Sovraindebitamento
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 24/06/2024 Scarica PDF
Brevi appunti sul trattamento dei creditori: falcidia dei privilegiati e difesa della casa di abitazione
Carlo Bianconi, Giudice delegato presso il Tribunale di ModenaLa presente brevissima trattazione, dedicata ai Colleghi Giudici delegati, non ha alcuna pretesa di esaustività.
Essa prende le mosse dalla disposizione normativa:
[omissis]
La norma è piuttosto scarna, prevede un principio generale al comma 1 (che sembra attribuire ampia libertà), ma poi fissa delle regole (in particolare quella del comma 4, che d’ora in poi sarà chiamata “del trattamento minimo”[1]) che pongono severe limitazioni alla discrezionalità del consumatore.
Il fatto che la norma sia scarna comporta che la disciplina debba essere riempita di contenuto dall’interprete.
Ciò, attraverso vari strumenti, analogici e sistematici.
In primo luogo, bisogna capire la ratio dell’istituto, che è da un lato sicuramente quella di favorire la esdebitazione del consumatore: sul punto basti pensare alla disciplina eurounitaria (Cons. 1, 75, et alia Dir. Insolvency; art. 1, par. 4 ibidem; etc.).
Che poi la stagione in corso sia palesemente proiettata ad una piena tutela del consumatore è inutile ricordarlo: vedi sentenze CGUE e SSUU (nr. 9479/2023) in materia di protezione consumeristica rispetto alle previsioni contrattuali abusive.
Dall’altro lato esiste una esigenza di ristrutturazione del debito in maniera efficiente (che, quindi, coinvolga potenzialmente tutti i creditori, nella misura migliore possibile, e con i tempi maggiormente contenuti).
In secondo luogo, va affrontata la natura dell’istituto: essa è una procedura di composizione, non è liquidatoria/demolitoria, ha “base negoziale” (Cass. 4622/2024), ma in realtà appare più simile a un concordato coatto. È quindi un istituto certamente ibrido. Per certi versi ricorda il concordato coattivo della LCA (oggi art. 314 CCII), e ancor più il novello concordato semplificato (art. 25-sexies CCII).
In terzo luogo, e chiarito il punto che precede, occorre capire se le norme e i principi che concorrono a completare la disciplina possano essere mutuati dal sistema generale di diritto europeo, di diritto comune, o da figure in qualche modo analoghe (vedi, su tutte, il concordato minore).
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Un problema che si è posto, e che è peraltro decisivo se si vuole capire (“a monte”) come funziona il trattamento dei creditori, è quello relativo al cd. principio di universalità oggettiva.
Il tema è capire se il debitore che intenda accedere alla RDC debba conferire o meno tutti i propri beni al servizio della ristrutturazione. In altre parole: opera il principio di cui all’art. 2740 c.c.?
Argomenti a favore della operatività del principio (vedi Trib. Ferrara 04.7.2023 e CDA Bologna 18.1.2024, sia pur rese in materia di concordato minore in continuità):
1) la mancata deroga a 2740 c.c. significa che la norma generale si applica;
2) nel PRO la non applicazione del 2740 c.c. è esplicita: lex ubi noluit tacuit = nel RDC non opera il principio;
3) art. 67 c. 5 prevede una eccezione al 2740 c.c: non è possibile immaginarne altre.
Argomenti contrari alla operatività del principio (vedi Trib. Forlì 19.1.2024; vedi A. Mancini e G. Limitone in www.ilcaso.it 03.4.2024):
1) il piano ha “contenuto libero”;
2) il mancato richiamo non serve, atteso che spesso esso è implicito: vedi concordato minore in continuità;
3) l’attuazione del 2740 c.c. non impone necessariamente la vendita; anzi, esso può attuarsi da sempre attraverso la controvalorizzazione (magari addirittura in eccesso, risolvendosi in palese convenienza);
4) il RDC viene svuotato di senso se si impone universalità oggettiva: perché mai un debitore dovrebbe preferire il RDC (in luogo della LC), se non per la possibilità di conservare qualche asset???
5) Soprattutto, l’argomento fondato sulla previsione di cui all’art. 67, comma 5, CCII è fallace: non avrebbe senso prevedere una deroga alla universalità oggettiva per il debitore che abbia un contratto di mutuo in corso (magari neppure onorato, essendovi uno scaduto), e non in favore di un debitore che, ad esempio, quel medesimo mutuo abbia definitivamente onorato
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Sul versante esattamente opposto (“a valle”) si colloca la questione della assicurazione di una utilità a ciascun creditore (regola della “soddisfazione globale”).
Il tema è capire se possa essere omologato un piano che non preveda alcuna soddisfazione per i chirografari (naturalmente, dandosi per scontato che ciò non avverrebbe nemmeno nello scenario alternativo della liquidazione controllata, nel quale, peraltro, i creditori prelatizi prenderebbero ancor meno che nella RDC).
Ossia, il raffronto tra le due seguenti ipotesi di studio:
1) LC: prelatizi 30%; chiro 0%;
2) RDC: prelatizi 50%; chiro 0%;
Argomenti contro l’esistenza di tale regola:
1) Il piano ha “contenuto libero”;
2) lo scenario RDC è palesemente più favorevole in generale, e non crea alcun danno;
3) nel concordato semplificato la regola della soddisfazione globale è codificata espressamente; stesso vale per il concordato preventivo liquidatorio (20%); stesso vale, sia pur implicitamente, per quello in continuità (e il PRO); quindi, in ogni caso, per il concordato minore; lex ubi noluit tacuit = nel RDC non opera il principio;
4) il RDC diviene di fatto impercorribile se si impone di dare qualcosa a tutti.
Argomenti a favore dell’esistenza di tale regola:
1) l’argomento letterale non tiene, anzi: il comma 1 impone il soddisfacimento “dei crediti”, quindi nessuno può essere completamente escluso;
2) il RDC, come tutte le procedure sopra menzionate, ha base para-negoziale, o comunque è volto ad una ristrutturazione: la causa concreta, quindi, non può che essere salvaguardata dal coinvolgimento di tutti i creditori;
Degli argomenti contrari, come si vedrà, quello di cui al punto 4), sicuramente impattante sul piano pratico, potrebbe essere neutralizzato ipotizzando la applicazione della Relative Priority Rule al RDC (vedi infra).
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Veniamo al tema del trattamento dei creditori assistiti da cause di prelazione, e alla possibilità di falcidia delle loro pretese.
Va svolta una premessa fondamentale.
Il Giudice che si trovi ad affrontare il presente tema, come d’altronde quelli che precedono, deve porsi sempre un duplice problema:
1) quali sono i rapporti tra il vaglio di ammissione e quello di convenienza ex art. 70 c.9?
2) qual è, lo scenario più attendibile possibile in sede di liquidazione controllata?
È infatti chiaro che se si demanda ogni problema al giudizio di convenienza, il vaglio di ammissione viene svuotato.
Però un vaglio di ammissione esiste: cfr. artt. 70, comma 1 comma 7. Ed esso concerne necessariamente anche le condizioni oggettive, se è vero che la rubrica dell’art. 69 descrive alcune condizioni ostative premurandosi di definirle “soggettive” (così lasciando intendere che esista la diversa categoria delle condizioni ostative oggettive).
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Le condizioni oggettive sono, per l’appunto, quelle di cui si è parlato sopra, e quelle descritte ai commi 3, ma soprattutto 4 e 5 della norma.
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Il comma 3 (già art. 8, comma 1 bis L. 3) è quello che presenta meno problemi.
Innanzitutto, diversamente da quanto può apparire a prima vista, la norma più che diretta a consentire una “falcidia”, è una norma che disciplina una ipotesi di “inopponibilità” (al ceto creditorio) di un determinato assetto (la “cessione del quinto”).
E, come noto, la norma va interpretata in modo estensivo, essendo riferibile non solo alle cessioni volontarie, ma anche ai provvedimenti giudiziali di assegnazione (pure definitivi), ed anche a ipotesi di cessioni o assegnazioni di crediti diversi da quelli indicati dalla norma (cfr. Cost. Cost. 65/2022 punto 7.1.2).
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Il comma 4 (già art. 7, comma 2 bis L. 3) presenta maggiori difficoltà.
Innanzitutto, vanno apprezzate alcune differenze rispetto ad altre norme analoghe, ed in particolare all’art. 84, comma 5 CCII, dettata in materia di concordato preventivo (già art. 160, comma 2, l.f.), secondo cui:
[omissis]
Ciò che balza all’occhio riguarda:
1) la mancata previsione (nell’art. 67) della decurtazione delle spese specifiche e generali;
2) il riferimento (nell’art. 67) al “valore di mercato”.
Con riferimento al primo aspetto, deve ritenersi operante (pur in mancanza di previsione) la medesima necessità di decurtazione, pena la locupletazione del creditore assistito da prelazione: si veda Trib. Terni 08.5.2023 che ne fa correttamente applicazione analogica.
Va precisato che la decurtazione deve essere apprezzata in ambo gli scenari, ossia sia nella LC, che nella RDC.
Sul riferimento al valore di mercato, occorre tenere conto dell’insegnamento di Cass. 6435/2024 (Est. Vella), secondo cui, in estrema sintesi:
i) esso deve derivare da una stima non meramente indicativa, ma certa e precisa, in quanto parametro di riferimento per la valutazione della misura di soddisfazione minima dei creditori prelatizi;
ii) il valore di mercato non coincide con il “ricavato in caso di liquidazione” ma costituisce un termine di riferimento per la determinazione di quanto sarebbe possibile ricavare dalla vendita coattiva (nella liquidazione controllata), utile ad orientare le valutazioni spettanti ai creditori, in sede di approvazione del concordato, e al giudice, in sede di omologazione, in odine alle concrete possibilità di soddisfazione dei crediti in questione;
iii) in pratica, se è pacifico che il concetto di “ricavato in caso liquidazione” sia una misura differente, e di regola inferiore, al “valore di mercato”, è comunque necessario che siano esplicate le rettifiche apportate a quest’ultimo valore per giungere alla determinazione del primo (che è quello che solo conta).
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Tutto quanto appena detto, ci riporta al tema del confronto tra scenari: RDC vs LC, che beninteso, è l’unico scenario alternativo concretamente immaginabile, dato che ci si occupa di un soggetto sovraindebitato.
Si torna ad una delle domande di partenza: perché mai un debitore dovrebbe preferire il RDC (in luogo della LC), a parità di presupposti soggettivi (che sono identici nelle due procedure, per quanto concerne la “meritevolezza”)?
Verosimilmente, la ratio riposa sulla possibilità nella RDC di conservare qualche asset (naturalmente, se non si sposa la teoria della universalità oggettiva).
Innanzitutto, occorre comprendere fino in fondo quale sia lo scenario concreto nella liquidazione controllata, e prendere quindi in considerazione tutti gli aspetti rilevanti ed interconnessi di essa ai fini del risultato complessivo e del risultato specifico (quello che concerne la posizione di ognuno dei creditori).
In particolare:
1) la durata (vedi Cort. Cost. nr. 6/2024) della procedura ed i tempi dei pagamenti alle singole categorie di creditori secondo la unica regola di distribuzione del valore, ossia la absolute priority rule; sul punto, mette conto osservare come la disciplina della LC non preveda ipotesi di ripartizioni parziale: essa, peraltro, neppure la vieta, e devesi ritenere quindi sicuramente ammissibile tale prassi operativa;
2) i costi specifici e generali (spese di collocazione dei beni; compenso liquidatore; etc.) della procedura liquidatoria;
3) i costi indiretti: è infatti chiaro che se nella LC si liquida, ad esempio, l’immobile abitativo, il debitore dovrà sostenere maggiori costi mensili per canoni di locazione, con conseguente contrazione delle somme messe a disposizione mensilmente al ceto creditorio.
Ciò posto, è innanzitutto chiaro, in termini matematici, logici ed economici, che, se nel piano RDC si distoglie attivo liquidabile ai creditori (che il debitore desidera tenere per sé), esso debba necessariamente essere contro-valorizzato.
Le ipotesi tecniche di controvalorizzazione sono, astrattamente, almeno quattro:
1) la più classica, consiste nell’apporto di finanza esterna;
2) un’altra ipotesi classica consiste nell’ampliamento dei termini di esecuzione (“arco di piano”) rispetto alla ipotesi della liquidazione controllata, specie con riferimento alla maturazione di attivo derivante da redditi o pensioni;
3) una ulteriore ipotesi, probabilmente meno efficiente, consiste nell’offrire di mettere a disposizione dei creditori somme reddituali o pensionistiche esorbitanti i limiti (peraltro stretti) di cui all’art. 268, comma 4, lett. b) CCII;
4) un’ultima ipotesi, di applicazione sempre più frequente, è rappresentata dall’accesso, da parte del debitore, ad un “finanziamento etico” immediato, che gli consenta di “smarcare” subito le pretese creditorie (nel giro di pochissimo tempo in esito alla omologazione), regolando poi in modo “privatistico” il rapporto di credito con la finanziaria. Naturalmente, il rimborso sarebbe in tal modo “postergato” e “fuori piano”, nel senso che esso avrebbe inizio in epoca successiva alla (peraltro celerissima) avvenuta esecuzione dell’RDC.
Proprio quest’ultima modalità (come peraltro la prima) getta luce su una questione che si porrà sempre più sovente in termini di prassi: ossia se per i creditori prelatizi (avuto riguardo all’elemento “tempo”, certo non indifferente, in termini economici) non possa dirsi concretamente preferibile l’opzione che garantisca un soddisfacimento rapido, ma parziale, rispetto ad un soddisfacimento integrale che però sconti i tempi della liquidazione controllata.
In tale ottica, la declaratoria di inammissibilità ex art. 67, comma 4, sarebbe in qualche modo irrazionale, tenuto conto della possibilità di opposizione ex art. 70, comma 9.
Un argomento favorevole alla valorizzazione dell’elemento temporale potrebbe essere rinvenuto (a contrario) nella ingente produzione giurisprudenziale che ha affermato, in vari ambiti, come i creditori abbiano diritto ad alcune “contropartite” per il caso di moratoria (vedi ad es. Cass. 11882/2021).
Una soluzione pratica potrebbe consistere nella possibilità di ottenere un accordo (ante o pendente procedura) col creditore interessato: naturalmente ciò sarebbe verosimilmente più complesso nel caso di creditori istituzionali (sulla intera tematica si veda A. Mancini in www.ilcaso.it del 27.6.2023).
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Il piano RDC, comunque, sarà prima facie credibile in tutti i casi in cui il debitore prefiguri un trattamento ai creditori complessivamente migliorativo (o non deteriore) rispetto alla alternativa della liquidazione controllata.
Ma ciò non è sufficiente:
1) né ai fini della norma in questione;
2) né tenuto conto della operatività della regola della soddisfazione globale (vedi supra);
3) né infine avuto riguardo alle tematiche delle tempistiche (vedi sopra) e delle regole distributive del valore.
Orbene, con riferimento al punto 1), il Giudice dovrà semplicemente confrontare le due ipotesi (RDC vs LC) con riguardo ad ogni creditore prelatizio e verificare che nel primo scenario ciascuno di essi ottenga perlomeno lo stesso grado di soddisfazione previsto nel secondo. Ciò, lo si ribadisce ancora, in disparte il tema dei tempi (cui si faceva cenno poco sopra).
Con riferimento ai punti 2) e 3), essi sono evidentemente interconnessi: è infatti chiaro che se il piano RDC per essere ammissibile deve garantire una soddisfazione (sia pur minima) anche a coloro che stanno al gradino più basso della scala, è giocoforza ritenere che nello scenario in parola debba essere seriamente meditata la regola distributiva.
Nella LC, infatti, si fa applicazione della cd. APR: è però evidente che, fuor di casi eccezionali o di scuola, in tale scenario giammai i chirografari potranno ricevere soddisfazione integrale, essendo anzi del tutto consueto che ad essi non possa in realtà pervenire alcunché.
Nel piano RDC, quindi, occorre trovare il modo di garantire a costoro una qualche utilità.
Ciò non pare possa avvenire, perlomeno nella prassi, con strumenti diversi dal denaro, essendo difficilmente ipotizzabile tale circostanza nel caso del consumatore (noti sono i casi, che riguardano però le imprese, aventi ad oggetto la continuazione dei rapporti commerciali o l’astensione da azioni revocatorie, peraltro verosimilmente impraticabili nella LC, etc.).
Ecco allora che gli strumenti utili alla bisogna diventano essenzialmente quelli visti sopra, ossia: i) l’apporto di finanza esterna (o di finanziamenti etici); ii) l’allungamento dell’arco di piano o l’apporto di risorse maggiorate rispetto alla soglia di cui all’art. 268 CCII.
Tali strumenti, ecco ciò che si vuole dire, possono poi, in ipotesi, collaborare con una diversa regola distributiva, ossia la RPR.
Se per la finanza terza, infatti, vige verosimilmente un principio di libertà distributiva (che quindi garantirebbe la soddisfazione globale, a patto però che le risorse siano sufficienti), lo stesso non può dirsi per le altre opzioni.
Certamente, ciò non può dirsi (in alcun caso) sino alla concorrenza del valore che sarebbe ritratto nella LC, dovendosi fare applicazione della APR.
Ma l’opzione per la RPR potrebbe essere valida per tutta la parte di attivo che tale valore superi.
Si ponga mente ad un banale esempio.
Scenario LC: Tizio, sovraindebitato, potrebbe destinare ai creditori privilegiati generali mobiliari di cui all’art. 2751-bis nr. 2) c.c. una somma “X” pari utile al soddisfo del 50% del loro credito, attraverso il versamento di quote stipendiali maturate nel triennio (periodo ipotetico di LC) nella misura di legge stabilita dal Giudice (art. 268 CCII); conseguentemente, non potrebbe dare nulla ai privilegiati generali di grado inferiore (ad esempio, l’Erario), ed ai chirografari.
Nello Scenario RDC, al contrario: Tizio, attraverso l’allungamento dell’arco di piano o la corresponsione di somme stipendiali eccedenti il limite di cui all’art. 268 CCII, potrebbe generare una somma maggiore “Y” (y > x) tale da poter garantire ai privilegiati generali mobiliari di cui all’art. 2751-bis nr. 2) c.c. il medesimo importo “X” pari al 50% del loro credito (con rispetto della regola di cui all’art. 67, comma 4, CCII), ma potendo destinare un surplus “D” ai restanti creditori (Y – X = D).
Ora, è chiaro che se la distribuzione di “D” seguisse la APR, l’intera somma sarebbe riservata, ad esaurimento, ai privilegiati di cui sopra, e quindi per il residuo all’Erario (soggetti in ipotesi titolari di un credito complessivamente maggiore di “D”): con la conseguenza che ai chirografari nulla pertoccherebbe.
Ma se a “D” si applicasse la regola distributiva della RPR, il debitore potrebbe proporre:
- di non completare i pagamenti per i privilegiati ex art. 2751-bis nr. 2) c.c. (che, quindi, rimarrebbero soddisfatti al 50%);
- quindi, di pagare il credito erariale in misura, ad esempio, del 10%;
- infine di destinare ai chirografari ulteriori risorse utili ad essere soddisfatti, ad esempio, al 2,5%.
In tal modo la regola della soddisfazione globale sarebbe soddisfatta (e al contempo nessun creditore risulterebbe vittorioso in un ipotetico giudizio di cram down ai sensi dell’art. 70 c. 9 CCII).
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Concludendo, si riportano gli argomenti a favore e quelli contrari alla applicazione della RPR alla procedura in argomento (si veda sul punto funditus A. Mancini in www.ilcaso.it del 18.9.2023).
Tra gli argomenti contrari:
1) manca una previsione normativa analoga all’art. 74, comma 4, CCII che consenta un richiamo dell’art. 84, comma 6, CCII;
2) l’art. 84, comma 6, CCII è pensato appositamente per i flussi di continuità aziendale delle imprese commerciali sopra-soglia (tant’è che la RPR sarebbe difficilmente ipotizzabile pure per il concordato minore in continuità del professionale); la RPR presuppone la formazione di classi, il voto, il cross class cram down, etc.
3) le deroghe al principio della distribuzione verticale, pur esistenti, sono e devono essere codificate (vedi art. 64-bis CCII; vedi lo stesso art. 67, comma 5, CCII con riferimento all’istituto oggi in discorso.
Tra gli argomenti favorevoli:
1) il dato normativo di cui al comma 1 dell’art. 67 e la carenza di disposizioni a ciò contrarie;
2) la analogia tra il piano RDC e le procedure di concordato minore in continuità, ove la RPR è verosimilmente ammissibile (se non per il professionista - ma non se ne vede un reale motivo - sicuramente per il piccolo, anche micro, imprenditore individuale); accordare la RPR, ad esempio, al “negoziante”, e negarla al professionista intellettuale, e a cascata al consumatore, parrebbe irragionevole, specie alla luce dello statuto di tutela eurounitario di quest’ultimo;
3) la sostanziale irrealizzabilità (in mancanza di finanza esterna) del piano RDC, ove si imponga la regola della soddisfazione globale dei creditori, ma al contempo si neghi la possibilità di ristrutturazione con RPR (nei termini descritti sopra);
4) la svalutazione della APR nel diritto interno quale regola distributiva unica: essa deve oggi considerarsi ineludibile solo in relazione alla componente liquidatoria degli strumenti di risoluzione della crisi e della insolvenza (ovvero a posizioni particolari, quali quella dei crediti ex art. 2751 bis nr.1 c.c.: cfr. art. 84, comma 7, CCII), laddove la RPR è ormai divenuta la regola (avente pari dignità) distributiva di tutto ciò che esorbita il "valore liquidatorio", utile a favorire le ristrutturazioni negoziali o para-negoziali. In tal senso, non va sopravvalutato il riferimento alle “classi” contenuto nel comma 6 dell’art. 84 CCII (utilizzato dal Legislatore per ovvie ragioni, in quella sede, atteso che si trattava di disciplinare per l’appunto uno strumento – il concordato preventivo in continuità aziendale – nel quale la formazione delle classi è obbligatoria).
5) Va poi osservato come la costruzione di una “classe” (Cons. 44 Dir. Insolvency e art. 2, comma 1, lett. r CCII), intesa concettualmente come gruppo di creditori portatori di interessi omogenei, rappresenti uno strumento tecnico volto a favorire il debitore (e non certo i soggetti ivi raggruppati) nell’ottica della “neutralizzazione” di alcuni creditori “ostili”; sostenere quindi che la RPR abbia ragione di esistere solo a fronte di un classamento – quasi che esso costituisca una garanzia per i creditori – costituisce un argomento difficilmente comprensibile, quando non una aporia logica ingiustificata; senza dimenticare, ovviamente, come ciascuno dei creditori possa sempre ricorrere al rimedio della opposizione ex art. 70, comma 9, CCII.
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Da ultimo, occorre occuparsi del comma 5, secondo cui:
La previsione ha ad oggetto il caso del mutuo non risolto (e dunque pendente): ove lo stesso fosse venuto meno, infatti, si discuterebbe solo di un credito della banca.
La norma consente al debitore di proseguire l’esecuzione del contratto, e la conservazione della sua abitazione (bene evidentemente primario).
Ove il mutuo sia in regolare ammortamento, il debitore potrà procedere de plano.
Ove vi siano rate scadute, ciò potrà avvenire previa autorizzazione del Giudice.
L’effetto voluto dalla norma, in sintesi, concreta una vera e propria sottrazione della fattispecie alle regole del concorso (come espressamente chiarito nella relazione illustrativa al CCII).
E così, dunque:
- il bene resterà nella disponibilità del debitore;
- il debito verrà trattato secondo le previsioni contrattuali (quindi, in ipotesi, anche per un periodo di molti anni), e non sarà suscettibile di ristrutturazione secondo le previsioni del piano;
- il mutuante non potrà svolgere una opposizione che abbia ad oggetto la convenienza della operazione.
L’assetto così delineato pone però una congerie di problemi.
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Il primo di essi concerne la posizione dei creditori diversi dalla banca: è infatti chiaro come l’operazione, specie in alcuni casi, non possa dirsi neutra per costoro (ed il tema rimanda intuitivamente al confronto tra gli scenari cui sopra si è fatto ampio riferimento).
Detto che in qualsiasi caso, infatti, occorrerà tenere conto del rapporto tra l’importo della rata del mutuo e l’importo di un (ipotetico) canone di locazione che il debitore abbia a dover sostenere per il caso di liquidazione della casa, potrebbe porsi il caso nel quale il valore del cespite sia largamente superiore a quanto complessivamente dovuto alla banca.
Se l’immobile dovesse valere “100”, e il debito residuo dovesse ascendere a “50”, è evidente come, attraverso la conservazione del mutuo in essere – ed il pagamento del corrispettivo – il debitore manterrebbe altresì per sé, sottraendolo ai creditori, un surplus pari a “50”.
Un primo limite a tale impostazione è rappresentato dalla eventuale inammissibilità della stessa, per il caso che esistano creditori muniti di privilegio sussidiario sul bene ai sensi dell’art. 2776 c.c.: in tal caso, il rispetto della regola di cui all’art. 67, comma 4, CCII, più volte supra citata, impone quantomeno la contro-valorizzazione del valore di “50”.
Un altro importante contrappeso che dovrebbe operare, in queste evenienze, è poi rappresentato proprio dalla opposizione (dei creditori “estranei”) avente ad oggetto la convenienza, ai sensi dell’art. 70, comma 9 CCII.
Sul punto, si sono peraltro levate alcune autorevolissime voci in Dottrina (vedi V. Zanichelli ne “Il Fallimento” nr. 4/2021, pag. 450 e sgg.) secondo cui, in realtà, il favor per il consumatore e per la tutela della sua abitazione avrebbe mosso le intenzioni del Legislatore sino al punto di rendere inammissibile, per il caso in esame, l’opposizione di convenienza da parte dei creditori “estranei”.
Dato normativo rilevante, in tal senso, sarebbe la mancata previsione della necessità di attestazione da parte dell’OCC circa la mancata lesione dei diritti dei creditori “estranei”, diversamente da quanto sancito expressis verbis nella fattispecie di cui all’art 75, comma 3, CCII.
La soluzione, sia detto sommessamente, non convince appieno, avuto riguardo ad alcune obiezioni:
- il debitore potrebbe utilizzare in modo distorto tale facoltà, onorando il mutuo e proponendo il piano solo allorquando manchino pochissime rate alla estinzione di esso (confidando di poter tenere per sé il cd. “supero”);
- quanto appena detto varrebbe anche nel caso in cui il debitore abbia la fortuna di abitare una casa di pregio (valore “1000”) a fronte di un residuo debito di mutuo risibile (debito “10”);
- la neutralizzazione della opposizione di convenienza dovrebbe operare, coerentemente, non solo per chi abbia un mutuo in corso, ma anche per chi abbia finito di pagare integralmente lo stesso, pena una evidente discriminazione; ma tale ipotesi non è prevista dalla norma, e accordare una tale facoltà si risolverebbe sempre e comunque nel riconoscimento del diritto potestativo di mantenere il valore della casa in spregio alle pretese dei creditori.
Per tutti i motivi sopra esposti, insomma, deve ritenersi predicabile l’esistenza di almeno due limiti al pregiudizio dei creditori “estranei” insito nella operazione:
1) il primo, consistente nella necessità di rispettare la regola di ammissibilità dell’art. 67, comma 4, CCII, ove vi siano creditori con privilegio sussidiario;
2) il secondo, consistente nella possibilità, per i creditori “estranei”, di sindacare la convenienza;
***
Altro genere di complessi problemi deriva dalla sottrazione della fattispecie in esame alle regole del concorso.
Va premessa, concettualmente, una precisazione:
- l’operazione di cui all’art. 67, comma 5, CCII fa parte del piano, ne costituisce aspetto fondamentale, e deve essere ovviamente rappresentata e illustrata ai creditori;
- la sottrazione al concorso è un effetto previsto dalla legge.
Un primo aspetto critico è capire “che cosa” venga concretamente escluso dal concorso, e in che termini.
Elementi necessari della operazione sono infatti:
- l’immobile di abitazione e la quota di reddito idonea a sostenere la rata, dal lato attivo;
- il credito della banca, non ristrutturabile, dal lato passivo.
Il piano, con riferimento ai creditori “estranei” (ristrutturabili nei limiti di legge), deve quindi prevedere altri asset, diversi dalla casa di abitazione e dalla quota di reddito destinata.
Ma il vero nodo cruciale è un altro: può accadere che il debitore smetta di onorare il pagamento delle rate di mutuo.
In tal caso, sorgono numerosissime questioni.
Ci si chiede, a mero titolo di esempio:
- può in tal caso essere disposta la revoca della omologazione del piano ex art. 72, comma 2, CCII?
- la banca può espropriare l’immobile nell’ambito di una esecuzione singolare? E può pignorare i ratei di stipendio “dedicato”? Può, poi, agire in executiviis contro i beni diversi da quelli destinati alla operazione, e riservati nel piano agli altri creditori?
- i creditori “estranei” (originari) hanno facoltà di chiedere la conversione di cui all’art. 73, comma 2, CCII? Possono, sennò, svolgere intervento nelle procedure singolari eventualmente azionate dalla banca? E i nuovi creditori che facoltà hanno?
Come è facile capire, sono problemi di non poco momento, cui solo la elaborazione pretoria potrà dare risposte convincenti.
Grazie per la attenzione!
[1] La disposizione compare in numerosissimi istituti del Codice della crisi e delle leggi precedenti. Vedi ad esempio, nel CCII, artt. 75, comma 2; 85, comma 5; 88, comma 1; 240, comma 4.
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