Diritto Civile


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 438 - pubb. 01/01/2007

Danno non patrimoniale e Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo

Tribunale Biella, 30 Maggio 2005. Est. Carli.


Danno non patrimoniale – Risarcimento – Riserva di legge di cui all’art. 2059 c.c. – Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – Applicabilità.



In tema di risarcimento del danno non patrimoniale, tra i “casi determinati dalla legge” di cui all’art. 2059 cod. civ. deve ritenersi compreso anche quello che trova fondamento nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali adottata a Roma il 4 novembre 1950, in base alla quale, in caso di violazione dei diritti fondamentali della persona, la parte lesa ha diritto ad una riparazione del danno morale subito. E tale danno deve essere inteso in senso ampio, ovvero quale danno diverso da quello patrimoniale che richieda una riparazione pecuniaria (cfr. sent. Corte Europea 22 luglio 2004, Elia c. Italia) e comprensivo quindi anche di quello cd. biologico. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)


Segnalazione del Dott. Bruno Guaraldi





omissis

N. 1508/00 R.G.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato in data 5 dicembre 2000 P. M., premesso:

-       che in data 20 giugno 1998 in Biella, mentre si trovava all’interno dell’esercizio commerciale Cafè **, è inciampata in un gradino di circa cinque centimetri di altezza posto in prossimità della cassa ed è caduta al suolo;

-       che in seguito a tale sinistro ha riportato lesioni al ginocchio destro e, come emerso in seguito ad accertamenti medici, la rottura del tendine del quadricipite che hanno comportato in capo a costei postumi invalidanti, rilevanti sotto il profilo del danno biologico, sia temporanei che permanenti, oltre al conseguente danno morale;

-       che sussiste la responsabilità della titolare del Cafè ** quale proprietaria o custode dell’immobile ai sensi dell’art. 2051 c.c. per non avere adottato le misure idonee ad impedire che il gradino recasse danno ai terzi;

ha convenuto in giudizio M. M. richiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti.

La convenuta, nonostante la ritualità della notificazione della relativa citazione, non si è costituita entro la prima udienza ed è stata, pertanto, dichiarata contumace.

All’udienza dell’8 maggio 2001 si è costituita la convenuta depositando apposita comparsa con cui ha contestato quanto affermato dall'attrice e ha richiesto il rigetto della relativa domanda in quanto infondata. Alla stessa udienza, pertanto, è stata revocata la contumacia di tale parte.

Sono stati quindi espletati gli incombenti di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c., con l'acquisizione dei documenti prodotti dalle parti e con l'assunzione delle prove orali ammesse.

E’ stata inoltre disposta CTU medico-legale concernente la valutazione della natura e dell’entità delle conseguenze lesive verificatesi in capo all’attrice in seguito al sinistro oggetto di causa.

Infine, precisate le conclusioni di cui in epigrafe, la causa è stata trattenuta in decisione, con assegnazione dei termini di cui all’art.190, primo comma,  c.p.c. per il deposito degli atti conclusionali.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Sulla domanda attorea

       Sostiene l’attrice nell’atto di citazione che la convenuta deve essere ritenuta responsabile del pregiudizio subito in quanto “il proprietario o custode di un immobile è responsabile ex art. 2051 c.c. per i danni cagionati dal bene” (cfr. citaz. pag. 2).

L’assunto è fondato e deve essere, di conseguenza, accolto.

In via preliminare si rileva che risulta pacifico fra le parti che la convenuta, all’epoca dei fatti per cui è causa (20 giugno 1998), fosse titolare dell’esercizio commerciale in cui il sinistro è avvenuto. Ne consegue che non vi è alcun dubbio circa la sussistenza di un effettivo e non occasionale potere di fatto della convenuta sulla res (i locali del bar), circostanza che comporta a carico di quest’ultima il relativo obbligo di custodia ai sensi di cui all’art. 2051 c.c..

Quanto alle modalità con cui si è verificato il sinistro in oggetto, alla luce dell’istruttoria espletata in corso di causa può affermarsi che in data 20 giugno 1998 all’interno del ‘Cafè **’ l’attrice, mentre si accingeva a pagare la propria consumazione nei pressi della cassa posizionata all’inizio del bancone del bar in prossimità della porta d’ingresso, è inciampata in un gradino posto a breve distanza dalla cassa (circa un metro e mezzo) ed è caduta al suolo.

Su tali circostanze, infatti, coincidono perfettamente la versione fornita dall’attrice e quella fornita dai testimoni oculari della scena, ovvero G.D., figlio della convenuta (il quale, mentre era addetto alla cassa, stava ricevendo il pagamento dall’attrice quando ha visto costei cadere; cfr. verb. d’udienza 19 novembre 2002) e I.F., figlia dell’attrice (cfr. ibidem). 

Lo stesso G. ha inoltre riferito che “la gente a volte pagava stando sulla parte rialzata del pavimento, a volte scendeva sullo zerbino” e che “nel momento in cui l’ho vista cadere, forse ho detto qualcosa, stia attenta”(cfr. ibidem.). Da ciò può quindi trarsi che il gradino in oggetto è situato proprio nella zona in cui normalmente si recano gli avventori per effettuare il pagamento alla cassa e deve quindi considerarsi in posizione pericolosa, tanto è vero che lo stesso cassiere ha avvertito l’esigenza di mettere in guardia da ciò l’attrice.

Deve quindi affermarsi, contrariamente a quanto sostenuto da parte convenuta, che la caduta dell’attrice si è verificata quale conseguenza della condizione potenzialmente pericolosa dalla cosa considerata nella sua globalità. Appare chiaro, infatti, che nella fattispecie la caratteristica intrinsecamente pericolosa del gradino deve individuarsi nella sua posizione situata vicino alla cassa, luogo in cui i clienti evidentemente rivolgono la propria attenzione sia al cassiere sia al compimento delle operazioni materiali del pagamento, potendo considerarsi del tutto normale che l’avventore (il quale non è tenuto a conoscere l’esatta conformazione dei luoghi) in tale momento non si avveda del gradino posto immediatamente davanti o dietro ai propri piedi (gradino, tra l’altro, di cui non risulta alcuna espressa segnalazione all’interno del locale).

Neppure può ritenersi, come pure sostenuto da parte convenuta, che il danno possa ricondursi causalmente alla condotta dell’attrice, la quale avrebbe agito imprudentemente in quanto avrebbe dovuto notare il gradino poiché illuminato dalla luce solare e contraddistinto da un colore diverso nonché dalla presenza di un’alzata in ottone.

Tali elementi attengono tutti alla visibilità del gradino stesso considerato a sé stante ma sono di scarso significato nel caso di specie, dovendosi considerare la cosa in questione nel suo normale interagire con il relativo contesto, atteso che una cosa inerte in tanto può ritenersi pericolosa in quanto determini un alto rischio di pregiudizio nel contesto di normale interazione con la realtà circostante (cfr. Cass. 4 novembre 2003, n. 16527). 

E nel presente caso, come già esposto, l’elemento determinante nel contesto è dato dalla posizione del gradino vicino alla cassa, il che rende lo stesso gradino intrinsecamente pericoloso proprio in considerazione dell’interagire con la realtà circostante ovvero in relazione al comportamento normalmente posto in essere dagli avventori quando si recano in tale zona per effettuare il pagamento.

In altre parole non risulta che nel presente caso siano ravvisabili, nel comportamento dell’attrice, gli estremi del caso fortuito di cui all’art. 2051 c.c. - elemento identificabile con un utilizzo della cosa  improprio o imprevedibile posto in essere dallo stesso danneggiato  (cfr. Cass. 15 ottobre 2004, n. 20334) – atteso che la P. ha riportato la caduta già descritta in conseguenza di una condotta del tutto normale (si è recata alla cassa per pagare rivolgendo la propria attenzione alle relative incombenze).

Deve pertanto concludersi che la convenuta, non essendo stato provato il caso fortuito, ai sensi dell’art. 2051 c.c. è responsabile per i danni cagionati all’attrice dalla cosa in custodia e deve essere condannata al relativo risarcimento.

2) Sul danno risarcibile

       All’attrice devono essere risarciti sia i danni alla salute suscettibili di accertamento medico-legale (cd. danno biologico) sia i danni non patrimoniali di natura non patologica.

A tal proposito sostiene l’attrice che anche tale ultima voce di danno sarebbe risarcibile nel presente caso in forza del recente orientamento giurisprudenziale in base a cui il danno non patrimoniale sarebbe configurabile a prescindere dall’accertamento della colpa in concreto e dovrebbe essere risarcito ogni qual volta siano lesi valori della persona costituzionalmente garantiti (cfr. Cass. 1 giugno 2004, n. 10482).

Parte convenuta, invece, ha affermato che sarebbe preclusa la liquidazione del danno morale “difettando il concreto accertamento della colpa necessaria all’integrazione dell’illecito costituente reato” (cfr. comp. concl. conv., pag. 8).

A tal proposito si osserva che, come sottolineato da parte attrice, in effetti la giurisprudenza di legittimità ha di recente adottato un orientamento di progressiva apertura rispetto al danno non patrimoniale, affermando in particolare che alla risarcibilità del danno ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p. non osta il mancato accertamento della colpa dell’autore del danno, quando essa sia presunta dalla legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile quale reato (essendo così sufficiente la sussistenza del cd. ‘reato presunto’; cfr. Cass. 12 maggio 2003, nn. 7282 e 7283, interpretazione avallata da Corte Cost. 11 luglio 2003, n. 233).

Il problema fondamentale sul punto consiste nel verificare i limiti imposti dalla riserva di legge di cui all’art. 2059 c.c. la quale, com’è noto, stabilisce che “il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”. La chiara formulazione di tale disposizione consente anzitutto di percepire che il legislatore ha posto un limite: di tutti i danni non patrimoniali prodotti da comportamenti illeciti, infatti, sono risarcibili esclusivamente quelli compresi nelle ipotesi determinate dalla legge, mentre in tutti gli altri casi tale pregiudizio, ancorché effettivamente sussistente, non può costituire oggetto di pronuncia risarcitoria.

In merito a ciò parte della giurisprudenza ha ritenuto che una lettura della norma costituzionalmente orientata consenta di ritenere inoperante tale limite in caso di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti in quanto la riparazione mediante indennizzo costituisce una forma minima di tutela che non può mai negarsi essendo necessario salvaguardare comunque i diritti inviolabili della persona previsti dalla Carta Costituzionale (cfr. Cass. 7-31 maggio 2003, n. 8828).

Prima di procedere oltre nell’analisi dell’evoluzione giurisprudenziale in materia, tuttavia, appare necessario verificare il diritto positivo suscettibile di integrare la riserva di legge di cui all’art. 2059 c.c..

A tal proposito deve tenersi in considerazione quanto previsto dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma in data 4 novembre 1950 ed entrata in vigore per l’Italia in seguito alla ratifica di cui alla l. 4 agosto 1955, n. 848.

In particolare la Convenzione è volta a garantire tutela in caso di violazione dei principali diritti umani (tra cui quelli alla vita e all’integrità fisio-psichica), prevedendo all’art. 35 la sussidiarietà dell’intervento della Corte europea rispetto ai giudici nazionali e disponendo all’art. 13 che tale tutela deve essere effettiva. Da tali norme deriva il dovere degli Stati che hanno ratificato la Convenzione di assicurare agli individui la protezione effettiva ed integrale dei diritti riconosciuti dalla Convenzione stessa nel proprio ordinamento interno ad opera del giudice nazionale (tale conclusione si ritrova anche nella recente Cass. S.U. 26 gennaio 2004, n. 1340).

Al fine di giungere a tale risultato è quindi necessario che i giudici nazionali, qualora sia violato un diritto fondamentale dell’individuo, adottino - tutte le volte che il diritto interno lo consenta - rimedi giurisdizionali conformi alla Convenzione interpretata alla luce delle applicazioni giurisprudenziali dell’organo istituito quale principale garante della relativa osservanza, ovvero la Corte europea di Strasburgo. Qualora, infatti, un giudice nazionale, in materia di violazione di diritti umani, riconoscesse all’individuo forme di tutela inferiori a quelle ottenibili avanti a detta Corte, obbligherebbe il cittadino ad adire quest’ultimo giudice per ottenere l’integrale soddisfacimento dei propri diritti, contrariamente a quanto previsto dagli artt. 13 e 35 della Convenzione.

Ne deriva che l’ordinamento giuridico vigente impone al giudice nazionale di conformarsi - ove possibile - alla Convenzione (interpretata alla luce della giurisprudenza della Corte europea) per quanto riguarda le forme di tutela da adottare in caso di violazione dei diritti umani.

Relativamente al danno cd. morale, deve prendersi atto che la Corte europea ne ha più volte riconosciuto la risarcibilità anche al di fuori delle ipotesi di reato (cfr. ad es. sent. 22 luglio 2004, Elia c. Italia, in materia di violazione del diritto al rispetto dei beni la quale ha ammesso la risarcibilità dei danni morali a favore di una società commerciale per l’incertezza e l’angoscia conseguenti all’indisponibilità di un terreno), precisando altresì che il danno morale deve essere risarcito poiché l’effetto dell'Articolo 13 della Convenzione è proprio quello di assicurare forme di tutela accessibili (anche nella giurisdizione domestica) per ottenere l'appropriata riparazione che deve essere effettiva nella pratica come in diritto (cfr. sent. 29 Aprile 2003, McGlinchey e altri c. Regno Unito).

Può allora affermarsi che fra i “casi determinati dalla legge” di cui all’art. 2059 c.c. deve comprendersi anche quello derivante dalla Convenzione recepita nell’ordinamento italiano con la legge 4 agosto 1955, n. 848 in base a cui in caso di violazione dei diritti umani fondamentali (come si è verificato nella fattispecie) la parte lesa ha diritto ad una riparazione del danno morale subito.

Tale danno morale deve essere inteso in senso ampio, ovvero quale danno diverso da quello patrimoniale che richieda una riparazione pecuniaria (così si esprime in proposito, “considerata la propria giurisprudenza”, la Corte europea nella sent. 22 luglio 2004, cit., al par. 29).

Naturalmente quanto sopra affermato non può non valere anche relativamente al cd. danno biologico (ovvero al danno alla persona suscettibile di accertamento medico-legale) qualora - nel senso in cui appare orientata tutta la più recente giurisprudenza della Cassazione e della Corte Cost. (cfr. ex pluribus Cass. 12 maggio 2003, n. 7821 e C. Cost. 11 luglio 2003, n. 233, citt.) - non possa essere ritenuto risarcibile in base agli artt. 2043 e segg. c.c. e 32 Cost. ma ad esso debba essere riconosciuta natura non patrimoniale e debba essere di conseguenza inquadrato nelle previsioni di cui all’art. 2059 c.c..  

In base a quanto sopra esposto, pertanto, si rivela fondato l’assunto di parte attrice secondo cui il danno non patrimoniale deve essere risarcito anche al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 185 c.p. ovvero quando, come nella presente fattispecie, la legge attribuisca ad un soggetto l’obbligo risarcitorio in base ad una regola di responsabilità oggettiva (art. 2051 c.c.).

3) Sulla determinazione dei danni

Premesso che in tema di danni non patrimoniali la liquidazione non può che essere equitativa ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c., appare opportuno considerare separatamente i danni suscettibili di valutazione medico-legale (cd. danno biologico) da quelli ulteriori.

3.1) Sulla determinazione del danno biologico e sul rimborso delle spese mediche

Sulla base dei risultati dei primi accertamenti medici eseguiti dal Pronto Soccorso di Borgomanero lo stesso giorno del sinistro (doc. 12 fasc. att.), di quelli effettuati successivamente (docc. 13 e segg. fasc. att.) nonché degli elementi clinici emersi nel corso della visita medico-legale, il CTU ha riconosciuto la sussistenza del nesso eziologico tra il sinistro sopra descritto e le lesioni riportate dall’attrice (rottura subtotale del tendine del quadricipite femorale destro). Considerato che l’attrice ha subito a causa di ciò un intervento di tenorrafia (sutura dei tendini) con applicazione di ginocchiera in estensione (rimossa dopo trenta giorni) e successivo ciclo di riabilitazione motoria con ripresa della normale attività lavorativa nell’ottobre 1998, e dato atto che i postumi invalidanti riscontrati possono ora dirsi stabilizzati (ovvero non suscettibili di aggravamento né emendabili con ulteriori interventi terapeutici) il CTU ha concluso ritenendo sussistente una invalidità temporanea della durata complessiva di ottantatre giorni (dei quali tre di invalidità totale, cinquanta al 50% e trenta al 25%) e una invalidità permanente nella misura del 4%, giudicando inoltre congrue e in rapporto causale con il sinistro le spese sanitarie affrontate dall’attrice e documentate in atti (pari a complessivi € 1330,44).

Tali valutazioni del CTU devono ritenersi condivisibili per la completezza e l’esaustività dell’iter logico-motivazionale adottato nonché per la chiarezza espositiva; le conclusioni medico-legali sopra riportate, inoltre, sono state condivise anche da entrambi i consulenti di parte presenti alle operazioni peritali (cfr. relaz. CTU, pag. 6).

In base a ciò, considerato che per la quantificazione della lesione all'integrità psico-fisica dell'attrice appare congruo utilizzare il metodo del valore-punto (ovvero un sistema di calcolo basato sull'attribuzione di una somma relativa ad ogni punto di invalidità permanente e ad ogni giorno di invalidità temporanea, tenuto conto dell'età - 48 anni - e delle altre condizioni di salute del soggetto interessato al momento del sinistro) e che tali somme si stimano equitativamente (con riferimento indicativo alle "tabelle" elaborate dal Tribunale di Milano ed esclusa l'applicazione dei parametri di cui alla legge n. 57/2001, in quanto applicabili, come previsto dall'art. 2 della stessa legge, solo ai sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli avvenuti successivamente all'entrata in vigore della medesima) in 900 Euro per ogni punto di invalidità permanente e in 50 Euro per ogni giorno di invalidità temporanea totale (e nella corrispondente somma proporzionalmente ridotta per ogni giorno di invalidità temporanea parziale), si determina il danno biologico in complessivi € 5375 di cui 3600 relativamente all’invalidità permanente (€ 900 x 4) e 1775 relativamente all'inabilità temporanea (€ 50 x 3 gg., € 25 x 50 gg. ed € 12,5 x 30 gg.).

Oltre a ciò, all'attrice devono essere risarcite anche le spese mediche sostenute e documentate, in quanto eziologicamente collegate al sinistro in oggetto, pari a € 1330,44.

3.2) Sugli ulteriori danni non patrimoniali

Sostiene parte attrice di avere riportato, quale conseguenza della malattia di cui al par. che precede, danni morali che indica nella misura di un terzo di quanto liquidato a titolo di danno biologico.

Quanto alla sussistenza di tali danni, si rileva che ai fini della relativa prova è sufficiente che, come nella fattispecie, la parte dimostri di avere subito lesioni personali, dalle quali sia derivata una malattia “in quanto in questo caso è talmente verosimile che essa abbia subito danno morale che lo si può ritenere provato sulla base di una presunzione che, risultando particolarmente qualificata, è da sola sufficiente allo scopo” (in tali termini si è espressa Cass. 14 dicembre 2004, n. 23928).

In altre parole non può richiedersi una (diabolica) prova specifica del danno in questione poiché costituisce nozione di fatto che rientra nella comune esperienza, valorizzabile ai sensi dell’art. 115, secondo comma, c.p.c. che l’aver subito lesioni, sia temporanee che permanenti, all’integrità fisiopsichica, comporta in capo al danneggiato una sofferenza e un ulteriore danno alla vita di relazione commisurati all’entità e alla durata della malattia in relazione a tutte le circostanze del caso concreto.

In base a ciò deve quindi ritenersi fondata la domanda attorea. A tale proposito appare tuttavia incongruo determinare la misura dei danni in questione utilizzando il criterio indicato dalla stessa attrice, ovvero sulla base di una frazione di quanto liquidato a titolo di danno biologico, e ciò perché trattasi di due elementi di natura diversa: il cd. danno biologico costituisce una menomazione dell’integrità fisio-psichica e, essendo suscettibile di accertamento medico-legale (art. 13 d. lgs. 23 febbraio 2000, n. 38 e art. 5 l. 5 marzo 2001, n. 57) ha natura patologica mentre gli ulteriori danni non patrimoniali afferiscono ad altri valori della persona e hanno natura non patologica.

Pertanto, ancorché le due tipologie di danno in questione presentino alcuni elementi di collegamento - ad es. l’entità e la durata della malattia, come già specificato, costituiscono uno dei parametri di valutazione in ordine alla sussistenza e all’entità dei danni morali - si ritiene che la loro quantificazione non possa essere ancorata esclusivamente ad un rigido criterio proporzionale ma debba farsi luogo, in via necessariamente equitativa, in relazione alle circostanze (anche presuntive) di ogni fattispecie concreta. 

Per di più si consideri che il danno non patrimoniale di natura non patologica si compone di diverse specifiche figure di danno etichettate in diversi modi dalla giurisprudenza - danno morale soggettivo, oggettivo, esistenziale etc. - e, ancorché appaia opportuno considerare tali voci unitariamente ai fini della relativa liquidazione (metodo, del resto, adottato pressoché costantemente anche dalla giurisprudenza della Corte europea; per un riscontro in giurisprudenza di legittimità cfr. Cass. 19 agosto 2003, n. 12124), non è detto che esse  siano sempre presenti in ogni caso concreto: un criterio meramente proporzionale non potrebbe tenere conto di tali variabili.

In base a quanto precede, considerato che nel presente caso parte attrice ha allegato esclusivamente di aver subito un danno morale senza ulteriori specificazioni, alla luce dell’entità e della durata della malattia e di tutti gli altri elementi del caso, si ritiene equo determinare i danni in questione in complessivi  € 1000.

4) Sugli interessi e sulla rivalutazione monetaria

In base a quanto esposto in precedenza, può quindi concludersi che i danni che la convenuta deve risarcire all’attrice ammontano in linea capitale alla somma complessiva di € 7705,44.

In merito a ciò sostiene parte convenuta che l’attrice avrebbe limitato la propria domanda alla somma di € 6.381,15, importo indicato da tale parte in sede di precisazione delle conclusioni. L’assunto è tuttavia infondato posto che l’attrice, sin dall’atto introduttivo del giudizio, ha chiesto il pagamento ad una somma superiore a quella oggetto della presente condanna, ed in sede di precisazione delle conclusioni ha richiesto espressamente anche la condanna alla “ maggiore o minore somma  che verrà ritenuta di giustizia”. Ne consegue che l’importo di  € 6.381,15 ha solo valore indicativo (come ribadito dalla stessa attrice in comparsa conclusionale) e non costituisce una limitazione del petitum.

Come richiesto da parte attrice, inoltre, la convenuta dovrà corrispondere, in quanto debito di valore, gli interessi legali sino alla data della presente sentenza:

-       sulla quota afferente alle spese mediche affrontate (€ 1330,44), rivalutata mese per mese alla stregua dell'indice ISTAT, con decorrenza dalla data degli effettivi esborsi;

-       sulla restante quota, con decorrenza dalla data del sinistro (20 giugno 1998) ed esclusa la rivalutazione della somma in quanto liquidata in base a parametri odierni e, quindi, già attualizzata tenuto conto del decremento del valore d'acquisto del denaro.

Sulla somma così calcolata, in quanto con tale liquidazione il credito di valore si trasforma in credito di valuta, saranno dovuti dalla convenuta gli interessi legali dalla data della presente sentenza fino al giorno dell'effettivo pagamento.

4) Sulle spese del giudizio

Stante l'esito della causa, le spese di lite sono poste interamente a carico di parte convenuta e sono liquidate come in dispositivo.

Per lo stesso motivo gli oneri di CTU sono posti definitivamente a carico di parte convenuta.


P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla causa di cui in epigrafe, così provvede:

condanna la convenuta al pagamento in favore dell'attrice della somma di € 7705,44 oltre agli interessi legali sulla somma di € 1330,44, rivalutata mese per mese in base agli indici ISTAT, dalla data dei singoli esborsi sino a quella della presente sentenza e agli interessi legali sulla somma di  € 6375 dal 20 ottobre 1998 sino alla data della presente sentenza ed oltre agli interessi legali sulla somma complessiva così calcolata dalla data della presente sentenza sino al giorno del saldo effettivo;

rigetta nel resto;

condanna parte convenuta alla rifusione in favore di parte attrice delle spese processuali che si liquidano in complessivi 4000 Euro di cui 255,01 per anticipazioni ed il resto per diritti ed onorari, oltre al rimborso spese gen. ex art. 15 tar. for. ed oltre ad IVA e Cpa ove dovute per legge;

pone gli oneri di CTU definitivamente a carico di parte convenuta.

Così deciso in Biella, lì 30 maggio 2005

Il Giudice   

(dott. Andrea Carli)