Societario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 28/05/2024 Scarica PDF
La Cassazione prende posizione sull’impugnabilità delle delibere negative, tra ampliamento dei rimedi e impossibilità per il giudice di sostituirsi alla volontà assembleare
Alessandro Di Blasi, Avvocato in VeneziaSommario: 1. L’ordinanza 22 marzo 2024 n. 7874 della Cassazione: la fattispecie esaminata. - 2. Le tesi contrapposte sull’impugnabilità delle delibere cd. “negative”. - 3. I limiti della potestà del giudicante: verso la sindacabilità delle motivazioni espresse dal socio a corredo del proprio voto. - 4. Conclusioni: l’apertura verso l’impugnabilità delle delibere cd. “negative” e rischio di ingerenza del giudicante nelle competenze dell’assemblea.
1. L’ordinanza 22 marzo 2024 n. 7874 della Cassazione, la fattispecie esaminata
Con l’ordinanza 22 marzo 2024 n. 7874[1], la Cassazione prende posizione sulla possibilità di impugnazione delle delibere assembleari a “contenuto negativo”, accomunando nell’accezione non solo le delibere in cui “sia respinta una proposta” ma anche ogni ipotesi in cui l’assemblea non giunga alla decisione ipotizzata nell’ordine del giorno, ad esempio per assenza dei quorum necessari[2].
Il caso trae origine, nell’ambito di una s.r.l., dall’iniziativa di un amministratore e socio con partecipazione al 50% del capitale sociale, il quale impugnava la delibera negativa di mancata approvazione della proposta di bilancio, sostenendo che l’esito derivava dal voto negativo del socio paritetico[3], espresso in conflitto di interesse e comunque come manifestazione di eccesso di potere e malafede nell’esecuzione del contratto societario, al solo fine di impedire il funzionamento della società con conseguente prospettiva di scioglimento.
Il Tribunale di Bolzano, adito in prime cure, accoglieva parzialmente la domanda attorea annullando la delibera negativa[4] sul presupposto che le motivazioni addotte dal socio dissenziente fossero meramente strumentali al fine di condurre la società allo scioglimento o comunque ispirate ad ottenere un vantaggio personale a discapito dell’altro socio nella trattativa di divisione. Ciononostante il giudicante, ritenendo non applicabile l’art. 2368, comma 3, c.c.[5], rigettava la domanda di sostituzione giudiziale della delibera negativa viziata con una positiva, dal momento che, anche eliminando il voto viziato, non sarebbe stato comunque raggiunto il quorum statutario del 51% richiesto per approvare la delibera[6].
Il gravame proposto veniva respinto, aderendo la Corte trentina all’orientamento secondo cui l’esito dell’impugnazione del rigetto della delibera proposta non può che restare confinato ad un “mero effetto demolitorio”[7] e, precisando, che (nella fattispecie) la redazione del progetto di bilancio direttamente sottoposta da un socio[8] all’altro, non poteva considerarsi illegittima, non ravvisandosi alcuna violazione del dovere di cooperazione e collegialità dell’organo amministrativo.
Seguiva il ricorso per Cassazione dove il ricorrente (nella persona del socio/amministratore dissenziente) impugnava la pronuncia d’appello per aver ritenuto censurabile una delibera di fatto “non assunta” e comunque per non aver esaminato il fatto che l’assemblea dei soci “non ha assunto alcuna deliberazione”, nonché per il fatto che il voto contrario del dissenziente doveva ritenersi tutt’altro che ingiustificato, posto che il bilancio sottoposto dall’assemblea “non era stato previamente approvato dall’organo amministrativo”.
La Suprema Corte, con l’ordinanza in commento, ha rigettato i primi due motivi, accomunando, come detto, le delibere che respingono una proposta all’ipotesi in cui non si giunga ad una delibera per mancanza di quorum, mentre ha accolto il terzo motivo, posto che lo statuto e l’art. 2475, comma 5, c.c., devono considerarsi finalizzati ad attribuire all’organo amministrativo, “nel suo complesso” la paternità dell’approvazione del progetto di bilancio[9].
Su tale premessa, la Cassazione ha ritenuto il voto del dissenziente “legittimamente giustificato”, e per l’effetto ha rigettato l’originaria domanda di invalidità del voto negativo espresso e di conseguente annullamento della delibera a contenuto negativo.
2. Le tesi contrapposte sull’impugnabilità delle delibere cd. “negative”.
L’ordinanza in commento, nella parte motiva, offre importanti spunti di riflessione sull’impugnabilità delle delibere cd. “negative”, prendendo posizione sugli orientamenti sinora espressi, nonché sulla censurabilità del voto espresso in assemblea dal socio, con le conseguenti implicazioni sui limiti della potestà degli organi giudicanti.
Quanto al primo tema, la Cassazione ripercorre le due posizioni antinomiche sinora emerse in dottrina e nel panorama giurisprudenziale.
Da un lato la Suprema Corte rileva che quando trattasi di delibere cd. “negative”[10], il giudice, adito può accertare l’illegittimità di alcuni voti o della decisione, magari a fini risarcitori[11], ma, ragionevolmente, non può annullare una decisione che, di fatto, non c’è, posto che “l’assemblea respinge o non approva una proposta – dunque, delibera di non compiere un certo atto, di non delegare l’organo gestorio a porre in essere un’attività, di non approvare il bilancio, e così via”, risultando “non agevole prospettare le possibilità di sospendere una tale decisione oppure di caducarla giudizialmente”[12].
Dall’altro, analizzando la tesi opposta, il Collegio osserva in senso decisivo che, in questi casi, “se si ritiene pur sempre esistere una manifestazione di volontà dei soci assunta all’esito del procedimento all’uopo previsto dalla legge, negare ogni impugnazione comporterebbe un evidente vuoto di tutela”, così correlando il diritto alla censura al primo comma dell’art. 24 Costituzione.
Pertanto il Collegio, aderendo a quest’ultimo orientamento, che ammette la possibilità di censura delle delibere cd. “negative”, rileva che sono ipotizzabili due soluzioni differenti per cui:
i) il giudice potrebbe “dichiarare illegittimo il rigetto della proposta, con una sentenza di accertamento, dalla quale deriverebbe l’obbligo dell’organo amministrativo di convocare nuovamente l’assemblea su quel dato ordine del giorno”, ma ciò non consentirebbe alcuna tutela “reale”[13] in grado di assicurare piena tutela all’impugnante nell’interesse della società, laddove per usare le parole di Ferri, “il giudice può annullare come illegittima la deliberazione negativa”, ma non può compiere “lui quelle valutazioni che sono connesse all’assemblea”[14];
ii) il giudice, ammettendosi una tutela cd. reale, potrebbe proclamare, con sentenza di accertamento, la diversa volontà assembleare non viziata, purché sia stata formulata non solo la domanda di accertamento di invalidità, “ma anche di accertamento della diversa deliberazione: la sentenza farebbe emergere, così, la decisione effettivamente assunta dall’assemblea”[15]. Accertato il voto negativo illegittimo computato nel quorum deliberativo (conflitto di interessi, insussistenza del diritto di voto, mancanza di delega, abuso del diritto) ed espunto il voto stesso[16], il giudice potrebbe accertare che la deliberazione assembleare diverge da quella proclamata, con la conseguenza che la proposta all’ordine del giorno risulterebbe approvata e non respinta: egli, in altri termini, accerterebbe pure “l’illegittimità della proclamazione del risultato”, conseguentemente dichiarando quella che sarebbe la volontà effettivamente e legalmente espressa dall’assemblea[17].
La Suprema Corte, nell’ordinanza in commento, sembra propendere per quest’ultimo indirizzo rimarcando che si rinvengono anche numerose decisioni di merito favorevoli, posto che nella sostanza si tratterebbe di una vera a propria impugnazione, ai sensi dell’art. 2377 cod. civ.[18], con le medesime forme e limiti, della delibera negativa assunta dall’assemblea e, come tale, imputabile alla società, invocando gli artt. 3 e 24 Cost., che escludono l’ingiustificata disparità di trattamento nella tutela, a seconda che la deliberazione assunta sia positiva o negativa. Alla censura di ingerenza del giudice nell’alveo delle prerogative dell’assemblea (propria del primo orientamento), la Corte rileva che la sentenza del giudice non sarebbe costitutiva, ma soltanto dichiarativa dell’effettiva volontà emersa in assemblea[19] e dunque sempre permessa, per il principio della generale ammissibilità delle sentenze di accertamento. La volontà del giudice non terrebbe affatto luogo di quella assembleare, sostituendosi ad essa: anzi, dichiarerebbe l’effettiva volontà assembleare, con effetto sin dal momento in cui la deliberazione è stata assunta[20].
Dal portato motivazionale, in un’ottica interpretativa costituzionalmente orientata, la Corte sembra avallare l’orientamento di merito ormai predominante e riassunto nel portato dell’ormai celebre ordinanza 28 novembre 2014 del Tribunale di Milano secondo cui “l’annullamento di una delibera negativa non fornisce alcuna tutela all’impugnante o alla società, …poiché è inane togliere effetto ad una delibera che per sua natura non l’ha”, con la conseguenza che il giudice investito della questione “non deve limitarsi a una pronuncia di annullamento, ma deve ripercorrere il procedimento deliberativo e, una volta eliminati i voti illegittimamente esercitati e considerati nel quorum, procedere a registrare il risultato deliberativo che vi è stato e che illegittimamente non è stato proclamato”[21].
Sennonché la pronuncia del giudice (consequenziale all’annullamento) volta ad accertare l’esito della delibera in assenza del voto negativo[22], secondo il Supremo Collegio, necessita di una specifica domanda di accertamento positivo[23], che nella fattispecie (pur azionata in primo grado) non risulta riproposta in appello: con la conseguenza che nel giudizio de quo la Corte non era facoltizzata a procedere, non potendo per l’effetto dichiarare approvato il bilancio[24].
Tanto rumore per nulla verrebbe da dirsi, posto che la presa di posizione della Suprema Corte sull’impugnabilità delle delibere ad effetto negativo sembrerebbe limitarsi ad un mero obiter dictum sulla possibilità che il controllo del giudice possa andare oltre ad un effetto meramente caduca torio.
Se anche così fosse, la portata della decisione non sarebbe affatto secondaria atteso che, secondo la Corte, in caso di delibere ad effetto negativo, non sussistono ostacoli che si frappongono all’esercizio del potere sostitutivo del giudice qualora questi sia chiamato ad una pronuncia di accertamento positivo che, rimosso l’atto di rigetto e rideterminati i risultati della votazione con espunzione dei voti illegittimi, tenga luogo della delibera positiva non approvata[25].
Sennonché l’ordinanza della Cassazione si spinge ben oltre, laddove sembra consentire un sindacato da parte del giudice direttamente rivolto alle motivazioni alla base della volontà espressa in sede assembleare, ma non dalla maggioranza in sé[26] ma addirittura da parte del singolo socio: è opportuno analizzare la pronuncia sul terzo motivo del ricorso.
3. I limiti della potestà del giudicante: verso la sindacabilità delle motivazioni espresse dal socio a corredo del proprio voto.
A suffragio dell’accoglimento del terzo motivo del ricorso, la Suprema Corte precisa, ribadendo un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità e di merito, che l’art. 2475, comma 5, c.c. è finalizzato ad “attribuire all’organo amministrativo, nel suo complesso, la paternità di alcuni specifici atti ritenuti dal legislatore di maggiore portata, anche in funzione, … delle correlate responsabilità dagli stessi derivanti”[27], tra cui quello di redazione del progetto di bilancio.
Nulla da segnalarsi, sembrerebbe, se non fosse che la Corte non esamina nella fattispecie una censura alla delibera di approvazione del bilancio, ma la legittimità o meno della motivazione espressa dal socio dissenziente a corredo del proprio voto negativo espresso in sede di assemblea.
Prima di passare all’esame specifico del ragionamento svolto dal Supremo Collegio, è opportuno ricordare che l’art. 2375 c.c. nell’attuale formulazione, prevede la necessità che si evinca dal verbale assembleare esclusivamente “l'identità dei partecipanti e il capitale rappresentato da ciascuno”, fermo restando che il verbale “deve altresì indicare le modalità e il risultato delle votazioni e deve consentire, anche per allegato, l'identificazione dei soci favorevoli, astenuti o dissenzienti”.
L’unica conseguenza certa è che, dopo la riforma, sia vietato il voto segreto[28], non risultando per converso alcun obbligo per i soci di motivare le proprie scelte di dissenso all’approvazione della delibera e di conseguenza il proprio voto, potendo al più, i soci stessi, esigere “a loro richiesta” che le proprie dichiarazioni pertinenti all’ordine del giorno vengano riassunte in sede di verbale. Ciò perché il socio esercita il voto secondo il personale apprezzamento, ritenendo la maggior parte della dottrina che la tesi secondo cui il voto non sia solo un diritto, ma “un dovere nell’interesse superiore della società, non ha alcun fondamento normativo”[29].
In tal senso la Cassazione si è espressa più volte, precisando che per dissenzienti si intendono i soci che abbiano negato, in qualsiasi forma manifestata in assemblea, il proprio contributo all'approvazione della delibera, attraverso il voto contrario o l'astensione “senza che rilevi la motivazione di tali comportamenti - che può indifferentemente consistere in una diversa valutazione dell'atto rispetto alla maggioranza ovvero in una contestazione di vizi della procedura - in quanto l'art. 2377 c.c. non dà rilievo intrinseco ai motivi del dissenso, ma esclusivamente alla sua manifestazione” (sent. 11 ottobre 2006, n. 21816, vedasi anche sent. 21 novembre 1996, n. 10279).
È alla manifestazione del dissenso che deve guardarsi, non potendosi censurare di per sé la motivazione a corredo dell’espressione del voto, potendo il sindacato del giudice al più concernere il cd. “abuso” (di maggioranza o di minoranza) del diritto di voto in contrasto con il principio di buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.[30], principio che deve “sempre essere osservato anche durante la fase di esecuzione del contratto sociale”[31], individuandosi nell’art. 2373 c.c., “l’espressione di un principio generale a sanzione dell’obbligo di perseguire l’interesse sociale”[32].
Non è questa la sede per analizzare la giurisprudenza formatasi sul cd. “eccesso di potere” in seno alle deliberazioni assembleari, allorquando la delibera “non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società” per abuso della maggioranza[33], o quando sia censurabile la reiterata manifestazione di voto contrario da parte di una minoranza rilevante ai fini della paralisi dell’attività sociale (cd. “minoranza di blocco”)[34], ma è opportuno soffermarsi sull’oggetto della decisione della Corte che, nella fattispecie, sembra travalicare i precedenti in materia, andando ad analizzare se la motivazione adotta dal socio (alla base del proprio dissenso) sia o meno legittima dal punto di vista giuridico.
Il socio dissenziente, infatti, aveva contestato che l’approvazione (rectius: redazione) del bilancio “non è (stata) concordata tra i soci” (entrambi amministratori), eccependo che il progetto di bilancio dovesse essere approvato in sede di consiglio, ma i giudici di merito (ed in particolare la Corte d’Appello di Trento) avevano respinto la censura “considerata la particolarità del caso oggetto di giudizio, contraddistinto dal fatto che i due soci paritetici … erano anche coamministratori della società” di tal che non poteva ritenersi illegittima l’iniziativa del socio proponente di sottoporre all’altro socio direttamente la redazione e approvazione del bilancio[35].
Su tale presupposto, i giudici di merito hanno ritenuto che le motivazioni addotte dal socio fossero meramente “strumentali”, aventi l’unico fine di “impedire l’adozione di una delibera necessaria al funzionamento della società, conducendola allo scioglimento”, presupponendo che l’interesse da perseguirsi sia in ogni caso quello della sopravvivenza della società[36], a dispetto della sua impossibilità di funzionamento, in una sorta di “accanimento terapeutico”[37] nei confronti di un malato terminale.
La Suprema Corte viceversa, come detto, ha ritenuto che la presentazione di un progetto di bilancio non redatto dal consiglio di amministrazione nel suo complesso violi l’art. 2475 c.c. (oltre che la normativa statutaria) e per l’effetto ha evidenziato che il voto negativo del dissenziente non fosse ingiustificato e frutto dell’intento emulativo di paralisi della società, ma “coerentemente giustificato”, con la conclusione che si deve “escludere il carattere abusivo dello stesso” con il conseguente rigetto dell’impugnativa svolta dall’altro socio.
Deve considerarsi, dunque, ammissibile la possibilità da parte del giudice di sindacare direttamente le motivazioni del voto del singolo socio al punto da consentire la verifica se le stesse siano o meno corrette dal punto di vista giuridico?
4. Conclusioni: l’apertura verso l’impugnabilità delle delibere cd. “negative” e rischio di ingerenza del giudicante nelle competenze dell’assemblea.
La decisione della Cassazione di primo acchito stupisce, posto che:
a) da un lato ammette la censurabilità delle delibere cd. “ad effetto negativo”, ipotizzando (qualora richiesto) anche il potere sostitutivo del giudicante di accertare quale sarebbe stato il risultato della delibera con espunzione del voto giudicato illegittimo;
b) dall’altro sembra ammettere la sindacabilità delle motivazioni a corredo del voto del singolo socio, al punto da ritenere che le stesse, se non giuridicamente valide, possano determinare o meno la legittimità della determinazione del socio stesso in assemblea.
Se tali si considerano le premesse, il rischio che il giudice possa ingerirsi nel contesto prettamente assembleare risulta tutt’altro che peregrino, potendo, ad istanza[38], intervenire sulla manifestazione di voto espressa da ciascun socio, per giudicarla come legittima o meno, e conseguentemente arrivare a dichiarare quello doveva essere il vero portato decisionale della delibera assembleare.
Senza negare che la buona fede e correttezza rappresentino un limite applicabile anche al tema degli abusi della minoranza, tuttavia, a rigor di logica, dal percorso argomentativo indicato[39] sorgono dei quesiti che portano a delle risposte inaccettabili sul piano del diritto, salvo aderire integralmente alla teoria istituzionalista dell’interesse sociale[40].
Il socio per evitare il controllo penetrante del giudice diviene obbligato a non motivare la propria espressione di voto? Oppure qualsiasi scelta del socio, compresa la semplice astensione, può essere vagliata dal giudicante per valutare se il comportamento sia legittimo o meno e conseguentemente riformare l’esito di ogni decisione sulla base del presunto interesse sociale? È possibile che tale sindacato sia estensibile anche alle delibere del consiglio di amministrazione ex art. 2388 c.c.[41], come nel caso in cui una parte dei componenti sia espressione di una minoranza qualificata[42]?
Il rischio è di passare da un sistema imperniato sulla generalizzata discrezionalità delle scelte assembleari e sulla business judgment rule in ordine alle scelte degli amministratori, ad uno soggetto alla business judicial review, con un giudice legittimato ad intervenire a gamba tesa sul risultato di ogni delibera e ciò ai fini del perseguimento del (presunto) interesse societario.
A leggere, tuttavia, l’ordinanza della Cassazione in correlazione con i motivi del ricorso di legittimità si evince un percorso logico diverso.
Il Supremo Collegio in realtà ha censurato la decisione del giudice di merito, sul presupposto che l’espressione del voto negativo di un socio per una motivazione che si è appurato (incidentalmente) risultare valida, non può mai di per sé costituire un abuso tale da ritenere illegittimo il voto stesso e tale da consentire la riforma della delibera da parte del giudice.
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che il diniego del socio all’approvazione del bilancio, motivato dal fatto che il relativo progetto non fosse stato approvato dal consiglio nel suo complesso, non potesse considerarsi illegittimo proprio perché, in caso contrario, la delibera di approvazione del bilancio sarebbe risultata annullabile per contrasto con gli artt. 2475, comma 5, c.c. e per violazione dello Statuto[43].
In realtà, nel caso concreto, la Cassazione ha piuttosto evidenziato un limite oltre il quale il controllo giurisdizionale non può spingersi, chiarendo che non può desumersi un abuso nel voto espresso da un socio, ogni qual volta le motivazioni addotte trovino un fondamento giuridico valido.
Ciò non toglie che ammettere un generalizzato controllo da parte del giudice sulla motivazione addotta dal singolo socio in sede di espressione di voto, al punto da determinare una censura di “eccesso di potere” per il semplice fatto che le ragioni siano incidentalmente ritenute illegittime sul piano giuridico, rischia di determinare un’indebita ingerenza nell’ambito riservato all’organo deliberante.
[1] La data è quella della pubblicazione.
[2] Ipotizzandosi tanto l’assenza del quorum costitutivo, quanto di quello deliberativo, così come l’ipotesi in cui tutti i presenti si astengano dal voto. La Corte assume una interpretazione piuttosto ampia dell’espressione. Va segnalato che in dottrina la locuzione viene utilizzata anche in un’accezione più ristretta limitandola alle delibere conclusasi con la maggioranza di voti negativi (così Ferro-Luzzi, La conformità delle deliberazioni assembleari alla legge ed all’atto costitutivo, Milano, 1993). Viceversa secondo Cian, La deliberazione negativa dell’assemblea nella società per azioni, Torino, 2003, 78 ss., i ragionamenti in merito dovrebbero estendersi a tutte le "delibere a contenuto negativo", comprendendosi qualunque reiezione della proposta, purché una votazione abbia avuto luogo (nel senso che i lavori non siano terminati con l'astensione di tutti i partecipanti).
Vedasi in senso parzialmente difforme Centonze, Qualificazione e disciplina del rigetto della proposta (c.d. «delibera negativa»), in Riv. soc., 2007, 422 che al § 1 riassume le varie accezioni in cui è stata intesa la locuzione e sottolinea il fatto che il problema qualificatorio è funzionale all’applicazione di una determinata disciplina, dovendosi indagare sulle “conseguenze applicative che discendono dal negare ovvero dall'affermare l'esistenza di una delibera negativa”.
[3] Anch’egli amministratore ma solo per la straordinaria amministrazione.
[4] Il giudice di prime cure dichiara di condividere la tesi dell’impugnabilità della delibera negativa, richiamando il precedente del Tribunale di Catania del 10 agosto 2007, in Corr. giur., 1998, pp. 397 ss., con nota di Cian, Abus d’´egalit´e, tutela demolitoria e tutela risarcitoria; e in Giur. comm., 2009, II, pp. 196 ss., con nota di Russo, Mancata approvazione del bilancio e abuso del diritto di voto nelle societ`a “paritetiche”, e in Riv. Di diritto commerciale, 2009, II, pp. 17 ss., con nota Rossi, Osservazioni in tema di deliberazioni negative e di abuso di diritto di voto.
[5] A quanto è dato comprendere il Tribunale ha ritenuto applicabile detta disposizione alla sola ipotesi di conflitto di interessi strettamente intesa, risultando quella oggetto di giudizio una fattispecie diversa giacché il conflitto di interessi si assume (tendenzialmente) perdurante in relazione a quella delibera ed ostativo dell’espressione del voto da parte del socio in conflitto, mentre la situazione del socio che abusi del proprio diritto di voto è contingente e rimuovibile in una successiva assemblea in cui il socio eserciti il proprio voto conformemente ai canoni di correttezza e buona fede. In senso analogo vedasi anche De Pra, Deliberazione negativa votata in conflitto d’interessi e divieto di voto del socio-amministratore, in Giur. comm., 2010, II, 947, in quanto l’art. 2368, comma 3, c.c. sarebbe “norma di carattere eccezionale, non suscettibile di applicazione analogica”.
[6] In quest’ottica, sarebbe preclusa la possibilità di sostituzione giudiziale della delibera negativa, salvo che il quorum deliberativo non sia comunque stato raggiunto. Vi è anche un orientamento contrario, riassunto da Brighenti, Deliberazioni negative: problematiche ed ipotesi di disciplina, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 10, 2017, specificamente pagine 1454 e ss. (in particolare vedasi § 8). Sul punto vedasi anche Centonze, op. cit., 419-420, secondo il quale la quota del socio che ha votato in modo illegittimo deve essere “sterilizzata” al pari della quota di capitale del socio che ha votato in conflitto di interessi ex art. 2373, comma 2, c.c., senza ricorrere all’applicazione analogica dell’art. 2368, comma 3, c.c..
[7] In tal senso si è espresso il Tribunale di Roma con la sentenza 14 dicembre 2020, n. 17824, laddove il giudice capitolino, pur ipotizzando un astratto interesse ad impugnare le delibere negative, “trattandosi di atti decisori aventi contenuto organizzativo dell’ente”, ha precisato che “in caso di impugnazione di delibera negativa, il Tribunale non può mai sostituire la propria volontà e determinazione a quella manifestatasi attraverso gli organi sociali: l’eventuale accertamento della invalidità del voto contrario espresso dal socio, che ha portato alla mancata adozione di una delibera di approvazione di bilancio, non potrebbe mai condurre alla sostituzione del deliberato assembleare di contenuto negativo ed alla conseguente declaratoria di approvazione del bilancio, potendo al massimo produrre gli effetti delle azioni di mero accertamento”.
[8] Che poi lo ha approvato in assemblea.
[9] La Corte, infatti, osserva che il progetto di bilancio non era stato approvato (contrariamente a quanto imposto dallo statuto, oltre che dall’art. 2475, comma 5, cod. civ.) dall’organo amministrativo prima di essere portato all’assemblea, rilevando che con ciò non si intende certo “negare che ogni amministratore sia investito di particolari doveri di “impulso” (magari a fronte dell’inerzia dell’organo amministrativo complessivamente inteso), ma vuole esclusivamente rimarcare che quei doveri non possono tradursi nel suo potere di surrogarsi, in via unilaterale, all’intero consiglio di amministrazione”; né si può considerazione la redazione del bilancio e l’approvazione dello stesso in assemblea si sarebbero risolti «in un atto unitario»”, come ipotizzato dalla Corte d’appello, posto che ciò “si rivela in palese contrasto con il consolidato principio … di “separazione” tra attività gestoria (demandata all’organo amministrativo) e quella deliberativa (propria dell’assemblea dei soci)”.
[10] Osserva il Collegio che “una deliberazione assembleare si definisce a contenuto negativo quando sia respinta una proposta; essa manca, invece, allorquando semplicemente non sia raggiunto il quorum per l’approvazione della proposta medesima o tutti i presenti si siano astenuti dal voto (come quando le trattative di un contratto non giungano a conclusione), o, ancor prima, se sia mancato il quorum costitutivo dell’assemblea. In tutti questi casi, comunque, l’effetto pratico è lo stesso: l’assemblea non giunge alla decisione ipotizzata nell’ordine del giorno. Dunque, si possono trascurare le questioni terminologiche o teoriche, per concentrarsi sulla effettività del fenomeno e della tutela per esso prospettabile”, laddovericorda, peraltro, che, nell’organizzazione della vita societaria, pure nelle ipotesi suddette viene redatto il verbale, iscritto nel libro delle deliberazioni.
[11] In tal senso, vedasi Tribunale Palermo, 18 maggio 2001, in Giur. comm., 2001, II, 835, in Giur. comm., 2001, II, 835, per il quale la delibera negativa è una “deliberazione che non c’è” e in ogni caso “la tutela accordata al socio [...] è avverso una deliberazione, intesa quale manifestazione di volontà positiva riconducibile alla società (che può aversi solo ove una proposta sia stata approvata, solo allora divenendo essa riconducibile alla società e vincolante per essa)”.
[12] In questo senso vedasi Preite, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nelle società per azioni, nel Trattato delle società per azioni, a cura di Colombo e Portale, III, 2, Utet, 1993, 121, nt. 37; Serra, L’assemblea: procedimento, nel Trattato delle società per azioni, a cura di Colombo e Portale, III, 1, Utet, 1994, 183; Mazzoni, Gli azionisti di minoranza nella riforma delle società quotate, in Giur. comm., 1998, I, 501; Ricci Armani, Delibere di rigetto adottate dalla maggioranza assembleare in conflitto d’interessi, in Riv. dir. comm., 1997, 97 ss.; Nuzzo, L’abuso della minoranza. Potere, responsabilità e danno nell’esercizio del voto, Torino, 2003; Monteverde, Le deliberazioni negative: spunti di riflessione, in Giur. it., 2004, 1459, in nota a Trib. Milano 29 novembre 2003, secondo cui: “non è ammissibile l’impugnazione delle deliberazioni assembleari negative”.
[13] La Corte, infatti, osserva che “da ciò, tuttavia, non conseguirebbe, di fatto, alcun particolare vantaggio per l’impugnante, non potendo il tribunale sostituirsi alla volontà assembleare ed essendo libera, poi, l’assemblea di rideliberare all’infinito nello stesso modo. Si è ipotizzato pure di ritenere la seconda deliberazione, ove inficiata dallo stesso vizio, parimenti invalida ipso facto: ma ancora non si avrebbe tutela reale, anzi, ne deriverebbe la duplicazione dei giudizi”.
[14] Ferri, Diritto agli utili e diritto al dividendo, in Riv. Dir. Comm. 1963, II, 255. A favore dell’inammissibilità della cd. tutela “reale”, vedasi Cass. 26 agosto 2004, n. 16999 e Trib. Roma, 10 novembre 2010, in Foro It., 2011, I, 1940. Vedasi anche Ferraro, Ostruzionismo del socio e impossibilità di funzionamento dell’assemblea nella s.r.l., nota a Trib. Napoli, 30 dicembre 2015, in Corr. giur., 2016, V, 659 e in IUS Societario 2016, 21 aprile. Sul punto vedasi anche La Marca, La mancata approvazione della deliberazione assembleare. Deliberazione “negativa”, deliberazione apparente e deliberazione negata, Milano, 2020.
[15] In particolare, secondo il Supremo Collegio, “Ciò sarebbe possibile, particolarmente, nel caso di errore di calcolo del presidente dell’assemblea, ma anche – in via meramente esemplificativa – del computo di voto determinante espresso dal socio in conflitto di interessi o abusando di un suo diritto, o del voto contrario, da parte dell’amministratore, nella deliberazione di intraprendere l’azione di responsabilità sociale contro di lui”.
[16] La Corte non chiarisce se l’espunzione vada fatta in analogia all’art. 2368, comma 3, c.c. o a ex art. 2373, comma 2, c.c., anche se ripercorrendo il ragionamento di Centonze citato dovrebbe farsi riferimento alla seconda ipotesi. Sui diversi orientamenti si rimanda a Brighenti, op. cit. 1461. L’autore osserva che, nel caso di sterilizzazione dei voti negativi espressi dal socio di minoranze con abuso del proprio diritto (ipotesi che può comunque applicarsi a quella della fattispecie), “un primo orientamento, dopo aver ricondotto la posizione di tale socio a quella di un astenuto, procede altresì all’esclusione delle sue azioni dal denominatore del quorum deliberativo. Ciò significa, evidentemente, applicare anche in questo caso il principio espresso dall’art. 2368, comma 3º, cod. civ.: benché, infatti, tale norma si riferisca esclusivamente al conflitto di interessi, alcuni autori osservano come l’estensione del suo ambito di operatività all’abuso di voto eviti che, nonostante la conversione in astensione del voto negativo abusivo, l’esito della votazione resti immutato” (così anche la nota sentenza Tribunale Milano 28 novembre 2014), mentre vi sarebbe un diverso orientamento che ritiene “assente un supporto normativo che consenta, in presenza di voti negativi abusivi, un abbassamento delle soglie di consenso necessarie all’approvazione di una proposta, rilevando come l’art. 2368, comma 3º, cod. civ. non faccia alcun riferimento all’abuso di diritto di voto” (così Nuzzo, L’abuso della minoranza. Potere, responsabilità e danno nell’esercizio del voto, Torino, 2003, 214) e in questo senso anche la sentenza di primo grado del Tribunale di Bolzano. Vedasi anche Centonze, op. cit., 442-444, secondo cui “L’esclusione, per mano del giudice, della partecipazione sociale dalla base di calcolo del quorum deliberativo opera, allora, come sanzione di carattere generale per i casi di condotta abusiva del socio in sede di votazione. L’abuso rende il socio immeritevole di contribuire allo sviluppo dell’azione sociale” con la conseguenza che il “giudice accerta, dunque, che la reiezione della proposta si è formata illegittimamente [...] e che, secondo un calcolo corretto del quorum deliberativo (condotto cioè senza tenere conto della partecipazione sociale intestata al socio che ha votato o si è astenuto ‘abusivamente’), la proposta deve in realtà considerarsi approvata dall’assemblea, perché sorretta dalla necessaria maggioranza dei consensi validamente espressi”.
[17] In tema di diniego all’approvazione del bilancio da parte del socio al 50%, Galgano in Contratto e persona giuridica nelle società di capitali, in Contr. e Imp., 1996, 6, rileva che “annullato il voto contrario affetto da abuso, il bilancio risulta approvato con il voto degli altri soci detentori del 50% del capitale”, purché la maggioranza richiesta dall’art. 2368 c.c. venga intesa come “maggioranza dei votanti e non come maggioranza dei presenti in assemblea”. Vedasi anche Martinez, L’abuso di minoranza nelle società di capitali, in Contr. e Imp., 1997, 1206, secondo cui “anche la delibera negativa può integrare la fattispecie di una delibera contraria (ovvero non conforme allo legge o all’atto costitutivo) fatto da cui discende la sua invalidità” e da cui dovrebbe “logicamente conseguire l’effetto inverso alla reiezione della delibera proposta e, dunque, la sua approvazione”. Vedasi anche Simonetti, Abuso del diritto di voto e regola di buona fede nelle società di capitali, in Nuova giur. comm. 2000, II, 496 e Pinto, Il problema dell’impugnazione della delibera negativa nella giurisprudenza delle Imprese, in Riv. Dir. Civ., 2016, III, 35.
[18] Vedi sul punto Pinto, op. cit., 37, il quale tuttavia rileva che “in realtà, non è arduo constatare che il diritto scritto sottende un modello di rimedio che risulta inidoneo a soddisfare un interesse che vada oltre la mera caducazione degli effetti della deliberazione. Infatti, gli artt. 2377 ss. c.c. delineano una disciplina dell’impugnazione chiaramente costruita sul modello, ritenuto “normale”, della delibera positiva e dell’interesse a impugnare in funzione demolitoria.
Per rendersene conto sono sufficienti due esempi:
(i) la limitazione della legittimazione a impugnare ai soci assenti o dissenzienti presuppone, ad evidenza, che l’impugnazione si diriga nei confronti di una proposta di deliberazione approvata dalla maggioranza;
(ii) gli effetti tipicamente “cassatori” dell’accoglimento dell’impugnazione e la qualificazione della misura cautelare come «sospensione dell’esecuzione della deliberazione» si fondano, anch’essi, sull’idea che la deliberazione abbia creato una regola positiva da elidere con la sentenza o da sospendere in via cautelare”.
[19] Vedasi in tal senso Centonze, op. cit., per cui “la verità è che il giudice non si sostituisce affatto all'assemblea, se e finché egli si limiti a prendere in esame il fatto atteggiamento dei soci in assemblea), lo depuri dell'elemento viziato (per fare un esempio relativamente sicuro, si pensi all'errore di calcolo del presidente dell'assemblea) e poi, sulla base di tale correzione, constati che i voti favorevoli rappresentano, in realtà, la necessaria maggioranza del capitale sociale: entro questi limiti, infatti, il giudice esercita il potere (che certamente gli compete, almeno in linea di principio), di dare al fatto una qualificazione conforme al diritto (delibera positiva)”.
[20] Vedasi sempre Centonze, op. cit., 472, ad avviso del quale “‘accertamento’ (a verbale: artt. 2371 e 2375 c.c.) e ‘proclamazione’ (a forma libera) del risultato della votazione sono adempimenti distinti e privi entrambi di rilevanza costitutiva; conseguentemente, alla sentenza che accerta la reale volontà formatasi in assemblea può essere riconosciuta natura dichiarativa; non occorre, pertanto, una specifica disposizione di legge che attribuisca al giudice il potere di far emergere la delibera (positiva) effettivamente adottata”.
[21] Vedasi a commento, Di Bitonto, Abuso del diritto di voto a carattere ostruzionistico (c.d. ‘‘delibere negative’’): profili sostanziali, in Le Società, 2015, 701. Analizzando la natura di accertamento o costitutiva della pronuncia, l’autore rileva che, comunque, “pare che l’accertamento del vizio che ha originato l’illegittimo rigetto della proposta assembleare non possa andare disgiunto dall’accertamento del legittimo risultato assembleare, posto che, nel momento stesso in cui vengono acclarati (ed espunti dal quorum deliberativo) i voti illegittimi e concorrenti alla formazione del rigetto assembleare, il giudice è posto nella condizione di poter rilevare e dichiarare che l’espunzione di tali voti lascia sussistere un quorum deliberativo sufficiente per l’approvazione della proposta”. Vedasi anche Pandolfi, L´impugnazione delle delibere assembleari negative (nota a Trib. Milano, 28 novembre 2014), in www.rivistadirittosocietario.com, fasc. 1, 2016.
[22] Voto negativo da considerarsi illegittimo espresso dal dissenziente (s’intende).
[23] Secondo la Cassazione, in questo caso non sarebbe di per sé “costitutiva”, “ma soltanto dichiarativa dell’effettiva volontà emersa in assemblea, dunque sempre permessa, per il principio della generale ammissibilità delle sentenze di accertamento”, con la conseguenza che “la volontà del giudice non terrebbe affatto luogo di quella assembleare: anzi dichiarerebbe l’effettiva volontà assembleare, con effetto sin dal momento in cui la deliberazione è stata assunta”. Sulla corrispondenza tra chiesto e pronunciato in materia di delibere negative, vedasi anche Ciceri, L'impugnazione delle delibere negative e il diritto di recesso del socio per modifica dell’oggetto sociale nella giurisprudenza spagnola, in www.rivistadirittosocietario.com, fasc. 2, 2022.
[24] Proprio perché la pronuncia sulle domande volte ad una pronuncia che sostituisse la delibera impugnata proclamando l’approvazione del bilancio non sono state riproposte, con conseguente passaggio in giudicato della pronuncia sul punto.
[25] Sul punto vedasi Ferraro, a commento della sentenza 19 ottobre 2023 del Tribunale di Catania, Impugnazione di delibera assembleare negativa e approvazione giudiziale della proposta respinta, in GiustiziaCivile.com, fascicolo 8, 8 febbraio 2014. L’autore, dopo aver passato in rassegna la giurisprudenza e la dottrina a sostegno della tesi che ammette il potere sostitutivo del giudice, rileva, a sostegno della tesi contraria che “una simile operazione giudiziale non abbia alcun preciso fondamento normativo che la legittimi, ma, anzi, appaia in contrasto con i principi regolatori della materia societaria. Infatti, quando l’ordinamento prevede che possano essere prodotti giudizialmente gli effetti dell’atto che l’assemblea non ha approvato, si è sempre in presenza di un atto dovuto e non di un atto rimesso alla volontà della compagine sociale. Oltretutto, il fatto che non vi sia nel nostro ordinamento giuridico alcuna giustificazione normativa di una simile sentenza costitutiva comporterebbe, come incongrua e antinomica conseguenza, la violazione dell’art. 2908 c.c., che stabilisce il principio di tassatività relativamente a tale tipologia di sentenze”. Né può sostenersi, secondo l’autore, la considerazione secondo la quale, al pari del presidente dell’assemblea, il giudice si limiterebbe a dichiarare la volontà effettivamente (in assenza del voto illegittimo) espressa dall’assemblea, posto che essa “viene considerata dalla giurisprudenza di legittimità, come un atto avente natura costitutiva (Cass. 26 agosto 2004, n. 16999) […] con la conseguenza che, per la rimozione degli effetti da essa scaturenti, occorrerebbe una pronuncia giudiziale parimenti costitutiva”. Come detto, secondo l’ordinanza della Cassazione in commento, viceversa la pronuncia “sostitutiva” sarebbe comunque di accertamento, posto che le azioni costitutive di cui al combinato disposto normativo di cui agli artt. 2377, 2378 e 2479-ter c.c., “contengono pur sempre una domanda di accertamento, riguardante, come è intuitivo, le situazioni giuridiche poste a fondamento della richiesta pronuncia caducatoria”. Sul punto vedasi anche Rordorf, L’abuso di potere della minoranza, in Soc., 1999, 809, secondo cui “ammesso anche che si possa considerare tamquam non esset la singola manifestazione di voto, è ancora da dimostrare che sia consentito al giudice smontare e rimontare il procedimento assembleare facendo così emergere la vera e corretta volontà negoziale dell’organo collegiale, depurata dagli effetti inquinanti del voto; il voto, invalidamente espresso non ha comunque concorso a formare la necessaria maggioranza”. Vedasi, sempre in senso critico, Lambertini, Il conflitto tra soci, Origine Gestione Composizione, Pacini Giuridica, 2022, 144 e ss.. In senso opposto, Martinez, op. cit., 1206, secondo cui “allo stesso modo in cui i giudici annullano dei voti positivi per rimettere allo status quo la situazione, così possono essi annullare i voti negativi al fine di rendere esecutiva una deliberazione illegittimamente bloccata”.
[26] Come volontà assembleare. Si ricorda, peraltro, che è principio assodato quello per cui l’obbligo di motivazione non sussiste neanche per le delibere assunte dalla maggioranza. In tal senso la Cassazione ha ribadito anche con la sentenza 22 luglio 2020, n. 15647 che “Nel diritto societario costituiscono un numero limitato le deliberazioni degli organi sociali soggette per legge all'obbligo di motivazione (artt. 2391 e 2391-bis c.c., art. 2441 c.c. comma 5, art. 2497-ter c.c.) restando di regola i soci liberi di determinarsi senza necessariamente esternare le ragioni delle proprie decisioni, sebbene, accanto alle ipotesi in cui le deliberazioni societarie debbano essere motivate per esplicito dettato normativo altre possano essere individuate in via interpretativa dove la necessità di verificare la sussistenza della giusta causa o della fattispecie statutaria impone di motivare la deliberazione al momento in cui essa viene assunta”. Vedasi a commento Marchegiani, sulla motivazione obbligatoria e “necessaria” delle decisioni societarie, in Giur. comm., fasc.3, 2021, pag. 542. L’autrice rileva che estendere l’obbligo di motivazione a requisito necessario “per dimostrare la mancata violazione di buona fede e correttezza nell'attività deliberativa”, in tutti casi “in cui possa profilarsi una fattispecie di abuso di potere della maggioranza, o comunque una responsabilità nell'esercizio del potere deliberativo dei soci di controllo” espone al “rischio concreto di aprire il varco a una forte incoerenza sistematica”
[27] Sulla responsabilità solidale di membri del consiglio in relazione alla redazione del bilancio, vedasi da ultimo Trib. Brescia 30 gennaio 2023, n. 178 secondo cui “il componente del consiglio di amministrazione di una società di capitali non può sottrarsi alla propria responsabilità nei confronti della società adducendo che l'illecito sia stato commesso da altro soggetto: ciò vale a maggior ragione quando gli addebiti riscontrati a carico degli amministratori riguardino doveri e obblighi indelegabili, quali la tutela del patrimonio sociale e la redazione del bilancio della società, poiché tali competenze coinvolgono inevitabilmente la responsabilità dell'intero organo collegiale”.
[28] Vedasi Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 5630/I, Il voto segreto nell'assemblea delle società di capitali e cooperative, approvato dalla Commissione Studi d’Impresa il 31 marzo 2005.
[29] Così Di Sabato, Diritto delle Società, Milano, 2023, 264.
[30] Vedasi Gambino, Il principio di correttezza nell’assemblea delle società per azioni, Milano, 1987; Jaeger, Invalidità delle deliberazioni assembleari: eccesso di potere o violazione dell’obbligo di buona fede?, in AA. VV., La riforma delle società di capitali in Italia, Milano, 1968, 910 ss.; Meruzzi, L’Exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, Padova, 2005.
[31] Così Cassazione 1 giugno 2021, n. 15276.
[32] Così Lambertini, op. cit., 135, che richiama Ascarelli, L’interesse sociale dell’art. 2441 c.c. La teoria dei diritti individuali e il sistema dei vizi e delle deliberazioni assembleari, in Riv. soc., 1956, 93.Vedasi anche Franzoni, Degli effetti del contratto, II, Integrazione del contratto. Suoi effetti reali e obbligatori. Artt. 1374-1381, 2° ed., in P. Schlesinger (fondato da) - F.D. Busnelli (diretto da), Il codice civile. Commentario, Milano, 2013, 330.
[33] In tema di abuso di maggioranza, vedasi anche di recente Simionato, L’abuso di maggioranza, profili e limiti del controllo nelle società di capitali, Milano, 2023. Per una rassegna della giurisprudenza di legittimità e merito sul tema, vedasi Stabilini, L’abuso della regola di maggioranza nelle società di capitali, in Le Società, 7, 2011, 841 e ss.. L’autrice ripercorre anche la giurisprudenza formatasi in tema di risarcimento del danno conseguente all’abuso di potere. Sotto il profilo risarcitorio dell’abuso di potere, in tema di delibere negative, vedasi Cian, La mistificazione del carattere vincolante della delibera assembleare: ancora su decisione di rigetto, impugnazione, azione risarcitoria, in Riv. Dir. Comm. 2015, 2, 329 e ss. a commento della Corte d’Appello di Catania del 21 luglio 2014, il quale critica la decisione della Corte, nell’occasione, ha ritenuto conditio sine qua non della tutela risarcitoria del socio, la preventiva impugnazione della delibera negativa senza indagare “se gli attori avrebbero potuto accompagnare all’impugnazione una domanda di accertamento dell’avvenuta approvazione della proposta di bilancio”. Vedasi anche Masturzi, Invalidità di delibere assembleari negative e tutela del socio, in Riv. Dir. Comm. 2017, 1, 157 e ss.
[34] Sul punto, per un quadro aggiornato, si rimanda a Perugini, L’abuso del diritto nell’assemblea di società di capitali: massimario ragionato, in https://www.ildirittoamministrativo.it/abuso-del-diritto-assemblea-di-societ%C3%A0-di-capitali-massimario-ragionato/gciv986#_ftn16. In tema di abuso della minoranza vedasi anche Rordorf, Abuso di potere della minoranza, in Le Società, 1998, 809 ss.; Portale, ‘‘Minoranze di blocco’’ e abuso del diritto di voto nell’esperienza europea: dalla tutela risarcitoria al ‘‘gouvernement des juges’’?, in Europa e dir. priv., 1999, 153 ss.; Nuzzo, L’abuso della minoranza. Potere, responsabilità e danni nell’esercizio del voto, Torino, 2003; Pisani Massamormile, Minoranze, ‘‘abusi’’ e rimedi, Torino, 2004.
[35] Così, secondo la Corte trentina, “da assolvere unitariamente l’obbligo gestorio e l’obbligo assembleare, di talchè non poteva ravvisarsi alcuna violazione del dovere di cooperazione e collegialità dell’organo amministrativo”.
[36] Vedasi in antitesi Cass. 11 giugno 2003, n. 9353in Le Società, 2003, 1352, secondo cui “l’individuazione del modo migliore per perseguire l’interesse sociale e` rimesso, infatti, all’insindacabile apprezzamento degli organi sociali a cio` deputati”.
[37] Vedasi Lambertini, op. cit., 147, il quale usa l’espressione a commento della decisione della Corte d’Appello di Roma del 20 febbraio 1989, in senso critico rispetto a La Marca, L’abuso di potere nelle deliberazioni assembleari, Milano, 2004, 203. Lambertini osserva che nel caso di soci aventi quote paritetiche l’ostruzionismo di uno verso l’altro protratto nel tempo è indice di una causa di scioglimento prevista dal codice (art. 2484 c.c.) e come tale va considerato, fermo restando che non esclude l’esistenza di un abuso di minoranza costituito dal sistematico rifiuto ingiustificato da parte di un socio o la cui giustificazione è sproporzionata in relazione ad impedire alla maggioranza la propria politica di perseguimento dell’interesse sociale. Secondo tale impostazione, vedasi anche Trib. Brescia 22 marzo 2018, che esclude anche la possibilità di ogni richiesta risarcitoria in casi del genere, precisando che la “mancata approvazione dei bilanci da parte del socio […], quand’anche illegittima se ascrivibile alla figura dell’abuso del diritto di voto, non integra il diverso presupposto previsto dalla norma in esame dal momento che, pur essendo suscettibile di arrecare un pregiudizio in via di fatto alla società, in realtà non costituisce un contributo intenzionale al compimento di un diverso atto gestorio dannoso per la società, tanto più che ai fini della configurazione della responsabilità solidale del socio ex art. 2476 comma 7 c.c. deve ritenersi presupposto imprescindibile la concorrente responsabilità degli amministratori nella causazione del danno eziologicamente riconducibile all’atto deciso o autorizzato dal socio stesso”.
In tema di cd. abuso di minoranza ascrivibile al socio che detiene il 50% delle quote, vedasi anche Trib. Milano, ord., 2 giugno 2000, in merito ad una domanda ex art. 700 c.p.c. Gli attori lamentavano che l’altro socio al 50%, nel corso di diverse assemblee convocate nell’arco di un breve periodo, aveva rifiutato ripetutamente sia di approvare il bilancio di esercizio, sia di nominare gli amministratori. Pertanto, sulla base della natura abusiva e ostruzionistica del comportamento del socio, gli altri soci chiedevano al Tribunale in sede di urgenza di dichiarare provvisoriamente approvato il bilancio di esercizio oltre che di disporre sequestro conservativo sui beni del socio. In entrambe le pronunce, il Tribunale respinse la domanda, sia sul presupposto dell’assenza di fondamento normativo di una pronunzia che trasformi una delibera negativa in una delibera positiva, sia, sotto il profilo dell’abuso, per carenza di prova dello stesso.
In caso di ostruzionismo del socio che detiene il 50% c’è chi parla di abuso di voto paritario, vedasi Cian, Abus d’égalité, tutela demolitoria e tutela risarcitoria, in Corr. giur., 2008, 399 ss..
[38] Secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato, l’onere di provare la sussistenza dell’abuso incombe su colui che impugna la deliberazione ossia a colui che chiede al giudice di intervenire, il quale deve dimostrare il vizio attraverso indizi concreti e non può limitarsi a generiche allegazioni dello stesso (vedasi Cass. 20 gennaio 2011, 1361).
[39] Il richiamo è a Preite, L'abuso della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari delle società per azioni, Milano, 1992, 293.
[40] Non è questa la sede per affrontare la tematica, richiamata al limitato fine di evidenziare le conseguenze paradossali di un sindacato penetrante del giudice nel nome di un interesse sociale che rischia di prescindere da quello dei soci. Vedasi in merito Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo (variazioni sul tema da uno spunto di Giorgio Oppo), in Riv. soc., 2005, 693 ss.. Sull’interesse sociale tra teorie istituzionaliste e contrattualiste cfr. Jaeger, L’interesse sociale, in Riv. dir. comm., Milano, 1965, 5-6, p. 244 ss.; Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, in Riv. Soc., 2018, II, p. 303 ss.; Denozza, Logica dello scambio e “contrattualità”: la società per azioni di fronte alla crisi, in Giur. comm., 2015, I, 5 ss.; Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società. Un commento a Francesco Denozza, in difesa dello “istituzionalismo debole” in www.orizzontideldirittocommerciale.it e in Giur. comm., 2014, I, 669 ss.
Sul possibile ritorno alla teoria dell’istituzionalismo si rimanda a Ricolfi, Istituzionalismo, contrattualismo, storia, in https://www.fondazionehume.it/diritto/istituzionalismo-contrattualismo-storia/.
[41] Sulla legittimazione all’impugnazione delle delibere di consiglio da parte dei soci anche in seno alla s.r.l., vedasi Polidoro, Le impugnazioni delle deliberazioni degli “altri organi” delle società di capitali, in Riv. Dir. Comm., 2023, 4, 499 e Di Blasi, La legittimazione del socio di s.r.l. all’impugnazione delle delibere del consiglio di amministrazione: i diritti lesi, in www.ilcaso.it.
[42] Questa oggettivamente è questione più complessa e non affrontabile nel contesto della presente scritto; pur tuttavia si segnala in tale ottica la già citata sentenza del Tribunale di Brescia del 22 marzo 2018, dove le censure al comportamento ostruzionistico della socia di minoranza sono state estese anche al contegno tenuto dalla stessa quale componente del consiglio di amministrazione, anche se esse riguardavano esclusivamente il comportamento omissivo derivante dalla mancata sottoscrizione del verbale del c.d.a. e non il voto ivi espresso. Ovvio che il comportamento ostruzionistico in sede di riunione di consiglio potrebbe rilevare in ipotesi meno frequenti come nel caso in cui vi siano due amministratori espressione dei due soci che compongono la società.
[43] Tenuto conto che costituiscono vizi di annullabilità della delibera di approvazione del bilancio anche quelli afferenti agli atti intermedi alla formazione dello stesso, come quelli relativi alla redazione del progetto di bilancio. Sulla possibilità di censurare i vizi intermedi impugnando la delibera assembleare o ricorrendo, in determinati casi, anche alla censura ex art. 2388 c.c. verso la delibera del c.d.a. a monte, vedasi Tribunale di Venezia, 29 marzo 2023.
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