfr. anche Trib. Firenze, 25 settembre 2013, in www.dejure.it; Trib. Roma, 13 febbraio 2020, inedita. Sull’istituto della risoluzione, nella più recente dottrina, si vedano, anche per riferimenti, Nardecchia, La risoluzione del concordato preventivo, in Fallimento, 2012, pp. 260 ss.; Casa, Risoluzione del concordato preventivo e fallimento, ivi, 2013, pp. 63 ss; Mussa, La risoluzione del concordato preventivo, in www.ilfallimentarista.it, 3 settembre 2014; Vitiello, Sub art. 186 l.fall., in Lo Cascio (diretto da), Codice commentato del fallimento, Padova, 2015, pp. 2312 ss.; Usai, Esecuzione, risoluzione e annullamento del concordato preventivo, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da Cagnasso-Panzani, III, Milanofiori Assago, 2016, pp. 3780 ss.; De Sensi, Sub. art. 186, in Ambrosini-Trapuzzano, Codice del fallimento e delle procedure concorsuali, Molfetta, 2019, pp. 1826 ss; Iozzo, Questioni in tema di risoluzione del concordato preventivo fra vecchia e nuova disciplina, anche alla luce della legislazione d’urgenza, in AA.VV., Crisi d’impresa ed emergenza sanitaria, diretto da Ambrosini-Pacchi, Bologna, 2020, pp. 209 ss.
[2] Cass., 17 luglio 2017, n. 17703, in ww.ilcaso.it del 3 ottobre 2017.
[3] Cass., 11 dicembre 2017, n. 29632, in Fallimento, 2018, p. 731 ss.
[4] Sia consentito rinviare, per una sintesi degli argomenti invocati in senso contrario, ad Ambrosini, La risoluzione del concordato preventivo e la (successiva?) dichiarazione di fallimento: profili ricostruttivi del sistema, in www.ilcaso.it, 6 settembre 2017.
[5] Ratti-Pezzano, L’irrealizzabile esecuzione del concordato preventivo: il fallimento senza risoluzione, in Fallimento, 2018, p. 749.
[6] Casa, “Per la contraddizion che nol consente”: una critica ad una lettura anti-sistemica degli artt. 168 e 186 l.fall., in Fallimento, 2017, p. 983.
[7] Ratti-Pezzano, cit., p. 748; nello stesso senso, in precedenza, Ambrosini, cit., p. 8.
[8] Lamanna, Fallimento dell’impresa in concordato senza previa risoluzione: un problema ancora aperto, in www.ilfallimentarista.it, 5 maggio 2017.
[9] Trib. Pistoia, 20 dicembre 2017, in Fallimento, 2018; Trib. Campobasso, 14 febbraio 2019, in www.dejure.it; Trib. Ancona, 20 giugno 2019, in www.ilcaso.it.
[10] App. Firenze, 16 maggio 2019, in www.ilcaso.it.
[11] Cass. civ., 22 maggio 2019, n. 13850, in www.ilcaso.it.
[12] Ambrosini, La risoluzione del concordato preventivo e la (successiva?) dichiarazione di fallimento: profili ricostruttivi del sistema, cit, pp. 8 ss.
[13] Correttamente nella giurisprudenza di merito è stato osservato dal Trib. Padova, 30 marzo 2017, in www.fallimentiesocietà.it, che “la lettura costituzionalmente orientata fornita dalla Corte Costituzionale è volta ad assicurare una tutela del creditore, ormai privo senza sua colpa di strumenti di difesa”.
[14] Trib. Padova, 30 marzo 2017, cit. Nello stesso senso, fra i provvedimenti editi sul punto, Trib. Ancona, 23 febbraio 2015, in www.ilcaso.it e, più recentemente, App. Firenze, 16 maggio 2019, ivi.
[15] Con riferimento ad un’ipotesi di istanza di autofallimento in pendenza del termine per la risoluzione del concordato (nella specie liquidatorio), si legge in giurisprudenza (Trib. Padova, 30 marzo 2017, cit.): “quale sarebbe l’interesse giuridico a tutela del quale si dovrebbe consentire al debitore in concordato di richiedere il proprio autofallimento in pendenza di un concordato liquidatorio inadempiuto? I creditori sono infatti già tutelati da una procedura concorsuale che assicura il rispetto della par condicio creditorum”. E sulla necessità del requisito dell’interesse ad agire anche ai fini della dichiarazione di fallimento cfr. App. Venezia, 13 marzo 2019, n. 1022, in www.dejure.it, richiamata in dottrina da Ambrosini, La “falsa partenza” del codice della crisi, le novità del decreto liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, in www.ilcaso.it, 21 aprile 2020, p. 16.
[16] In argomento, ex aliis, Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, destinato al volume Le crisi dell’impresa e del consumatore. Liber amicorum di Alberto Jorio, a cura di Ambrosini, di prossima edizione per i tipi della Zanichelli; Ambrosini, I “princìpi generali” nel Codice della crisi d’impresa, in www.ilcaso.it, 26 gennaio 2021, pubblicato altresì con il titolo I principi generali e la prededucibilità dei crediti, in Sovraindebitamento del consumatore e crisi d’impresa, a cura di Cracolici-Curletti-Gardella Tedeschi, Milano, 2021, pp. 57 ss.; Leuzzi, La sistematica delle prededuzioni nelle procedure concorsuali: aspetti evolutivi e profilo organico, in AA.VV., Crisi d’impresa ed emergenza sanitaria, cit., pp. 136 ss.
[17] Casa, “Per la contraddizion che nol consente”, cit., pp. 980-981.
[18] De Martini, Il patrimonio del debitore nelle procedure concorsuali, Milano, 1956, in partic. pp. 67 ss.
[19] Sul punto, da ultimo, Casa, cit., pp. 982-983: “per effetto del provvedimento di omologa, viene a stabilizzarsi un patrimonio separato destinato ai diritti di credito dei creditori concorsuali, come ridefiniti nel medesimo decreto di omologa. Autorizzare l’aggressione di tale patrimonio segregato significherebbe consentire l’alterazione della par condicio creditorum”.
[20] Fava, L´inadempimento degli obblighi concordatari tra risoluzione e fallimento c.d. omissio medio, in Dir. fall., 2020, II, p. 858 (l’autore mostra peraltro di aderire alla tesi della superfluità della previa risoluzione).
[21] Trib. Ancona, 20 giugno 2019, in www.ilcaso.it.
[22] È del 22 aprile 2021 il decreto del Ministro della giustizia con cui è stata nominata una Commissione – sull’evidente presupposto della non adeguatezza del Codice della crisi ad affrontare il mutato contesto economico – “per elaborare proposte di interventi” sul Codice stesso. E nel senso di un necessario “ripensamento di almeno alcune delle previsioni testé menzionate, nell’ottica di offrire alle imprese, più che mai in affanno (anche nel prossimo futuro), un contesto normativo più favorevole al prioritario perseguimento del recupero di una condizione di equilibrio, oltre che di tenere maggiormente in conto le previsioni contenute nella Direttiva UE, sopravvenuta rispetto al varo del nostro Codice”, ci si era espressi, esattamente un anno fa, nel contributo La “falsa partenza” del codice della crisi, le novità del decreto liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, cit., p. 4.
[23] Cass., Sez. Un., 24 giugno 2020, n. 12476, con commento di Panzani, La natura costitutiva dell’azione revocatoria ed il credito per equivalente della curatela del solvens nei confronti del fallimento dell’accipiens, in Fallimento, 2020, pp. 1526 ss.
[24] Cfr. Cass., 31 luglio 2019, n. 20652, in www.ilcaso.it; Cass., 29 maggio 2019, n. 14601, ivi; Cass., 13 luglio 2018, n. 18738, ivi, e nella giurisprudenza di merito, ex aliis, Trib. Monza, 13 febbraio 2015 e Trib. Roma, 13 febbraio 2020, entrambe in www.ilcaso.it.
[25] Trib. Roma, 13 febbraio 2020, cit.
[26] Iozzo, Questioni in tema di risoluzione del concordato preventivo fra vecchia e nuova disciplina, anche alla luce della legislazione d’urgenza, cit., p. 218.
[27] Così Cass., 29 maggio 2019, n. 14601, cit. Sul punto, amplius, Iozzo, cit., p. 218.
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