Diritto Societario e Registro Imprese
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20026 - pubb. 11/01/2018
Responsabilità di amministratori e sindaci e cause inscindibili
Cassazione civile, sez. I, 22 Giugno 1990, n. 6278. Est. Graziadei.
Responsabilità amministratori e sindaci - Cause inscindibili - Conseguenze
Amministratori - Responsabilità - Verso la società - Amministrazione straordinaria - Esercizio dell'azione di responsabilità da parte del commissario - Autorizzazione dell'autorità di vigilanza - Atto di impugnazione - Necessità - Esclusione
L'Azione di responsabilità, che una società cumulativamente proponga contro più amministratori e sindaci, chiedendo il ristoro dei danni che assuma verificatisi nel periodo in cui sono stati in carica e per effetto della loro concorrente inosservanza ai rispettivi obblighi, pur introducendo una pluralità di cause, alla stregua della pluralità dei titoli dedotti in giudizio, pone le cause medesime in relazione di inscindibilità, tenendo conto che la normale autonomia e separabilità delle contese fra il creditore ed i debitori in solido viene meno quando la condotta addebitata a ciascuno sia definibile come illecita solo in stretto collegamento con la valutazione della condotta dell'altro. Pertanto, nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia accolto parzialmente quella domanda nei confronti di uno di detti convenuti, assolvendo gli altri, e tale soccombente (parziale) abbia proposto appello principale, si deve riconoscere alla società la facoltà di appellare, in via incidentale tardiva, ai sensi dell'art. 334 cod. proc. civ., non soltanto contro l'appellante principale (indipendentemente dal fatto che l'impugnazione incidentale investa capi connessi od autonomi rispetto a quelli oggetto dell'impugnazione principale), ma anche contro gli altri amministratori e sindaci rimasti vittoriosi in primo grado.
Nel caso di Azione di responsabilità contro amministratori e sindaci di società soggetta ad amministrazione straordinaria, la necessità per il Commissario di detta amministrazione di munirsi di autorizzazione dell'autorità di vigilanza (art. 206 della legge fallimentare, applicabile in forza del rinvio contenuto nell'art. 1 del d.l. 30 gennaio 1979 n. 26, convertito in legge 3 aprile 1979 n. 95), sussiste per la proposizione della domanda, non per i successivi Atti diretti a coltivarla, ne', in particolare, per l'atto di impugnazione. Pertanto, ove la sentenza d'appello abbia pronunciato nel merito di detta domanda, in difetto di contestazioni circa la sussistenza di quell'autorizzazione, o comunque nell'implicito presupposto del regolare esperimento dell'Azione, si deve escludere che il difetto dell'autorizzazione medesima possa essere per la prima volta dedotto in Sede di legittimità, al fine di contestare l'ammissibilità del ricorso proposto dal Commissario.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Paolo VERCELLONE Presidente
" Antonio SENSALE Consigliere
" Renato SGROI "
" Vincenzo CARBONE "
" Giulio GRAZIADEI Rel. "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo
La S.p.A. S., Società italiana per *, instaurava, nel novembre e dicembre 1976, due cause nei confronti della S.p.A. L.. Con la prima causa, chiedeva la restituzione di libretti bancari, monete, lingotti d'oro ed azioni della S.p.A. A., affermando che l'ing. Andrea Mario P., proprio presidente ed amministratore delegato dal 1956 al 1972, nonché "capo" del " gruppo P." (cui apparteneva anche la società L.) aveva indebitamente devoluto alla convenuta detti beni, inclusi nei cosiddetti "fondi R", cioè in una gestione patrimoniale riservata. Con la seconda causa, chiedeva dichiarazione di nullità o pronuncia di annullamento di sette contratti di compravendita, aventi ad oggetto il trasferimento da essa attrice alla convenuta di immobili e titoli azionari. I due procedimenti venivano riuniti e l'adito Tribunale di Genova, con sentenza del 5 maggio 1983, accoglieva la prima domanda, condannando però la S. a rimborsare la L. di quanto pagato per un aumento di capitale della società A.; dichiarava che Costanza T., quale erede del defunto marito Andrea Mario P. (chiamato in garanzia dalla L.), doveva tenere indenne la convenuta degli effetti di detto accoglimento; respingeva la seconda domanda ed ordinava la cancellazione della trascrizione della relativa citazione; disattendeva la pretesa della convenuta di essere risarcita del danno subito per tale trascrizione. Contro detta pronuncia proponevano appello tutte le parti. La S., nel frattempo posta in amministrazione straordinaria, impugnava in persona del commissario dell'amministrazione medesima. Nel maggio 1977, la S. citava, sempre davanti al Tribunale di Genova, i propri "ex" amministratori Andrea Mario P., Giovanni D. C. ed Alberto M., nonché i propri "ex" sindaci Aurelio R., Alessandro M. ed Umberto S.; deduceva la responsabilità risarcitoria di costoro, per aver irregolarmente costituito e gestito i "fondi R", nonché per aver compiuto altri atti di distrazione patrimoniale, incluse le menzionate vendite in favore della L..
Il convenuto D. C. chiamava in giudizio, quali corresponsabili, per avere ricoperto anch'essi cariche di amministratore o sindaco, ovvero per essere successori di amministratori o sindaci, la Fondazione Maria P. Ca., la Fondazione Carlo e Giuseppe P., Eugenio, Laura ed Ettore G. (eredi di Enrico G.), Ermanno Guani, Mario Signora, Edmondo Fe., Guido Fe., Massimo M., Franco Boni, Mario P., Luigia B. (erede di Alessandro B.), Enea, Giulio e Jole G. (eredi di Aldo G.). Il Tribunale di Genova, con sentenza del 30 marzo 1983, pronunciava condanna generica al risarcimento del danno a carico di Costanza T., erede di Andrea Mario P., e, limitatamente ai fatti diversi da quelli inerenti ai "fondi R", anche a carico di Giovanni D. C., rinviando al prosieguo la determinazione del "quantum", assolveva dalla pretesa attrice gli altri convenuti, ed altresì assolveva i medesimi, unitamente alla chiamata in causa Luigia B., dalle pretese di rivalsa del D. C.; estrometteva dal processo tutti gli altri chiamati in causa dal D. C.; convalidava il sequestro conservativo chiesto ed ottenuto dalla S. su beni del P., revocando la cauzione che era stata imposta per il sequestro stesso. Contro questa sentenza appellavano la T. ed il D. C.. La S. proponeva gravame in via incidentale, l'impugnazione era poi fatta propria dal predetto commissario, con comparsa di costituzione. La Corte d'Appello di Genova riuniva i procedimenti d'impugnazione e li definiva con sentenza del 5 luglio 1986. Con riguardo alla causa risarcitoria contro gli "ex" amministratori e sindaci, la Corte di Genova adottava le seguenti statuizioni pregiudiziali.
A) Dichiarava inammissibile l'impugnazione incidentale della S., perché proposta dopo la scadenza del termine ordinario, tanto nella parte in cui si indirizzava contro il D. C., per censurare l'esclusione della sua responsabilità in ordine alla gestione del "fondi R", quanto nella parte in cui si doleva dell'assoluzione degli altri convenuti (non appellanti); a tale impugnazione, osservava la Corte di Genova, non era applicabile l'art. 334 c.p.c., perché venivano attaccati, nel rapporto con il D., capi autonomi da quelli investiti dall'appello di quest'ultimo ed inoltre rapporti distinti, con soggetti diversi dagli appellanti principali.
B) Condivideva la suddetta estromissione dal giudizio dei chiamati in causa dal D. C., sul rilievo che la chiamata era stata autorizzata per i fatti dedotti dall'attrice S., a carico di detto convenuto e che, quindi, non si giustificava la citazione di persone che avevano assunto la carica di amministratore o sindaco in epoca diverse da quella in cui il D. C. era stato amministratore.
C) Riteneva corretta la delimitazione allo "an debeatur" della pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno, perché un'istanza in proposito era implicitamente ravvisabile nelle conclusioni attrici in primo grado, e le altre parti, non opponendosi, vi avevano tacitamente aderito. Per quanto atteneva al fondamento delle impugnazioni ritenute tempestive, la Corte di Genova distingueva le questioni da esaminare in due gruppi, sotto i rispettivi titoli di "fondi R" ed "operazioni L.", comprendendo in queste ultime le suddette compravendite ed anche una distribuzione gratuita ai soci della S. di azioni della L.. In riferimento ai "fondi R", e per quanto ancora rileva nella presente sede, venivano svolte le osservazioni ed emesse le pronunce appresso elencate.
1) Tutti i cespiti dei "fondi R", che erano stati costituiti da Rocco P., e poi acquisiti dal nipote Andrea Mario P. al momento del suo subingresso nella guida del "gruppo", appartenevano alla S.; ciò emergeva dal coordinamento dei dati indiziari offerti dalle dichiarazioni delle parti (anche nel corso di un processo penale), dai documenti in cui erano stati registrati i movimenti sui fondi stessi, dalle deposizioni assunte, dalla natura dei rapporti fra la S. e le altre società controllate dai P..
2) Andrea Mario P., che era entrato nel pieno ed esclusivo possesso dei "fondi R", quando avevano una consistenza contabile di oltre cinque miliardi di lire, doveva essere ritenuto responsabile, ai sensi dell'art. 2392 c.c., secondo comma, per non averli contabilizzati e comunque per non aver informato gli altri organi sociali della loro esistenza. Tale comportamento implicava che la società non era al corrente della sua effettiva situazione economica (i fondi erano di entità quasi pari a quella del capitale sociale), e subiva quindi un danno, almeno in termini potenziali, anche per l'interferenza di detta ignoranza sulle scelte imprenditoriali e finanziarie. I problemi sull'effettiva sussistenza ed ammontare dal danno, compresi quelli circa la detraibilità del danno risarcibile del "risparmio fiscale" ottenuto dalla società con la contabilità occulta, avrebbero avuto influenza solo in prosecuzione di causa, ai fini della decisione sul "quantum".
3) Ai sensi del primo comma del citato art. 2392 c.c., era da affermarsi la responsabilità risarcitoria del P. (sempre in via generica) per quegli atti di utilizzazione dei fondi compiuti per spese non pertinenti alla gestione della S. (o comunque prive di indicazioni sulla causale e sui destinatari), ovvero compiuti in conflitto di interessi (circa due miliardi e seicento milioni di lire); analoga responsabilità doveva essere dichiarata per la distrazione, senza titolo, in favore della L., di quanto da ultimo residuava dei "fondi R" (circa 730 milioni di lire). Per l'individuazione dei suddetti atti di disposizione erano da ritenersi attendibili le scritturazioni della contabilità occulta, in quanto confortate da elementi presuntivi, e, in particolare, dalle deposizioni di coloro che si erano occupati della gestione riservata per conto dell'incontrastato "dominus".
4) Riconosciutasi l'appartenenza alla S. di tutti i "fondi R", si doveva accogliere la domanda con cui la medesima S. aveva rivendicato detti cespiti residui, indebitamente devoluti alla L. con atti di spossessamento posti in essere dal P.. In relazione alla restituzione delle azioni della società A., spettava però alla L. il rimborso della somma di lire 190.000.000, che aveva erogato per un aumento di capitale deliberato da detta società A. ed implicante il raddoppio del valore nominale dei titoli; per tale somma non potevano accordarsi, oltre gli interessi legali dalla domanda, maggiorazioni o rivalutazioni, nè potevano invocarsi le disposizioni dell'art. 1150 c.c. in tema di crediti indennitari del possessore per migliorie, addizioni o spese straordinarie. In riferimento alle "operazioni L.", la Corte di Genova escludeva una responsabilità risarcitoria di amministratori o sindaci della S., tanto per la distribuzione gratuita ai soci della S. di azioni della L., quanto per le sopra ricordate vendite di immobili ed azioni, e inoltre confermava il rigetto della domanda di nullità od annullamento di tali vendite. In particolare, con riguardo alla distribuzione di azioni, considerava che essa aveva avuto ad oggetto riserve facoltative e non vincolate ed era stata decisa dall'assemblea dei soci, con la conseguenza che non poteva farsi carico agli amministratori di aver dato esecuzione a tali deliberazioni assembleari, a prescindere dall'eventuale impugnabilità delle medesime. Con riguardo alle vendite, riteneva provato che si trattasse di trasferimenti effettivi, dietro un prezzo non irrisorio (la congruità di tale prezzo e l'opportunità dei trasferimenti non era sindacabile giudizialmente, vertendosi in tema di apprezzamenti riservati agli organi gestionali della società), e che, pertanto, non poteva prospettarsi una loro nullità per difetto di causa, ovvero per causa o motivo illeciti, sotto il profilo di una dissipazione del patrimonio sociale perpetrata dai suoi amministratori. Parimenti infondata era la pretesa della S. di sentire annullare le vendite per dolo o per conflitto di interessi.
Quanto al dolo, perché non era configurabile, quale vizio della volontà contrattuale, un artificio o raggiro nel rapporto fra l'organo della società rappresentata e la società stessa, e, inoltre, difettava la prova di un indebito vantaggio dell'altra parte del negozio; quanto al conflitto di interessi, perché esattamente era stata eccepita la maturazione della prescrizione quinquennale, decorrendo il relativo termine dalla data della stipulazione dei contratti, ai sensi dell'art. 1442 c.c., terzo comma, non dalla scoperta del fatto (non era invocabile la diversa decorrenza prevista, in materia di annullamento per vizi della volontà, dal secondo comma del citato art. 1442 c.c.). La Corte di Genova, infine: - confermava la convalida del sequestro conservativo, chiesto ed ottenuto dalla S. su beni del P., nonché la revoca della cauzione imposta per tale sequestro, e confermava inoltre il rigetto della pretesa della S. di recuperare le spese affrontate per dare detta cauzione mediante polizza fideiussoria (circa 257 milioni), sul rilievo che l'istanza non era stata corredata da deduzioni atte ad evidenziarne il fondamento; - respingeva la domanda della L., rivolta ad ottenere la condanna della S. al risarcimento dei danni, ai sensi dell'art. 96 c.p.c., secondo comma, per l'infondata denuncia dell'invalidità delle compravendite con trascrizione della relativa citazione, osservando in proposito che le prove acquisite non evidenziavano un comportamento imprudente dell'attrice, nè il verificarsi in concreto di un pregiudizio della convenuta. Per la cassazione della sentenza della Corte d'Appello di Genova, hanno proposto ricorsi, mediante atti notificati il 1-2 ottore 1987, la società S., nei confronti di Costanza T., quale erede di Andrea Mario P., della società L., di Giovanni D. C., di Alberto M., di Aurelio R., di Alessandro M. e di Umberto S.; la T., nei confronti della S. e della L.; la L., nei confronti della S.. Per resistere a detti ricorsi, hanno presentato controricorsi la S., la T., la L., il D. C., Paolo Emilio M., quale erede di Alberto M., Alberto, Paolo e Giulio R., quali eredi di Aurelio R., il M. e lo S.. Con i rispettivi controricorsi, la L. e la T. hanno anche proposto ricorsi incidentali contro la S., cui quest'ultima ha replicato con ulteriori controricorsi.
Il D. C., con il proprio controricorso, ha anche proposto ricorso incidentale condizionato nei confronti di Alberto M., Aurelio R., Alessandro M., Umberto S., Luigia B., quale erede di Alessandro B., Fondazione Maria P. Ca., Fondazione Carlo e Giuseppe P., eredi G., eredi G., Ermanno Guani, Mario Signora, Edmondo Fe., Guido Fe., Franco Boni, Mario P., Massimo M. e Costanza T.. Per resistere al ricorso incidentale del D. C., hanno presentato controricorsi Egea Alda Rocchi, quale erede di Guido Fe., il M., Edmondo Fe., il Signora, il Boni, il P., la T., Paolo Emilio M., quale erede di Alberto M., Giulio R., quale erede di Aurelio R., il M., lo S., il Guani, gli eredi G., gli eredi G., la Fondazione Carlo e Giuseppe P., la Fondazione Maria P. Ca. e la B.. Tutti i ricorrenti, nonché la B., la Rocchi, il M., Edmondo Fe., il Signora, il Boni ed il P., hanno presentato memorie.
Motivi della decisione
I ricorsi devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 c.p.c. Pregiudizialmente va esaminata l'eccezione d'inammissibilità del ricorso della S., per essere stato proposto dal commissario dell'amministrazione straordinaria senza l'autorizzazione della autorità di controllo. La deduzione è infondata. L'art. 206 della legge fallimentare, dettato in tema di liquidazione coatta amministrativa ed applicabile anche all'amministrazione straordinaria (in forza del rinvio agli artt. 195 e segg. della citata legge contenuto nell'art. 1 del D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito in legge 3 aprile 1979, n. 95), dispone che l'azione di responsabilità contro amministratori e sindaci è "esercitata dal commissario previa autorizzazione dell'autorità di vigilanza". Tale autorizzazione non esprime conferimento del potere di rappresentanza processuale, che già spetta al commissario, ma condiziona l'esercizio del potere stesso, con riguardo ad una determinata domanda, assicurando un preventivo controllo sulla sua opportunità e rispondenza agli interessi concorsuali; l'autorizzazione medesima, correlativamente, è necessaria per la proposizione della domanda, non per i successivi atti diretti a coltivarla né, in particolare, per l'atto d'impugnazione avverso la sentenza che l'abbia respinta (v. Cass. n. 1935 del 19 giugno 1972). Ne consegue che, anche a prescindere dal problema dell'occorrenza dell'autorizzazione pure nel caso di subingresso del commissario nella contesa instaurata dalla società prima del suo assoggettamento ad amministrazione straordinaria, le questioni circa l'esistenza del "placet" dell'autorità di controllo, potevano essere sollevate in sede di merito, per contestare la proponibilità o proseguibilità della domanda, mentre non sono prospettabili soltanto in questa sede, al fine di mettere in discussione l'abilitazione del commissario a ricorrere contro la sentenza di parziale rigetto dell'azione di responsabilità, posto che tale sentenza riposa sull'implicito riconoscimento della regolarità dell'esercizio di detta azione e del successivo "appropriarsi" di essa da parte del commissario, e, quindi, su una premessa che di per sé comporta la sua facoltà di proporre impugnazione. Il ricorso della S. si articola in ventiquattro censure.
I primi otto motivi investono la declaratoria d'inammissibilità dell'appello incidentale proposto dalla S. contro i convenuti diversi dal P.. Detta impugnazione, si sostiene, doveva ritenersi esperibile tardivamente, ai sensi dell'art. 334 c.p.c., sia nei confronti del D., dato che questi era appellante principale rispetto allo stesso capo della sentenza del Tribunale, sia nei confronti del M., del R., del M. e dello S., trattandosi di controversia unitaria, che esigeva una sola risposta circa l'individuazione dei responsabili dei fatti denunciati, e che, comunque, coinvolgeva questioni indissolubilmente connesse e non suscettibili di soluzioni differenziate. I motivi, da esaminarsi congiuntamente, sono fondati, ancorché in base a considerazioni parzialmente divergenti da quelle sviluppate dalla ricorrente. L'art. 334 c.p.c., il quale ammette l'impugnazione incidentale anche quando sia decorso il termine ordinario o vi sia stata acquiescenza, risponde all'esigenza di evitare che una parte, dopo aver optato per l'accettazione della sentenza, secondo una valutazione globale dell'assetto di interessi con la controparte, come fissato dall'insieme delle statuizioni favorevoli e di quelle sfavorevoli, possa restare vincolata a tale scelta, nonostante il venir meno dei suoi presupposti, subendo una riapertura del dibattito sulle sole questioni che hanno visto quale soccombente l'avversario. Detta esigenza sussiste indipendentemente dal fatto che l'impugnazione incidentale attacchi lo stesso capo della sentenza oggetto dell'impugnazione principale (od un capo connesso), oppure investa un capo autonomo, dato che, in entrambe le ipotesi, si tratta delle tessere della globale regolamentazione del rapporto fra parti contrapposte.
Ne discende che, in tutti e due i casi, deve essere affermata l'applicabilità dell'art. 334 c.p.c., in adesione al più recente ed innovativo indirizzo di questa Corte (v. sentt. n. 6311 del 24 novembre 1988 e n. 1459 del 23 marzo 1989, e poi la sent. n. 4640 del 7 novembre 1989, resa dalle S.V. in sede di composizione del contrasto giurisprudenziale). Peraltro, proprio alla stregua dell'indicata "ratio" dell'art. 334 c.p.c., va considerato che la norma non contempla ogni impugnazione qualificabile come incidentale per mere ragioni di successione cronologica, ma solo quella che sia vera e propria "controimpugnazione", cioè iniziativa motivata dalla proposizione dell'impugnazione principale e configurante replica o reazione ad essa. Detta natura, "in re ipsa" quando l'impugnazione incidentale sia diretta contro la stessa parte che ha proposto l'impugnazione principale, è ravvisabile, nel diverso caso dell'impugnazione incidentale contro soggetti diversi e non impugnanti, solo se siano parti del medesimo rapporto sostanziale, oppure di un rapporto distinto, ma inscindibile, vale a dire non suscettibile di separata definizione; ove, invece, si tratti di parti di una causa scindibile, la cui decisione, ancorché formalmente inserita in un unica sentenza, sia atta a godere di vita autonoma, si è al di fuori della logica dell'art. 334 c.p.c., perché la scelta di accettazione della decisione stessa non è condizionata dal mantenimento "in blocco" dell'intera pronuncia (v. Cass. n. 2361 del 9 marzo 1988, n. 2619 del 14 aprile 1986, n. 1246 del 21 febbraio 1984).
Le riportate regole evidenziano l'ammissibilità dell'appello incidentale della S.. Contro il D. C., vertendosi in tema di gravame incidentale contro l'appellante principale, per un riesame, nell'ambito della stessa causa, anche dei capi della sentenza di primo grado a lui favorevoli. Contro gli altri convenuti, perché l'azione di responsabilità, che una società cumulativamente proponga contro amministratori e sindaci, per il ristoro di danni che assuma verificatisi nel periodo in cui sono stati in carica e per effetto della loro concorrente inosservanza ai rispettivi obblighi, pur non introducendo un'unica causa, ma una pluralità di cause alla stregua della pluralità dei titoli dedotti in giudizio (i rapporti organici con ciascuno dei convenuti), pone le cause medesime in relazione di inscindibilità, nel senso precisato. Al riguardo si deve rilevare che la normale autonomia e separabilità delle contese fra il creditore ed i debitori in solido, sussistente pure in caso di solidarietà nell'obbligazione risarcitoria, viene meno quando la condotta addebitata a ciascuno sia definibile come illecita, e quindi come fonte di responsabilità risarcitoria, solo in stretto collegamento con la valutazione della condotta dell'altro, poiché, in tale evenienza, si va oltre la mera analogia o connessione di problemi e si verifica una stretta interdipendenza fra le decisioni, atteggiandosi l'una a presupposto o conseguenza dell'altra. Queste caratteristiche ricorrono nell'azione in esame, non soltanto nel rapporto fra la responsabilità dei sindaci e quella degli amministratori (la prima, derivando da omissione di vigilanza, postula l'accertamento della seconda; v. Cass. n. 2355 del 9 marzo 1988), ma anche con riferimento alle posizioni dei vari amministratori, in carica nello stesso periodo in cui si assume accaduto l'evento dannoso, atteso che il loro concorso nei compiti gestionali non consente di apprezzare la colpa del singolo e la sua incidenza causale su quell'evento se non contestualmente alla valutazione della condotta di tutti.
Con i motivi dal nono al quindicesimo, la S. formula censure con riferimento alle pronunce sull'azione di responsabilità per i "fondi R". La Corte di Genova, si sostiene, ha indebitamente separato il giudizio sul "quantum", muovendo dall'inesatta premessa che una sollecitazione in proposito provenisse dalla parte attrice, ed inoltre ha trascurato le istanze tendenti al conseguimento almeno di una condanna all'immediato pagamento dell'equivalente dei cespiti perduti per colpa del P. (nono motivo); ha comunque omesso il doveroso esame di dette istanze sotto il profilo della richiesta di ampliamento del contenuto della decisione sullo "an" (decimo motivo); non ha considerato che l'amministratore è obbligato a reintegrare il patrimonio della società non soltanto quando occulti beni sociali, ma anche quando ne disponga senza mandato dell'assemblea ed a sua insaputa, indipendentemente dalle modalità dell'abuso e dai fini perseguiti (undicesimo motivo); ha errato, in particolare, nel negare la responsabilità risarcitoria per l'operazione effettuata su partita di "zucchero viaggiante", fondandosi sull'irrilevante circostanza che si trattava di speculazione non estranea alle attività commerciali della società (dodicesimo motivo); ha arbitrariamente affermato, nonostante la radicale carenza delle condizioni della "compensatio lucri cum damno", che il pregiudizio della società era suscettibile di riduzione od elisione in corrispondenza del risparmio fiscale goduto con la contabilità occulta (tredicesimo motivo); ha illegittimamente assegnato alle registrazioni contabili riservate attitudine a fornire elementi di prova pure a favore del suo autore (quattordicesimo motivo); ha svolto un'inaccettabile distinzione a secondo che i cespiti occulti venissero o meno impiegati nell'interesse della società, non considerando che il dato era ininfluente ai fini della condanna generica, perché tutti i relativi comportamenti, per la loro natura usurpatoria, integravano lesione del patrimonio sociale (quindicesimo motivo).
I riportati motivi sono infondati. Quanto al nono, al decimo ed al tredicesimo, da esaminarsi congiuntamente, va considerato che l'istanza di parte, che l'art. 278 c.p.c. richiede per la pronuncia di condanna solo in via generica, non esige formule sacramentali ed è ravvisabile anche in deduzioni difensive inequivocamente rivolte ad ottenere una trattazione e definizione separata dei problemi sul "quantum" (cfr. Cass. n. 4517 del 5 luglio 1983). La Corte d'Appello, nel ritenere corretta la decisione del Tribunale in punto di delimitazione del giudizio allo "an", traendone poi l'esatto corollario della persistenza di analoga delimitazione pure in fase di gravame (non potendo ovviamente il giudice d'Appello affrontare questioni su cui debba ancora statuire il primo giudice), ha tenuto presente l'indicato principio ed ha ravvisato un'implicita, ma chiara volontà dei contendenti di scissione del dibattito sul "quantum", sulla base di un'interpretazione del contenuto di atti processuali, motivata e non rinnovabile in questa sede. L'acclarata legittimità della decisione soltanto sullo "an debeatur" rende inconsistenti le doglianze in ordine al mancato esame ed accoglimento delle deduzioni tendenti a sentir affermare, in aggiunta o nel contesto di quella decisione, l'obbligo del P. di reintegrazione del patrimonio sociale in misura corrispondente al valore dei beni occultamente impiegati. Al riguardo si deve osservare che, nell'azione di responsabilità promossa dalla società contro i suoi organi, anche per la parte in cui si denunci la dissipazione o sottrazione di beni determinati, il fatto illecito ed il danno non si identificano, rispettivamente, con detta dissipazione o sottrazione e con il valore di detti beni, ma, come meglio si preciserà appresso, sono rappresentati l'uno dalla violazione dei doveri inerenti alla carica e l'altro dal pregiudizio che tale violazione arreca alla consistenza economica della società, unitariamente intesa come organizzazione produttiva.
Ne consegue che l'entità di quei beni può assurgere a mero parametro per la liquidazione del danno, suscettibile in concreto di assumere proporzioni diverse (maggiori o minori), e che, pertanto, ove si rinvii in prosieguo di giudizio tale liquidazione, resta preclusa ogni facoltà di provvedere sulle menzionate istanze recuperatorie (in via assorbente sui problemi relativi alla loro ammissibilità e fondatezza), perché altrimenti si verificherebbe un non consentito sconfinamento in questioni vagliabili soltanto all'atto della quantificazione del danno ed in esito all'ulteriore dibattito fra le parti. Dalla correttezza della pronuncia impugnata, in punto di definizione delle sole questioni sullo "an debeatur", deriva anche l'inconferenza delle argomentazioni della S. circa la non detraibilità del danno risarcibile degli eventuali vantaggi di tipo fiscale prodotti dalla contabilità occulta. La "compensatio lucri cum damno", invero, non integra ragione di diniego in tutto od in parte della responsabilità risarcitoria, ma assume rilievo al momento della liquidazione, assicurando l'effettivo ripristino del patrimonio della vittima dell'illecito, al netto di quei profitti che siano causalmente ricollegabili all'illecito stesso. Pertanto, la problematica inerente a tale compensazione, alle modalità ed ai limiti in cui deve operare, è affidata alla sentenza sul "quantum". La Corte di Genova si è attenuta ai suddetti criteri, dando atto che la detraibilità dal danno dei "benefici fiscali" avrebbe costituito oggetto di esame in prosecuzione di causa. Comunque, anche se si dovesse cogliere nelle osservazioni svolte dal Giudice d'Appello un'anticipazione, in senso positivo, circa la sussistenza di quei benefici e la loro detraibilità (priva della spiegazione del perché un'evasione fiscale, scoperta o scopribile, possa di per sé essere considerata fonte di lucro per l'evasore), andrebbe escluso l'interesse della S. ad un controllo sull'esattezza delle suddette osservazioni, trattandosi di spunti motivazionali che non trovano riscontro nel "decisum" e che rimangono privi di valore vincolante nella futura contesa sul "quantum". In ordine all'undicesimo, al dodicesimo ed al quindicesimo motivo, è necessario svolgere alcuni rilievi preliminari in punto di natura della responsabilità degli organi di amministrazione di una società, rispetto a fatti incidenti sulle risorse economiche dell'ente.
L'amministratore, il quale abbia la disponibilità di beni sociali per effetto delle funzioni connesse alla carica, e poi li impieghi o spenda avvalendosi di tale disponibilità, non si pone, nel rapporto con il proprietario di detti beni, cioè con la società, nella veste di terzo, non agisce al di fuori del mandato gestorio e del rapporto organico, non può essere, in altre parole, qualificato come "usurpatore" od autore di illeciti aquiliani, nemmeno quando sussista patente esorbitanza o contrarietà di quell'impiego o di quella spendita rispetto agli interessi societari. Infatti, anche rispetto a vicende di pura appropriazione o dissipazione di cespiti, l'atto dell'amministratore, ove reso possibile dai poteri inerenti alla carica, ne esprime esercizio, mentre la sua devianza, in raffronto agli obiettivi per i quali tale carica è stata conferita, assume valore sul diverso piano della sua colorazione come comportamento inadempiente agli obblighi costituiti con il mandato ad amministrare. Ne deriva che, per tutti i menzionati fatti, la responsabilità dell'amministratore va incanalata nelle previsioni dell'art. 2392 c.c., con l'ulteriore conseguenza che il diritto della società al risarcimento del danno può essere riconosciuto se e nei limiti in cui la condotta denunciata integri violazione dei doveri del mandatario, ed altresì tale violazione sia causativa di un pregiudizio per il mandante economicamente valutabile. Peraltro, a tale ultimo proposito, e qualora la responsabilità risarcitoria dell'amministratore sia dedotta con domanda di condanna "generica", si deve ribadire, in conformità del prevalente orientamento di questa Corte, che detta condanna postula esclusivamente la potenziale dannosità del fatto illecito allegato, secondo parametri di normalità causale (v.Cass. n. 3496 del 20 maggio 1983, e, proprio in tema di responsabilità degli amministratori verso la società, n. 6493 del 19 dicembre 1985, n. 3925 del 9 luglio 1979, n. 4338 del 19 novembre 1976).
Nella presente controversia, la delineata situazione di abuso, non usurpazione della carica, risulta accertata dalla Corte d'Appello, sul corretto rilievo che il P. aveva acquisito la disponibilità dei "fondi R" al momento e per effetto dell'assunzione delle funzioni di amministratore delegato, e li aveva poi utilizzati, per tutto l'arco di tempo cui le pretese della S. si riferiscono, sempre avvalendosi di quelle funzioni. Sulla base delle svolte puntualizzazioni, si devono condividere le statuizioni investite dai motivi di ricorso in esame, con qualche precisazione nella motivazione in diritto. Per l'occultamento dell'originaria acquisizione dei "fondi R", e poi di tutti i successivi movimenti in entrata ed uscita sui fondi stessi, la responsabilità del P. nasce non solo dalla previsione del secondo comma dell'art. 2392 c.c., circa il dovere dell'amministratore di adoperarsi per elidere le conseguenze dannose di fatti da altri commessi (riferibile al momento iniziale della scoperta e presa in consegna dei fondi), ma anche e soprattutto dalle disposizioni del primo comma di detto articolo. Non può dubitarsi che l'amministratore, il quale tenga nascosti, pure alla società ed agli altri suoi organi, l'esistenza di beni sociali e gli atti di utilizzazione di essi, si renda inadempiente ai suoi obblighi, alla stregua del generale dovere di rendiconto gravante sul mandatario, il quale è accentuato, nel mandato ad amministrare l'impresa societaria, dalle specifiche regole sulla tenuta dei libri contabili, nonché sulla formazione e pubblicizzazione del bilancio, con il conto "profitti e perdite"; parimenti non è dubitabile che tale inadempienza sia foriera del potenziale pregiudizio economico sopra indicato, essendo sufficiente considerare l'incidenza negativa che l'ignoranza dell'effettiva situazione patrimoniale può implicare in relazione a quelle deliberazioni sociali le quali richiedano contezza della situazione medesima. Ferma restando detta responsabilità per occultamento, estesa a tutti gli atti inerenti ai "fondi R", si deve ritenere esatta la distinzione effettuata dalla Corte di Genova fra atti di disposizione compiuti a scopi extrasocietari, o comunque per scopi di indimostrata coincidenza con quelli societari, ed atti di disposizione compiuti nell'interesse e nell'ambito della gestione dell'impresa sociale.
Per i primi, infatti, alla responsabilità per l'occultamento, si aggiunge quella per l'oggettiva sottrazione del bene sociale, essendo insito, nell'affidamento della cosa con mandato ad amministrarla, il divieto per il mandatario di devolverla a beneficio proprio o di terzi. Per i secondi, invece, non è ravvisabile altra responsabilità, oltre quella per occultamento, tenendo conto che l'impiego del bene per fini attinenti all'impresa sociale, ove non risulti un espresso divieto (o l'obbligo di munirsi di preventiva autorizzazione), non lede diritti della società diversi da quello di essere notiziata dell'operato dei propri organi. Tanto va affermato a prescindere dall'esito vantaggioso o meno delle scelte imprenditoriali dell'amministratore, e, quindi, senza poter introdurre le eccezioni o deroghe pretese dalla ricorrente con riferimento alla speculazione (infruttuosa) sulla "partita di zucchero viaggiante", perché l'atto di gestione d'impresa non può essere escluso dalle attribuzioni dell'amministratore solo in quanto si presenti ad alto rischio, né in quanto emerga "a posteriori" infausto, salva restando, anche in questa ipotesi, la deduzione e dimostrazione di una sua esorbitanza da dette attribuzioni, per effetto di specifica previsione dello statuto o di deliberazione assembleare all'uopo idonea. Venendo all'esame del quattordicesimo motivo, l'infondatezza della censura emerge dal rilievo che la Corte d'Appello, nel ricostruire i movimenti dei "fondi R" alla stregua delle stesse registrazioni effettuate o fatte effettuare da chi era responsabile della contabilità occulta, non si è affidata acriticamente a tali risultanze, ma ne ha vagliato l'attendibilità nell'ambito di un'analitica ricostruzione dell'intera vicenda, con apprezzamento di merito adeguatamente motivato. Detto apprezzamento non può essere contrastato con l'invocazione di principi inerenti all'efficacia probatoria delle scritture private o dei libri d'impresa, ovvero alla loro opponibilità ai terzi, poiché la contesa, ponendo questioni solo sul rapporto interno fra mandante e mandatario e sull'osservanza dei relativi doveri, non coinvolgeva quei principi, consentendo un libero esame della contabilità d'impresa, per la formazione del convincimento in ordine alle modalità dell'operato dell'amministratore.
Con i motivi dal sedicesimo al ventiduesimo, il ricorso della S. contiene censure avverso le statuizioni che la sentenza impugnata ha adottato sotto la rubrica "operazioni L.". In via generale, si addebita alla Corte di Genova di non aver colto, nell'indagare sulla validità e gli effetti di quelle operazioni, l'influenza del fatto che il P. rappresentava entrambe le società (la S. e la L.) ed esercitava su di esse un potere illimitato, con espropriazione delle attribuzioni degli organi sociali; in questo quadro, come era stato specificamente dedotto in corso di causa, gli atti dell'amministratore non potevano sottrarsi a sanzione di nullità, ed integravano comunque illeciti produttivi di responsabilità risarcitoria, in quanto perseguivano obiettivi personali ed egoistici, in contrasto con le imperative regole, anche di ordine pubblico cui deve uniformarsi l'attività sociale. Con particolare riferimento all'assegnazione gratuita delle azioni della L., si sostiene che la sentenza impugnata non poteva dare importanza al mandato conferito dall'assemblea, dimenticando che essa era del tutto esautorata; non poteva ravvisare una distribuzione di utili effettivamente conseguiti, senza spiegare, o spiegando con contraddittoria motivazione, quali fondi fossero stati all'uopo impiegati, e trascurando inoltre che la ripartizione di utili deve essere attuata in denaro, secondo le prescrizioni della legge 25 novembre 1983 n. 649; non poteva non considerare che le deliberazioni adottate dall'assemblea in ordine a detta distribuzione (e non seguite da ratifiche o rinnovazioni), sotto l'apparente veste della ripartizione di accantonamenti (peraltro non menzionati espressamente), artificiosamente risultanti da espedienti contabili e bilanci non veritieri, comportavano, nella sostanza, una vietata devoluzione ai soci del patrimonio della società.
Con riguardo poi alle vendite in favore della L., si fa carico alla Corte d'Appello di non aver rilevato la radicale nullità dei contratti, per difetto di funzione commutativa, per carenza di reale volontà contrattuale, per inadeguatezza dei corrispettivi e per illiceità dei motivi comuni ed entrambe le parti; di aver erroneamente escluso la loro annullabilità per dolo; di aver illegittimamente negato ingresso all'azione di annullamento dei contratti stessi per conflitto di interessi, ritenendo maturata la prescrizione, quando invece il relativo termine non era scaduto, potendo decorrere, anche in applicazione estensiva dell'art. 1442 c.c., secondo comma, solo dal momento in cui era cessato il predominio del P. e la S., conosciuta l'effettiva situazione, era in grado di insorgere giudizialmente. I motivi sono infondati. Per rispondere alle deduzioni, pertinenti a tutte le "operazioni L.", secondo cui la Corte d'Appello avrebbe sottovalutato l'intensità del legame fra le due società e la supremazia su di esse esercitata dal P., si deve osservare che l'ordinamento non nega cittadinanza alle società controllate o collegate, tramite le partecipazioni azionarie (fermi restando i limiti per l'acquisto o sottoscrizione di azioni di cui agli artt. 2359 e 2361 c.c.), né vieta che la volontà sociale coincida con quella del singolo socio, persona fisica o giuridica, quando la sua partecipazione sia determinante per le scelte assembleari (salva la responsabilità del socio stesso verso i creditori, "ex" art. 2362 c.c., ove sia unico azionista). Ne consegue che la concentrazione delle azioni nelle mani di un solo socio, per l'intero capitale sociale, o comunque per quota sufficiente a consentirgli il controllo, ancorché venga accentuata dal cumulo con la carica di amministratore, e pure se implichi inserimento dell'ente nell'ambito di un "gruppo", non integra di per sé ragione d'invalidità od inefficacia delle deliberazioni o degli atti adottati o compiuti dai suoi organi; l'una o l'altra, pertanto, non sono desumibili dal mero riscontro della situazione di controllo o collegamento, mentre possono essere affermate esclusivamente sulla base delle specifiche disposizioni che regolano la formazione ed attuazione della volontà sociale, oltre che, ovviamente, dei comuni canoni in materia di atti e negozi giuridici.
Fatta questa premessa, e passando all'esame delle singole operazioni, va considerato, per quanto attiene alla distribuzione gratuita delle azioni della società L. ai soci della S., che è stata accertata, in sede di merito, la riconducibilità di detta distribuzione a deliberazioni assembleari della S., e che si tratta di stabilire se l'attuazione di tali deliberazioni possa determinare responsabilità del P. a norma dell'art. 2392 c.c. (una volta escluso, per quanto già osservato, che il "peso" avuto dal P., come socio, in fase di decisione assembleare, incida di per se sulla validità della volontà sociale). Il quesito deve ricevere risposta negativa. La responsabilità in esame insorge per la violazione di doveri inerenti alla carica, e, quindi, rispetto a comportamenti che si conformino e diano esecuzione ad espresso mandato assembleare, è ravvisabile soltanto in presenza di nullità di tale mandato, quale fatto ostativo al potere-dovere di dargli attuazione, non anche in presenza di mera annullabilità, non incidendo questa sull'efficacia delle determinazioni societarie e sul loro carattere vincolante nei confronti degli organi di gestione, fino a quando non siano rimosse con pronuncia di accoglimento dell'impugnazione proposta ai sensi dell'art. 2377 c.c. (si potrebbe prospettare una responsabilità dell'amministratore per negligenza nel non proporre detta impugnazione, essendo soggetto incluso fra quelli ad essa legittimati, ma il problema è estraneo al dibattito). In riferimento alla fattispecie, le deduzioni della S. sono tali da evidenziare, in tesi, la nullità della delibera di distribuzione, soltanto nella parte in cui ne sostengono l'illiceità, per aver perpetrato, tramite un'apparente ripartizione di riserve (con l'ausilio di falsa contabilità), un sostanziale smantellamento del patrimonio sociale; queste enunciazioni, però, non sono confortate dalla ricostruzione della vicenda effettuata in sede di merito, né sono corredate dall'indicazione di elementi muniti di decisività per infirmare detta ricostruzione.
Per il resto le affermazioni della ricorrente non vanno oltre l'allegazione di irregolarità o vizi della delibera di distribuzione, che, se sussistenti, integrerebbero ragioni d'impugnazione "ex" art. 2377 c.c.; non serve, quindi, prendere posizione in proposito, perché, si ribadisce, l'aver dato seguito a decisioni assembleari, impugnabili, ma non impugnate ed annullate, non può comportare responsabilità dell'amministratore per inosservanza dei doveri del suo ufficio. Venendo poi alle censure riguardanti le compravendite fra la S. e la L., si deve rilevare che la sentenza d'appello ha espresso un argomentato convincimento circa l'effettività di tali negozi e la loro portata traslativa, nonchè circa l'apprezzabile consistenza dei prezzi incassati dalla venditrice. Detto accertamento in fatto, che risulta appoggiato su motivazione logica ed adeguata, e che relega ad indimostrate affermazioni le deduzioni della ricorrente sul difetto di oggetto o di causa, o sulla illiceità della causa stessa o dei motivi, dà sufficiente sostegno al rigetto della domanda di declaratoria di nullità dei contratti; ricordando quanto sopra osservato, sulla non configurabilità di tale vizio radicale per la sola circostanza che i rapporti siano intervenuti fra società legate da vincoli di collegamento o controllo, ovvero rappresentate dalla medesima persona fisica; ed aggiungendo che queste ultime situazioni potrebbero evidenziare esclusivamente ipotesi di annullabilità dei negozi, perché posti in essere dal rappresentante in conflitto di interessi o con se stesso (artt. 1394, 1395 e 2391 c.c.). Ma il riscontro di tale annullabilità, richiesto dalla S. con domanda subordinata, è stato rettamente ritenuto precluso dalla Corte d'Appello, per maturazione della prescrizione quinquennale, cui la relativa azione è soggetta con decorso dalla conclusione del negozio, ai sensi dell'art. 1442, terzo comma, c.c. Non può invocarsi, circa il "dies a quo" della prescrizione, la norma di cui al secondo comma del citato art. 1442 c.c., perché essa si riferisce, con elencazione di tipo tassativo (v. Cass. n. 896 del 3 aprile 1970 e n. 987 del 3 aprile 1959), all'impugnazione per vizi del consenso o per incapacità legale, e non è estensibile agli "altri casi", testualmente previsti dal successivo terzo comma.
Né può sostenersi il differimento dell'inizio della prescrizione, quando l'amministratore in conflitto d'interessi sia anche il "dominus" della società, in grado di incidere sulle decisioni assembleari (e quindi anche su quella d'impugnazione del contratto), perché l'art. 2935 c.c. contempla, al fine indicato, le sole cause giuridiche ostative all'esercizio del diritto, non anche gli impedimenti di mero fatto (v. Cass. n. 5849 del 30 ottobre 1980). Parimenti corretta si deve ritenere la reiezione della domanda di annullamento delle compravendite per dolo. La società, che assuma la qualità di parte di un contratto, esprime la sua volontà negoziale attraverso il proprio organo rappresentativo. Un vizio del consenso, per effetto di artifici o raggiri, non è identificabile in relazione a comportamenti che si esauriscano nel rapporto fra rappresentante e rappresentata, non potendo lo stesso contraente essere autore e vittima dell'inganno. Il ventitreesimo motivo, attiene al rigetto dell'istanza di rimborso delle spese affrontate dalla S. per prestare cauzione, tramite polizza fideiussoria, in relazione al sequestro conservativo chiesto ed ottenuto sui beni del P.. Tale istanza, si deduce, non poteva essere disattesa per la mancata indicazione delle ragioni in diritto su cui si fondava, rientrando nei compiti del giudice l'individuazione della norma applicabile. Il motivo è fondato. Qualora, con l'autorizzazione del sequestro conservativo o giudiziario, venga stabilita una cauzione, ai sensi dell'art. 674 c.p.c., come condizione per l'eseguibilità della misura cautelare ed al fine di salvaguardare il sequestrato per l'eventualità che risulti ingiustamente sottoposto a tale misura, gli esborsi occorrenti per prestare detta cauzione vanno qualificati come spese del processo, in quanto indispensabili affinché la parte possa beneficiare del favorevole provvedimento conseguito. Dalla natura di detti esborsi deriva che il giudice, nel pronunciare sulla convalida del sequestro e sul merito, deve statuire anche sul loro carico, nell'ambito della decisione sulle spese di causa, secondo le regole di cui agli artt. 91 c.p.c. e segg. (incluse quelle in tema di compensazione, ovvero riduzione delle spese ritenute eccessive o superflue); decisione che non esige una espressa richiesta della parte interessata (principio giurisprudenziale consolidato, v., ad esempio, Cass. n. 1659 del 13 marzo 1982), né, a maggior ragione, una richiesta accompagnata da specifico richiamo di dette norme.
La Corte di Genova, pertanto, dando atto che la regolamentazione delle spese fra la S. e la T. era stata rimessa dal Tribunale all'esito del giudizio sul "quantum", avrebbe dovuto ritenere compresi in tale differita regolamentazione i costi della cauzione, essendo erroneo il disconoscimento "in radice" della loro ripetibilità. Con il ventiquattresimo motivo, la S., in relazione all'accoglimento della sua domanda di rivendicazione delle azioni della società A. indebitamente detenute dalla società L., si duole che la Corte d'Appello abbia ritenuto dimostrato il preteso pagamento di lire 190.000.000 per aumento di capitale, e quindi affermato il diritto della convenuta di ottenerne il recupero, sulla sola base di atti del collegio sindacale della convenuta medesima, così violando le regole sull'onere della prova poste dall'art. 2697 c.c. Il motivo è infondato. Le regole richiamate dalla ricorrente non privano il giudice del merito della facoltà di vagliare tutti gli elementi, ancorché indiziari, offerti dalle risultanze di causa, a prescindere dalla loro provenienza; a detto giudice, pertanto, non può addebitarsi di aver utilizzato, nella formazione del convincimento sui fatti dedotti da una parte, documenti o dichiarazioni di essa (o dei suoi organi, in caso di società), sempre che, come nella specie, non sia mancato un controllo sulla loro attendibilità, in correlazione con le circostanze concrete (come l'epoca "non sospetta" di detti documenti o dette dichiarazioni) e con gli altri dati forniti dal processo (come le posizioni difensive assunte dagli avversari). Il primo dei ricorsi proposti da Costanza T. si sviluppa in tre motivi. Con il primo motivo, si censura l'affermazione di appartenenza alla S. di tutti i beni costituenti i "fondi R". Si sostiene che tale affermazione si fonda su indizi equivoci, in parte ricavati a loro volta da presunzioni, e comunque non idonei a giustificare il diniego di prova contraria. Il motivo è infondato.
La Corte di Genova, nell'affrontare il quesito se la S. era titolare o meno dei cespiti patrimoniali oggetto di contabilità riservata, ha svolto un'analitica esegesi dei dati certi emergenti dall'istruttoria processuale, ha poi coordinato gli elementi presuntivi da essi offerti, ed infine ha espresso un convincimento affermativo di detta titolarità, affidandosi ad un giudizio di sintesi sull'attendibilità, adeguatezza ed univocità degli indizi. Detta indagine e detta conclusione, con il corollario della superfluità dell'acquisizione di ulteriori mezzi istruttori, si uniformano all'esatto criterio secondo cui, in tema di prova presuntiva, il collegamento fra fatto noto e fatto da provare va effettuato con parametri di normalità e regolarità causale ("id quod plerumque accidit"); non sono viziate dall'utilizzazione di presunzioni di secondo grado, la quale non può essere confusa con l'indicato coordinamento logico dei vari elementi; non presentano lacunosità o contraddizioni motivazionali, e, quindi, sfuggono a sindacato di questa Corte (cui ovviamente non è consentito di riesaminare direttamente la consistenza e pertinenza delle circostanze indiziarie). Il secondo ed il terzo motivo sono inerenti alla responsabilità dell'amministratore "ex" art. 2932 c.c. Tale norma, assume l'erede del P., non legittima la sua condanna generica al risarcimento del danno, né con riguardo all'occultamento dei fondi riservati, perché il fatto è privo di sicura potenzialità dannosa, essendo ipotizzabile con pari probabilità una situazione di vantaggio per la società, né con riguardo ai singoli atti di disposizione dei fondi stessi, mancando la prova di un conflitto con gli interessi della società e comunque del verificarsi in concreto di una lesione di detti interessi. I motivi, strettamente connessi, sono infondati, alla luce delle considerazioni già svolte circa la qualificabilità, come fatto potenzialmente pregiudizievole per la società, di ogni comportamento del suo amministratore in violazione di specifici doveri inerenti alle modalità di gestione del patrimonio sociale, e circa l'ininfluenza, al fine di una pronuncia limitata allo "an debeatur", di questioni relative sia alla quantificazione, sia alla effettiva sussistenza del danno.
Il primo dei ricorsi della società L. si articola in sette motivi. I primi tre motivi riguardano ancora il problema della titolarità dei "fondi R". Si fa proprio il primo mezzo d'impugnazione formulato dalla T.. Inoltre, ci si duole che la Corte d'Appello non ha esaminato le specifiche deduzioni, avanzate con l'atto di gravame, sull'appartenenza alla L. almeno della somma di lire 279.700, con il conseguenziale determinarsi di una situazione di comproprietà, ostativa all'accoglimento della domanda di rivendicazione che ha erroneamente desunto dal mero rilievo dell'inattendibilità di alcune dichiarazioni del P. la prova che i fondi fossero stati da lui acquisiti ed amministrati nel solo interesse della S., trascurando le circostanze che ne evidenziavano la costituzione ed utilizzazione in favore di tutte le società del "gruppo"; che non ha tenuto conto degli specifici elementi che suffragavano l'eccezione di usucapione dei beni rivendicati dalla S.. I motivi sono infondati. Alle osservazioni precedenti, in punto di correttezza dei criteri di esegesi della prova presuntiva, nonché d'insindacabilità in sede di legittimità delle valutazioni al riguardo, si deve aggiungere che la sentenza impugnata non può essere criticata per il mancato esame particolareggiato di tutti gli elementi opposti contro la tesi dell'appartenenza in via esclusiva alla S. dei "fondi R", perché il motivato convincimento sul fondamento di tale tesi, con puntuale indicazione dei dati su cui si poggia, contiene in sé una risposta adeguata, ancorché implicita, sull'inconsistenza delle presunzioni invocate a sostegno della tesi contraria. Con il quarto motivo, la L., premesso che l'aumento di capitale deliberato dalla società A. (da lire 400.000.000 a lire 800.000.000, con elevazione del valore nominale di ciascuna azione da lire 5.000 a lire 10.000) seguiva di un giorno una corrispondente riduzione del capitale medesimo per perdite, sostiene che la somma, da essa versata per tale aumento, aveva la funzione di incrementare o quantomeno conservare il peso economico dei titoli posseduti, sicché, in sede di rimborso di quanto speso per detta causale, non le si poteva negare un adeguamento della somma stessa, a soddisfacimento del credito indennitario previsto dall'art. 1150 c.c.
Il motivo, pur contenendo alcune condividibili considerazioni, che richiedono una correzione in diritto della motivazione della sentenza d'appello, non ne infirma il "decisum", e, pertanto, va respinto. L'esborso affrontato dall'azionista per un'operazione di aumento di capitale, quali che siano le modalità con cui tale aumento venga attuato o le ragioni che lo abbiano determinato, incrementa la complessiva consistenza economica dei titoli, perché questi, con maggiorazione del loro numero ovvero del loro valore nominale, esprimono, dopo quell'operazione, una partecipazione, con identica percentuale, ad un capitale di importo superiore. Se ne deduce che il possessore delle azioni, il quale aderisca all'aumento di capitale con denaro proprio e poi subisca la rivendicazione dei titoli da parte del proprietario, può invocare il citato art. 1150 c.c., perché restituisce un "quid pluris" rispetto a quanto sarebbe spettato al rivendicante senza quell'adesione, e, quindi, allegando la buona fede (da presumersi), può conseguire un indennizzo corrispondente all'incremento di valore goduto dal "pacchetto" per effetto dell'aumento di capitale. Tale incremento, peraltro, trattandosi di titoli azionari, potrebbe superare l'entità del maggior ammontare in denaro da essi espresso solo dietro deduzione e dimostrazione di un diverso e più consistente prezzo di mercato dei titoli stessi (in relazione ad un potenziale del patrimonio della società eccedente il capitale, od altre situazioni atte ad incidere su detto prezzo). Ne discende che la L., non avendo allegato e provato nel processo di merito l'indicata divaricazione fra valore nominale e valore effettivo delle azioni nei suoi confronti vittoriosamente rivendicate, non ha ragione di lamentarsi della mancata applicazione dell'art. 1150 c.c., le cui disposizioni non le avrebbero accordato, in difetto della suddetta prova, più di quanto in concreto riconosciutole (rimborso del versamento effettuato per l'aumento di capitale, oltre gli interessi). Con il quinto, il sesto ed il settimo motivo, la società L. censura il rigetto della domanda di condanna della S. al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata.
Il fondamento di tale domanda, assume la ricorrente, era inequivocamente evidenziato dall'avventatezza con cui la S. aveva trascritto la pretestuosa citazione di primo grado per la declaratoria di nullità o l'annullamento degli atti di compravendita (trascrizione facoltativa e non obbligatoria), proponendo poi pervicacemente appello contro la sfavorevole sentenza del Tribunale; era altresì evidenziato dai chiari elementi presuntivi inerenti al verificarsi di un grave danno, specie considerando la sua attività istituzionale di gestione e vendita di beni immobili. Le contrarie affermazioni della Corte di Genova, prosegue la ricorrente, sono frutto di un errore in diritto, essendosi confuso fra responsabilità per lite temeraria, che richiede la mala fede o la colpa grave (art. 96 c.p.c., primo comma) e responsabilità per trascrizione di domanda infondata, per la quale è sufficiente la colpa lieve (art. 96 c.p.c., secondo comma); di un'inadeguata e viziata valutazione delle prove sul danno, posto che le risultanze processuali erano sufficienti ad indicarne sussistenza ed entità, erano comunque integrabili secondo le specifiche deduzioni e richieste istruttorie formulate in sede di gravame, e, in ogni caso, avrebbero consentito di pronunciare in via generica sulla debenza del risarcimento; di un errore di prospettiva, perché si è vagliato il comportamento della S. facendo riferimento alle ragioni del rigetto della sua pretesa, trascurandosi l'obiettiva ed evidente carenza del diritto imprudentemente dedotto in giudizio. I motivi sono infondati. Al fine della responsabilità processuale, a norma dell'art. 96 c.p.c., secondo comma, per la trascrizione di domanda relativa a diritto poi accertato inesistente, basta, come ben osserva la ricorrente, un difetto di normale diligenza nel non prevedere l'esito sfavorevole della controversia e nel non cogliere quindi la sventatezza dell'uso della facoltà di effettuare detta trascrizione (v. Cass. n. 5265 del 5 agosto 1983, n. 6407 del 3 dicembre 1981).La sentenza impugnata non ha trascurato il riportato principio, perché, a parte qualche non decisiva imprecisione terminologica, ha negato la responsabilità risarcitoria della S. proprio per l'esclusione di un suo comportamento imprudente, non per difetto di dolo o colpa grave.
La motivazione che correda tale esclusione è coerente ed appagante, anche dove richiama le divergenti considerazioni giuridiche che hanno portato ad affermare, in primo ed in secondo grado, l'insussistenza del diritto azionato; l'oggettiva controvertibilità delle questioni dibattute in causa non può non essere un logico parametro per saggiare l'atteggiamento psichico della parte che risulti soccombente. La rilevata correttezza ed insindacabilità della pronuncia della Corte di Genova, in punto di carenza del requisito soggettivo per l'applicazione a carico della S. dell'art. 96 c.p.c., secondo comma, rende superfluo l'esame delle censure attinenti al concorrente presupposto della dimostrazione di un concreto pregiudizio economico per la parte vittoriosa. Le ulteriori impugnazioni, che sono state proposte, in via di ricorso incidentale avverso il ricorso della S., dalla società L. (con una riformulazione delle censure già avanzate con il suo precedente ricorso, cui si unisce la richiesta di riconoscimento anche dei danni subiti dopo la sentenza d'appello) e dalla T. (per censurare l'affermazione dell'ammissibilità dell'appello incidentale tardivamente proposto nei suoi confronti dalla S.), devono essere dichiarate inammissibili. La parte, che abbia già proposto ricorso (principale od incidentale) contro alcune delle statuizioni rese dalla sentenza d'appello, nel rapporto con un determinato avversario, non può presentare un secondo ricorso, nell'ambito dello stesso rapporto, nemmeno se nel frattempo abbia ricevuto notificazione del ricorso di detto avversario, ed a prescindere dal fatto che quest'ultimo possa suggerire un'estensione della contesa anche con riguardo ad altre pronunce relative a quel rapporto. Ciò discende dal principio della cosiddetta consumazione del diritto d'impugnazione, non contemplando l'ordinamento un reiterarsi o frazionarsi dell'iniziativa impugnatoria in atti separati (v. Cass. n. 6742 del 12 dicembre 1988, n. 2186 del 28 marzo 1985, n. 1814 del 16 marzo 1984).
Il ricorso per cassazione, come del resto l'appello, deve necessariamente contenere, con la manifestazione della volontà di conseguire un controllo della sentenza impugnata, la specificazione dei punti cui tale richiesta si riferisce e delle ragioni cui essa si correla, senza alcuna possibilità di successivo ampliamento del dibattito con l'introduzione di doglianze ulteriori; pertanto, la facoltà d'impugnazione, venga esercitata subito, a prescindere dall'atteggiamento dell'avversario, ovvero dopo la conoscenza dell'impugnazione dell'avversario medesimo, non può che esprimersi in un unico atto. La regola si armonizza con quanto sopra osservato in sede d'interpretazione dell'art. 334 c.p.c.; la norma, nel rapporto fra soggetti reciprocamente soccombenti, favorisce la scelta di accettazione della sentenza, non rendendola vincolante ove venga superata dall'impugnazione dell'altro contendente, mentre, nel caso di scelta di segno opposto, precedente o successiva all'iniziativa di detto altro contendente, non vi è ragione di tutelare chi ha già deciso di instaurare il processo d'appello o di legittimità, e resta ferma l'esigenza dell'unicità del suo atto d'impulso, con la formazione del giudicato in ordine alle statuizioni che non vengano con esso censurate. Il ricorso incidentale del D. C., condizionato all'accoglimento del ricorso principale della S. (condizione verificatasi), è rivolto a sostenere che gli deve essere riconosciuto il diritto di regresso o rivalsa nei riguardi di tutti gli altri "ex" amministratori e sindaci, originariamente convenuti o successivamente chiamati in giudizio, non soltanto di quelli in carica con esso ricorrente, ma anche di quelli in carica in epoche anteriori, quali corresponsabili dei danni denunciati dalla S..
Il ricorso è inammissibile. L'inammissibilità deriva, nel rapporto fra il D. C. e gli amministratori o sindaci non estromessi dal giudizio, dalla circostanza che la Corte di Genova non ha statuito su detta rivalsa, essendo ogni problema in proposito assorbito dall'assoluzione del medesimo D. C.; le relative questioni, quindi, esulano dal giudizio di legittimità e potranno essere riproposte in sede di rinvio, nell'ambito del dibattito conseguente all'accoglimento del ricorso della S. in punto di ammissibilità del suo appello incidentale contro il D. C. (e per l'eventualità che tale gravame venga accolto). L'inammissibilità medesima, nel diverso rapporto fra il D. C. e gli "ex" amministratori e sindaci (o loro aventi causa) evocati in giudizio con atto di chiamata in causa e poi estromessi, discende dal diverso e prioritario rilievo della notificazione del ricorso incidentale dopo la scadenza del termine all'uopo previsto. Fra causa principale e causa di garanzia, proposta dal convenuto con atto di chiamata in causa per essere tenuto in tutto od in parte indenne degli effetti dell'eventuale accoglimento della pretesa attrice, sussiste vincolo di inscindibilità, anche ai fini dell'applicabilità dell'art. 334 c.p.c. in tema d'impugnazione incidentale tardiva, in relazione al nesso che lega le decisioni sul merito delle rispettive domande; pertanto, ove la domanda di garanzia non sia stata vagliata nel merito, per il pregiudiziale riscontro dell'irritualità della chiamata e della sua conseguente inidoneità ad introdurre istanze contro il chiamato (come si è verificato nella specie avendo i Giudici del merito affermato l'esorbitanza della chiamata rispetto all'autorizzazione al riguardo concessa), difetta la suddetta inscindibilità e la pronuncia di "estromissione" del chiamato, esaurendosi sul piano processuale, ha natura autonoma, determinando una posizione di soccombenza del chiamante del tutto indipendente dalla controversia principale. L'impugnazione di tale pronuncia, quindi, ancorché abbia il carattere dell'impugnazione incidentale per effetto di pregressa notificazione al convenuto dell'impugnazione dell'attore, non può godere della citata norma e deve rispettare i termini fissati dagli artt. 325-327 c.p.c.
In conclusione, la sentenza della Corte d'Appello va annullata, relativamente alla controversia fra la S. ed il D. cagnoni, nonché il M., il R., il M. e lo S., nella parte in cui ha negato l'ammissibilità del gravame incidentale dell'una contro gli altri, ed inoltre, relativamente alla controversia fra la S. e la T., nella parte in cui ha escluso il diritto della prima di vedere compresi, nell'emananda pronuncia sulle spese di causa, gli esborsi affrontati per la prestazione di cauzione. Al giudice di rinvio, che si designa in altra Sezione della Corte d'Appello di Genova, spetterà di esaminare il fondamento di detto appello incidentale, muovendo dalla premessa della sua tempestiva proposizione, nonché di uniformarsi, quanto ai costi della cauzione, al principio della loro inclusione fra le spese processuali. Allo stesso giudice di rinvio si affida la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione, nei rapporti fra i contendenti sopra indicati. Queste ultime spese, in tutti gli altri rapporti, si ritiene debbano essere integralmente compensate, considerando la natura delle questioni definite, la reciprocità della soccombenza, ed altresì, con riferimento ai ricorsi incidentali dichiarati inammissibili, il rilievo d'ufficio di ragioni d'inammissibilità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; con riguardo al ricorso della S., accoglie i primi otto motivi, nonché il ventitreesimo motivo, respingendo gli altri motivi; rigetta il primo ricorso proposto dalla T. ed il primo ricorso proposto dalla L.; dichiara inammissibili gli ulteriori ricorsi incidentali della T. e della L.; dichiara inammissibile il ricorso incidentale del D. C.; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia ad altra Sezione della Corte d'Appello di Genova, anche per le spese del presente giudizio nel rapporto fra la S. e le parti da essa convenute con l'azione di responsabilità; compensa le spese del presente giudizio negli altri rapporti.
Così deciso in Roma il 29 novembre 1989.
Depositata in cancelleria il 22 giugno 1990.