Diritto Bancario e Finanziario
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22804 - pubb. 11/01/2019
Cessione di azienda bancaria e mancata inclusione nello stato passivo del TFR e applicazione dell’art. 2112 c.c.
Cassazione civile, sez. IV, lavoro, 03 Gennaio 2005, n. 36. Pres. Mileo. Est. Cellerino.
Cessione di azienda bancaria – Rapporti di lavoro – TFR – Mancata inclusione nello stato passivo – Effetti
Cessione di azienda bancaria – Continuazione dell'attività – Accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione – Applicazione dell’art. 2112 c.c. – Esclusione
In caso di trasferimento d'azienda bancaria, il cessionario non può opporre la mancata inclusione nello stato passivo degli accantonamenti del tfr anteriori alla cessione, perché solo all'atto della risoluzione del rapporto si realizza il momento costitutivo del diritto del lavoratore a tale trattamento. (v. ex multis. Cass., 27 agosto 1991, n. 9189; 14 dicembre 1998, n. 12548; 13 dicembre 2000, n. 15687; 1 ottobre 2003, n. 14657) e, viceversa, decorre l'obbligazione del datore di lavoro per questa erogazione, verificandosi alla suddetta scadenza le condizioni di responsabilità del debitore (v. Cass. 19 gennaio 2000, n. 600).
L’emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata e nel corso della consultazione sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione, ai lavoratori il cui il rapporto di lavoro continua con l'acquirente non trova applicazione l'art. 2112 cod. civ., salvo che dall'accordo risultino condizioni di miglior favore. (massima ufficiale)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vincenzo MILEO - Presidente -
Dott. Francesco Antonio MAIORANO - Consigliere -
Dott. Alessandro DE RENZIS - Consigliere -
Dott. Giuseppe CELLERINO - Rel. Consigliere -
Dott. Vincenzo DI CERBO - Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
Il sig. F.S. ricorre per cassazione nei confronti delle società "già Banco di Sicilia S.p.A.". "Banco di Sicilia; Società per Azioni" e "Capitalia S.p.A.. già Banca di Roma Società per Azioni". illustrando tre motivi d'impugnazione, riepilogati con la memoria ex art. 378, cod.proc.civ., avverso la sentenza 30 maggio - 15 ottobre 2002 della Corte d'appello di Palermo che, confermando quella di primo grado, ha rigettato l'appello proposto contro il Banco di Sicilia SpA per ottenerne la condanna a ricalcolare il trattamento di fine rapporto non essendo stato incluso, nella base di computo. il compenso per lavoro straordinario continuativamente prestato. fin dall'assunzione. presso la Cassa di risparmio V.E. per le Province Siciliane e poi presso la Sicilcassa S.p.A.. da cui era passato, in seguito alla sua liquidazione coatta amministrativa, alle dipendenze del Banco di Sicilia spa, in forza dell'atto di cessione delle attività e passività del 6 settembre 1997.
La sentenza d'appello ha reputato, interpretando l'atto di cessione delle attività e passività del 6 settembre cit., stipulato tra la Sicilcassa in liquidazione coatta amministrativa ed il Banco di Sicilia, che fra le parti non fosse intervenuta, come pretendeva l'ex dipendente, una cessione d'azienda, secondo quant'anche evidenziato dalla sentenza n. 9174/'97 di questa Corte, non essendo stata data la prova che tale trasferimento aveva concretizzato, tra l'altro. "un compiuto strumento d'impresa", tenuto anche conto dell'esistenza di differenti tipologie di cessione, le cui fattispecie si diversificano nell'oggetto in conformità al testo legislativo (art. 90. 2° co., T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia - d.lgs. 1° settembre '93. n. 385 - "I commissari, con il parere favorevole del comitato di sorveglianza e previa autorizzazione della Banca d'Italia, possono cedere le attività e le passività, l'azienda, rami d'azienda nonché beni e rapporti giuridici individuabili in blocco. La cessione può avvenire in qualsiasi stadio della procedura, anche prima del deposito dello stato passivo: il cessionario risponde comunque delle sole passività risultanti dallo stato passivo...").
Secondo la Corte territoriale quest'interpretazione era avvalorata non soltanto dalla formula dell'intestazione: "Atto di cessione di attività e passività", quanto dall'espresso rinvio, nel testo contrattuale (art. 2, 1° co.), all'art. 90. 2° co., cit., in relazione. rispettivamente, alla cessione e all'acquisizione ("cede ... rileva") delle sole attività e passività esistenti alla data del 6 settembre. "fatto salvo quanto previsto ai successivi commi 3°, 4°, e 5°", precisando quest'ultimo: "In ogni caso la cessionaria risponde delle passività oggetto della presente cessione solo nella misura in cui esse risultino dallo stato passivo ai sensi del citato art. 90, 2° co., del T.U.", oltretutto non trovando applicazione, in virtù del 5° comma dell'art. 47. 1. n. 428/'90 - Legge comunitaria per il 1990 - l'art. 2112, cod.civ., all'epoca vigente (nel testo dei primi tre commi sostituiti dal 3° comma di detto articolo 47), concernendo tale trasferimento un'impresa "nei confronti della quale vi sia stata ...emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa...".
Dopo aver escluso che altra soluzione potesse basarsi sulle disposizioni del d.l. n. 292 del 9 settembre 1997, inerente la crisi della Sicilcassa e la sua soluzione, la Corte palermitana, premesso che il credito fatto valere dal S. non era incluso nello stato passivo, ha rigettato la pretesa, anche perché egli non aveva coltivato, in sede d'opposizione, la domanda, negatagli dai Commissari liquidatori, avanzata sul punto nel settembre '98. dovendosi altresì scartare la tesi secondo cui il tfr matura solo all'atto della cessazione del rapporto, stante la pacifica ammissibilità di azioni di accertamento, in considerazione, come confermato anche da questa Corte, dell'intervenuto mutamento dell'art. 2120. cod.civ..
Quanto, infine, alla pretesa integrazione del tfr con il compenso per lavoro straordinario effettuato durante la sua occupazione presso il Banco, la sentenza, rifiutata, con l'introduzione del tfr al posto dell'indennità di anzianità, la vigenza di un principio generale di onnicomprensività, giustificato dalla precedente normativa, ha respinto anche quest'integrazione, commentando la clausola contrattuale che, in tesi, non prevede espressamente l'inserimento di questo emolumento nel trattamento di fine rapporto.
Il Banco di Sicilia, Società per Azioni, premesso il documentato sviluppo successorio intervenuto con atti notarili del 18 e 21 giugno 2002 (da Banco di Sicilia SpA a in seguito a fusione per incorporazione, a Banca di Roma, società per azioni, denominata dal 1.7.2002 Capitalia società per azioni: da Banca di Roma società per azioni, (già ramo d'azienda Banco di Sicilia SpA) a Magliocco Finanziaria Società per Azioni, denominata dal 1.7.2002 Banco di Sicilia Società per Azioni) si é costituito con controricorso -notificato anche alla spa Capitalia, qui rimasta ritualmente intimata- contestando partitamente le opposte deduzioni, sviluppate in cinque motivi (avendone duplicati alcuni), integrati con memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la difesa del ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 2120. cod.civ., e dell'art. 2 della 1. 29.5.1982, n. 297. nonché difetti di motivazione "concernenti l'insorgenza del diritto al trattamento di fine rapporto (con l'inclusione dello straordinario svolto: n.d.r.) e l'avvenuto pagamento di altre indennità senza accertamento in sede fallimentare", sostenendo, conformemente alle sentenze nn. 9189/'91; 12548/'98, 15687/2000 di questa Corte e al suo "costante indirizzo". che il Giudice d'appello, posto che "il diritto al trattamento di fine rapporto, come la vecchia indennità di anzianità, si perfeziona solo alla cessazione del rapporto", sussistendo, in precedenza, "una mera aspettativa" (tutelabile solo con azioni di mero accertamento e non di condanna, tranne particolari ipotesi) "erroneamente affronta congiuntamente... (essendo ben distinte) la questione relativa alla natura del trattamento di fine rapporto e al perfezionamento del diritto all'emolumento con quella concernente il rapporto fra la norma che disciplina le forme di cessione in materia bancaria (..) e l'art. 2112, cod.civ.". obiettando che il trattamento di fine rapporto maturato "non era configurabile come passività esistente... essendo costituito dalla mera somma degli accantonamenti contabili..", da quantificare alla cessazione del rapporto.
Aggiunge la difesa del S. che "dalla lettura dell'art. 2120, cod.civ., emerge che nel sistema di rivalutazione previsto, se sono precostituite le percentuali sull'indice di aumento del costo della vita, non lo é certamente l'indice stesso, il cui valore sarà noto solo alla data di cessazione del rapporto di lavoro, anch'essa ignota" e. dopo aver osservato che "é giuridicamente irrilevante la circostanza" che egli, pur avendo insinuato tale credito nel passivo della Sicilcassa in liquidazione coatta amministrativa, non aveva poi proposto opposizione, stante il contegno del Banco che si era "univocamente comportato come unico debitore", limitandosi, senza contestare la pretesa, a negare in tempo non sospetto i presupposti di costante continuità, periodicità e obbligatorietà del compenso e liquidandogli per contro quello per ferie pregresse non godute, conclude respingendo l'ipotesi dell'intervento del Fondo di garanzia, discusso dalla decisione, previsto in caso d'insolvenza datoriale, non essendo il suo credito, alla cessazione di quel rapporto, maturo e, in ogni caso, esigibile.
Con il secondo mezzo d'impugnazione, prospettando la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363, cod.civ., in relazione all'interpretazione dell' "Atto di cessione di attività e passività" del 6 settembre 1997: degli artt. 2112, cod.civ.; 90 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 e del d.l. 8 novembre 1997, n. 292 convertito nella 1. 8 novembre 1997, n. 388, e dell'art. 47, 5° co., 1. 29 dicembre 1990, n. 428, oltre difetti di motivazione per la "mancata valutazione di atti ed elementi decisivi ai fini della configurazione dell'operazione negoziale di trasferimento dell'azienda Sicilcassa al Banco di Sicilia, quale cessione d'azienda ai sensi dell'art. 2112, cod.civ.", la difesa del Sutera invoca l'applicazione di questa norma, definita "di garanzia", sostenendo che il Giudice d'appello, facendo malgoverno delle norme suindicate, non ha considerato che era il Banco l'unico debitore del credito da trattamento di fine rapporto, poiché non essendo tale credito ancora maturato a carico della Sicilcassa, ciò aveva impedito il sorgere di una responsabilità solidale.
In questo quadro contesta, pertanto. l'interpretazione data dalla Corte territoriale all'atto di cessione, addotta "limitando l'indagine solo ad alcune clausole", posto che all'intenzione delle parti non corrisponde "la formale qualificazione giuridica attribuita all'operazione", trattandosi di un vero e proprio trasferimento d'azienda attuato per "assicurare una continuità nell'attività dell'impresa" Sicilcassa che, mantenendo tale denominazione, costituì una divisione del Banco, come dimostravano sia la conclamata volontà di salvaguardare "gli interessi dei depositanti e della clientela", sia i Protocolli d'intesa del 5 settembre con le OO.SS., indicati al n. 6 dell'Atto, in forza del quale i dipendenti trasferiti"...continuano il rapporto di lavoro con il Banco di Sicilia, conservando gli attuali inquadramenti e retribuzioni in atto.." (ricorso, pgg.38 e ss.).
Reclamando, quindi, l'omessa valutazione complessiva delle clausole contrattuali in forza delle quali il Banco, tra l'altro, acquisiva "i rapporti contrattuali, nonché ogni altro rapporto o sopravvenienza attiva o passiva, anche di natura tributaria, riconducibile alle attività e passività trasferite" (ivi, pg, 42), parte ricorrente denuncia la mancata applicazione dell'art. 2112, cod.civ., di natura imperativa per il cessionario tenuto al soddisfacimento del debito, altrimenti eludibile, richiamando la giurisprudenza di Cass., nn. 8621/'01; 8617/'01; 14568/'99; 4010/'98; 9174/'97, nel caso in cui "il nuovo imprenditore diventa titolare del complesso organizzato di beni nel suo nucleo essenziale" e ricorda che il 9 settembre, immediatamente dopo l'accordo negoziale, la vicenda fu oggetto di una specifica regolamentazione legislativa (d.l. 292/'97, cit.) che, nell'ottica di un futuro assetto sindacale dei rapporti di lavoro, cautelava il personale Sicilcassa "mantenendo il trattamento economico e normativo di spettanza dell'impresa di provenienza.." (in neretto sottolineato nel testo: n.d.r.) ed assegnando il termine di 90 giorni "dalla cessione dell'azienda bancaria in crisi" (idem) per le dovute informative alle parti sociali, secondo le previsioni dell'art. 47, 1° co., 1. n. 428/'90 (legge comunitaria, cit.), "che si applica -ribadisce il ricorrente- in via esclusiva ai trasferimenti d'azienda".
Per altro, aggiunge la difesa del S., la dottrina ha, dall'esperienza, ricavato che "le cessioni d'attività realizzano quasi sempre nella prassi il trasferimento sostanzialmente integrale del patrimonio dell'impresa e costituiscono vere e proprie cessioni di azienda.", e in questo contesto, ribadisce la contraddittorietà del contegno del Banco che, mentre gli ha riconosciuto l'indennità per ferie non godute "relative agli anni precedenti" in costanza di rapporto con Sicilcassa, non ha inteso corrispondergli l'integrazione richiesta del trattamento di fine rapporto con riferimento esclusivo allo straordinario, ma non anche in relazione alle altre componenti del tfr, maturati prima della liquidazione della Sicilcassa.
I primi due motivi, meritano, ad avviso del Collegio, una trattazione congiunta, ruotando intorno alla questione dell'identificazione del soggetto debitore della prestazione dedotta in causa, in considerazione del bilanciamento dell'art. 2112, cod.civ., riguardato nel contesto derivato dalla legge comunitaria per il 1990 (art. 47, 5° co., 1. 29 dicembre 1990, n. 428), con l'art. 90 della legge bancaria.
Così definito il tema controverso, rispetto alla decisione impugnata, condivisa e apprezzata dalla difesa della parte intimata, ritiene il Collegio che la prima indagine da compiere vada rivolta all'identificazione della reale natura dell'atto di cessione, ovvero se la motivazione della sentenza della Corte territoriale sulle ridette questioni resista (o non) alle censure trascritte nel secondo motivo in ordine alla correttezza dell'interpretazione datane dalla Corte territoriale, tenuto conto dell'ambito dell'indagine, i cui "paletti" sono costituiti, come appena detto, rispettivamente dall'art. 2112, cod.civ., e dall'art. 90, legge bancaria, da leggere nella prospettiva del quinto comma dell'art. 47 della 1. 29 dicembre 1990, n. 428 (legge comunitaria per il 1990).
Al fine, vanno premessi i risultati cui questa Corte é pervenuta per definire i limiti del suo intervento censorio in tema di difetti di motivazione a fronte di censure che involgono l'interpretazione dei contratti.
In breve, si deve concludere che il controllo della Corte di Cassazione sulla motivazione non le consente di intaccare il convincimento espresso dal Giudice di merito, ma solo di apprezzare quelle censure che evidenziano segnali d'ingiustizia della decisione, perché la denuncia (e poi il riscontro) del difetto lamentato si riflette su un punto decisivo, "tale cioé che se il relativo errore non fosse stato commesso il giudizio sarebbe potuto essere diverso". (v. SS.UU. 13 gennaio 1997, n. 265; Cass., 27 ottobre 1995, n. 11154; 2 aprile 2002, n. 4678; Cass 18 settembre 2000, n. 12308; 3 agosto 1999, n. 8383).
Orbene, il motivo di ricorso contesta il risultato dell'interpretazione della volontà contrattuale sotto il profilo che non sono state analizzate, essenzialmente, due circostanze che, se tenute presenti, potevano influire sul giudizio espresso al riguardo.
Il primo elemento riguarda il decreto legge 9 settembre 1997, n. 292, pubblicato ad immediato ridosso dell'atto di cessione, in seguito alle deliberazioni del Consiglio dei Ministri del 5 e 8 settembre - così il preambolo -, praticamente "a mercato bancario chiuso", come é stato ricordato nel corso della discussione orale, per prevenire il crollo economico-finanziario della Sicilcassa e favorirne le operazioni di salvataggio, in via di soluzione.
Il secondo, che si innesta sul primo, é costituito dal dato storico dalla necessità di preservare l'unità operativa e funzionale della Sicilcassa, trasformata in "divisione del Banco di Sicilia", dove confluirono gli ex dipendenti della Sicilcassa, mantenendo nel complesso inalterata la struttura operativa originaria.
Mentre del primo aspetto, ritenuto "fuorviante" dalla sentenza, essendo destinato ad operare in un periodo successivo alla "cessione", la Corte palermitana offre un'interpretazione de futuro (esclusiva "funzione di evitare per il futuro che i dipendenti provenienti dalla Sicilcassa siano esposti ad un peggioramento della regolamentazione normativa e retributiva..."), di cui al Collegio non é dato di cogliere l'intimo significato, se non per la sua ridondanza, peraltro giustificata dall'esercizio dell'attività bancaria, del secondo non si fa alcun cenno in sentenza, incorrendo, all'evidenza, nell'omessa considerazione di un significativo elemento di valutazione, destinato a pesare sull'economia del rapporto.
Come hanno già avuto modo di sottolineare due autorevoli sentenze di questa Corte (15 settembre 1997, n. 9174 e 20 aprile 1998, n. 4010, cui si sono accodate altre successivamente: v. ad es. 20 settembre 2003, n. 13949) in tema di successione bancaria in seguito a liquidazione coatta amministrativa, dove anche lì erano in gioco questioni di natura giuslavoristica, "l'ipotesi relativa alla cessione di tutte le attività e le passività della banca posta in liquidazione coatta, infatti, non é, di per sé, indice della cessione dell'intera azienda, ben potendo gli elementi patrimoniali attivi e passivi, ancorché ceduti in blocco ad un unico soggetto (che acquista le attività e si accolla le passività), essere considerati in senso atomistico, in quanto riferibili ad un organismo ormai non più funzionante..., (mentre) occorre ribadire, .., in presenza di un atto di cessione delle attività e delle passività della banca, (che) spetta ancora una volta al giudice di merito verificare in concreto, in base all'interpretazione della volontà negoziale desumibile dalle clausole contrattuali e da ogni altra circostanza di fatto, secondo i criteri dettati dagli artt. 1362 e segg. c.c., se sia stata posta in essere la cessione dell'azienda, oggetto dell'attività produttiva dell'impresa di credito posta in liquidazione coatta amministrativa, oppure se sia stata attuata una semplice liquidazione finale degli elementi patrimoniali senza alcun legame funzionale fra i medesimi".
Questo contesto deve, d'altra parte, come già più sopra segnalato, essere confrontato con le disposizioni surrichiamate (art. 2112, cod.civ., nel testo introdotto dall'art. 47, 3° co. cit., che ne sostituì gli originali primi tre commi; art. 47, 5° co., cit.) al fine del loro coordinamento con l'art. 2120. cod.civ..
Com'é noto l'originario art. 2112 assicurava, in caso di trasferimento d'azienda, una tutela rafforzata del lavoratore solo qualora i crediti maturati risultassero dai libri contabili o dal libretto di lavoro o fossero altrimenti conosciuti dall'imprenditore acquirente, che ne rispondeva in solido con l'alienante.
L'intervento dell'art. 47, cit., sul testo originario del 2112, ha vieppiù accentuato la tutela dei lavoratori ceduti, dando attuazione alla direttiva del Consiglio delle Comunità Europee n. 187 del 14 febbraio 1977, concernente il "riavvicinamento delle legislazioni degli stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti".
L'origine comunitaria della legge nazionale innovativa dell'art. 2112 impone di definirne i contenuti in conformità alla direttiva del Consiglio, alla giurisprudenza della Corte di Giustizia e al principio secondo cui il giudice nazionale deve uniformarvisi in considerazione della prevalenza dell'ordinamento comunitario su quello nazionale, come riconosciuto dalla Corte Costituzionale (v. sentenze nn. 47/'85; 113/'85; 389/'89) e affermato dalla Corte Giustizia 9 marzo 1978, in causa n. 106/77).
In particolare, la suddetta direttiva aveva previsto (art. 3, punto 1. prima parte) che, nel caso di trasferimento d'azienda ad un nuovo soggetto imprenditore. "i diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento... sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario".
D'altronde, la Corte europea ha affermato nella sentenza 11 luglio 1985 in causa n. 105/'84, resa in sede di procedura di interpretazione pregiudiziale, che le disposizioni della direttiva 77/187 evidenziano che essa ha lo scopo di "garantire la salvaguardia dei diritti dei lavoratori in caso di cambiamento di datore di lavoro, consentendo loro di restare alle dipendenze del cessionario nella stessa situazione convenuta con il cedente".
Orbene l'esame complessivo dei primi tre commi dell'art. 2112 (1° "In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con l'acquirente ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano"; 2° "L'alienante e l'acquirente sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione dell'alienante dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro"; 3° "L'acquirente é tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi, previsti dai contratti collettivi anche aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa dell'acquirente") rende evidente che, in esplicita attuazione della direttiva, non tanto é stato individuato un soggetto debitore accanto a quello originale (presente anche nel testo precedente), quanto é stato abolito il requisito, già previsto a favore dell'acquirente, della conoscenza/conoscibilità del debito, risultante dai libri dell'azienda trasferita o dal libretto di lavoro.
Ciò in espressa sintonia con la sentenza della Corte di Giustizia 10 luglio 1986, in causa 235/84, che aveva condannato lo Stato italiano proprio per la permanenza, all'epoca della decisione e in conseguenza della mancata attuazione della direttiva comunitaria, dell'originaria norma dell'art. 2112, che prevedeva l'accennata limitazione di responsabilità.
In questo contesto interpretativo (v. ad es., Cass. 6 novembre. 2003, n. 16673; 20 settembre 2003, n. 13949; 16 maggio 2002, n. 7120; 21 marzo 2001, n. 4073; 19 dicembre 1997, n. 12899) si pone il problema dell'interferenza, sull'art. 2112, del 5° comma dell'art. 47, cit..
Esso stabilisce, per quanto qui interessa: "Qualora il trasferimento (dell'azienda) riguardi.... imprese nei confronti delle quali vi sia stata...... emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione, ai lavoratori il cui il rapporto di lavoro continua con l'acquirente non trova applicazione l'art. 2112 cod.civ., salvo che dall'accordo risultino condizioni di miglior favore".
Il problema, già affrontato da questa Corte in alcune sentenze (v. Cass. 12 maggio 1999, n. 4724; 8 settembre 1999, n. 9545; 21 marzo 2001, n. 4073; 16 maggio 2002, n. 7120; 6 novembre 2003, n. 16673), consente di affermare, conclusivamente, nel rispetto del principio più volte affermato dalla Corte di giustizia (v. sentenza 24 settembre 1998, n. 111) secondo cui il Giudice nazionale ha l'obbligo di adottare, tra diverse possibili letture di una norma interna, quella più rispettosa del diritto comunitario, tanto più che la stessa Corte di Giustizia (sentenza 7 dicembre 1995, causa Spano) lo ha ritenuto in contrasto con la direttiva comunitaria, che "l'art. 47, comma 5, 1.n.428 del 1990 esclude bensì l'applicabilità dell'art. 2112, cod.civ., nel senso che esso permette modificazioni peggiorative del trattamento dei lavoratori quando venga trasferita l'azienda di un'impresa insolvente. Tuttavia il potere modificativo dello imprenditore cessionario non é senza limiti, ma deve essere esercitato nei modi già previsti dall'ordinamento interno. Ciò comporta che, trasferita l'azienda di un'impresa ammessa al concordato preventivo, il trattamento dei lavoratori, il cui rapporto continua con l'impresa acquirente, non é rimesso alle determinazioni unilaterali del nuovo imprenditore, il quale, svincolato da ogni impegno assunto dal suo dante causa, possa ad libitum riformare il contenuto dei preesistenti rapporti di lavoro. Al contrario, il trattamento anteriore alla cessione é conservato, e può essere mutato anche in peggio solo con un nuovo e regolare contratto, collettivo o individuale" (sentenza n. 4724/'99, cit., alla cui motivazione si rimanda per i passaggi che danno luogo al qui condiviso principio di diritto).
Resta, a questo punto, da domandarsi, nel rispetto dell'articolo 2112, cod.civ., come sopra valorizzato, quanto incida, sui richiamati principi di salvaguardia del lavoratore, il disposto dell'art. 90. 2° co., della legge bancaria, secondo cui "il cessionario risponde comunque delle sole passività risultanti dallo stato passivo", ovvero, in altre parole, se questa disposizione sia rivolta a tutelare il cessionario dall'esistenza di posizioni debitorie ignote, perché non iscritte nello stato passivo, contratte dall'impresa ceduta verso terzi, ossia verso contraenti "esterni" all'azienda, o abbia effetto, come sembra desumersi a prima vista dal dettato normativo, anche nei confronti del personale ceduto.
La risposta non può che essere negativa, rispetto a questo secondo corno del dilemma, dovendosi ritenere la previsione dell'art. 2112 norma affatto speciale, essendo posta a tutela dell'uomo lavoratore, soprattutto se riguardato nell'ottica del d.l. del 9 settembre 1997, n. 292, di cui s'é detto, rispetto alla necessità di garantire uno scudo economico finanziario per tutelare l'impresa cessionaria da manipolazioni occulte e fuorvianti.
Oltretutto, la "forza lavoro", brutalmente intesa, non é una mera espressione contabile o un dato facilmente occultabile.
Pertanto, una volta che si dovesse ritenere verificato, nella fattispecie ancora sub iudice, un trasferimento d'azienda, il cessionario non può opporre la mancata inclusione nello stato passivo degli accantonamenti del tfr anteriori alla cessione, oltretutto perché solo all'atto della risoluzione del rapporto si realizza il momento costitutivo del diritto del lavoratore a tale trattamento. (v. ex multis. Cass., 27 agosto 1991, n. 9189; 14 dicembre 1998, n. 12548; 13 dicembre 2000, n. 15687; 1 ottobre 2003, n. 14657) e, viceversa, decorre l'obbligazione del datore di lavoro per questa erogazione, verificandosi alla suddetta scadenza le condizioni di responsabilità del debitore (v. Cass. 19 gennaio 2000, n. 600).
Infine, con il terzo e ultimo motivo, l'istante assume la violazione e falsa applicazione degli artt. 2120, cod.civ. e 4, 11° co., 1. 297/'82, nonché degli artt. 1362 e 1363, cod.civ. in relazione all'art. 44, cenl ACRI 19 dicembre 1994, e ipotizza difetti di motivazione "in ordine all'esclusione dello straordinario tra i compensi computabili ai fini del trattamento di fine rapporto", avendo "la Corte d'appello.. limitato.. la propria indagine circa la computabilità del lavoro straordinario.. 'al periodo successivo alla data della cessione(6.9.97) e sino al collocamento a riposo (1.11.97), per il quale il Banco.. risponde in proprio", trascurando il periodo lavorativo anteriore.
Sostiene, al riguardo, che, per il periodo precedente al 1° giugno 1982, retto dalla disciplina anteriore alla riforma dell'indennità di anzianità, trova applicazione il regime transitorio introdotto dall'art. 5.1.29 maggio 1982, n. 297, e, in particolare, argomenta che gli doveva essere riconosciuta, nel calcolo del trattamento di fine rapporto, anche la quota di straordinario percepito continuativamente in forza della disciplina legale, mentre, successivamente alla riforma, occorreva analizzare la disciplina contrattuale collettiva, che può derogare in peius o in melius quella legale, tenendo conto che in questo sistema vige, diversamente dal primo, retto dalla continuità del compenso, quello della non occasionalità e dell'esplicita esclusione dei compensi da espungere espressamente dal tfr, non essendo sufficiente la mancata inclusione nell'elenco, per altro sussumibile in altre previsioni più generali, quali i "compensi percentuali" o le "indennità di carattere continuativo e di ammontare determinato che non abbiano natura di rimborso spese ed escluse le indennità di rischio, il concorso spese tranviarie - peraltro computabili ai fini, prima, dell'indennità d'anzianità e, in seguito, del tfr - e gli assegni familiari" (art. 39 o 40 o 44, secondo i cennll dell' '80, '83 e '94).
Aggiunge (v. ricorso, pg. 83), in proposito, che, a fronte della "semplice mera conferma di previgenti disposizioni contrattuali nulle" la "semplice riproduzione delle norme contrattuali previgenti da parte delle norme contrattuali introdotte a seguito dell'entrata in vigore (della riforma), non era idonea a realizzare alcuna valida deroga alla norma di cui all'art. 2120 c.c." e, riallacciandosi alla sentenza di questa Corte n. 1255/'98, disapprova la decisione impugnata laddove afferma che, sulla base dell'art 4. 11° co., 1. 297/'82, "la disposizione collettiva erroneamente censurata dal S. non si limita a confermare (nel senso di rinviare per relationem a) precedenti clausole pattizie nulle, ma contiene una regolamentazione positiva completa dell'istituto, attuata con l'analitica indicazione delle voci incluse ed escluse dalla nozione di retribuzione.." che denotano. "in modo univoco, anche per la minuziosità dell'elencazione, l'esistenza di una nuova esplicita volontà dei contraenti di derogare alla norma".
Reclama, infatti, che il testo del cenl dell' '83, rispetto a quello dell' '80 (riprodotti nel ricorso: pg. 86) a cavallo della riforma dell' '82, pur "limita(ndosi) a riportare testualmente la previgente disposizione", non esclude, per ciò stesso, l'incidenza del trattamento per il lavoro straordinario nel tfr, come prima avveniva per l'indennità di anzianità, posto che l'interpretazione data dalla Corte palermitana sulla rimozione del compenso per lavoro straordinario dal tfr non tiene conto che tale voce non é individuata dalla disposizione contrattuale, ma é stata "desunta" dalla mancata inclusione nel cenl che, all'opposto, ha ritenuto di dover intervenire espressamente (per espungerlo) sull'influenza, anche in considerazione della "norma di chiusura" costituita dalla lettera f) della contrattazione, secondo la quale "rientra nel concetto di retribuzione ogni altra indennità a carattere continuativo e di ammontare determinato che non abbia natura di rimborso spese...", né potendosi ritenere, come enunciato dalla sentenza, che l'espressa inclusione nel tfr delle spese tranviarie e dell'indennità di rischio (4° co.) costituisca la sola eccezione alla tesi della tassatività dell'elencazione, tale specificazione dovendosi integrare con quanto regolato dal suo primo comma, che non considera tali istituti "retribuzione".
La difesa ricorrente argomenta, infine, che neppure la mancanza di predeterminazione del compenso, su cui fa affidamento il Collegio palermitano per escluderne l'ammontare dal computo del tfr, giustifica l'interpretazione datane, atteso che la ridetta valutazione va fatta a posteriori, come conferma la giurisprudenza, al fine di accertarne l'obbligatorietà, continuità e determinatezza, oltretutto rientrando questa fattispecie nella nozione di "compensi percentuali". definiti componenti della "retribuzione" dalla disciplina collettiva, in considerazione delle modalità di calcolo percentuale, in base al tempo della prestazione (dal 25% al 65% della retribuzione oraria), la cui inclusione é stata apoditticamente respinta dal Giudice d'appello assumendo una presunta, ma indimostrata, diversità concettuale fra le due categorie, peraltro diversamente apprezzata da numerose sentenze della Corte, che hanno sancito la computabilità dello straordinario e delle retribuzioni maggiorate per lavoro festivo, notturno, ecc., ai fini del computo nel trattamento di fine rapporto e di altri istituti retributivi indiretti, come evidenziato dalle SS.UU. nella sentenza n. 11945/'90 e confermato da Cass., n. 13440/'99.
L'esame di quest'ultimo motivo induce alle seguenti considerazioni.
Premesso, in linea generale, che l'analisi della disciplina che si é andata consolidando intorno al concetto dell'indennità d'anzianità nella formulazione dell'art. 2120, vecchio testo, ha condotto, anche per effetto dell'art. 2121, cod.civ., con l'inserimento di "ogni altro compenso di carattere continuativo", ad affermare l'esistenza del principio, condiviso da dottrina e giurisprudenza, di onnicomprensività "rigida", per contro i canoni che regolano il trattamento di fine rapporto, introdotto dalla legge 29 maggio 1982, n. 297, hanno consentito, pur nella scia di tale nozione, un suo ammorbidimento, assegnando alle parti sociali ampia libertà di scelta circa la determinazione della retribuzione da prendere a base di calcolo.
Infatti, con l'avallo della sentenza delle Sezioni Unite 15 dicembre 1990, n. l 1945, si confermò il principio, in materia di calcolo dell'indennità di anzianità, secondo cui il compenso per il lavoro straordinario purché non di carattere eventuale e saltuario, "costituisce una direttiva dell'Ordinamento giuridico", in base, tra l'altro, alla previsione contenuta nell'art. 2121, cod.civ., che assicurava l'inserzione di "ogni altro compenso di carattere continuativo", con esclusione dei soli rimborsi di spese.
Argomentano, inoltre, le Sezioni Unite appena citate che "la circostanza che il lavoro straordinario sia stato prestato in modo continuativo é di per sé sufficiente, ai fini di cui trattasi, per considerarlo quale componente costante del rapporto di lavoro..", aggiungendo, "sul piano dei principi... che la modifica degli artt. 2120 e 2121, cod.civ., operata dalla legge 29 maggio 1982, n. 297, ha una portata afferente la disciplina globale del trattamento di fine rapporto, introdotta da tale legge, allo specifico scopo di superare, tra l'altro (i limiti al calcolo degli aumenti dell'indennità di contingenza o di emolumenti di analoga natura imposti dall'art. 1 del d.l. 1° febbraio 1977, n. 12, ...)". senza che tutto ciò evidenzi, "pur nella diversità di formula adottata nella suddetta legge n. 297 del 1982, l'accezione di un concetto di retribuzione diverso e più ampio rispetto a quello ampiamente onnicomprensivo già esistente nel precedente testo dell'art. 2121 cod.civ., sicché non é traibile alcuna conclusione circa un'ipotizzabile diversità di regime giuridico ovvero d'interpretazione di norme, e di contemperare altresì le esigenze economiche che tale provvedimento aveva affrontato."
É appena il caso di notare che queste affermazioni, avvalorate e condivise dalla giurisprudenza successiva, collidono apertamente con quanto sostenuto dalla Corte territoriale laddove afferma perentoriamente (sentenza, pg. 16), a proposito dell'esclusione dello straordinario come "compenso percentuale", che "le maggiorazioni.. per lavoro notturno o per lavoro festivo, calcolate con il medesimo sistema... é pacifico che non rientrano nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto" (v., infatti, contra: Cass. 2 dicembre 1999, n. 13440; 1° settembre 2003, n. 12760; 5 novembre- 2003, n. 16618)
D'altra parte, con la giurisprudenza successiva (v, ex multis, Cass., 21, gennaio 1994, n. 581; 12 settembre 1995, n. 9627; 5 agosto 1996, n. 7177; 3 settembre 2003, n. 12851) si deve qui affermare, in linea generale che, ai fini del tfr, ex art. 2120, cod.civ., come sostituito dall'art 1 della 1. n. 297/'82, vanno incluse tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale (e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese), con l'effetto di rendere manifesto, nella nozione della retribuzione, anche gli emolumenti per lavoro straordinario che non siano corrisposti occasionalmente, ossia per ragioni del tutto accidentali.
Altro problema, in questa cornice, é quello della rilevanza della disciplina derogatoria al principio di onnicomprensività, legittimamente proponibile dalla contrattazione collettiva in virtù del 2° co., dell'art. 2120.
Si sostiene, infatti, nella sentenza impugnata, condivisa dalla difesa bancaria, che l'uniformità della regola sancita dalla contrattazione collettiva prima e dopo l'intervento della 1. 297, mancando la presa d'atto da parte delle parti sociali dell'intervenuta innovazione legislativa, osterebbe all'inclusione dello straordinario nel tfr, perché non espressamente e nominativamente inserito nella clausola pattizia.
La tesi, che sarebbe accreditata dalla lettura della sentenza n. 1255/98, cit., non tiene conto, però, che in detta pronuncia si faceva questione di una clausola contrattuale, anteriore alla riforma, che non prevedeva il computo del compenso per lavoro straordinario fisso e continuativo ai fini della liquidazione dell'indennità di anzianità (da qui l'accoglimento in parte qua della pretesa da parte della Corte), mentre la contrattazione collettiva successiva s'era richiamata "implicitamente per la definizione della retribuzione normale ai contratti collettivi di categoria del 12.3.1980 e del 23.7.1976, che non prevedevano la inclusione del compenso per lavoro straordinario nella retribuzione normale ai fini suindicati" (così la narrativa di quella sentenza).
Deriva da questa particolare prospettiva che l'interpretazione data ai testi contrattuali dalla Corte d'appello di Palermo si basa su un'argomentazione impropria e, dal punto di vista fattuale, inconsistente, sicché si rende necessario, anche per questo profilo del ricorso, affidare, l'analisi della valenza delle disposizioni contrattuali in argomento ad altro Giudice di merito, anche esercitando, se opportuno e del caso, i poteri istruttori attribuiti dalla legge.
Il ricorso va, pertanto, accolto in tutte le sue articolazioni nei limiti riferiti e, di conseguenza, la cassazione della sentenza impugnata comporta il rinvio della causa ad altro Giudice pari ordinato che si designa, anche per la liquidazione delle spese di questo giudizio di legittimità, nella Corte d'appello di Caltanissetta perché la decida alla stregua dei principi di diritto sopra diffusamente esposti.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d'appello di Caltanissetta.
Così deciso in Roma, il 12 novembre- 2004.
Depositata in cancelleria il 3 GEN. 2005