Diritto Bancario e Finanziario


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 464 - pubb. 26/07/2007

Responsabilità della banca, culpa in vigilando e culpa in eligendo

Tribunale Milano, 16 Dicembre 2006. Est. Silvia Brat.


Responsabilità della banca per il fatto illecito del dipendente – Rischio d’impresa – Dovere di organizzarsi per prevenire gli illeciti – Sussistenza – Onere della prova – Distribuzione

Responsabilità della banca per il fatto illecito del dipendente – Culpa in vigilando e culpa in eligendo – Sussistenza



In tema di responsabilità dell’istituto bancario per il fatto illecito del proprio dipendente, l’orientamento giurisprudenziale assolutamente predominante e condivisibile ha fatto ampio riferimento all’art. 2049 c.c., nell’ottica di una vera e propria responsabilità di tipo oggettivo, contraddistinta dal cd. rischio di impresa. E’, infatti, il soggetto preponente quello che meglio può attrezzarsi per prevenire in modo efficiente gli illeciti del dipendente e, pertanto, degli stessi deve rispondere. Ne consegue che l’onere probatorio per il cliente danneggiato si riduce alla dimostrazione della qualità di dipendente del soggetto con il quale ha contrattato; mentre incombe all’istituto bancario dimostrare l’estraneità dell’attività dannosa rispetto alle incombenze affidate al dipendente nell’ambito dell’organizzazione aziendale. (Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che l’utilizzo dei locali della banca, la spendita delle proprie qualità professionali, l’utilizzo dei timbri, la messa a disposizione di tabulati bancari, il compimento di attività tipicamente bancarie fossero tutti elementi tali da far ritenere sussistente il nesso di occasionalità necessaria richiesto dalla disposizione di cui all’art. 2049 c.c.) (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

La responsabilità della banca per il fatto illecito del proprio dipendente ai sensi dell’art. 2043 c.c. può essere ravvisata anche sotto l’ulteriore elemento di responsabilità di cui all’art. 2043 c.c. (cd. culpa in vigilando specifica), ove sia stata consentita l’operatività di una struttura affidata alla autonomia dei singoli dipendenti e sostanzialmente priva di controlli. Ulteriore fattore di responsabilità può essere ravvisato nell’iter legato alla assunzione del dipendente responsabile del fatto illecito sotto l’aspetto della culpa in eligendo, qualora l’assunzione di un soggetto munito di significativa autonomia sia avvenuta senza adottare misure adeguate per una accurata selezione del personale con specifico riferimento a qualità quali la lealtà e la correttezza che necessariamente debbono caratterizzare l’operato di chi gestisce ingenti patrimoni. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)


 


omissis


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Con atto di citazione ritualmente notificato in data 10 aprile 2003,  M. L. conveniva davanti al Tribunale di Milano la Banca C. S. & C. s.p.a. in persona del legale rappresentante pro – tempore, ciò assumendo: che, in qualità di cliente della banca., aveva rapporti con il funzionario della stessa, R.  B. Z., il quale si vantava di essere il responsabile della filiale di *** Milano, con poteri di firma sino a 20 miliardi di lire; che egli attore, nell’ambito di un servizio di private banking, versava a più riprese - come indicato pagg. 5 e 6 della citazione - la complessiva somma di € 2.279.000,00 e che, nel mese di dicembre 2002, aveva modo di scoprire che la sua posizione era, in sostanza, ridotta a zero, dato che mancavano gli accrediti relativi a ben sette versamentI effettuati nei mesi di settembre e di ottobre 2002, per un importo totale di € 1.875.000,00, mentre i danari accreditati erano scomparsi per effetto di un’innumerevole serie di operazioni in strumenti derivati; che la banca convenuta, in relazione a tali investimenti, preannunciava lo storno delle operazioni in titoli, evidenziando che aveva perso i contatti con il dipendente; che, per tutti i versamenti i cui accrediti erano scomparsi, il funzionario aveva adottato modalità di ricezione dei danari alquanto singolari e ripetitive, quali, ad esempio, convocare il cliente tra le 12 e le 13 , in assenza di alcuna segretaria, che attestasse i versamenti; che il funzionario aveva posto in rilievo come il versamento di ingenti cifre avrebbe consentito al cliente di partecipare anche agli utili di operazioni di grande impegno finanziario, che la banca effettuava mediante la disponibilità dei propri clienti; che il funzionario rilasciava, in ogni occasione di versamento, copiosa documentazione attestante, a suo dire, l’esistenza di questa sorta di fondo comune e che ciò spesso avveniva alla presenza del cognato dell’attore, L. D.; che, nel mese di ottobre 2002, le stesse prospettive venivano evidenziate anche al socio dell’attore, A. G.; che, comunque, una volta che anche il G. aveva iniziato ad effettuare versamenti, gli accrediti non erano visibili, in quanto confluiti nella gestione cd. cifrata e transitoria che, secondo il funzionario, assicurava rendimenti altissimi. Sulla base di tale ricostruzione fattuale, l’attore chiedeva la restituzione di quanto versato, ossia dell’importo di € 2.279.000,00, oltre interessi, rivalutazione e risarcimento dei danni, stante l’illegittimità dell’operato del funzionario e delle operazioni in strumenti derivati, data l’assenza di un contratto di negoziazione e data la contraffazione delle relative firme.

Radicatosi il contraddittorio, parte convenuta asseriva che: a fronte della richiesta effettuata tramite il legale dell’attore, aveva risposto con la massima sollecitudine, in data 30 dicembre 2002, inviando copia dei contratti di conto corrente e della relativa movimentazione; con riferimento all’operatività dei titoli, essa banca aveva inviato un prospetto riassuntivo dell’andamento, tanto al L., quanto al socio di questi, A. G.; i due clienti, una volta ricevuta la documentazione, avevano disconosciuto le firme apposte sui documenti ed, all’esito di ciò, l’istituto bancario aveva provveduto a ripristinare il conto corrente del Lanazanova nella posizionequo ante, accollandosi una perdita secca di € 31.624,00; ne derivava che nessuna richiesta di danni poteva essere avanzata con riferimento alla movimentazione titoli. A seguito delle contestazioni del cliente, la banca aveva, poi, presentato un esposto alla Procura della Repubblica, anche perché ogni tentativo di porsi in contatto con il dipendente era fallito. Inoltre, l’istituto aveva accertato che il saldo del conto dell’attore ammontava ad € 404.500,00, risultato di due versamenti, effettuato, l’uno, con assegni circolari in data 1 ottobre 2002 per € 280.500,00 e, l’altro, in contanti in data 8 ottobre 2002 per € 124.000,00; in relazione, invece, agli altri versamenti, la banca aveva sottolineato diverse anomalie, costituite dal fatto che le distinte non erano state sottoscritte da colui che aveva effettuato il versamento; inoltre, le stesse non dovevano essere a mano del cliente, ma del cassiere che aveva ricevuto il versamento, il quale rilasciava l’attestazione di avvenuto versamento al cliente. In particolare, poi, la banca aveva informato la Procura anche di alcune operazioni effettuate dal funzionario e, per la precisione, di un versamento in contanti di € 400.000,00 eseguito sul suo conto personale, precisamente il 4 settembre 2002, esattamente un giorno prima dell’apertura dei conti da parte del L. e del G.; da tale conto il B. aveva, poi, effettuato un bonifico di pari importo del versamento di cui sopra, a favore di certo Cheng Bang You presso la Bank of China, con una generica causale “real estate”. In ogni caso, parte convenuta sottolineava come la narrazione dell’attore fosse decisamente inverosimile, essendo del tutto estraneo alla realtà che un imprenditore dello spessore del L. potesse credere alle affermazioni del dipendente. Infine, con riferimento al quantum, parte convenuta evidenziava che, avendo il L. ritirato in data 19 maggio 2003, la somma di € 404.500,00 a mezzo assegni circolari, l’oggetto della domanda doveva essere circoscritto all’importo di € 1.875.000,00. Ebbene, con riguardo a detta somma, la Difesa della convenuta sottolineava che doveva essere esclusa una qualsiasi efficacia probatoria della distinta prodotta agli atti per l’importo di € 240.000,00 in quanto non sottoscritta dal alcuno; di qui, la riduzione dell’importo ad € 1.635.000,00. Con riferimento alle altre sei distinte prodotte dalla controparte, la banca non ne riconosceva il valore probatorio, in considerazione del fatto che non era indicato il nome del presentatore e che erano prive di data. In diritto, dunque, la parte convenuta contestava che sussistesse il collegamento dell’occasionalità necessaria tra il ruolo lavorativo del B. e la sua attività illecita, essendo, piuttosto ravvisabile un pactum sceleris tra il funzionario ed il cliente. Non solo, ma poneva in risalto come tra il L. ed il B. esistessero pregressi rapporti ed una conoscenza datata, che sottintendeva una profonda e reciproca fiducia: ciò in quanto il L. aveva fatto riferimento al B. ben prima di divenire cliente della Banca S., come dimostrava il fatto di aver affidato allo stesso importanti e delicati incarichi, quali il bonifico in Cina. Ulteriore riscontro di tale rapporto era costruito dall’altro bonifico di € 50.000,00 dal conto personale del B. alla cognata del L., Tiziana Abate, moglie di L. D.. Orbene, alla luce di tali elementi, anche ove, in via subordinata, fosse ravvisabile la responsabilità della banca, era del tutto evidente un significativo concorso da parte del danneggiato, valutabile ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1227 c.c.. Pertanto, la convenuta chiedeva, in via preliminare, il rigetto delle pretese attoree; in via subordinata, l’accertamento della colpa concorrente del L. in misura non inferiore al 70% ed, in via gradata, la manleva a carico del funzionario B.; in via ulteriormente gradata, la manleva da parte delle Assicurazioni generali s.p.a..

All’udienza del 17 novembre 2003 veniva dichiarata la contumacia di R.  Z. B. e pronunciata la decadenza della banca dalla facoltà di evocare in giudizio la s.p.a. Assicurazioni Generali, non avendovi detta parte provveduto tempestivamente. In tale prima udienza, la Difesa della convenuta instava anche per la riunione, alla presente controversia, della causa rubricata sub n. 26037/03 R.G., promossa da A. G. contro essa banca, in dipendenza di fatti analoghi. Con ordinanza in data 3 marzo 2004, il giudice provvedeva alla riunione, alla presente vertenza, dell’altra causa introdotta dal G., il quale chiedeva la condanna della banca alla declaratoria di nullità di tutte le operazioni di gestione patrimoniale ed all’annullamento di ogni singola operazione in strumenti finanziari; chiedeva, altresì, la condanna della controparte alla restituzione della somma di € 1.727.000,00 oltre agli interessi ed al risarcimento dei danni per la mancata possibilità di un migliore e più proficuo impiego dei danari, previa detrazione della somma di € 500.000,00 prelevata dallo stesso in data 9 dicembre 2002 e definitivamente acquisita al suo patrimonio. A sostegno delle domande, il G. asseriva che dal conto corrente acceso presso la stessa filiale del L. mancavano gli accrediti relativi a ben tre versamenti effettuati nei mesi di ottobre e di novembre 2002, mentre i danari, che risultavano accreditati, erano stati investiti in innumerevoli operazioni finanziarie ed in particolare in strumenti derivati. Riferiva, inoltre, gli stessi fatti esposti dal L. in atto di citazione.

Anche in tale giudizio la banca assumeva le stesse posizioni illustrate nella causa n. 26033/03 R.G..

Con memoria di costituzione in data 30 aprile 2004, la Banca ** in persona del presidente del consiglio di amministrazione, previa dichiarazione dell’avvenuta incorporazione della Banca C. S. nella Banca ** s.p.a., si costituiva in giudizio, precisando le stesse conclusioni assunte dalla banca originaria convenuta.

Seguivano i depositi delle memorie ex artt. 183, V comma e 184 c.p.c..

Esperita l’istruttoria mediante produzioni documentali, essendo state respinte tutte le altre richieste istruttorie testimoniali, la causa veniva ritenuta in decisione all’udienza del 25 maggio 20006 sulle conclusioni come dalle parti precisate, previa concessione del termine di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle note di replica.


MOTIVI DELLA DECISIONE


La causa non necessita di ulteriore attività istruttoria, posto che il materiale probatorio acquisito in sede penale è più che sufficiente a delineare il contesto in cui si sono svolti i fatti. Ragione per la quale vanno disattese le istanze istruttorie formulate dalle parti in sede di precisazione delle conclusioni.

La Difesa attorea ha chiesto la condanna della banca convenuta alla restituzione delle somme, quanto al L., di € 2.279,000,00 e, quanto al G., di € 1.727.000,00. A sostegno delle domande, ha prodotto, con riferimento al L.: ricevuta, doc. n. 8, di € 125.000,00 ricevuta. doc. n. 9, di € 240.000, ricevuta, doc. n. 10, di € 200.000,00, ricevuta, doc. n. 11, di € 250.000,00, ricevuta, doc. n. 12, di € 400.000,00, ricevuta, doc. n. 13 di € 360.000,00, ricevuta, doc. n. 14, di € 300.000,00, il tutto per un ammontare complessivo di € 1.875.000.  M. L. dava atto, a mezzo del proprio legale, nella missiva del 9 gennaio 2003, che sul conto era rimasta solo la cifra di € 404.500,00; importo accertato anche dall’odierna convenuta, a seguito delle disposte indagini interne (v. pag. 9 della comparsa di costituzione e risposta) e dal cliente ritirato (v. doc. n. 18 della parte convenuta).

A. G. ha prodotto la ricevuta, doc. n. 8, relativa al versamento di € 300.000,00, ricevuta, doc. n. 9, per il versamento di complessivi € 300.000,00 in diverse occasioni e la ricevuta, doc. m. 10, per un importo di € 450.000,00; il tutto per un importo di € 1.050.000,00. A. G. dava atto, nella citazione, di aver ritirato l’importo di € 500.000,00 in data 9 dicembre 2002; inoltre dal doc. n. 19 della convenuta risultava il prelievo della somma di € 176.000,00.

Le ricevute versate in atti dalla Difesa del L. e del G. indicano, in modo chiaro, gli importi, ma sono prive di data e dell’identificazione di colui che materialmente avrebbe versato i relativi importi. Significativo è, però, che tutte rechino il timbro della Banca S., con apposta, sopra, una sigla, ad eccezione della ricevuta di € 240.000, che risulta timbrata, ma non siglata.

La Difesa della banca, sul punto, intender negare una qualsiasi valenza probatoria a tali documenti, sottolineando, da un lato, l’anomalia di tali modalità di versamento e, dall’altro, l’incompletezza delle ricevute, che non recavano l’identificazione del soggetto che materialmente versava dette somme; oltre a ciò, la convenuta ha anche sottolineato la singolarità del fatto che dette ricevute fossero nella disponibilità del cliente e che non risultassero dalla contabilità interna all’istituto, secondo le usuali e note modalità di accredito di somme di danaro.

Orbene, una simile osservazione è certamente pertinente in linea generale ed astratta, ma, con riferimento al caso in esame, deve essere inquadrata nel particolare contesto in cui si svolsero i fatti, per come accertati in sede penale.

In particolare, la sentenza n. 9493/04 emessa in data 10 gennaio 2005, dal Tribunale di Milano, corredata dai verbali delle udienze dibattimentali, ha ben delineato i contorni della vicenda. E’, infatti, stato accertato che i due imprenditori, L. e G., erano rimasti decisamente affascinati dalla personalità del dipendente, funzionario della banca convenuta, R.  Z. B., con il quale avevano preso contatti nell’estate del 2002, precisamente nel mese di luglio; da questi erano ricevuti in un ufficio di alta rappresentanza, che, per dimensioni e struttura, si presentava coerente con il profilo di grande manager che il funzionario si era dipinto addosso (v. doc. n. 5 di parte attorea). Profilo di relationship manager, che induceva a ritenere del tutto verosimile, sia l’attribuzione dei notevoli responsabilità, sia il potere di firma sino a 20 miliardi di lire, sia il positivo apprezzamento nell’ambito della direzione generale dell’istituto bancario. Del resto, se solo si considera il tenore delle brochures della Banca S. versate in atti, pare del tutto ovvio che a simili prerogative si accompagnasse necessariamente una figura di funzionario altisonante (v. doc.ti nn. 1- 4 di parte attorea): figura in linea con una banca che si occupa della valorizzazione di ingenti patrimoni, coniugando un approccio tradizionale basato sull’estrema fiducia del cliente nel dipendente della banca in una sorta di rapporto quasi confidenziale, improntato, peraltro, alla massima redditività degli strumenti finanziari, in linea con un modello certamente avanzato. Ciò voleva significare che solo una elite finanziaria poteva far parte della clientela della banca, che solo, quindi, ad ingenti patrimoni, il funzionario della banca poteva rivolgere l’attenzione necessaria e che, conseguentemente, solo con un’estrema fiducia da parte del cliente ed un’estrema agilità commerciale e finanziaria potevano essere realizzati guadagni significativi. In un tale contesto, pertanto, risultava del tutto ovvia l’operatività in contanti, proprio in quanto gli assegni bloccavano, per così dire, questa mobilità finanziaria del conto e dei relativi investimenti. Il B., infatti, assumeva di fare investimenti, utilizzando le disponibilità dei clienti in una sorta di conto cifrato, non disponibile e particolarmente agile, quanto alla movimentazione. A tale riguardo, il teste A. R., escusso all’udienza dibattimentale del 5 febbraio 2004, ha riferito che il ruolo di relationship manager era caratterizzato da una certa autonomia nello sviluppo dell’attività e nell’attrazione della clientela, tanto che, nella maggior parte dei casi, un simile funzionario lavorava al di fuori addirittura dei locali della banca, in modo assolutamente confidenziale, od in salottini riservati. Un simile modus operandi aveva anche riflessi nelle operazioni più semplici e basilari, come, appunto, i versamenti di danaro. Un funzionario con particolari responsabilità aveva, infatti, una totale libertà di azione, poteva ricevere, come nel caso di specie, anche in sale di rappresentanza, in assenza di terze persone. Il teste P. D., escusso all’udienza del 6 maggio 2004, ha ben posto in rilievo la grande capacità di relazione del funzionario B., assunto proprio in ragione delle possibilità di apportare nuova ed interessante clientela alla banca; e proprio per tale autonomia, il B. poteva - come del resto anche altri dipendenti all’interno della banca - portare egli stessi direttamente alla cassa dei valori, con una distinta firmata dal cliente e ricevuta magari nel suo ufficio o nella sua abitazione; poteva, pertanto, capitare che il cliente versasse somme in contanti in salottini riservati e che poi il funzionario promotore finanziario facesse in seguito il versamento in banca. Questa particolare modalità operativa – ha chiarito il teste – era possibile in quanto all’interno della banca ogni cliente era dotato di un codice ed aveva un funzionario cui fare riferimento. Il funzionario di riferimento per gli odierni attori era, appunto, il B., il quale, poco prima di entrare in contatto con i clienti, si era accordato con l’ufficio del personale di raggiungere un determinato budget; con la conseguenza che, nell’ipotesi di mancato raggiungimento di determinati risultati economici, il B. avrebbe dovuto lasciare l’ufficio. Sempre in detta deposizione, il D. ha anche chiarito che, nella struttura aziendale dell’istituto, ben poteva darsi che un funzionario si qualificasse come direttore della filiale e si attribuisse poteri e prerogative assolutamente fasulle, senza che il cliente avesse modo di rendersene conto, anche perché al di fuori dei rispettivi uffici non era collocata alcuna targhetta; ed, inoltre, il dipendente aveva un ampio potere di scelta in ordine al luogo degli appuntamenti riservati con i clienti, cosicché anche una tale variabile rendeva estremamente difficile una verifica circa i poteri e le attribuzioni al funzionario, da parte del cliente, che, tra l’altro, certamente non nutriva alcun interesse per una simile questione. In sostanza, ciò che caratterizzava i rapporti con la clientela era un’assoluta fiducia, quasi confidenziale, che dava modo al dipendente dell’istituto di operare con totale autonomia; basti pensare che il teste D. ha espressamente riferito che poteva benissimo capitare che, al fine di rendere più veloci gli investimenti in strumenti finanziari, il cliente desse l’autorizzazione al promotore di riferimento di apporre una sigla sugli ordini e che passasse in filiale in un momento successivo, ad operazione completata. In particolare, con riferimento ai documenti prodotti in giudizio e relativi ai versamenti, secondo la prospettazione attorea, il D. ha riferito che si trattava di distinte alla portata di tutti e non di ricevute, salvo ammettere - come, peraltro, evidente - che vi era apposto il timbro della banca e la sigla di R. B.; timbro che, per ammissione del teste, era in cassa e nei vari uffici e, comunque, nella disponibilità di chiunque all’interno della banca. Ebbene, in un simile contesto, allorché il G. decise, nel mese di dicembre 2002, di acquistare una cascina, con i frutti dei suoi guadagni, prelevò dal suo conto la somma di € 500.000,00 in data 9 dicembre 2002 e prese accordi di prelevare il resto, per un valore complessivo di € 1.300.000,00, per il giorno 16 dicembre 2002; una volta presi contatti telefonici con l’istituto bancario, venne a sapere che sul suo conto non era rimasto alcunché. Recatosi in banca, verificata la situazione con il funzionario P. D., si rese conto che il B. era sostanzialmente scomparso. Il L., messo in allarme dalla vicenda dell’amico e socio d’affari, si rese conto che anche il suo conto era stato svuotato.

Di qui prese l’avvio il procedimento penale sfociato nella condanna del B. e della di lui madre per appropriazione indebita. In sede penale, la parte offesa,  M. L. ha ben delineato il rapporto di affidamento fideistico che lo legava al B.. La conoscenza con costui risaliva all’epoca in cui, nel 2002, tutti gli investimenti in borsa stavano andando decisamente male. In tale situazione, il B., conosciuto dal L. e dal G. tramite altra persona, il cognato L. D., aveva fatto capire che, per divenire clienti della Banca S., era necessario depositare uno o due miliardi di lire; che dette somme erano necessarie al fine di effettuare investimenti personalizzati, in quanto detti danari sarebbero confluiti non su di un conto personale, ma su di un conto corrente cifrato e transitorio, che la banca utilizzava per investimenti propri, anche di carattere internazionale, nei quali erano decisamente maggiori le percentuali di guadagno. Un tale rapporto era stato abilmente costruito dal B. nell’estate del 2002, allorché gli odierni attori, pur non essendo ancora clienti della banca, erano costantemente informati di investimenti strepitosi, con guadagni particolarmente vantaggiosi e fuori dalla portata dei normali clienti di un istituto bancario qualsiasi. Una volta che i due imprenditori decisero di aprire il conto presso l’istituto bancario S., vennero indotti dal B. ad effettuare versamenti in contanti, che – secondo la versione del B. - confluivano su tale conto della banca, ove ad una movimentazione più veloce erano correlati guadagni straordinari; proprio per tale ragione, il B. aveva fatto capire che non erano graditi gli assegni, in quanto frenavano la necessaria mobilità. I versamenti avvenivano, dunque, in modo del tutto riservato, nella sala di rappresentanza, senza la presenza di cassiere o di segretario e durante l’incontro, della durata di 10 – 15 minuti, il B. aveva cura di prospettare sempre guadagni decisamente rilevanti, cui poteva accedere solo una clientela di assoluto riguardo; a titolo esemplificativo, il L. ha fatto riferimento ad un’occasione in cui il B. gli aveva fatto vedere un estratto conto di un milione di euro a fronte del di lui versamento di € 427.000,00, guadagno, questo, possibile con l’investimento in strumenti derivati, come spiegato dal dipendente della banca.

Anche con riferimento ad A. G., i fatti si sono svolti con le stesse modalità delineate con riguardo alla posizione del L.. Ed anche il G. aveva la netta sensazione di poter ottenere guadagni non comuni e contemporaneamente disponibilità di contanti, tanto che, senza alcun problema, aveva pensato di ritirare la cifra necessaria alla data del 16 dicembre 2002. Ebbene, tale è l’affidamento dei due imprenditori e tale il fascino esercitato dal dipendente bancario che addirittura il L. convinse il fratello E. a spedire € 500.000,00 da Panama, proprio al fine di farlo partecipare a tali vantaggiosissimi investimenti.

Orbene, in un simile contesto, si inseriscono anche due significativi episodi con i quali i due imprenditori avevano, per così dire, saggiato l’affidabilità e la riservatezza del B.. Si tratta dei due bonifici, l’uno di € 300.000,00 e l’altro di € 400.000,00 che il L. aveva commissionato di effettuare al B., tramite il di lui conto corrente, in favore di soggetti di nazionalità cinese, in vista dell’apertura di una lavanderia in Cina. Tali fatti, ammessi dal B., risultano anche dalla documentazione bancaria sulla quale ha riferito il Maresciallo Giuseppe Cavalli all’udienza dibattimentale dell’11 marzo 2004. Ebbene, in un simile contesto si inseriscono gli episodi di appropriazione indebita accertati dalla sentenza del Tribunale di Milano. Su tali fatti va, anzitutto, osservato che non solo il B. non si è costituito, ma che neppure l’istituto bancario ha contestato la ricostruzione puntuale effettuata in sede penale. Nella quale sono stati precisamente ricostruiti i vari passaggi di danaro e, soprattutto, la coincidenza temporale tra gli ingenti versamenti in contanti da parte del L. e del G. e le altrettanto significative disponibilità finanziarie sui conti del B. e della di lui madre, E. T.. Disponibilità con le quali, nel volgere di appena tre mesi (settembre – dicembre 2002), il B. aveva acquistato un immobile in Mariano Comense per € 400.00,00, la motocicletta artigianale da amatore per € 23.000,00, l’autovettura Audi per € 54.000,00, il bar di via * a Milano per € 650.000,00; a ciò si deve aggiungere il preliminare di compravendita di un negozio confinante con in bar di via * per € 170.000,00, di cui €15.000,00 anticipati. Di tali beni risulta intestataria, per lo più, la madre del B., E. T.. Inoltre, dalla movimentazione bancaria dei conti correnti intestati tanto al B. - presso la Banca **** di Milano, piazza Duomo, Milano, presso la Banca S. - quanto alla T., presso la Banca *****, filiale di *, con reciproche deleghe incrociate, risultano accrediti rilevanti, coincidenti con i versamenti asseriti dagli odierni attori e confluiti, per lo più, negli acquisti sopra illustrati (v. in modo analitico, pagg. 11 – 14 della sentenza n. 9493/04).

La banca convenuta, a tale proposito, senza contraddire gli esiti in sede penale, ha incentrato la sua linea difensiva sull’insussistenza del rapporto di occasionalità necessaria tra l’attività posta in essere dal dipendente ed il di lui ruolo professionale, facendo leva sul ruolo di compartecipi dei due imprenditori, odierni attori nel porre in essere attività del tutto estranea a quella tipicamente bancaria. In secondo luogo, ha dato ampio risalto, comunque, ad una responsabilità concorrente dei due clienti, che accettavano tali distinte di versamento, senza null’altro pretendere e, dunque, accettando, in buona sostanza, il rischio insito in tale modalità operativa decisamente rischiosa ed al di fuori di ogni regola di prudenza.

In simili ipotesi, ove un istituto bancario sia chiamato a rispondere del fatto illecito del proprio dipendente, l’orientamento giurisprudenziale assolutamente predominante e condivisibile ha fatto ampio riferimento all’art. 2049 c.c., nell’ottica di una vera e propria responsabilità di tipo oggettivo, contraddistinta, in buona sostanza, dal cd. rischio di impresa. E’, infatti, il soggetto preponente quello che meglio può attrezzarsi per prevenire in modo efficiente gli illeciti del dipendente e, pertanto, degli stessi deve rispondere. Ne consegue che l’onere probatorio per il cliente danneggiato si riduce alla dimostrazione della qualità di dipendente del soggetto con il quale ha contrattato; mentre incombe all’istituto bancario dimostrare l’estraneità dell’attività dannosa rispetto alle incombenze affidate al dipendente nell’ambito dell’organizzazione aziendale. Ed, infatti, “in tema di esegesi della norma di cui all’art. 2049 c.c. è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che la responsabilità indiretta per il fatto dannoso commesso da un dipendente postula l’esistenza di un rapporto di lavoro ed un collegamento tra il fatto dannoso del dipendente e le mansioni da questi espletate, senza che sia, all’uopo, richiesta la prova di un vero e proprio nesso di causalità,risultando sufficiente, viceversa, l’esistenza di un rapporto di occasionalità necessaria, da intendere che l’incombenza svolta abbia determinato una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso, e ciò anche se il dipendente avvia operato oltre i limiti delle sue incombenze o persino trasgredendo gli ordini ricevuti, purché sempre entro l’ambito delle proprie mansioni” (v. Cass. civ., n. 1137572006). Ebbene, proprio al disposto di cui all’art. 2049 c.c. è stato fatto riferimento nelle ipotesi di dazione di somme di danaro da clienti a direttori, funzionari di banca che avevano poi omesso di versarle. In simili ipotesi “nel definire in concreto il concetto di occasionalità necessaria tra le mansioni affidate al dipendente e l’evento dannoso del cliente, è stato anche precisato che deve prescindersi del tutto da una colpa, (sia in vigilando, che in eligendo) della banca, con la conseguenza che l’accertamento della non colpevolezza del datore di lavoro non vale ad escludere la sua responsabilità; che detta responsabilità sussiste pur quando il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue competenze o addirittura violando le direttive impartite; che il semplice risparmiatore non è tenuto a conoscere lo statuto ed i regolamenti interni della banca, sicché è da escludere che il mancato uso della modulistica bancaria da parte del funzionario infedele possa significare che lo stesso operi al di fuori delle sue funzioni e senza alcun collegamento con le mansioni cui è preposto in seno all’istituto di credito” (v. Cass. civ., n. 1137572006).

Ora, nel caso in esame, pacifico essendo il carattere di dipendente del B., l’esame deve incentrarsi, sotto questo primo profilo evidenziato dalla convenuta, sul tipo di attività posta in essere per conto dei clienti L. e G.. A tale riguardo, va subito precisato che il B., in buona sostanza, raccoglieva i danari dei clienti, dicendo loro che avrebbe provveduto ad investirli nel conto cifrato intestato alla banca stessa, conto che rendeva possibili guadagni altrimenti non accessibili ai privati. Tale attività non può che inquadrarsi nella tipica attività professionale bancaria. Che, poi, in tali contesti il funzionario facesse credere ai clienti possibilità decisamente straordinarie di redditività di tali investimenti è elemento di contorno, che nulla toglie alla qualifica dell’attività stessa; anzi, così facendo, il B. dimostrava di essere persona brillante, affidabile, esperta, intenta, appunto, ad ottimizzare gli investimenti dei clienti in modo veloce e riservato. Come, del resto, aveva dato prova con i due bonifici effettuati verso un destinatario cinese, prima dell’apertura del conto corrente da parte del L.. A ciò deve aggiungersi che il B. riceveva gli odierni attori nei locali della banca, addirittura nella sala di rappresentanza, con totale autonomia logistica (anche se, data la particolarità dell’attività di private banking, ben avrebbe potuto riceverli altrove, come risultato dalle deposizioni in sede penale). Non solo, ma le ricevute prodotte dalla Difesa attorea recano, tutte, il timbro della Banca S. e, ad eccezione di una (quella di € 240.000,00), la sigla di R. B.. Nessuna prova è stata fornita e, per vero, neppure una minima allegazione circa l’uso indebito dei timbri in questione da parte di estranei. Ed, allora, è fin troppo evidente come l’utilizzo dei locali, la spendita delle proprie qualità professionali, l’utilizzo dei timbri, la messa a disposizione di tabulati bancari, il compimento di attività tipicamente bancarie siano tutti elementi di un certo peso, tali da far ritenere sussistente il nesso di occasionalità necessaria richiesto dalla disposizione di cui all’art. 2049 c.c.. Non solo, ma il fatto che determinati importi siano stati in ogni modo reperiti sui conti correnti del L. e del G. avvalora tale prospettazione: ovvero che il B. effettivamente svolgesse a tutti gli effetti attività connessa alla sua propria qualifica. Non per nulla detti importi erano stati rintracciati ed all’inizio della conoscenza professionale, il B. aveva effettuato i due bonifici bancari in Cina. Così da ingenerare un’assoluta confusione tra somme regolarmente accreditate e somme di cui si era appropriato. Di tale confusione era, tuttavia, impossibile, per gli odierni attori, rendersi conto, posto che, come affermato dalla S.C. in casi analoghi, il cliente non è tenuto a verificare l’utilizzo della regolare modulistica bancaria. Ebbene, il L. ed il G., certamente affabulati dal modo di presentarsi del B., a fronte delle possibilità di guadagno illustrate, non avevano il benché minimo interesse ad effettuare verifiche di sorta in merito all’utilizzo dei moduli, attratti come erano dal muovo ed affascinante mondo del facili investimenti. Erano nella disponibilità di ricevute in cui erano indicati gli importi, con tanto di timbro della banca e con sigla del funzionario di riferimento e tanto bastava per operare in modo agile e snello nel mondo dell’alta finanza.

Da parte della Difesa della banca convenuta è stato obiettato che le affermazioni del B. circa i propri poteri di firma, l’accreditamento presso l’ambiente manageriale dell’istituto, la redditività degli investimenti non potevano essere creduti dai clienti, anche in ragione dell’attività imprenditoriale svolta. Non solo, ma la convenuta ha anche ipotizzato, tra i due odierni attori ed il B. un vero e proprio pactum sceleris, una volta incrinato il quale i due imprenditori si sarebbero determinati ad agire in sede penale - senza peraltro costituirsi parte civile - ed in sede civile, con l’instaurazione della causa di risarcimento dei danni.

Ad avviso di questo giudicante, tale asserzione (con le necessarie ricadute in tema di esclusione del danno o, quanto meno, di riduzione dello stesso ai sensi dell’art. 1227 c.c.) non è convincente.  M. L. ed A. G. erano, infatti, due imprenditori, avvezzi, certo, a maneggiare anche ingenti somme di danaro, entrambi con diverse cariche in differenti realtà societarie, come emerge dai verbali di sommarie informazioni in data 8 maggio 2003. Certamente, potevano avere interesse a far perdere le tracce degli investimenti effettuati, versando il danaro contante nelle mani del B., come asserito dal L. nelle S.I.T.; certamente, i loro guadagni potevano essere oggetto di indagine da parte della Guardia di Finanza. Inoltre, i due imprenditori avevano investito in borsa anche prima di conoscere il B. e dal 2000, come affermato dal G., avevano avuto solo esiti negativi. In sostanza, si trattava di due imprenditori, che facevano il loro mestiere, tentando di mettere a frutto gli utili dell’attività svolta. Di sicuro, gli odierni attori non erano soggetti professionalmente qualificati in materia di investimenti finanziari. Né può dirsi minimamente che i due attori rientrassero nella categoria dell’operatore qualificato di cui all’art. 31 regolamento CONSOB N. 11522/1998, alla stregua del quale chi è in possesso di una specifica competenza in materia di operazioni in strumenti finanziari con dichiarazione scritta, non necessita, in ambito di intermediazione mobiliare, di una specifica attività di informazione ad opera dell’istituto bancario. Detta disposizione – che riguarda, appunto, l’intermediazione mobiliare – ben potrebbe essere impiegata in senso analogico, al fine di calibrare in modo diverso il rapporto funzionario – cliente. Ne conseguirebbe che, ove il cliente fosse un soggetto non bisognevole di una specifica informazione in ambito di investimenti in strumenti finanziari, per il disposto di cui all’art. 31 citato, sarebbe del tutto verosimile una di lui conoscenza approfondita anche per operazioni più semplici, quali l’accreditamento di somme di danaro. Orbene, nel caso di specie, non solo i due attori non erano operatori qualificati nei termini anzidetti, ma neppure potevano avere una competenza specifica, essendo solo commercianti nell’abbigliamento ed avendo dichiarato, il L., di non conoscere neppure il significato di “private banking”. In ogni caso, anche ove si volesse ammettere una particolare competenza in materia in capo ai due imprenditori, l’apparente correttezza dell’operato da parte del B. (ben spesa, con l’aver egli dato seguito ai due bonifici in Cina, operando da un conto corrente personale, sul quale i clienti avevano fatto pervenire la provvista) non poteva che indurre a fare completo affidamento sulla di lui attività. Quanto al preteso pactum sceleris, la Difesa dell’istituto bancario ha posto in particolare risalto le specifiche qualità personali degli attori, senza illuminare in modo specifico l’eventuale attività concorrente nella causazione del fatto illecito: come se, sic et simpliciter, in forza dell’attività professionale svolta, il L. ed il G. non potessero non sapere che le modalità bancarie di accreditamenti dei danari erano diverse da quelle utilizzate dal B.. In tale prospettazione difensiva, tuttavia, la banca non ha operato uno specifico riferimento alla realtà in cui i due imprenditori si erano trovati, ossia in una realtà bancaria del tutto diversa dalle altre, che si presentava come un mondo a sé stante, con regole improntate alla massima fiducia e riservatezza. Rimangono solo le risultanze costituite dalle frequenti telefonate prima dell’apertura dei conti correnti tra i due clienti ed il B. (v. doc. n. 26 e 26 bis di parte convenuta): si tratta di elementi, probabilmente, suggestivi, ma certamente non tali da assurgere neppure al rango di argomenti di prova di cui all’art. 116, II comma, c.p.c.. Né, per le stesse ragioni, è ipotizzabile un concorso colposo a carico degli odierni attori. I quali non erano certo onerati dal dettare e verificare le regole operative tipiche al funzionario di banca.

E, dunque, alla luce di tali argomentazioni, non può sussistere dubbio alcuno che, in virtù del rapporto di causalità necessaria tra l’esecuzione dell’incarico e la consumazione dell’illecito, l’evento lesivo sia stato reso possibile e decisamente agevolato dall’adempimento dell’incarico, ben potendo, nel caso concreto, il funzionario avvalersi anche di modalità operative poco ortodosse (v. Cass. civ. n. 6341/1998; Cass. civ., n. 2574/1999): tanto che la responsabilità, secondo la giurisprudenza di legittimità, sussiste anche se l’incarico sia stato assolto contro la volontà del committente e persino nell’ipotesi in cui il preposto avvia agito con dolo, purché nell’ambito delle sue mansioni (v. Cass. civ., n. 6756/2001 con riferimento all’affidamento incolpevole da parte di clienti a fronte dell’operato di funzionari di banca, che agivano all’interno dei locali dell’istituto, in orario di lavoro).

Vale, infine, la pena di aggiungere che la struttura dell’istituto bancario – quale delineatasi nel corso delle varie udienze dibattimentali – non prevedeva un vero e proprio organismo di controllo al suo interno, né a carattere gerarchico - piramidale, né a livello di organizzazione di staff orizzontale. Tanto che i vari funzionari potevano operare in assoluta autonomia logistica e di orari, oltre che, soprattutto, disporre di vera e propria operatività autonoma su conti per così dire fiduciari, relativamente ad investimenti altamente speculativi. Una simile realtà – emersa dalla deposizione testimoniale di P. D., all’udienza dibattimentale del 6 maggio 2004 - consentiva al funzionario di banca di effettuare operazioni speculative su di conti di persone amiche, o parenti di amici, in sostanza dei prestanome (conti fiduciari Gritti, Specchio, Mingrone). Illuminanti sono, in proposito, anche le dichiarazioni rilasciate in sede di S.I.T. in data 14 maggio 2003, da P. D., il quale ha precisato che i sistemi di controllo, SAO, relativo alla verifica delle firme e GIANOS riguardante operazioni in contanti, potevano facilmente essere elusi mediante semplici dichiarazioni. È, allora, chiaro che tali sistemi avevano solo una parvenza di controllo, dal momento che i dipendenti della banca potevano effettuare del tutto agevolmente operazioni rischiose con danari propri, appoggiandosi a conti, per così dire, fiduciari, intestati ad amici: del resto, la riprova di ciò è costituita da quanto dichiarato dallo stesso D., che ha ammesso di aver posto in essere operazioni di un certo spessore, avendo aperto, in veste di direttore, un conto presso la filiale, intestato ad un suo amico, Walter Specchio, versando, a nome di costui, danari personali e deliberando una linea di fido per circa un centinaio di milioni di lire. Ebbene, a tale autonomia doveva essere associata certamente una diversa e più penetrante organizzazione aziendale imperniata su un efficiente sistema di controllo.

Pertanto, alla luce delle sopra esposte considerazioni, la responsabilità della banca convenuta ( che, si ribadisce, è ancorata al cd. rischio di impresa, condensato nell’art. 2049 c.c. ), si colora di un ulteriore elemento di responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c. (cd. culpa in vigilando specifica), costituito dall’aver consentito l’operatività di una struttura affidata all’autonomia dei singoli e sostanzialmente priva di controlli.

Infine, la responsabilità della parte convenuta è ulteriormente illuminata dall’iter legato all’assunzione del B., condotta, questa, concretizzatasi in una vera e propria culpa in eligendo. Risulta, infatti, dalle S.I.T. rilasciate da P. D. in data 14 maggio 2003, che l’assunzione del B. fu decisamente anomala, posto che lo stesso non presentò mai il certificato del casellario giudiziale, oltre a tutti i normali dati, quali, ad esempio il CUD. Inoltre, il B. era stato radiato dall’albo dei promotori, dato, questo, facilmente riscontrabile anche su Internet, come posto in rilievo, del resto, nella deposizione testimoniale di Alessio R., nell’udienza dibattimentale del 6 maggio 2004. Dalla relazione di polizia giudiziaria redatta dal Comando Nucleo Regionale Polizia Tributaria Lombardia in data 12 giugno 2003 n. 27370 di prot. risulta che il B. era stato selezionato, per conto della banca, dalla società di ricerca e selezione del personale D. s.r.l. con sede in ** che aveva esaminato quattro candidati, tra i quali, appunto, lo stesso B., tutti impiegati presso la filiale di ** e proposti su iniziativa della direttrice della stessa, B.S. Questa era legata da rapporti di amicizia con A. R., direttore di filiale, avendo, in passato, lavorato con lui presso la Banca *. In particolare, poi, il B. risultava essere stato assunto presso la Banca *, solo pochi mesi prima; nella di lui pratica era presente un certificato del casellario giudiziale datato 26 maggio 2002 nel quale era attestata l’assenza di carichi pendenti relativamente al nominativo B. R. Z.; emergeva, inoltre, dal confronto con le pratiche di assunzione degli altri dipendenti della filiale, che il dossier del B. era alquanto carente relativamente alla documentazione sulle condizioni familiari, sui precedenti incarichi, sulla posizione reddituale. Nella relazione datata 27 gennaio 2003 redatta dalla società D. è esposta la cronistoria che ha portato all’assunzione del B. presso la banca odierna convenuta. Significativamente, innanzitutto, la relazione è successiva di circa un mese alla lettera della banca del 30 dicembre 2002, con la quale l’istituto dava atto dell’effettiva giacenza sui conti del L. e del G. ed è successiva anche alle lettere attoree di contestazione del 9 gennaio 2003. In ogni caso, dalla relazione si evince come la candidatura del B. fosse basata, principalmente, sulla di lui potenzialità commerciale, in termini di numerosità e validità di contatti e su aspetti prettamente caratteriali; significativo è anche che alla domanda, ovvia, circa la brevità dell’esperienza professionale del B. nella Banca * sia stato risposto solo sulla base di giudizi personali, del tutto superficiali, di colleghi, non ancorati ad attestazioni circa il modus operandi, né a risultati professionali ulteriori rispetto alle potenzialità di acquisizione della clientela. A fronte di tali referenze, assume, invece, univoco significato il certificato del casellario giudiziale datato 19 marzo 2003 a nome R. Z. T., cognome, quest’ultimo, che aveva il B., prima dell’esperimento dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità, conclusasi positivamente. Che la documentazione relativa all’assunzione fosse carente emerge anche dalla deposizione testimoniale dibattimentale di A. R., che, nell’ambito delle indagini delegate dal P.M., ha segnalato come, al momento della presentazione del B. alla direzione della Banca S., nulla fosse emerso circa il cognome T. ( e, dunque, nessuna indagine in merito all’effettiva identità della persona); come agli atti vi fosse un semplice curriculum (tra l’altro, molto scarno, v. curriculum allegato alla relazione sopra citata della società D.); come, secondo il R., non fosse stato neppure chiesto il certificato del casellario giudiziale a nome del B. (a prescindere, quindi, dalla ricerca sotto il precedente cognome); sul punto, peraltro, la banca, costituitasi parte civile, ha obiettato che, in realtà, il certificato penale era stato acquisito e che, sullo stesso, a nome B., nulla risultava. Quanto all’attività professionale vera e propria, il teste R. ha rilevato che il B., in sostanza, era coadiuvato dal D., anche se quest’ultimo ha teso, nel corso della deposizione del 6 maggio 2004, a sminuire l’importanza del suo affiancamento al collega appena assunto. Il D. ha, però, osservato - avendo maturato una più che ventennale esperienza professionale - che il B. non era all’altezza delle aspettative della banca, non era minimamente dotato della necessaria esperienza tecnica, ma aveva una rilevante capacità di relazione; per questo motivo, ossia per la possibilità che apportasse nuovi clienti alla banca, vantandosi di avere conoscenze in ambienti interessanti per la finanza, il B. era stato assunto. Orbene, alla luce dei sopra elencati elementi istruttori, la responsabilità della banca convenuta, già accertata ai sensi dell’art. 2049 c.c., si disegna anche in termini di violazione di norme di diligenza e professionalità nell’assunzione del personale, ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Ed, infatti, posto che l’attività del funzionario era caratterizzata da una significativa autonomia, proprio per tale ragione dovevano essere adottate misure efficienti anche nel momento genetico del rapporto contrattuale, mediante un’accuratissima selezione del personale. In sostanza, un funzionario bancario di tale spessore avrebbe dovuto dare prova di essere persona assolutamente trasparente, professionalmente corretta ed ineccepibile, non solo dal punto di vista penalistico, ovviamente, ma anche nell’ambito delle relazioni instaurate con i clienti nelle precedenti esperienze lavorative; in tale ottica, anche un semplice reclamo di un cliente, ove non del tutto fantasioso, avrebbe potuto rilevare in senso negativo. Se, dunque, tra i requisiti per l’assunzione non può essere trascurata la potenzialità commerciale del candidato, per ovvie esigenze di budget, essa deve, imprescindibilmente, essere contemperata con le altrettanto fondamentali esigenze di lealtà e di correttezza; che massimamente debbono caratterizzare l’operato di chi gestisce ingenti patrimoni di quanti, intendendo massimizzare del tutto legittimamente la redditività degli investimenti, si affidano con assoluta fiducia, al fine di consentire una veloce e proficua movimentazione dei danari. In sostanza, senza voler effettuare alcun sindacato in merito alle modalità di selezione del personale, va, però, stigmatizzata l’assenza di un serio meccanismo di selezione, risultato improntato ad una discrezionalità non ancorata ad imprescindibili requisiti di lealtà e correttezza professionale.

Passando, ora, alla quantificazione del petitum, si osserva, quanto al L., che, sulla scorta della documentazione versata in atti e sopra specificata, allo stesso compete la restituzione dell’importo di € 1.875.000,00, avendo egli ammesso di aver ritirato la somma di € 404.500,00 (con l’aggiunta della quale si perviene al totale richiesto, tanto in citazione, quanto in sede di precisazione delle conclusioni, di € 2.279.000,00).

Quanto alla posizione del G., sulla scorta della relativa documentazione versata in atti, compete la somma di € 374.000,00. L’importo totale risultante dalla documentazione è, infatti, pari ad € 1.050.000 e la richiesta attorea, in citazione come anche nella precisazione delle conclusioni, è di € 1.727.000; da detta richiesta, la Difesa asserisce che va detratta la somma di € 500.000,00 ritirata il 9 dicembre 2002, senza, invece, detrarre l’ulteriore importo di € 176.000,00 che risulta, peraltro, ritirato, dal doc. n. 19 di parte convenuta.

Su tali somme, svalutate sulla base degli indici ISTAT alla data della richiesta di cui alla raccomandata del 9 gennaio 2003 e progressivamente rivalutate sulla base sempre degli indici ISTAT vanno computati gli interessi legali dalla ricezione della predetta raccomandata, da parte della banca, sino al saldo, alla luce delle conclusioni assunte all’udienza del 25 maggio 2006 (in cui sono stati richiesti gli interessi legali e la rivalutazione).

Con riferimento alla domanda volta ad ottenere la nullità di tutte le operazioni poste in essere dalla banca con il patrimonio conferito dal L. e dal G., a causa dell’insussistenza del contratto quadro di cui all’art. 23 del D.lgs. n. 58/1998, la stessa merita accoglimento, sulla base dell’inequivoco disposto legislativo; in attuazione dello stesso, il regolamento CONSOB n. 11522/1998, all’art. 30, stabilisce che gli intermediari “non possono fornire i propri servizi se non sulla base di un apposito contratto scritto” i cui contenuti essenziali sono individuati nel medesimo regolamento e che una copia dello stesso deve essere consegnata al cliente. Ed è proprio la puntuale regolamentazione in merito ai servizi forniti, al periodo di validità e di rinnovo del contratto, alle modalità per impartire ordini ed istruzioni, alle modalità di costituzione e ricostituzione della provvista che conferisce concretezza al contratto – quadro e specifica tutela dell’investitore.

Nel caso in esame, tra l’altro, la Banca S. non ha contestato la circostanza, ammettendo, anzi, che avrebbe provveduto a stornare i relativi importi, con la raccomandata del 16 gennaio 2003 (v. doc. n. 8 di parte convenuta) e ciò anche in ragione del disconoscimento delle sottoscrizioni. Orbene, da un lato, parte attorea non ha evidenziato somme ulteriori rispetto a quelle richieste in restituzione a causa dell’appropriazione indebita da parte del B., ossia somme oggetto di investimenti in strumenti finanziari, effettuati in assenza del relativo contratto quadro di negoziazione. Ragione per la quale gli importi cui gli attori hanno diritto rimangono quelli sopra specificati con riferimento alla domanda di condanna dell’istituto in ragione dell’illecito commesso dal dipendente. Dall’altro, parte convenuta ha affermato di aver effettuato uno storno in favore del L., ma di tale somma accreditata non ha fornito prova, limitandosi sempre a citare il contenuto della sopra indicata raccomandata del 16 gennaio 2003. Ne segue che nessuna decurtazione degli importi assegnati agli attori può essere effettuata.

Pertanto, la parte convenuta va condannata al pagamento, in favore del L. e del G. delle rispettive somme di € 1.875.000,00 e di € 374.000,00 – oltre, in entrambi i casi, agli interessi legali sulle somme progressivamente rivalutate secondo gli indici ISTAT, dalla ricezione della raccomandata del 9 gennaio 2003 al saldo.

Va, infine, accolta la domanda di manleva esperita dalla banca nei confronti del terzo chiamato R. F. Z. in ragione della di lui acclarata condotta illecita.

Parte convenuta, in ragione, poi, dell’accertata soccombenza, va condannata alla rifusione delle spese di lite in favore degli attori. A sua volta, ha diritto al rimborso delle spese, da porsi a carico del terzo chiamato.


P.Q.M.


il giudice, definitivamente decidendo sulla causa n. 26033/03 R.G. promossa da  M. L. contro Banca ** (quale successore a seguito di fusione per incorporazione della Banca C. S. & C. s.p.a.) in persona del presidente del consiglio di amministrazione AA cui è riunita la causa n. 26037/03 R.G. instaurata da A. G. contro Banca ** (quale successore a seguito di fusione per incorporazione della Banca C. S. & C. s.p.a.) in persona del presidente del consiglio di amministrazione  AA, ogni diversa istanza, eccezione e difesa disattesa e respinta, così provvede:

1) dichiara la nullità di tutte le operazioni in strumenti finanziari poste in essere dalla Banca C. S. & C. s.p.a. con il patrimonio conferito da  M. L. e da A. G.;

2) condanna la Banca ** (quale successore a seguito di fusione per incorporazione della Banca C. S. & C. s.p.a.) in persona del presidente del consiglio di amministrazione AA al pagamento, in favore di  M. L., della somma di € 1.875.000,00 - oltre agli interessi legali sulle somme progressivamente rivalutate secondo gli indici ISTAT dalla ricezione, da parte dell’istituto bancario, della raccomandata in data 9 gennaio 2003 sino al saldo;

3) condanna la Banca ** (quale successore a seguito di fusione per incorporazione della Banca C. S. & C. s.p.a.) in persona del presidente del consiglio di amministrazione AA, al pagamento, in favore di A. G., della somma di € 374.000,00 – oltre agli interessi legali sulle somme progressivamente rivalutate secondo gli indici ISTAT dalla ricezione, da parte dell’istituto bancario, della raccomandata in data 9 gennaio 2003 sino al saldo;

4) condanna la Banca ** (quale successore a seguito di fusione per incorporazione della Banca C. S. & C. s.p.a.) in persona del presidente del consiglio di amministrazione AA, a rimborsare, in favore di  M. L. e di A. G., le spese processuali, che liquida in complessivi € 31.886,74 - di cui € 24.200,00 per onorari, € 5.019,00 per diritti, € 2.667,74 per spese, oltre accessori come per legge.

5) condanna R.  Z. B. a manlevare la Banca ** (quale successore a seguito di fusione per incorporazione della Banca C. S. & C. s.p.a.) in persona del presidente del consiglio di amministrazione AA, per tutto quanto dalla stessa dovuto in favore di  M. L. e di A. G., per capitale, interessi e spese, in forza della presente sentenza

6) condanna R.  Z. B. rimborsare, in favore della Banca ** (quale successore a seguito di fusione per incorporazione della Banca C. S. & C. s.p.a.) in persona del presidente del consiglio di amministrazione AA, le spese processuali, che liquida in complessivi € 30.611,45 - di cui € 24.200,00 per onorari, € 6.395,79 per diritti, € 15,66 per spese non imponibili, oltre accessori come per legge.


Così deciso dal giudice unico presso il Tribunale di Milano, in data 16 dicembre 2006.

Il Giudice

Dott. Silvia Brat