Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 748 - pubb. 01/07/2007

Abusiva concessione di credito e competenza del tribunale fallimentare

Tribunale Foggia, 07 Maggio 2002. Est. Petti.


Abusiva concessione di credito - Comptenza del tribunale fallimentare - Sussistenza.



Poichè la competenza va determinata in base alla prospettazione dell'attore deve ritenersi di competenza del medesimo tribunale fallimentare, ai sensi dell'art. 24 legge fallim., la domanda del curatore rivolta oltre che all'esercizio di azioni revocatorie, anche di quelle rivolte all'accertamento della responsabilità degli enti economici per abusiva concessione del credito riferibile alla dichiarazione di fallimento. L'azione per risarcimento del danno da abusiva concessione del credito all'imprenditore, che consente la continuazione dell'attività Imprenditoriale, aggravando il pregiudizio, è un'azione di massa, anche sotto il profilo della responsabilità ex art. 2394 cod. civ..


 


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omissis

Il curatore del fallimento della soc. a resp. Lim. Italsemole, con sede legale in Foggia, con citazione notificata per mezzo del servizio postale il 31 agosto del 1999, convenne davanti a questo tribunale la Rolo Banca 1473 soc. per az., in persona del suo legale rappresentante, per sentirla condannare, a norma dell'articolo 2043 cod. civ., al risarcimento del danno per concessione abusiva del credito nei confronti della fallita, determinato in misura pari alle passività non bancarie della stessa risultanti dallo stato passivo, detratte le attività, nonché per sentire revocare: a) tutti gli atti a titolo oneroso, in considerazione dello «smodato tasso degli interessi praticato» e delle «finalità non conformi all'attività di credito»; b) tutti i versamenti effettuati, sia con mezzi propri di pagamento che mediante dazioni di pegno, cessioni di credito, mandati a riscuotere o altri mezzi analoghi, e, di conseguenza, per sentirla condannare alla restituzione della somma di lire 5.890.145.542 per gli anni 1992-1993 e di quella da determinarsi in corso di causa per l'anno 1994, oltre al rimborso delle spese di lite. In via subordinata chiese che il tasso degli interessi per il periodo 1992-1994 fosse ridotto alla misura legale, per la mancanza di pattuizione scritta del tasso convenzionale ultralegale. A fondamento della domanda addusse che il fallimento era stato pronunciato l'8 settembre del 1994, con sentenza del tribunale di Nola; che i debiti della fallita erano notevolmente superiori alla consistenza patrimoniale, che il passaggio a «sofferenza» nella scheda della Centrale rischi era stato segnalato solo nel mese di settembre del 1993, benché si sapesse da tempo, quanto meno dalla fine del 1991, che l'Italsemole era insolvente; che gli istituti di credito in genere e la convenuta in particolare, pur conoscendo la condizione d'insolvenza dell'Italsemole e del gruppo Casillo, del quale la fallita era ritenuta parte, l'avevano «mantenuta artificiosamente in vita», suscitando negli operatori di mercato la falsa opinione che si trattasse d'impresa economicamente solvibile; che, per mascherare rapporti economico-finanziari compromessi, gli istituti di credito avevano chiesto una serie di inutili garanzie fideiussorie che le diverse società si erano scambiate tra di loro; che la sproporzione tra la debitoria complessiva verso le banche ed il valore dei beni messi a disposizione era tale che gli organi eroganti il finanziamento avrebbero dovuto «compiere un non indifferente sforzo per non vedere lo stato delle cose e l'impossidenza del cliente»; che la mancata valutazione dei dati informativi sul cliente o addirittura l'interessata mancata acquisizione dei dati stessi, faceva presumere che i finanziamenti fossero concessi, non in base ad una corretta valutazione del rischio, ma per rapporti anomali con Pasquale Casillo, socio di riferimento del gruppo; che tale comportamento della convenuta configurava un'ipotesi di concessione abusiva del credito in applicazione del principio enunciato dalla suprema Corte con la sentenza n. 343 del 1993; che nel biennio precedente la dichiarazione di fallimento e quanto meno fino al luglio del 1993 le varie banche e le società di factoring, spesso collegate agli istituti di credito o loro diretta emanazione, avevano continuato a prendere tutto ciò che era possibile prendere rendendosi cessionarie di ogni tipo di credito; avevano venduto titoli, realizzato quelli offerti in garanzia ecc.; che in particolare, nel periodo ottobre 1992-dicembre 1993, la fallita aveva effettuato versamenti in favore della convenuta sul conto n. 1414 per lire 3.660.000.000 per il 1992 e per complessive lire 2.230.145.542 per il 1993.

Instauratosi il contraddittorio, la convenuta eccepì preliminarmente la nullità dell'atto di citazione per l'assoluta indeterminatezza dello stesso, sia per quanto concerneva l'oggetto della domanda, sia per quanto riguardava l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto. Subordinatamente, relativamente all'azione risarcitoria ex articolo 2043, eccepì: A) l'incompetenza per territorio di questo tribunale per essere competente quello di Bologna, dove la convenuta aveva la sede, trattandosi di azione non rientrante tra quelle di cui all'articolo 24 della legge fallimentare; B) il difetto di legittimazione attiva del curatore per essere legittimati i singoli creditori danneggiati; C) la prescrizione dell'azione perché erano trascorsi oltre cinque anni dalla cessazione del finanziamento, ritenuto abusivo dal curatore. Relativamente all'azione revocatoria eccepì l'improponibilità della domanda giacché il periodo sospetto andava computato, non dalla sentenza del tribunale di Nola, come erroneamente ritenuto dall'attrice, ma da quella pronunciata dal tribunale di Foggia il 17 giugno del 1996, posto che quella del tribunale di Nola era stata annullata senza rinvio dalla suprema Corte per incompetenza. Nel merito dedusse che le domande erano comunque infondate.

Con ordinanza dell'8 febbraio 2000, questo giudice respinse l'eccezione di nullità della citazione ed alla successiva udienza del 30 maggio 2000;ravvisata l'opportunità di definire tutte le questioni preliminari di rito e di merito, le quali, se ritenute fondate, avrebbero potuto concludere l'intero giudizio, invitò le parti a precisare le rispettive conclusioni.

Con sentenza n. 2138 del 16 ottobre 2000, dichiarò la competenza di questo tribunale anche per l'azione risarcitoria, dichiarò il curatore legittimato anche per l'azione risarcitoria; rigettò l'eccezione di prescrizione dell'azione risarcitoria; dichiarò proponibile la revocatoria. Contestualmente con separata ordinanza rimise la causa in istruttoria e, accogliendo un'istanza già contenuta nell'atto di citazione, ingiunse alla banca convenuta di esibire alcuni documenti. Espletata l'istruzione con la produzione di documentazione, l'assunzione di alcuni testimoni e l'espletamento di una consulenza tecnica, da cui è emerso che il danno, determinato in base alla differenza tra passivo ed attivo fallimentare, ammontava a lire 164.788.08.3.857, all'udienza del 30 gennaio 2002, questo giudice ha trattenuto la causa per la decisione previa precisazione delle conclusioni ed assegnazione dei termini per il deposito di comparse e memorie di replica.


Motivi della decisione

Tutte le questioni preliminari di rito e di merito sono state già decise con la sentenza non definitiva. Nelle more però la suprema Corte, adita a seguito di regolamento facoltativo di competenza in altra analoga controversia assegnata a questo stesso giudice, pur confermando la competenza di questo tribunale ai sensi dell'art. 20 cod. proc. civ., ha ritenuto che l'azione risarcitoria proposta dalla curatela non fosse azione di massa e che il curatore non fosse legittimato. La decisione della suprema Corte (ord. 9 ottobre 2001, n. 12.368) non potrebbe esplicare alcuna efficacia in questo giudizio, quand'anche il decidente dovesse condividerne la motivazione, essendo allo stato vincolante per l'esponente la pronuncia contenuta nella sentenza non definitiva. Ma la statuizione della suprema Corte non è assolutamente condivisibile per le ragioni che seguono.

La Corte, chiamata a statuire solo sulla competenza è stata surrettiziamente indotta dalla banca convenuta a pronunciarsi anche sulla legittimazione del curatore su una questione cioè che riguarda il merito e sulla quale pendeva impugnazione davanti alla Corte d'appello di Bari. Come è noto, la competenza va determinata in base alla prospettazione dell'attore (artt. 5 e 10 cod. proc. civ.) a prescindere dalla sua fondatezza e dalle eccezioni del convenuto, le quali rilevano solo come fonte complementare degli elementi determinativi. Solo quando la prospettazione attorea sia artificiosa, sia cioè diretta proprio ad eludere i criteri attributivi della competenza, si può tenere conto delle contestazioni del convenuto (cfr. Cassazione, nn. 2125/86; 6100/88; Il.3 74/95; 6748/96; 789/98; .3546/98). Nella fattispecie il curatore aveva chiesto ed ottenuto l'autorizzazione all'esercizio, non solo delle azioni revocatorie, ma anche di quelle rivolte «all' accertamento delle responsabilità degli enti economici riferibili alla dichiarazione di fallimento» (cfr. decreto di autorizzazione del giudice delegato allegato al fascicolo della curatela); al fine di ottenere per la platea dei creditori diversi da quelli bancari il risarcimento del danno per l'artificiosa sopravvivenza di una società che sarebbe dovuta fallire quanto meno dalla fine del 1991: aveva insomma lasciato intendere (per chi avesse voluto intendere il significato della citazione) che esercitava un'azione di massa, tanto è vero che aveva determinato il danno in misura pari alle passività non bancarie, detratte le attività. Questa prospettazione, non essendo artificiosa, era sufficiente a radicare la competenza funzionale di questo tribunale a norma dell'articolo 24 legge fallim., posto che le azioni di massa rientrano, per giurisprudenza consolidata della stessa Corte di legittimità, nella competenza del tribunale che ha dichiarato il fallimento. Di conseguenza la Corte regolatrice avrebbe dovuto, ai fini della statuizione sulla competenza, limitarsi a prendere atto della prospettazione attorea e a dichiarare la competenza funzionale di questo tribunale, come peraltro correttamente ritenuto dalla Procura Generale. La suprema Corte, invece, ha liquidato il principio della prospettazione, assolutamente pacifico in dottrina e nella stessa giurisprudenza di legittimità, affermando che il giudice del merito erroneamente aveva attribuito rilievo al fatto «... che il giudice delegato al fallimento aveva autorizzato "un'azione di massa"; che la curatela aveva dichiarato di "volere esercitare un' azione di massa) essendo in ogni caso irrilevante proprio ai fini della competenza il nomen iuris che la parte ha dato all'azione intrapresa"». In proposito si osserva che, proprio in base all'insegnamento della Corte di legittimità, ai fini della competenza, si deve dare rilievo alla prospettazione attorea: poiché l'azione si esercita con la domanda, è la domanda che attribuisce la qualità di parte. Se poi la parte che ha domandato sia anche la titolare dell'interesse sottostante, sia anche cioè quella che autorevole dottrina chiamava la giusta parte del processo, è questione che riguarda il merito e non la competenza. Nella fattispecie, non si poneva un problema di qualificazione giuridica dell'azione, non si poneva cioè un problema di nomen iuris, come erroneamente ritenuto dalla Corte, surrettiziamente tratta in errore dalla difesa della convenuta in quel giudizio, ma si trattava di stabilire se la curatela, la quale assumeva di agire per la massa, fosse veramente la titolare della pretesa fatta valere e tale questione riguardava il merito e non la competenza. Sul punto la stessa suprema Corte ha statuito che «la legittimazione ad agire costituisce una condizione dell'azione e non un presupposto processuale come la competenza, una condizione cioè per ottenere dal giudice una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall'azione, prescindendo dall'effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, onde appartiene al merito della causa l'accertamento in concreto se l'attore ed il convenuto siano, rispettivamente dal lato attivo e passivo, effettivamente titolari del rapporto fatto valere in giudizio (cfr. per tutte Cassazione, 2049 del 2000). La Corte, escludendo la legittimazione del curatore, si è pronunciata anche sul merito perché ha escluso che vi possa essere stata una lesione della massa, senza peraltro esaminare il fatto che doveva ancora essere accertato.

Per escludere la competenza funzionale del tribunale la Cassazione ha rilevato che il giudice del merito ossia il sottoscritto avrebbe errato nell'individuare l'evento dell'abusiva concessione del credito nella dichiarazione di fallimento mentre esso consiste «nel pregiudizio in concreto arrecato ai creditori per l'incremento dell'esposizione debitoria, per l'aggravamento del dissesto economico dell'imprenditore e per l'insufficienza del patrimonio dello stesso, situazioni queste che ben possono verificarsi in un tempo anteriore alla dichiarazione di fallimento (e trovare poi in questa e nello svolgimento della procedura fallimentare semplicemente una ricogmzione preordinata, secondo le norme degli artt. 92 segg. legge fallim. all'ammissione dei creditori alla liquidazione concorsuale ».

Non è vero che l'esponente aveva individuato l'evento della concessione abusiva del credito nella dichiarazione di fallimento. L'evento era stato individuato invece nel ritardo con cui tale dichiarazione era stata pronunciata, che è cosa diversa. In proposito l'esponente aveva precisato che, a mano a mano che la società assumeva nuove obbligazioni poi non adempiute, il danno per i creditori anteriori e posteriori all'assunzione del nuovo debito aumentava, e che esso si era cristallizzato con la dichiarazione di fallimento. Questa rappresenta il momento finale della fattispecie illecita costituita dalla condotta concessiva del credito e dal ritardato fallimento. L'esponente aveva individuato il danno proprio nel pregiudzzio, per i creditori anteriori e posteriori alla concessione del credito, sottolineato dalla Corte e non aveva mai affermato che esso fosse posteriore alla dichiarazione di fallimento, avendo solo sostenuto che il suo accertamento presupponeva la dichiarazione di fallimento, era influenzato dalla disciplina sostanziale e processuale della legge speciale e poteva essere effettuato solo dopo la dichiarazione del fallimento con l'accertamento del passivo e la ricostruzione dell'attivo. Invero, se il danno da ritardato fallimento consiste nella differenza tra la percentuale che i creditori non bancari avrebbero potuto recuperare, se il fallimento fosse stato tempestivamente dichiarato e quella che potranno conseguire ora, appare evidente a chiunque che tale accertamento non può prescindere dalla procedura fallimentare poiché non può prescindere dall'accertamento del passivo e dalla ricostruzione dell'attivo. La stessa suprema Corte nella decisione che ora si critica ha ribadito che rientrano nella competenza funzionale del tribunale fallimentare, oltre alle azioni di massa, tra l'altro anche quelle «che nel fallimento o attraverso l'applicazione di norme sostanziali e processuali della disciplina speciale, debbono trovare una nuova sistemazione in relazione alla ricostruzione del patrimonio del fallito, in funzione dell' attuazione della par condicio creditorum (dunque cause relative a rapporti destinati ad essere disciplinati dalle norme sostanziali e processuali della legge fallimentare in relazione alle finalità della procedura concorsuale: il soddisfacimento dei creditori attraverso la liquidazione del patrimonio del fallito, ricostruito attraverso gli strumenti giuridici funzionali al ristabilimento ed all'attuazione della par condicio creditorum»" Orbene, se così è, all'esponente sembra che l'azione in questione rientri proprio tra quelle destinate ad essere influenzate dalla procedura fallimentare perché essa mira a ricostruire l'attivo quale sarebbe dovuto essere senza l'illecito sostegno delle banche e senza la ritardata cessazione dell'attività: mira in sostanza a recuperare con l'azione risarcitoria anche quegli incrementi dell'attivo che il curatore avrebbe potuto conseguire con le azioni revocatorie, in tutto o in parte perdute per effetto della ritardata pronuncia del fallimento.

Le considerazioni della Corte sono frutto di una superficiale lettura della decisione impugnata, la quale era in linea con l'interpretazione della Cassazione in ordine alla competenza funzionale del tribunale fallimentare. La riprova è costituita dal fatto che, pur parlando di pregiudizio dei creditori, di aggravamento del dissesto, di insufficienza del patrimonio, ecc. la Cassazione ha escluso la legittimazione del curatore nonostante che l'esponente avesse sottolineato che per il ritardo nella dichiarazione di fallimento o per l' aggravamento del dissesto e per altri fatti esposti dalla curatela, potesse configurarsi a carico dei funzionari della banca (del cui comportamento questa risponde civilmente) il concorso in reati fallimentari a norma degli artt. 110 o 113 cod. pen. Per tali reati, come è noto, la legittimazione del curatore ad esercitare l'azione civile nell'interesse della massa è riconosciuta dallo stesso legislatore con l'art. 240 legge fallimentare. La qualificata difesa degli istituti di credito, per escludere la legittimazione del curatore e la competenza funzionale di questo tribunale, aveva fatto riferimento alla lesione del singolo operatore di mercato senza mai parlare di aggravamento del dissesto o di ritardata cessazione dell' attività o di lesione della par condicio, ben sapendo che il riferimento all' aggravamento del dissesto, al pregiudizio dei creditori diversi da quelli bancari; avrebbe radicalmente modificato la prospettiva. La giurisprudenza citata dalla Corte, per escludere la competenza funzionale del tribunale fallimentare per le azioni risarcitorie proposte dal fallito o contro il fallito non è pertinente giacché in quei casi non si era verificato un danno per la massa ed una lesione della par condicio. Del pari improprio è il richiamo all'azione di cui all'articolo 2394 effettuato dalla Corte per escludere la competenza funzionale del tribunale fallimentare, giacché quest'ufficio aveva ritenuto l'azione in esame assimilabile a quella di cui all'articolo 2394 cod. civ. per avallare la tesi della legittimazione del curatore e non la competenza funzionale del tribunale fallimentare. In proposito si era affermato che l'azione di cui all'art. 2394 cod. civ. rientra o no nella competenza del tribunale fallimentare a seconda della natura del fatto che viene addebitato all'amministratore: se a questi si addebita l'aggravamento del dissesto o il ritardo nella pronuncia di fallimento, la competenza non può che appartenere al tribunale fallimentare, sia perché l'aggravamento del dissesto costituisce per l'amministratore un reato fallimentare e per gli illeciti costituenti reati fallimentari l'azione civile si propone davanti al tribunale che ha dichiarato il fallimento, sia perché l'aggravamento del dissesto si consuma definitivamente nel momento della dichiarazione di fallimento e nella sede dove il fallimento viene dichiarato ossia nella sede dell'impresa, come del resto ritenuto dalla stessa Corte nella decisione in esame, e perciò coincide con il luogo in cui viene dichiarato il fallimento.

La suprema Corte ha liquidato la questione della legittimazione del curatore con sorprendente approssimazione. L'unico argomento addotto a sostegno dell'esclusione è consistito nell'affermazione che l'azione in esame non può essere definita azione di massa, perché il danneggiato dall'abusiva concessione del credito non può, in via generale e di principio ed in relazione alla struttura dell'illecito in questione, identificarsi con la «totalità dei creditori», ossia con il ceto creditorio della procedura concorsuale (del quale, come la dottrina sul tema ha rilevato, è partecipe, di regola, anche, in quanto creditore, quel banchiere al quale viene imputato ed addebitato il comportamento abusivo». L'assunto della suprema Corte parte dall'implicita premessa che le azioni di massa siano solo quelle esercitate nell'interesse della «totalità dei creditori». La tesi, risalente nel tempo ed elaborata in un periodo in cui la prassi applicativa non aveva ancora offerto spunti di riflessione sulla fattispecie in esame, non è stata ripresa dalla più recente dottrina, sia perché si è rilevato che la stessa situazione si verifica nell'azione revocatoria rivolta contro le banche e non si è mai dubitato della legittimazione del curatore per il fatto che la convenuta farebbe parte della massa dei creditori ai quali l'azione revocatoria dovrebbe giovare, sia perché si è constatato che il cosiddetto «ceto creditorio» non è omogeneo, ma al contrario è costituito da diverse categorie di creditori portatori di diversi e talvolta contrapposti interessi, categorie che tendono a diversificarsi in relazione all'esistenza e consistenza delle garanzie e delle cause di prelazione che assistono o non assistono il credito. Di conseguenza, può accadere ed accade frequentemente che, mentre la banca, ritardando il fallimento, può evitare le revocatorie e consolidare le garanzie, talvolta senza correre alcun rischio in quanto le garanzie personali o reali fornite da terzi o comunque acquisite sul patrimonio dello stesso debitore le consentono di recuperare il proprio credito, il creditore non garantito può fare valere le sue pretese solo sul patrimonio sociale che diventa tanto più incapiente quanto più aumentano i creditori e quanto più diminuisce la possibilità di esercitare le revocatorie. Se il banchiere ha erogato abusivamente credito ad un imprenditore già in crisi allo scopo di lucrare qualche vantaggio, come ad esempio allo scopo di ritardare il fallimento oltre il termine per ti consolidamento delle garanzie o la perdita delle revocatorie, nemmeno la dottrina più prudente o più vicina alle banche dubita dell'illiceità del fatto o della legittimazione del curatore, perché in tale situazione il curatore interviene per ristabilire il principio di cui all'articolo 2741 cod. civ. D'altra parte la dottrina penalistica, fin da quando è entrata in vigore la legge fallimentare, ha sottolineato che non sempre il curatore che si costituisce parte civile nei processi per reati fallimentari agisce per la totalità dei creditori: ad esempio non agisce per la totalità dei creditori allorché si costituisce parte civile in un processo per bancarotta preferenziale. Per stabilire se il curatore sia o no legittimato occorre valutare la finalità dell'azione. Poiché il curatore ha la funzione di gestire e ricostituire il patrimonio del fallito per distribuirlo tra i creditori secondo il principio della par condicio, si deve ritenere legittimato tutte le volte in cui l'azione sia diretta a realizzare tale scopo. Una dottrina autorevole, che da tempo si è occupata del problema, ha affermato recentemente che nel caso di fallimento dell'impresa alla quale la banca ha concesso credito, il danno si manifesta anche direttamente sul patrimonio della stessa impresa fallita, quale danno all'integrità patrimoniale ed ha aggiunto che «la legittimazione a fare valere tale danno spetta al curatore in quanto si tratta di un'azione volta sia a ripristinare, almeno in parte, l'integrità del patrimonio sociale o comunque del fallito, sta a consentire una tutela ai creditori danneggiati dal ritardato fallimento». Insomma, accanto alla legittimazione del singolo creditore sociale, vi può essere anche quella del curatore nelle ipotesi in cui si verifichi una lesione della par condicio. Nel caso di contemporaneo esercizio dell'azione da parte del curatore e del credito re sociale spetterà alla banca, come rilevato dalla dottrina, «eccepire la duplicazione della domanda con conseguente possibile limitazione quantitativa dell' accoglibilità dell'una o dell'altra».

La fattispecie della concessione abusiva del credito può offendere più interessi: quello dei depositanti, quello del singolo operatore di mercato che ha fornito merce, poi non pagata, alla fallita, perché tratto in errore dalla solvibilità della stessa ingenerata dall'illecito sostegno bancario, quello degli stessi azionisti della banca danneggiati dall'illecito comportamento del funzionario che ha concesso credito e, se interviene il fallimento, anche quello della platea dei creditori diversi da quelli bancari nella misura in cui è stato alterato il principio della paritaria distribuzione dell'attivo. Ciascuno dei danneggiati può agire per la tutela della propria posizione soggettiva: per la lesione del principio della par condicio agisce il curatore, la cui legittimazione, quando è diretta a ristabilire tale principio, non può essere contestata.

Fatta questa premessa, occorre ora accertare in concreto la sussistenza del fatto addebitato alla convenuta ed in genere al sistema bancario e quindi la legittimazione della curatela. Sull'astratta configurabilità dell'illecito si è già osservato che l'attività bancaria, pur essendo di natura privata, non è espressione della libera attività d'impresa, ma è un'attività d'interesse pubblico ed in quanto tale è sottoposta al controllo della Banca d'Italia. La funzione della banca consiste, come è noto, nella raccolta del risparmio della collettività per impieghi a loro volta utili per la collettività, anche se questa ormai non è più la funzione esclusiva: è tuttavia questa funzione a giustificare la rilevanza pubblica dell'attività bancaria. li banchiere è anche un professionista e per tale suo status deve osservare le norme comportamentali proprie della sua professione (art. 1176 capov) e deve comportarsi secondo le regole della correttezza (articolo 1175). Per la rilevanza pubblica della sua attività deve osservare anche le prescrizioni della Banca d'Italia. La concessione del credito ad un soggetto che non lo merita, perché non è in condizione di restituirlo, lede o può ledere, come già detto, l'interesse di diversi soggetti e può dare luogo, a seconda dei casi, ad una responsabilità contrattuale o extra contrattuale: verso i creditori della società convenuta è extracontrattuale. Il nostro codice civile già prevede espressamente una forma di concessione abusiva del credito assimilabile a quella in esame: l'articolo 1956 regola infatti la liberazione del garante nel caso in cui il creditore abbia continuato ad erogare nuovo credito al suo debitore, pur sapendo che le sue condizioni patrimoniali erano divenute tali da rendere notevolmente più difficile il soddisfacimento del credito. In base a tale principio il garante è tenuto a pagare il debito del garantito solo quando la concessione del credito sia stata effettuata sulla base di un criterio di meritevolezza del debitore principale. Anche in questi casi la suprema Corte ha richiamato i principi della correttezza e della buona fede (Cassazione, n. 9936 del 1993). Qualcosa di simile ma in una dimensione più ampia e vasta, come sottolineato dalla dottrina, si verifica nell'ipotesi di concessione del credito da parte della banca ad un imprenditore in stato d'insolvenza. La fattispecie della concessione abusiva del credito presenta indubbie affinità, non solo con l'ipotesi di cui all'articolo 1956, ma anche con altre fattispecie per le quali da tempo la dottrina e la giurisprudenza assolutamente prevalenti hanno ravvisato la responsabilità, per lo più extracontrattuale, dell'operatore professionale in genere e del banchiere in particolare il quale, con proprie dichiarazioni o con un proprio comportamento, crei nel pubblico e nel mercato affidamenti fallaci su una determinata situazione di fatto. Si allude in particolare alla cosiddetta responsabilità da prospetto (Corte d'appello Milano, 2 febbraio 1990), a quella per false informazioni sulla solvibilità di un proprio cliente, alla responsabilità di chi dà patronage per una propria controllata o alla responsabilità della banca trattaria verso la banca negoziatrice, per un benefondi dato in modo non corrispondente alla situazione economica dell'emittente (Cassazione, n. 1742 del 1967; Tribunale Viterbo, 4 novembre 1987; Cassazione, n. 4538 del 1978; 820 del 1979). La responsabilità del banchiere per avere mantenuto artificiosamente in vita un imprenditore sull'orlo del fallimento si inserisce molto bene in tale tendenza giacché, alla violazione del dovere generico di astensione di cui all'articolo 2043, si aggiunge l'inosservanza della prescrizioni proprie della professione.

Sulla base dei principi sopra esposti, per affermare nel caso in esame la responsabilità della convenuta nei confronti della massa dei creditori e per condannarla al risarcimento del danno, occorre accertare: A) un comportamento doloso o colposo diretto a finanziare un imprenditore immeritevole perché non in condizione di restituire il finanziamento,. B) la causazione del ritardo nella pronuncia di fallimento per effetto di tale finanziamento abusivo," C) l'esistenza di un danno per la platea dei creditori diversi da quelli bancari per la lesione del principio della par condicio; D) l'esistenza di un nesso causale tra il comportamento del banchiere ed il danno" Ciascuno di tali elementi della fattispecie formerà oggetto d'indagine.

La condotta e la colpevolezza. Il finanziamento può considerarsi abusivo in presenza di una situazione d'insolvenza conosciuta o conoscibile da parte della banca. In particolare, come sostenuto dallo stesso consulente della convenuta, la responsabilità della banca «può essere affermata, non solo nel caso in cui abbia effettiva conoscenza, ma anche nel caso in cui essa avrebbe dovuto conoscere, In forza della diligenza richiesta al banchiere accorto, la situazione critica dell'impresa affidata» (fogl. 3 relazione consulente di parte). Lo stesso consulente di parte ritiene quindi sufficiente la colpa. Siffatta opinione è in linea con la giurisprudenza di legittimità e di merito, fermo restando che in questa materia occorre particolare prudenza nel valutare i comportamenti colposi" Invero nella sentenza della Cassazione più volte citata dalla curatela (n. 343 del 1993) ed in quella successiva (n. 72 del 1997), nelle quali si è parlato per la prima volta di concessione abusiva del credito da parte del banchiere, si fa riferimento alla culpa in omittendo ossia alla mancata adozione di determinati comportamenti che il banchiere avrebbe dovuto tenere perché la generalità degli operatori di mercato fa affidamento su tali comportamenti. Nella fattispecie di cui all'articolo 1956 cod. civ. la giurisprudenza non richiede che il creditore versi in dolo essendo sufficiente che non si comporti con diligenza nell'assolvimento dello specifico onere (Tribunale Viterbo, 2 marzo 1982; Cassazione, 2790 del 1991). Nei casi di cosiddetta lesione della libertà contrattuale la dottrina e la stessa giurisprudenza ritengono sufficiente la colpa per affermare la responsabilità della banca, per avere fornito al proprio cliente notizie inesatte sulla solvibilità del terzo, poi rivelatosi inadempiente. Anche per il ritardo nella dichiarazione di fallimento si ritiene sufficiente la colpa. Anzi l'ipotesi dolosa, secondo alcuni, potrebbe addirittura configurare a carico del fallito e dei suoi complici il reato di bancarotta fraudolenta perché il patrimonio si distrugge sia facendo sparire i beni che accumulando consapevolmente e deliberatamente le passività. Va però detto che i Casillo speravano di evitare con il sostegno bancario il fallimento. Nella fattispecie la situazione d'insolvenza era però conosciuta ed il «ceto bancario» ha consapevolmente e deliberatamente agito per ritardare il fallimento allo scopo di evitare le revocatorie e scaricare in parte su altri creditori ed in modo particolare sullo Stato quella che era una propria perdita nei confronti del Gruppo Casillo, come sarà chiarito in seguito.

La curatela assume che l'insolvenza era conosciuta o conoscibile dal sistema bancario in genere e dalla convenuta in particolare quanto meno dalla fine del 1991 e fonda tale convincimento sui seguenti elementi: a) su uno scarsissimo apporto di mezzi propri; b) su carenze organizzative; c) sulla grave vulnerabilità dell'attività nonché sul comportamento del «ceto bancario» che aveva concesso i finanziamenti senza osservare le prescrizioni della Banca d'Italia, senza una seria istruttoria, in base a garanzie inconsistenti ed a bilanci sostanzialmente inaffidabili.

Secondo la curatela, per l'enorme sproporzione tra il debito complessivo del gruppo e le garanzie offerte, nessun finanziamento avrebbe dovuto essere concesso quanto meno a partire da tale data. La situazione d'insolvenza era stata addirittura confessata nel maggio del 1993 allorché la società in nome collettivo Casillo Grani, anche per conto delle altre società del gruppo e quindi anche per conto dell'Italsemole, aveva comunicato alla Direzione Generale delle Dogane di non potere più effettuare le esportazioni per l'Algeria, che avrebbero dovuto avere inizio fin dal mese di settembre del 1992 e di non essere quindi in grado di restituire la somma di 222 miliardi che aveva già riscosso come prefinanziamento comunitario all'esportazione. Di tanto la capogruppo aveva informato le banche alle quali aveva chiesto un ulteriore finanziamento altrimenti tutte le società sarebbero fallite. li sostegno finanziario era stato coordinato dall' ABI e materialmente concesso dalla Cassa di Risparmio di Puglia anche per conto della Banca Mediterranea e, secondo la curatela, anche delle altre banche. A fronte di una maggiore richiesta di circa 220 miliardi, ne erano stati promessi 16 i quali erano poi serviti «nell'immediato a ridare fiato alle fallende società del gruppo ovvero, considerato l'avanzato stato di decozione a procrastinare ulteriormente l'evento fallimento, consentire il parziale "riordino” dei rapporti Banche cliente, cercare di sottrarsi alle responsabilità conseguenti». Questo è in sintesi il fatto addebitato alla convenuta ed al sistema bancario in genere emergente dall'atto introduttivo del giudizio. Dall'esposizione attorea risulta che il sostegno finanziario si è articolato in due periodi: nel primo, protrattosi fino al mese di giugno del 1993, ciascuna banca aveva autonomamente deciso di accordare il finanziamento, nel secondo l'intervento effettuato nella misura anzidetta era stato coordinato dall' Associazione bancaria.

L'ipotesi formulata dalla curatela ha trovato ampia conferma nella documentazione prodotta e nelle indagini peritali. I rapporti con il Credito Romagnolo, poi confluito nella banca convenuta in questo giudizio, hanno avuto origine nel mese di giugno del 1990 con la concessione di un fido complessivo di lire 3.750 milioni, costituito da un'apertura di credito in c./c per lire 250 milioni; un fido per anticipazioni s.b.f. per lire 500 milioni ed un fido di 3000 milioni, per «misto scoperto», cioè utilizzabile in qualsiasi forma tecnica fatta eccezione dello scoperto di conto corrente (pag. 45 relazione del consulente). Successivamente tale affidamento ha avuto qualche temporaneo incremento.

I funzionari del soppresso Credito Romagnolo, escussi come testimoni, hanno lasciato intendere che le istruttorie per la concessione del fido sarebbero state conformi alle prescrizioni dettate dalla Banca d'Italia ed in genere alla regole della professione. Invece il consulente d'ufficio, con riferimento al momento genetico del rapporto, ha rilevato che: a) non era stata prodotta la richiesta d'affidamento sottoscritta dal legale rappresentante della società (con l'ordinanza d'esibizione quest'ufficio aveva ordinato la produzione di tutti i documenti relativi alla domanda di affidamento) né una situazione patrimoniale aggiornata; b) non erano state riportate le situazioni patrimoniali dei garanti, ma unicamente un riepilogo con l'evidenziazione dei cespiti immobiliari dei soci Casillo Pasquale e Casillo Aniello; c) non era stata prodotta la lettera di comunicazione degli affidamenti all'Italsemole. Con riferimento all'attività istruttoria l'ausiliare, dopo avere evidenziato che essa si era basata sul bilancio del 1988, su una situazione patrimoniale al 31 dicembre 1989 e su un conto economico relativo all'esercizio 1989 presentato dalla richiedente e rielaborato secondo la modulistica interna della banca, oltre alle risultanze della Centrale rischi ed all'evidenziazione dell'esistenza di un gruppo economico al quale 1'Italsemole partecipava, ha sottolineato che non erano state formulate note né erano rinvenibili approfondimenti, sia in merito al conto economico relativo al 1988 che alla modificazione del consiglio d'amministrazione. Inoltre non era stato esaminato il bilancio relativo al 1989, benché esso fosse già disponibile al momento della concessione del fido (cfr. fol. 43 relazione). Altre carenze sono state sottolineate durante la gestione del rapporto, sia con riferimento alla mancanza di poteri dell'organo che aveva deliberato l'aumento dell'affidamento, che con riguardo ai rapporti con le società collegate ed in particolare modo con la controllata Lippolis soc. per az. In particolare non aveva formato oggetto di analisi l'ammontare delle garanzie prestate dall'Italsemole alle altre società, garanzie che alla data del 31 dicembre 1991 raggiungevano 1'importo di 156 miliardi; non erano state formulate indicazioni in merito alla situazione patrimoniale dei garanti Casillo Pasquale e Casillo Aniello con riguardo alle garanzie rilasciate a fine luglio del 1991. In capo a Casillo Pasquale, che disponeva di un modesto accordato di lire 151 milioni, risultavano in essere impegni indiretti di garanzie per lire 159 miliardi, in capo ad Aniello Casillo che disponeva di un accordato di lire 50 milioni, risultavano in essere impegni indiretti di garanzia per lire 134 miliardi. Non erano state formulate considerazioni in merito alla revoca degli affidamenti da parte del Banco di Sicilia (settembre 1991) e del San Paolo IMI (marzo del 1992). Neppure in occasione dell'ultimo aumento temporaneo degli affidamenti, come sottolineato dal consulente (cfr. pago 48 della relazione) furono approfondite le indagini sull'affidabilità della società. L'ausiliare ha concluso affermando che i bilanci dell'Italsemole non erano affidabili, che l'inaffidabilità poteva essere rilevata da un funzionario di media diligenza e che nell'erogazione del fido non erano state osservate le prescrizioni della Banca d'Italia o le regole della professione. I rilievi del consulente sulle carenze istruttorie collimano con le dichiarazioni rese al curatore dai dipendenti della fallita che curavano i rapporti con le banche. Costoro in particolare hanno confermato che le banche si erano sempre dimostrate disponibili ad accogliere le richieste di Casillo Pasquale, socio di maggioranza, senza particolari approfondimenti, anche se non avevano mai inteso ridurre i tassi d'interesse che oscillavano dal 18 % al 23 % (cfr. foll. 71 e segg. documentazione attorea).

Le valutazioni del consulente e le dichiarazioni dei dipendenti in ordine alla completa disponibilità delle banche nei confronti dei Casillo coincidono altresì con le indagini compiute in sede penale a carico di funzionari della Caripuglia. Alla pagina 10 dello stralcio della perizia svolta per conto del GIP di Bari si legge: «La complessità della posizione del Gruppo Casillo e la scarsa trasparenza che connotava il rapporto, come peraltro già rilevato, erano ben presenti ai massimi organi amministrativi della Banca. Ad esempio nell'ambito del Comitato di Gestione del 2 dicembre 1991, in occasione di richiesta di affidamento, su relazione del Vice Direttore Generale Dr. Aurelio Valente, il Comitato interessato per il rinnovo di una fideiussione di 5 milioni di $ USA delega il Presidente a chiedere chiarimenti alla Casillo Grani in merito al rapporto complessivamente considerato, nonché alle modalità di rientro degli sconfinamenti. Invita la direzione Generale a procedere ad un riesame del rapporto per condurlo ad una situazione di maggiore equilibrio (all. 12). Alle petizioni di principio in tema di riequilibrio e prudenza, non sembrano tuttavia seguire quasi mai provvedimenti concludenti. L'atteggiamento prevalente della Cassa è di tipo attendista, fortemente improntato alla tolleranza, scarsamente attento ad una verifica puntuale dei termini contrattuali e normativi nell'ambito dei quali si muovevano i rapporti di affidamento. Gli ispettori della Cariplo definiscono nei seguenti termini le modalità di Gestione del rapporto "(..) un atteggiamento sostanzialmente passivo degli organi aziendali; esecutivo ed amministrativo che subivano oltre ogni limite l'iniziativa della clientela, dimostrando eccessiva tolleranza nella gestione dei rapporti ed in particolare nell'adozione dei provvedimenti cautelativi; pur in presenza di elementi fortemente pregiudizievoli"». Nella nota a pie' di pagina si segnala: «Le conseguenze di un tale atteggiamento si evidenziano in modo particolare nel corso del 1993, quando a decozione ormai conclamata, Caripuglia prende atto della non regolarità formale delle garanzie sulla base delle quali il Consiglio aveva deliberato gli affidamenti» (cfr. pagg. l0 ed 11 della perizia penale). Insomma i funzionari della Caripuglia solo quando l'insolvenza era conclamata fingono di accorgersi dell'irregolarità delle garanzie in base alle quali avevano in precedenza concesso i finanziamenti. Lo stesso atteggiamento sostanzialmente passivo nei confronti della clientela il consulente ha riscontrato anche per quanto concerne il Credito Romagnolo.

Tuttavia l'ausiliare, dopo avere rilevato le anzidette omissioni e dopo avere dato atto che verso la fine del 1992 la situazione economica dell'Italsemole si era profondamente deteriorata, ha collocato al 30 giugno del 1993 ad una data cioè successiva alla stessa confessione della Capo gruppo, sia l'epoca della conoscenza dello stato d'insolvenza che quella della sua conoscibilità. La data del 30 giugno segna invece il momento a partire dal quale il fallimento può considerarsi ritardato mentre la data della conoscenza ed ancora più quella della conoscibilità è senz'altro anteriore e si poteva desumere dalle stesse carenze evidenziate dall'ausiliare. L'accertata negligenza nell'esaminare l'affidabilità del cliente costituiva di per sé indizio della conoscenza ed ancora più della conoscibilità dello stato d'insolvenza. Quella indicata dal consulente è la data in cui il fallimento poteva essere realisticamente dichiarato, sia per la confessione dell'imprenditore di non essere in grado di adempiere, sia per l'inadempimento del debito verso le Dogane che ammontava per l'intero gruppo ad oltre 200 miliardi (in seguito saranno accertate ulteriori indebite anticipazioni), inadempimento che si era già manifestato all'esterno ancora prima del 31 maggio 1993. Se si facesse coincidere la conoscenza o conoscibilità dello stato d'insolvenza con la data della dichiarazione di fallimento, la norma che prevede la revocabilità degli atti compiuti prima del fallimento previa dimostrazione della scientia decoctionis non avrebbe senso perché il curatore non potrebbe mai dimostrare tale elemento. La data indicata dall' ausiliare segna il momento a partire dal quale diventa incontestabile l'imputabilità alle banche del ritardo nella dichiarazione di fallimento, ma non coincide con la conoscenza e ancor più con la conoscibilità dello stato d'insolvenza da parte delle stesse banche, segna cioè il momento a partire dal quale gli istituti di Credito hanno posto in essere comportamenti idonei a favorire se stessi in danno degli altri creditori al fine di alterare la par condicio.

Sulla base delle stesse considerazioni del consulente si può con uguale prudenza ma con maggiore realismo collocare al mese di settembre del 1992 la data della conoscenza dello stato d'insolvenza da parte del «ceto bancario» in genere e del Credito Romagnolo in particolare avuto riguardo: a) alle omissioni già segnalate dal consulente ed in modo particolare all'inaffidabilità dei bilanci, inaffidabilità che era percepibile dal funzionario di media diligenza: infatti il bilancio costituisce il principale mezzo d'informazione per il banchiere ed in base alla consapevole inaffidabilità del bilancio la giurisprudenza spesso presume la scientia decoctionis; b) al fatto che a partire dal mese di agosto del 1992 la situazione economica, come risulta dalla stessa consulenza, si era profondamente deteriorata; c) al fatto che almeno una società del gruppo (la SEICA) era stata già segnalata a sofferenza dal sistema; d) al fatto che alcune banche non particolarmente legate a Casillo Pasquale avevano già revocato gli affidamenti; e) al fatto che i finanziamenti a breve proprio in quel periodo avevano subito un incremento e non venivano estinti puntualmente ma sistematicamente prorogati, come risulta dalla stessa consulenza di parte; f) al fatto che nell'autunno del 1992 l'Italsemole inspiegabilmente avevano rinunciato all'esportazione di grano verso l'Algeria manifestando all'esterno la propria inadempienza verso l'Amministrazione finanziaria; g) alla mancanza di capitale circolante al quale si sopperiva con indebitamenti verso le banche che aumentavano progressivamente ed in misura sproporzionata alle garanzie offerte; h) al fatto che proprio tra la fine del 1992 e gli inizi del 1993 il Credito Romagnolo, quale fideiussore dell'Italsemole, è dovuto intervenire per l'inadempimento del debitore principale (si allude alla garanzia prestata per la Nestlé).

Il consulente d'ufficio ha collocato la conoscibilità dello stato d'insolvenza al giugno del 1993 sulla base d'un'ispezione eseguita a carico della Caripuglia a seguito della quale la partita del Gruppo Casillo era stata considerata incagliata con riferimento alla fine del 1992. All'epoca di quell'ispezione il «ceto bancario» e la Banca d'Italia non avevano interesse ad allarmare il mercato facendo emergere le consistenti negligenze attribuibili alle banche ed in parte allo stesso organo di vigilanza, anche perché allora, rispetto all'esigenza di eliminare dal mercato un'impresa decotta, prevaleva quella di assicurare i livelli di occupazione (alle dipendenze del Gruppo lavoravano circa 1300 dipendenti). Il consulente d'ufficio avrebbe dovuto stabilire la conoscenza o conoscibilità dello stato d'insolvenza in base a proprie valutazioni e non sulla scorta di quelle effettuate dagli ispettori della Banca d'Italia o della Cariplo. Prima del giugno del 1993, non sono emersi altri segni esteriori dell'insolvenza (l'inadempienza verso le Dogane era già palese), quali ad esempio le azioni esecutive individuali o i protesti perché le banche avevano fatto in modo che non emergessero tollerando continui sconfinamenti, concedendo indiscriminate proroghe o rinnovi, incrementando i fidi ed intervenendo in garanzia senza un corrispondente aumento del capitale di rischio o dell'entità delle garanzie o omettendo di attribuire importanza ai protesti. Dalla perizia penale svolta nel procedimento a carico dei funzionari della Cariplo e degli stessi Casillo alla pag. 31 emerge che in occasione dell'ennesimo incremento dei fidi il direttore della sede di Foggia, nella comunicazione del 4 marzo 1992, aveva omesso di riportare la notizia dell'invio di assegni al protesto. Alla successiva pago 36 i periti penali segnalano che a partire dal mese di gennaio 1993 era iniziata la prassi di un cospicuo giro di assegni incrociati per svariati miliardi. In relazione a tale prassi la filiale di Foggia scrisse al direttore generale: «... Nel significarVi di avere cercato in ogni modo di contattare il cliente per la dovuta relativa copertura senza esito positivo, restiamo in attesa di Vostre superiori determinazioni. Il Direttore generale mostrò di non avere colto il valore segnaletico del giro incrociato di assegni ed annotò manualmente: «Il problema è del cliente e non può essere riversato sulla banca senza preavviso». Si è fatto riferimento a tali circostanze, che riguardano in modo particolare la Cariplo, sia per evidenziare la colpevole disponibilità manifestata dall'intero «ceto bancario» nei confronti dei Casillo, sia per sottolineare che, quando si finanzia una società facente parte di un gruppo, non si può prescindere da una seria valutazione della posizione di tutto il gruppo e dall'esposizione verso le altre banche. Per quanto concerne in particolare il Credito Romagnolo, le negligenze sottolineate dal consulente d'ufficio portano, come rilevato dalla difesa della curatela, a due sole conclusioni plausibili: o il Credito Romagnolo conosceva perfettamente la reale situazione dell'Italsemole ed ha fatto in modo di non farla emergere all'esterno, adeguandosi al comportamento di tutte le altre banche oppure ha fatto di tutto per evitare di conoscere tale situazione, contravvenendo alle minimali regole di diligenza e prudenza proprie della professione, omettendo dolosamente di svolgere le più banali attività d'indagine e verifica. Allorché il Dipartimento delle Dogane ha chiesto la restituzione dei prefinanziamenti minacciando l'azione esecutiva v'è stato il crollo perché il «ceto bancario») non ha voluto sborsare altri 200 miliardi per consentire al Gruppo Casillo di adempiere. Quel dissesto, reso palese nel maggio del 1993, non è sorto all'improvviso e non è divenuto conosciuto dalle banche solo a partire da tale data, perché gli istituti di credito hanno canali d'informazione che altri non hanno ed erano a conoscenza, per le ragioni sopra esposte, della cronica mancanza di liquidità del Gruppo. La riprova, sia pure ex post, della conoscenza dello stato d'insolvenza quanto meno a partire dal mese di settembre del 1992 si trae dal fatto che quasi tutti i finanziamenti effettuati in quel periodo non sono stati restituiti: se un credito può considerarsi abusivamente concesso quando la mancata restituzione è probabile, l'inadempimento posteriore, valutato unitamente a tutti gli altri elementi già evidenziati e preventivamente conosciuti dal «ceto bancario», costituisce indizio idoneo a fornire la prova della conoscenza dello stato d'insolvenza al momento del finanziamento. Dalla consulenza emerge che il debito bancario dai 56 miliardi circa del giugno del 1993 è passato a 362 miliardi circa alla data della sentenza di fallimento pronunciata dal tribunale di Nola con un incremento di oltre 300 miliardi verificatosi nel giro di poco più di un anno (cfr. consulenza alla pago 76).Tale incremento non può ovviamente essere riferito solo alla capitalizzazione trimestrale degli interessi ancorché a tassi elevati, ma è dovuto, oltre che all'inaffidabilità dei bilanci segnalata dall'ausiliare, anche o all'adempimento di obbligazioni di garanzia assunte dalle banche a favore dell'Italsemole a cavallo tra il 1972 ed il 1973, come ad esempio è avvenuto per l'attuale convenuta, la quale nel mese di ottobre del 1992 ha prestato fideiussione in favore della Nestlé fino alla somma di un miliardo somma che ha dovuto poi sborsare in più riprese a partire dal mese di gennaio 1993 a seguito dell'inadempimento della debitrice principale, come risulta dalla documentazione allegata alla domanda d'insinuazione e dai documenti prodotti dalla stessa Rolo. Non si comprende quindi come il consulente di parte abbia potuto considerare professionalmente accorti, prudenti e periti i funzionari che avevano concesso quei finanziamenti o quelle garanzie, causando al proprio istituto una perdita di circa 4 miliardi, perdita che avrebbero potuto evitare, se avessero osservato le regole di diligenza previste dal codice e quelle proprie della professione. In realtà, come è emerso dalla dichiarazione dei dipendenti della fallita, dalle indagini compiute dal consulente tecnico e dalla perizia penale, i funzionari dei vari istituti di credito finanziatori del gruppo hanno tenuto nei confronti del cliente un'ingiustificata e colpevole disponibilità ad accogliere qualsiasi richiesta a danno non solo dei creditori sociali non garantiti ma anche degli stessi istituti da loro rappresentati. Retrodatare il periodo di conoscenza dello stato d'insolvenza al mese di settembre del 1992 non significa però affermare che a quella data poteva essere realisticamente dichiarato il fallimento, perché questo può essere pronunciato quando l'insolvibilità è manifesta e non quando è solo prevedibile o conosciuta dal banchiere che finanzia un'impresa sottocapitalizzata. Nella fattispecie l'insolvenza, già nota al «ceto bancario», si è manifestata esteriormente nel mese di giugno del 1993, come accertato dal consulente per le ragioni già dette. Solo a partire da tale data a carico degli istituti di credito si è cominciata a profilare la responsabilità per avere ritardato il fallimento a vantaggio proprio ed a danno degli altri creditori e quindi solo a partire da tale momento si è delineata la lesione della par condicio. il periodo precedente rileva nell'azione del singolo creditore sociale eventualmente tratto in errore dall'apparente solvibilità dell'impresa ingenerata dalle banche, ma l'azione a tutela della libertà contrattuale deve essere fatta valere dal singolo creditore e non dal curatore. Questi può fare valere le ragioni dei creditori anteriori al mese di giugno del 1993, non perché è stata lesa la loro libertà contrattuale, ma perché hanno subito un danno per la lesione della par condicio e nella misura della loro insoddisfazione per il ritardato arresto nell'attività d'impresa .Nella sentenza non definitiva si era già sottolineato che non bisogna confondere il credito concorsuale çon il danno da ritardato fallimento. Per quest'ultimo danno è legittimato ad agire il curatore, per il primo il singolo creditore. In conclusione il periodo anteriore alla data in cui il fallimento avrebbe potuto essere dichiarato rileva al fine di individuare gli atti per i quali la curatela, sia pure in base a presunzioni, avrebbe potuto dimostrare la scientia decoctionis del banchiere e quindi ottenere la revoca. Rileva cioè ai fini dell'entità del danno, se si adotta un criterio di liquidazione diverso da quello della differenza tra passivo ed attivo finale, ma non ha alcuna rilevanza se si determina il danno in base alla differenza anzidetta. Nella sentenza non definitiva si è sottolineato che nella fattispecie in esame il danno si è cristallizzato al momento della dichiarazione di fallimento. Di conseguenza sono danneggiati solo i creditori che a tale momento sono rimasti insoddisfatti. Coloro che hanno fornito merce alla fallita nel 1991 o agli inizi del 1992 probabilmente sono stati pagati sia pure a spese delle banche nei cui confronti l'indebitamento aumentava progressivamente. I dirigenti degli istituti di credito che hanno autorizzato i finanziamenti alla fallita dopo il mese di settembre del 1992 hanno danneggiato anche le società da loro amministrate e rappresentate. Tra i creditori sociali il maggiore danneggiato nella vicenda in esame è lo Stato per mezzo dell' Amministrazione Finanziaria. Questa è stata danneggiata, non per avere fatto affidamento sulla solvibilità del Gruppo Casillo, ingenerata dall'illecito sostegno delle banche, ma perché i Casillo hanno rinunciato all'esportazione. Il sostegno bancario nel rapporto tra il Gruppo Casillo e l'Amministrazione finanziaria non ha avuto alcuna incidenza perché la restituzione del prefinanziamento, in caso di mancata esportazione, era garantita da una polizza fideiussoria. Nella fattispecie è accaduto che sia stata presentata una polizza fideiussoria che poi si è scoperto essere invalida per ragioni che non hanno formato oggetto d'indagine in questo processo. L'Amministrazione è stata danneggiata dai Casillo che hanno presentato una polizza invalida e non dalle banche. L'inadempimento è imputabile ai Casillo e non alle banche. Tuttavia l'Amministrazione ha subito un ulteriore danno da ritardato fallimento nella misura della sua insoddisfazione sull'attivo patrimoniale ossia nella misura in cui per effetto del ritardo nella pronuncia di fallimento, ritardo attribuibile al «ceto bancario», recupererà una percentuale di credito inferiore a quella che avrebbe ottenuto, se il fallimento fosse stato tempestivamente dichiarato. Tale danno presuppone il credito concorsuale ma non si identifica con esso. Legittimato ad agire per ottenere tale risarcimento è il curatore. Concludendo, relativamente alla prima fase, i dirigenti del Credito Romagnolo, quanto meno a partire dal mese di settembre del 1992, hanno concesso credito alla fallita in presenza di una situazione d'insolvenza conosciuta o che avrebbero potuto conoscere, se avessero usato la diligenza richiesta dal proprio status.

A partire dal mese di giugno del 1993, come già accennato, l'attività è stata diretta dall'ABI. Questa ha coordinato ed organizzato le proprie associate per realizzare un intervento apparentemente diretto al salvataggio del «Gruppo Casillo», ma in realtà finalizzato a creare le condizioni perché le banche potessero recuperare ulteriori somme e tentare poi di sottrarsi alle revocatorie ed alle proprie responsabilità (si allude alle responsabilità degli amministratori). Siffatta valutazione si fonda sui seguenti elementi.

La società in nome collettivo Casillo Grani, il 31 maggio 1993, anche per conto delle altre società del gruppo e, quindi, anche per conto dell'ltalsemole, aveva comunicato alla Direzione Generale delle Dogane di non potere più effettuare le esportazioni verso 1'Algeria, che avrebbero dovuto avere inizio fin dal settembre del 1992 e di non essere quindi in grado di restituire la somma di lire 200 miliardi che aveva già riscosso come prefinanziamento all'esportazione. Chiese pertanto una con grua rateizzazione del debito (doc. n. 5). Di tanto aveva informato anche le banche alle quali aveva chiesto un ulteriore finanziamento ed una fideiussione in favore delle Dogane, altrimenti tutte le società del gruppo sarebbero fallite. A fondamento della richiesta aveva allegato un progetto di riassetto predisposto dalla società Peat Marwick (doc. 15 e segg.). Dalla documentazione prodotta è emerso che i Casillo, a scomputo delle anticipazioni ricevute, avevano girato le bollette di prefinanziamento all'esportazione ad alcuni istituti di credito i quali, agendo quali mandatari delle società del gruppo, in forza di tali bollette, avevano riscosso i finanziamenti dall' Amministrazione delle Dogane. La polizza fideiussoria rilasciata a favore delle Dogane ed a garanzia della restituzione del finanziamento, nell'eventualità che l'esportazione non avesse avuto luogo, non è stata ritenuta valida perché emessa da una società che al momento dell'emissione non esisteva e non faceva parte peraltro di quelle accreditate presso l'Amministrazione. Dopo la comunicazione della mancata esportazione da parte della capogruppo, l'Associazione bancaria italiana, per conto delle proprie associate, aveva chiesto a due esperti - un civilista ed un penalista - un parere, sull'opportunità di una garanzia in favore delle Dogane e sull'esistenza di eventuali rischi per le banche che avevano ricevuto dall' Amministrazione le somme anticipate ai Casillo. Gli esperti, con nota del 30 luglio del 1993, tra l'altro sconsigliarono «un intervento in garanzia delle banche, meramente sostitutivo di quello in tesi inficiato da irregolarità penalmente rilevanti, quando meno sino a quando non si fosse accertata l'estraneità dei Casillo e a fortiori dell'Amministrazione nelle irregolarità» (cfr. pag 10 del parere) ed evidenziarono che le banche erano state investite di un mandato ad incassare anche nel proprio interesse e, quindi, l'unico rischio astrattamente configurabile nei confronti degli istituti, era rappresentato dalla possibilità di chiedere, in caso di fallimento, la revoca dell'incasso (cfr. parere alla pago 18). Infine si suggeriva di valutare se negli atti di concessione dei finanziamenti vi fossero elementi reperibili mediante gli ordinari canali d'informazione bancaria dai quali fosse possibile desumere l'esistenza di una situazione di crisi del Gruppo Casillo (pag. 19). Dopo la formulazione del parere il direttore dell'ABI inviò al Dipartimento delle Dogane una lettera con cui auspicò una dilazione della richiesta di restituzione per consentire alle banche di esprimersi in ordine alla decisione di nuovi finanziamenti. Intanto la Caripuglia, che si era dichiarata disponibile ad ulteriori finanziamenti a determinate condizioni, aveva chiesto ad un proprio consulente un parere sulla proposta di ulteriore credito avanzata dal Gruppo Casillo. il consulente della predetta banca nel parere formulato nel mese di agosto del 1993, precisò: a) che non esisteva un Gruppo Casillo come soggetto giuridico diverso dalle singole società che lo componevano; b) che il credito dell' Amministrazione delle Dogane non era assistito da privilegio; c) che per la restituzione dei prefinanziamenti, 1'Amministrazione non aveva azione nei confronti delle banche che avevano anticipato i relativi importi; e) che, anche se fosse stata accolta la proposta di consolidamento dell'esposizione debitoria e di nuovo finanziamento, avanzata dal gruppo Casillo per evitare il fallimento, non si poteva escludere che altri creditori potessero autonomamente agire sia pure in base a crediti di importo modesto e che tale pericolo poteva essere scongiurato solo se il «ceto bancario» fosse stato disposto a tamponare ogni falla del sistema; f) che in ogni caso l'apertura di un'eventuale procedura concorsuale si sarebbe immediatamente arrestata almeno fino a quando non si fosse stabilito quale tribunale avrebbe dovuto occuparsene. Tanto premesso, il consulente legale, dopo avere manifestato perplessità sul fatto che la causa determinante la crisi fosse attribuibile all' impossibilità di restituire in tempi brevi il finanziamento comunitario indebitamente riscosso e, dopo avere legittimamente avanzato il sospetto che l'esigenza di soddisfare il credito dell'Amministrazione Doganale fosse stata utilizzata dal Gruppo Casillo al fine di sollecitare il consolidamento dell'esposizione pregressa e l'apertura di nuove linee di credito (lo stesso consulente ha sottolineato che all'epoca l'esposizione debitoria del gruppo nei confronti delle sole banche ammontava a circa mille miliardi e che i diretti interessati avevano affermato di non avere liquidità neppure per le spese correnti – foll. 10 e 17 del parere), concluse affermando che spettava comunque alla Caripuglia decidere se accettare tout court la proposta del Gruppo, che non prevedeva la gestione diretta della ristrutturazione da parte del «ceto bancario»; se imporre la gestione diretta o assumere iniziative per la dichiarazione di fallimento. Suggerì comunque «il preventivo conferimento di tutte le partecipazioni societarie ad un unico ente» al fine di consentire al «ceto bancario» il controllo gestionale delle società.

Evidenziò infine l'opportunità che l'incarico alla società di revisione Peat Marwick, la quale aveva già predisposto una relazione su incarico dei Casillo, fosse conferito direttamente dal «ceto bancario» in modo da risultare reso alle banche e non al Gruppo Casillo.

Con missiva dell'Il agosto 1993 l'avv. D'Albora per conto del Gruppo Casillo mise in evidenza la necessità di un pronto intervento in assenza del quale le conseguenze sarebbero state incalcolabili (doc. n. 37). il «ceto bancario», dopo avere appreso che l'Amministrazione finanziaria per la restituzione delle somme riscosse per conto delle società del gruppo non aveva azione diretta ma, in caso di fallimento, il curatore avrebbe potuto chiedere la revoca di quei mandati ad incassare, a seguito di alcune riunioni interlocutorie, alle quali prese parte anche la convenuta, decise di concedere un nuovo finanziamento. A fronte di una richiesta di circa 210 miliardi, di cui 50 da restituire immediatamente alle Dogane, ritenuta assolutamente indispensabile per un tentativo di risanamento, con contratto dell 10 settembre 1993, è stata aperta una linea di credito mista per cassa e firma per un importo di 16 miliardi. Nel preambolo dell'atto si è precisato che la Caripuglia interveniva anche per conto della Banca Mediterranea e nella prospettiva della stipulazione di una convenzione interbancaria con gli altri istituti di credito sovventori del gruppo Casillo per la ristrutturazione ed il risanamento. A garanzia del finanziamento venivano date in pegno le quote di partecipazione sociale indicate nel contratto di mutuo. Tale garanzia veniva accordata anche nell'interesse di altri istituti di credito creditrici del gruppo nella prospettiva della stipulazione della convenzione anzidetta e sarebbe stata estesa alle altre banche finanziatrici (doc. n. 43). Nella riunione del 17 settembre 1993 i rappresentanti degli istituti di credito che avevano finanziato il gruppo, compreso quello del Credito Romagnolo presero atto dell'erogazione straordinaria di 16 miliardi effettuata da Caripuglia e Banca Mediterranea e del fatto che i1 pegno era estensibile a favore di tutte le banche anche a fronte delle esposizione pregresse, si impegnarono a concedere una moratoria .fino al mese di febbraio del 1994 ed a riconoscere in prededuzione i 16 miliardi già erogati e quelli che sarebbe stati successivamente versati (doc. 44). Una copia del verbale di tale riunione venne trasmessa anche a Casillo Pasquale, il quale si premurò di spedirla anche agli istituti che avevano avuto rapporti marginali con il gruppo, come emerge dal documento n. 48, prodotto dalla curatela.

Il pronto intervento sollecitato dall' avv. D'Albora è consistito quindi solo nel versamento della somma anzidetta, la quale era assolutamente insufficiente per il risanamento, ma è servita unicamente per indurre i Casillo a dare in pegno le loro quote o azioni e a cedere la gestione delle società nonché a tacitare qualche credito re privato come ad esempio Tozzoli Elisa, la quale, dopo avere il 17 dicembre 1993 presentato istanza di fallimento nei confronti della Casillo Grani s.n.c., ha rinunciato al ricorso, presumibilmente perché era stata pagata (n. 972/93 Ric. fall.).

Sottratti i beni ai Casillo e tacitato qualche creditore privato, occorreva convincere l'Amministrazione delle Dogane a non assumere iniziative dirette a fare dichiarare il fallimento. A tal fine il3 novembre 1993 il Presidente dell'ABI inviò al Dipartimento delle Dogane una comunicazione nella quale si affermava: «un complessivo piano d'intervento bancario non può essere messo a repentaglio da iniziative autonome d'importanti creditori quale è questa Amministrazione, a tutela dei propri crediti. Si ritiene quindi opportuno richiamare l'attenzione di codesta Amministrazione, creditrice chirografaria alla stregua delle banche, sulla necessità che venga assunto un atteggIamento coerente con quello del "ceto bancario" in particolare per quanto attiene alla concessione di una moratoria della posizione debitoria fino alla fine di febbraio del 1994 (doc. 53).

li 5 gennaio 1994 vi fu un'altra riunione alla quale prese parte il rappresentante del Credito Romagnolo... Nel relativo verbale si legge: «... in riferimento al pegno sulle partecipazioni nella società direttamente e indirettamente controllate dai sigg. Pasquale ed Aniello Casulo, acquisito da Caripuglia anche nell'interesse degli altri istituti e delle altre aziende di credito (..) le banche presenti hanno preso atto dell'attività svolta in questa lunga fase transitorIa da Caripuglia soc. per az.». In quella circostanza le banche diedero mandato al presidente dell' ABI di trasmettere la bozza di piano all'Amministrazione finanziaria ed all'organo di Vigilanza (doc. 58).

L'11 gennaio 1994 il Presidente dell'ABI, nell'interesse e per conto del «ceto bancario» e quindi anche del Credito Romagnolo presente alle relative sedute, inviò al Ministro delle Finanze il piano della Peat Marwick (concordato con il Gruppo Casillo e le Banche) chiedendogli di «mantenere un comportamento coerente con le iniziative che il "ceto bancario" creditore andrà ad assumere» (doc. n. 62).

Il piano non è stato attuato né si è dato corso ad altre proposte avanzate dai Casillo, compresa la messa a disposizione dei propri beni. Della mancata attuazione del Piano l'Amministrazione delle Dogane, che era la principale creditrice del Gruppo, non risulta essere stata informata.

Con nota del 24 marzo 1994 diretta all'ABI ed alle banche che avevano accettato la proposta di risanamento, i fratelli Casillo, dopo avere premesso che le loro quote di partecipazione nelle società del Gruppo erano state date in pegno a condizione che si pervenisse alla definizione del piano di riassetto e che, a distanza di circa sei mesi dal pegno, la costituzione della garanzia aveva prodotto come risultato unicamente il blocco di ogni attività decisionale all'interno delle varie società con conseguenti ulteriori ingenti perdite, chiesero di potere rientrare in possesso della piena titolarità delle loro quote e/o s azioni. Successivamente, con altra missiva del 29 luglio 1994, rivolta alla sola Caripuglia, Pasquale Casillo, dopo avere ribadito che la predetta banca nessun tentativo di risanamento aveva in concreto attuato e dopo avere precisato che le passività erano aumentate anche per gli oneri finanziari pretesi dalle stesse banche) ha accusato la destinataria della missiva di avere con le «sterili riunioni interbancarie» fatto trascorrere tempo prezioso per il «maturare di prescrizioni» a vantaggio esclusivo del «ceto bancario».

Le istanze di fallimento sono state presentate nel mese di agosto del 1994, dopo un anno dalla revoca degli affidamenti e dopo che Casillo Pasquale era stato arrestato: il Banco di Napoli ha depositato la sua istanza presso questo tribunale mentre altri istituti di credito l'hanno presentata presso il tribunale di NoIa. Mentre presso questo tribunale era in corso la procedura prefallimentare, 1'8 settembre del 1994, il tribunale di NoIa dichiarò il fallimento dell'ltalsemole e della Casillo Grani. Come previsto dal consulente della Caripuglia, la procedura fallimentare aperta a Nola si è immediatamente arenata per individuare il giudice competente, avendo il tribunale di Foggia sollevato conflitto di competenza. È, quindi, obiettivamente accaduto che un fallimento, il quale secondo le stesse ammissioni degli interessati e secondo le valutazioni espresse dallo stesso consulente della Caripuglia, avrebbe dovuto essere dichiarato a maggio o giugno del 1993, è stato invece pronunciato dal tribunale di Nola - ritenuto poi incompetente dalla Cassazione -1'8 settembre del 1994 e da quello di Foggia nel giugno del 1996 cioè dopo tre anni dal riconoscimento dello stato d'insolvenza da parte degli stessi padroni delle società. A causa della ritardata pronuncia del fallimento la curatela ha perduto la possibilità di esperire le revocatorie con conseguente danno per la massa. Nel corso dei vari giudizi instaurati contro le banche tutti i difensori degli istituti convenuti, oltre ad eccepire la prescrizione dell'azione risarcitoria, hanno dedotto che il periodo sospetto dovesse essere computato dalla sentenza del tribunale di Foggia e non da quella del tribunale di Nola.

Dai fatti sopraesposti emerge chiaramente che il «ceto bancario», come arguito dallo stesso Casillo Pasquale, non aveva alcuna intenzione di risanare il Gruppo ma, dopo avere compreso che le Dogane non avevano azione diretta contro le banche e che l'unico rischio era costituito dalla possibilità di chiedere la revoca dei mandati ad incassare, hanno ritardato il fallimento per il tempo strettamente necessario ad evitare le revocatorie. Si tenga conto che nel parere rilasciato dagli esperti all'ABI i mandati ad incassare erano stati ritenuti revocabili a norma del comma 2 dell'articolo 67 legge fallimentare ossia erano stati ritenuti revocabili quelli eseguiti nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento (fol. 18 del parere).

Compartecipazione della convenuta. La difesa della banca convenuta assume che il Credito Romagnolo, per avere revocato l'affidamento nel giugno del 1993 e per non avere concesso in proprio ulteriori finanziamenti, sarebbe estraneo al finanziamento successivamente erogato dalla Cassa di Risparmio di Puglia e dalla Banca Mediterranea. In proposito si osserva che il creditore non ha l'obbligo di chiedere il fallimento del proprio debitore, ma non deve tenere neppure comportamenti dolosi o colposi idonei a ritardare il fallimento a vantaggio proprio ed a danno di altri creditori. La convenuta risponde dell'ulteriore finanziamento perché ha concorso nella concessione del credito materialmente erogato dalla Cassa di Risparmio di Puglia e dalla Banca Mediterranea quando lo stato d'insolvenza era evidente e ciò al fine di ritardare il fallimento anche a proprio vantaggio. Come è noto l'illecito plurisoggettivo richiede due condizioni: una oggettiva, nel senso che tra gli atti -omissivi o commissivi - deve sussistere una connessione causale rispetto all'evento voluto e l'altra soggettiva consistente nella consapevolezza di ciascuno del collegamento dei vari atti. Nella fattispecie ricorrono entrambi gli elementi. In ordine a quello oggettivo si osserva che l'intervento della Cassa di Risparmio di Puglia era subordinato al riconoscimento in prededuzione pattizia delle somme che sarebbero state sborsate ed all'assunzione dell'obbligo di non intraprendere iniziative individuali per la dichiarazione di fallimento. Tale impegno è stato formalmente assunto dalla convenuta nelle riunioni alle quali ha partecipato ed è stato ribadito anche per iscritto con la nota del 24 febbraio 1994, prodotta dalla stessa convenuta. Senza tale impegno la Cassa di Risparmio di Puglia e la Banca Mediterranea non avrebbero concesso ulteriori finanziamenti. In ordine all'elemento soggettivo si rileva che il presidente dell'ABI aveva sollecitato l'Amministrazione delle Dogane e lo stesso Ministro delle Finanze a non intraprendere iniziative individuali su espressa delega degli istituti che avevano preso parte alla seduta del 3 gennaio 1994, tra i quali istituti figura la banca convenuta in questo giudizio. Lo stesso intervento dei vertici dell' ABI sta a dimostrare che il finanziamento, materialmente effettuato dalla Cassa di Risparmio di Puglia anche per conto della Banca Mediterranea, non costituiva un'iniziativa autonoma di tale istituto, ma era stato voluto e concordato dal ceto bancario» che aveva finanziato il gruppo, come si desume dal tenore dell'atto di mutuo tanto è vero che si era previsto che le garanzie sarebbero state estese anche agli altri istituti al momento dell'ulteriore finanziamento. La riprova dell'adesione della convenuta al progetto è costituita, oltre che dalla partecipazione alle varie riunioni, dal fatto che, come già accennato, nonostante l'ultimo incremento dell'affidamento sia rimasto totalmente inadempiuto e nonostante che a seguito di tale inadempienza l'istituto convenuto abbia dovuto versare alla Nestlè oltre un miliardo, non ha iniziato le azioni di rigore. Anzi ha scritto la partita a sofferenza solo il 28 settembre del 1994, quando il fallimento era stato già dichiarato da venti giorni, come risulta dalla consulenza d'ufficio e dalla stessa consulenza di parte (pag. 63 consulenza d'ufficio e pago 32 consulenza della convenuta).

L'istituto convenuto in questo giudizio ed in genere le altre banche che hanno condiviso l'operazione devono rispondere anche del finanziamento materialmente effettuato dalla Cassa di Risparmio di Puglia al pari di quest'ultima. ... Dispone l'articolo 2055 cod. civ. che, se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento. La giurisprudenza ha chiarito che il legislatore si è riferito all'ipotesi in cui il medesimo danno sia conseguenza dell'azione di più soggetti, anche tra loro indipendenti ed anche ove costituiscano, violazioni di norme diverse, purché concorrenti alla sua produzione (cfr. per tutte Cassazione, 13039 del 1991). Si è ammessa la solidarietà anche quando si risponde per titoli diversi (per tutte Cassazione, n. 418 del 1996). A fortiori quindi sussiste la responsabilità solidale quando le varie azioni o omissioni sono state concertate e dirette per raggiungere uno scopo comune. In base al principio di solidarietà, chi per primo paga libera gli altri e può esercitare l'azione di regresso.

Il danno ed il nesso causale. Il danno evento causato dall'abusiva concessione del credito è costituito dalla ritardata pronunciata di fallimento. L'Italsemole, se non fosse stata artificiosamente mantenuta in vita, sarebbe fallita nel giugno del 1993, allorché lo stato d'insolvenza era stato confessato dallo stesso imprenditore e si era manifestata la grave inadempienza verso l'Amministrazione delle Dogane. La condotta illecita è servita a procrastinare la dichiarazione di fallimento ed è quindi cessata con tale pronuncia. Il danno conseguenza consiste nel pregiudizio economico arrecato ai creditori della società, sia posteriori alla data in cui il fallimento avrebbe dovuto essere dichiarato che anteriori. In proposito poiché il curatore agisce per la platea dei creditori danneggiati dall'artificiosa sopravvivenza dell'attività e non per il singolo creditore danneggiato per avere per colpa del banchiere fatto affidamento sulla solvibilità della fallita, si deve fare riferimento al danno collettivamente causato alla massa e non a quello subito dal singolo creditore. I creditori posteriori sono stati danneggiati nella misura in cui le obbligazioni assunte dopo la data anzi detta sono rimaste inadempiute. Il nesso causale va ravvisato nel fatto che, dichiarato il fallimento, sarebbe cessata l'attività negoziale e quindi la possibilità stessa di contrarre nuovi debiti. 1 creditori posteriori alla data anzidetta non dovevano proprio partecipare alla liquidazione concorsuale, a prescindere dall'eventuale affidamento sulla solvibilità della fallita. La loro partecipazione ha automaticamente inciso sulla distribuzione dell'attivo e quindi sul rispetto del principio della par condicio. Se il fallimento fosse stato dichiarato nel mese di giugno del 1993 i dipendenti sarebbero stati licenziati; non vi sarebbero state altre forniture, ecc. I creditori anteriori sono stati danneggiati perché riusciranno a recuperare una somma inferiore a quella che avrebbero recuperato se il fallimento fosse stato tempestivamente dichiarato. Il danno collettivamente causato alla massa non è costituito dalla somma dei crediti ammessi al passivo, detratte le attività, bensì dalla differenza tra la percentuale di credito concorsuale, che sarebbe stata soddisfatta, se il fallimento fosse stato tempestivamente dichiarato, e quella ottenibile a seguito della ritardata pronuncia. A partire dal mese di giugno del 1993 la situazione dei creditori non bancari è progressivamente peggiorata perché è diminuita la percentuale del credito che sarà soddisfatta nella procedura concorsuale, anche perché le poche risorse investite nel finanziamento del gruppo dopo il mese di giugno del 1993 sono servite solo a ritardare il fallimento, a consolidare le garanzie ad evitare le revocatorie a vantaggio esclusivo del «ceto bancario» con danno degli altri creditori chirografari ed in primo luogo con danno per lo Stato che è il maggiore creditore per la mancata restituzione dei prefinanziamenti all'esportazione. Il «ceto bancario», evitando in tutto o in parte le revocatorie dei mandati ad incassare, ha trasferito in tutto o in parte allo Stato quella che era una propria perdita nei confronti della società fallita, mentre continuavano a maturare a suo vantaggio gli esosi interessi pattuiti. Gli amministratori degli istituti di credito, come già detto, con l'abusiva concessione del credito, hanno danneggiato, non solo i creditori chirografari della fallita, ma gli stessi azionisti delle società bancarie. Del loro comportamento rispondono civilmente nei confronti dei terzi gli istituti. L'azione esercitata dal curatore è sorta con la dichiarazione di fallimento ed è autonoma rispetto a quella dei creditori alla quale si potrebbe aggiungere.

La determinazione del danno. Il danno cagionato alla massa, essendo costituito dalla differenza tra la percentuale di credito che i creditori non bancari avrebbero recuperato, se il fallimento fosse stato tempestivamente dichiarato, e quella che potranno ottenere a fallimento chiuso, come appare evidente, non può essere determinato nel suo preciso ammontare. Di conseguenza si deve necessariamente fare ricorso al criterio equitativo (cfr. ex multis Cassazione, 3596 del 1997). Nell'esercizio di tale potere ufficioso, come già precisato con le ordinanze istruttorie, il giudice non è vincolato ai documenti prodotti dalle parti, ma può espletare proprie indagini dirette a reperire elementi idonei allo scopo. Insomma il danneggiato deve dimostrare di avere subito un danno mentre la sua liquidazione, se è impossibile o difficoltosa, può essere effettuata dal giudice mediante il ricorso a criteri equitativi (art. 1226 richiamato dall'art. 2056). Per tale ragione si era invitato il consulente d'ufficio ad esaminare all'occorrenza anche il fascicolo fallimentare ed a chiedere chiarimenti alle parti, allo scopo di evidenziare elementi utili per una liquidazione aderente alla fattispecie in esame, diversa dalla differenza tra passivo ed attivo fallimentare proposta dalla curatela. Ovviamente lo stesso invito doveva intendersi esteso anche al consulente della convenuta, posto che, come già detto, l'attrice aveva già avanzato la propria proposta, avendo determinato il danno in misura pari alla differenza tra passivo ed attivo fallimentare. Sennonché né il consulente d'ufficio né quello della convenuta hanno avanzato una proposta alternativa alla differenza anzidetta. TaIe criterio equitativo, come è noto, viene applicato in Francia e Belgio dove da tempo le banche sono chiamate a rispondere dei danni cagionati alla massa dei credi tori per avere sovvenuto un imprenditore insolvibile. Esso spesso viene utilizzato anche nel nostro Paese nelle azioni di responsabilità contro gli amministratori specialmente in quelle nelle quali agli organi sociali si addebita di avere, con il compimento di nuove operazioni, causato il dissesto della società e di conseguenza si addebitano anche le conseguenze proprie della liquidazione fallimentare (cfr. Cassazione, n. 9252 del 1997). Tale criterio però non può essere recepito nella fattispecie o almeno non può essere recepito senza alcuni correttivi, poiché al «ceto bancario» non si addebita la causazione del dissesto, ma solo il ritardo nella dichiarazione di fallimento. Di conseguenza al danneggiante non potrebbero essere addebitate quelle che sono conseguenze naturali della liquidazione concorsuale, che si sarebbero comunque verificate anche senza la ritardata cessazione dell'attività, come ad esempio le minusvalenze delle liquidazioni fallimentari o quegli incrementi del passivo che non sono una conseguenza del comportamento del «ceto bancario», come ad esempio le sanzioni amministrative per le mancate esportazioni che sono addebitabili alla fallita o anche quella parte del trattamento di fine rapporto relativa agli anni pregressi. Alcuni rilievi mossi dal difensore della convenuta sulla determinazione del danno sono senza dubbio fondati e saranno tenuti presenti ai fini della liquidazione. Non è invece assolutamente vero che la massa non abbia subito danni e che anzi i creditori non bancari abbiano riportato vantaggi. Il danno esiste e si è già chiarito in cosa consista. Per rendersene conto è sufficiente richiamare la perdita delle revocatorie, perdita che costituisce una conseguenza diretta ed immediata della ritardata pronuncia di fallimento voluta dal «ceto bancario». L'ausiliare, supponendo il fallimento dichiarato il 30 giugno 1993, quando cioè l'insolvenza era stata confessata dallo stesso imprenditore, ha calcolato in lire 1.372.822.740 le rimesse oggettivamente revocabili ossia quelle aventi natura solutoria, su un affidamento complessivo con il Credito Romagnolo alla data del mese di giugno del 1990 di lire 3.750.000.000. Ora, se si considera che l'Italsemole era finanziata da circa venti banche e che, secondo l'assunto della stessa convenuta, nel 1990, ossia all'epoca dell'inizio del rapporto con il Credito Romagnolo, l'affìdamento complessivo accordato dalle altre banche ammontava a lire 180 miliardi, (successivamente si è incrementato), facendo le debite proporzioni, si può avere la misura delle rimesse delle quali la curatela avrebbe potuto ottenere la revoca, se il fallimento fosse stato dichiarato nel mese di giugno del 1993. In proposito il consulente di parte ha fatto rilevare che, collocando alla data del 3 O giugno 1993 sia la conoscenza che la conoscibilità dello stato d'insolvenza non ci sarebbero state rimesse revocabili nel periodo anteriore per l'assenza della scientia decoctionis. Sul punto si è già precisato che, mentre la data a partire dalla quale il fallimento si può considerare realisticamente ritardato coincide con il mese di giugno 1993, il periodo della conoscibilità ai fini della prova della scientia decoctionis deve retroagire quanto meno al mese di settembre del 1992, per le considerazioni già espresse. Si tenga conto che, anche se la scientia decoctionis coincide in definitiva con la stessa conoscenza o conoscibilità dell'insolvenza riscontrabile nella concessione abusiva del credito, le due situazioni richiedono valutazioni diverse. L'affermazione della responsabilità del banchiere per la concessione abusiva del credito richiede maggiore prudenza da parte del giudice e quindi un elevato grado di colpa. Nelle azioni revocatorie contro le banche, ai fini della prova della scientia decoctionis, si fa largo uso di presunzioni, anche perché il banchiere dispone d'informazioni che altri non hanno. Se in questa controversia, anziché di concessione abusiva del credito, si fosse discusso della revocabilità delle rimesse bancarie, nessun consulente avrebbe fatto coincidere il periodo della conoscenza o conoscibilità con quello della dichiarazione di fallimento.

Ai fini probatori la curatela aveva chiesto che fosse ingiunto a tutti gli istituti di credito che avevano avuto rapporti con la fallita l'esibizione degli estratti conti. Da tali estratti conto si sarebbe potuto desumere il presumibile ammontare delle rimesse revocabili. A tale richiesta la difesa della convenuta si è opposta. il decidente ha ritenuto inutile l'acquisizione, perché essa non era necessaria né ai fini dell'accertamento della responsabilità della convenuta, per il principio dell'equivalenza delle cause e della solidarietà passiva, né al fine di determinare il danno nella misura indicata dalla curatela. Inoltre non si è voluto interferire nella gestione di processi affidati ad altri colleghi. Si era però sottolineato che quella documentazione poteva essere eventualmente utile per determinare il danno in misura diversa da quella pretesa dalla curatela. Quel suggerimento non ha avuto seguito perché, da un lato, la convenuta non ha avanzato neppure in via subordinata una proposta liquidatori a alternativa a quella indicata dalla curatela e, dall'altro, il consulente ha ritenuto utilizzabile il metodo francese.

Il fallimento è stato ritardato, non solo per evitare le revocatorie delle rimesse in conto corrente, ma anche e soprattutto per evitare quelle dei mandati ad incassare irrevocabili e senza obbligo di rendiconto emessi in favore delle banche dalle varie società del gruppo. il consulente con riferimento al periodo compreso tra il mese di settembre del 1992 ed il mese di aprile 1993 ha calcolato in lire 47.962.652.515 l'ammontare dei prefinanziamenti, esclusa la sanzione amministrativa. Tale importo ha subito un notevole incremento a seguito dell'accertamento di nuove mancate esportazioni e, escluse le sanzioni amministrative non addebitabili, come già evidenziato, alle banche ma alle società fallite, è stato determinato in lire 84.392.839.539. Il difensore della convenuta ha sollecitato la convocazione del consulente a chiari menti allo scopo di accertare se l'incremento sia dipeso da ulteriori indebiti rimborsi ovvero da ulteriori accertamenti di pregressi indebiti rimborsi ed in quest'ultimo caso a quale periodo essi sarebbero riferibili... il difensore della curatela in proposito ha replicato che solo lire 10.732.124.284 sarebbero riferibili al 1991. Dal verbale di constatazione prodotto dalla curatela emerge che quei rimborsi si riferiscono al periodo compreso tra la fine del 1991 ed il mese di aprile del 1993. Se così è, non è necessario convocare il consulente giacché quei mandati ad incassare anche nell'interesse del mandatario, avendo avuto una funzione solutoria, sono mezzi anormali di pagamento revocabili a norma del comma 1, n. 2, dell'art. 67 legge fallimentare. Di conseguenza il periodo sospetto è di due anni e la scientia decoctionis si presume proprio per l'anormalità del pagamento. Si tratta di mezzi anormali di pagamento, sia perché la banca utilizzava le somme riscosse a progressiva decurtazione delle linee di fido, sia perché il credito delle società verso l'Amministrazione era subordinato all'esportazione. Proprio con riferimento alle bollette doganali la Cassazione ha statuito che «... è revocabile ex art. 67, comma l, n. 2 la cessione del credito verso la dogana attuata con la girata delle bollette doganali di pagamento dei diritti che devono essere restituiti». In senso conforme per quanto riguarda la cessione delle polizze di pegno (Cassazione, 4568 del 1982) ed in generale per i mandati di pagamento aventi natura solutoria (Cassazione, 6559 del 1994; 2330 del 1993). Le banche accettavano in compensazione crediti che non erano allora certi. Questo è un ulteriore indizio delle difficoltà finanziarie e della mancanza di liquidità dell'impresa finanziata. Comunque anche a volere considerare quei mandati revocabili a norma del comma 2 la somma recuperabile non sarebbe stata inferiore ai 47 miliardi circa indicati dall'ausiliare per il periodo compreso tra il mese di settembre del 1992 ed il mese di giugno del 1993. Gli indizi dai quali desumere la scientia decoctionis del banchiere sono stati già evidenziati. li fatto stesso che il credito verso le Dogane non fosse all'epoca della girata delle bollette certo, avrebbe dovuto indurre il diligente banchiere ad una maggiore cautela.

Se il fallimento fosse stato tempestivamente dichiarato, le somme recuperabili attraverso le revocatorie sarebbero state distribuite tra tutti i creditori comprese le banche. Quindi solo una parte di tali somme sarebbe andata ai creditori non bancari. Peraltro gli importi recuperati dovevano essere accreditati alle banche. Si è fatto riferimento alle obbligazioni assunte dopo il mese di giugno del 1993, nella misura in cui non sono state adempiute, ed all'ammontare delle somme che il curatore avrebbe potuto distribuire ai creditori non bancari a seguito delle revocatorie, per dimostrare che un danno esiste; che esso non può essere inferiore agli importi anzidetti, anche se non è possibile determinarlo nel suo preciso ammontare. L'unico criterio utilizzabile è quello equitativo, calibrato sulla fattispecie concreta. Tenuto conto delle risultanze della consulenza, del presumibile ammontare degli importi ricavabili dalle revocatorie che sarebbe andato a beneficio dei creditori non bancari, delle passività non bancarie sorte dopo il mese di giugno del 1993, si ritiene di determinare in settanta miliardi di lire, pari ad euro 36.151.980,00 il danno complessivamente cagionato dalle banche ai creditori non bancari dell'Italsemole, con riferimento alla data della dichiarazione di fallimento pronunciata dal tribunale di Nola. Tale liquidazione equitativa corrisponde in definitiva alla differenza tra passivo ed attivo fallimentare con alcuni correttivi, ossia escludendo dal passivo le sanzioni amministrative ammontanti a circa 70 miliardi, non essendo esse addebitabili alle banche, valutando gli immobili ed in macchinari in base al valore di stima, perché il deprezzamento si sarebbe verificato anche con un fallimento non ritardato ed apportando qualche altra correzione di lieve entità.

La somma liquidata anche se oggetto di un'azione risarcitoria non va automaticamente rivalutata giacché con la dichiarazione di fallimento tutti i crediti si cristallizzano. Quindi anche questa conseguenza del fallimento, ossia la mancata rivalutazione del credito durante la procedura, non può essere addebitata al «ceto bancario». D'altra parte le componenti del danno già costituivano all'origine debiti di valuta, quali ad esempio il corrispettivo della merce acquistata dai fornitori (grano), le somme recuperabili dalle revocatorie ecc. Per le somme recuperabili con la revocatoria delle rimesse o dei mandati a riscuotere il curatore avrebbe potuto ottenere gli interessi o il maggior danno ex articolo 1224 cod. civ., ma non la rivalutazione automatica del credito. D'altra parte, se si riconoscesse la rivalutazione automatica, i creditori diversi da quelli bancari, anziché un equo indennizzo, conseguirebbero un indebito arricchimento in danno delle banche.

Sulla somma anzidetta sono dovuti gli interessi dalla data dell'illecito ossia da quando è cessata la condotta diretta a ritardare il fallimento e più precisamente dall'8 settembre 1994. Quello innanzi indicato rappresenta ovviamente il danno complessivamente cagionato ai creditori da tutte le banche che hanno finanziato la fallita e che hanno condiviso la successiva operazione apparentemente diretta al salvataggio. Per il principio di equivalenza delle cause concorrenti alla produzione dello stesso evento e per quello di solidarietà, la banca convenuta in questo giudizio è tenuta a corrispondere l'intero, a prescindere dal suo grado di colpa, salva l'azione di regresso nei confronti di tutti gli altri soggetti che hanno concorso a cagionare lo stesso danno.

Azione revocatoria. Dalle indagini del consulente è emerso che nel periodo sospetto, che va computato dalla data in cui venne pronunciato il fallimento, sia pure dal giudice incompetente e non da quella virtuale considerata ai soli fini risarcitori, non vi sono rimesse di alcun genere nel primo anno anteriore alla dichiarazione di fallimento. Occorre quindi stabilire se nel secondo anno anteriore alla dichiarazione di fallimento vi siano stati atti revocabili. Le rimesse in conto corrente bancario come mezzi normali di pagamento sono revocabili a norma del comma 2 dell'articolo 67 legge fallimentare, ossia se effettuate entro il primo anno dalla dichiarazione di fallimento e se aventi natura solutoria e non ripristinatoria della provvista. La concessione abusiva dell'affidamento non le trasforma in mezzi anormali di pagamento, ma dispensa il curatore dal provare per ogni singola rimessa avente natura solutoria la scientia decoctionis, essendo essa in re ipsa per il fatto che il credito era stato concesso in una situazione d'insolvenza conosciuta o conoscibile. Di conseguenza una volta provato l'ammontare delle rimesse solutorie effettuate entro l'anno dalla dichiarazione di fallimento, la domanda sarebbe stata automaticamente accolta. Questo è il significato del passo della decisione non definitiva estrapolato dalla curatela. Della illiceità del finanziamento si sarebbe potuto eventualmente tenere conto al momento dell'ammissione del credito allo stato passivo. D'altra parte per quanto riguarda il periodo compreso tra il mese di settembre del 1992 ed il mese di giugno del 1993, ai fini del risarcimento del danno, questo giudice ha già tenuto conto della perdita delle revocatorie. La curatela non può pretendere, per lo stesso periodo, il risarcimento del danno, per avere perduto le revocatorie, e poi esercitare la relativa azione come se quella perdita non si fosse verificata. In realtà i creditori rappresentati dalla curatela hanno perduto, a causa del comportamento del «ceto bancario», le revocatorie e nella misura in cui sono stati danneggiati per tale perdita, sono stati risarciti.

È ben vero che il curatore nell'atto di citazione ha chiesto la revoca degli atti a titolo oneroso a norma dell'articolo 67, comma 1, n. 1 legge fallimentare in considerazione «dello smodato tasso degli interessi praticato e delle finalità non conformi all'attività di credito». Nella sentenza non definitiva, allorché si è esaminato il problema della determinatezza della domanda, si è sottolineato che il curatore con il riferimento allo smodato tasso degli interessi ed alle finalità non confermi all'attività di credito, aveva inteso riferirsi alle rimesse effettuate per estinguere il finanziamento ritenuto abusivo. Ave va cioè lasciato intendere che le rimesse potessero essere revocate a norma del comma 1, n. 1, art. 67 legge fallimentare ossia che fossero revocabili tutte quelle compiute nel biennio e che dovesse essere la convenuta a provare l’inscientia decoctionis. In quella circostanza si sottolineò che non bisognava sovrapporre le questioni relative alla determinatezza della domanda con quelle relative al merito. La domanda nella sua prospettazione era sufficientemente chiara: la curatela chiedeva la revoca di tutti i pagamenti effettuati in favore della convenuta per la sproporzione della prestazione ed aveva anche determinato l'importo complessivo a prescindere dalla natura, solutoria o ripristinatoria della rimessa stessa. Ora si deve invece rilevare che le rimesse effettuate per estinguere il finanziamento ritenuto illecito, a prescindere dall'indagine sulla natura solutoria o ripristinatoria della rimessa, indagine peraltro già compiuta dall'ausiliare per rispondere al quesito n. 7, non costituiscono atti con prestazioni sproporzionate. Invero la sproporzione deve essere valutata con riferimento al momento della conclusione del contratto e non a quello in cui viene proposta l'azione (cfr. Cassazione, 4408 del 1995). All'epoca dei negozi in questione non era stato ancora fissato il tasso soglia dell'interesse e la capitalizzazione trimestrale degli interessi stessi era ritenuta legittima dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti, perché considerata conforme ad un uso normativo. Lo stesso tasso del 20 o 22 % non era allora considerato usurario. Di conseguenza i negozi in esame non possono considerarsi atti con prestazioni sproporzionate. Nella citazione s'è parlato altresì genericamente di mezzi anormali di pagamento quali ad esempio le cessioni di credito ed i mandati a riscuotere, ma tali atti non sono stati indicati. I mandati a riscuotere i prefinanziamenti comunitari dei quali si è discusso a proposito dell'azione risarcitoria, non risultano emessi in favore del Credito Romagnolo. Subordinatamente alla revocatoria la curatela ha chiesto che per il periodo 1992-1994 il tasso praticato fosse ridotto a quello legale per la mancanza di prova scritta della pattuizione del tasso ultralegale. La domanda è inammissibile perché il credito è stato già ammesso al passivo ed il decreto con cui il giudice dichiara esecutivo lo stato passivo a norma dell'articolo 97 legge fallimentare ha, quanto meno nell'ambito della procedura, efficacia di giudicato in ordine all'esistenza, all'entità del credito ed alle cause di prelazione e copre perciò il dedotto ed il deducibile. Avuto riguardo all'esito finale della lite le spese vanno compensate per un terzo. Gli altri due terzi vanno posti a carico della convenuta e si liquidano per l'intero come nel dispositivo che segue. Il valore della causa è quello determinato in sentenza per la domanda risarcitoria che è quella accolta. Esso supera l'ultimo scaglione della tariffa professionale. Di conseguenza gli onorari medi dell'ultimo scaglione vanno aumentati nella misura dello 0,50% del valore della causa ritenuto in sentenza. Nella stessa misura vanno addebitate alla convenuta le spese della consulenza d'ufficio, già liquidate e quelle della consulenza di parte della curatela, che si liquidano nel dispositivo che segue.


P.Q.M.

il tribunale in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dalla curatela del Fallimento Italsemole soc. a resp. limo con atto del 31 agosto 1999 nei confronti della Rolo Banca 1473 soc. per az., richiamate le statuizioni contenute nella sentenza non definitiva, così provvede:

Accoglie la domanda risarcitoria per quanto di ragione e di conseguenza condanna la convenuta al pagamento in favore della curatela della somma di lire 7 miliardi, pari ad euro 3.615.980,00 corrispondente al danno complessivamente cagionato ai creditori non bancari del fallimento anzidetto da tutti gli istituti di crediti, con gli interessi sulla somma anzidetta dall'8 settembre 1994 e fino al saldo.

Rigetta la domanda revocatoria. Dichiara inammissibile quella diretta alla rideterminazione del tasso degli interessi.

omissis