Diritto Civile


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22624 - pubb. 02/11/2019

Locazioni: la nullità della clausola che limita la durata determina l'automatica eterointegrazione del contratto

Cassazione civile, sez. III, 03 Settembre 2019, n. 21965. Pres. Uliana Armano. Rel. Guizzi.


Locazioni - Clausole derogative della durata minima legale - Nullità - Conseguenze - Sostituzione "ex lege" - Diversa previsione delle parti - Irrilevanza - Durata del contratto stabilita in misura superiore a quella legale - Ammissibilità entro il limite massimo previsto dall’art. 27, comma 4, l. n. 392 del 1978



In tema di locazione, la nullità della clausola che limita la durata di un contratto soggetto alle disposizioni dell'art. 27, l. 392/1978 ad un tempo inferiore al termine minimo stabilito dalla legge determina l'automatica eterointegrazione del contratto, ai sensi del secondo comma dell'art. 1419 c.c., con conseguente applicazione della durata legale prevista dal quarto comma del citato art. 27, risultando irrilevante l'avere le parti convenuto che l'invalidità anche di una sola clausola contrattuale comporti il venir meno dell'intero negozio. È, viceversa, consentito alle parti convenire una locazione per periodi più lunghi di quello minimo previsto dalla legge, in quanto l'art. 27 considera inderogabile la (sola) durata minima senza porre limiti a quella massima, che rimane pertanto ancorata alla generale disposizione di cui all'art. 1573 c.c., secondo la quale sono consentite le locazioni sino a trent'anni. (massima ufficiale)


 


1. La società A.B., di S.B. & C. S.n.c (d'ora in poi, "A.B."), ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 349/16, del 6 ottobre 2016, della Corte di Appello di Potenza, che - accogliendo solo parzialmente il gravame da essa esperito contro la sentenza n. 5/06, del 17 gennaio 2006, del Tribunale di Lagonegro - ha dichiarato cessato, a far data dal 26 settembre 2004, il rapporto di locazione, avente ad oggetto un compendio immobiliare sito in (*), rapporto intercorso tra l'odierna ricorrente e l'Azienda Sanitaria Provinciale di Potenza (d'ora in poi, "ASP Potenza"), già Azienda Sanitaria Locale USL n. (*) di Lagonegro, condannando la predetta società A.B. a rilasciare la "res locata", nonchè a pagare alla predetta ASP Potenza la somma di 817,66 mensili dalla predetta data fino all'effettivo rilascio, oltre rivalutazione ed interessi.

2. Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente che, in data 26 settembre 1974, l'allora ente ospedaliero "(*)" di (*) aveva stipulato, con il signor S.B., un contratto di locazione, per la durata di anni otto, avente ad oggetto due vani (di un fabbricato composto da complessivi quattro), con annesso servizio igienico, per esercitarvi l'attività di bar-ristoro, precisandosi espressamente, nel contratto, che detti vani facevano parte di una costruzione separata dall'edificio ospedaliero. Deduce, altresì, che prima della scadenza del termine di otto anni, con successivo contratto del 13 marzo 1981, il medesimo ente ospedaliero concedeva in locazione, sempre allo S., gli altri due locali di quello stesso immobile, allo scopo di adibire pure essi a bar ristoro, pattuendosi che la durata del contratto fosse fissata fino al 25 settembre 1982, nonchè prorogata di altri otto anni in assenza di disdetta. Dalla narrativa del ricorso emerge, inoltre, che, in data 15 gennaio 1987, lo S. chiedeva di volturare i contratti di locazione "de quibus" in favore della costituita società A.B., a ciò acconsentendo la locatrice, in forza di delibera il comitato di gestione dell'ente ospedaliero del 18 settembre 1987, n. 744. Di seguito, la USL n. (*) di Lagonegro, subentrata - "a latere locatoris" - al predetto ente ospedaliero, stabiliva di prorogare, fino al 27 settembre 1998, il contratto di locazione relativo, ormai, all'intero compendio immobiliare, ovvero a tutti i vani della predetta costruzione separata dall'edificio ospedaliero.

Ciò premesso, l'odierna ricorrente riferisce che, avendo la USL, con delibera n. 250 del 2001 del proprio Direttore Generale, affidato ad altra società l'allestimento e la gestione del servizio bar ristoro nell'immobile di cui sopra (e ciò in cambio del corrispettivo mensile di E. 2.117.000), non essendo avvenuta la riconsegna dell'immobile da parte di essa A.B. - entro il 26 settembre 1998, diffidava l'odierna ricorrente al rilascio dell'immobile in questione, sul presupposto che, a seguito dello spirare del termine suddetto, la detenzione del compendio immobiliare dovesse considerarsi "sine titulo", essendo venuta meno la concessione dell'immobile.

2.1. Dolendosi, pertanto, del mancato rilascio dell'immobile, nonchè del fatto che tale contegno le avrebbe impedito di riscuotere il canone di locazione dovuto dal nuovo concessionario del servizio di bar-ristoro, la predetta ASL, poi divenuta ASP Potenza, adiva - con atto di citazione notificato il 21 febbraio 2002 - il Tribunale lagonegrese, al fine di conseguire il rilascio dell'immobile, nonchè il risarcimento del danno subito, pari alla differenza fra il canone riscosso dall'odierna ricorrente e quello dovuto al nuovo concessionario.

Si costituiva in giudizio l'odierna ricorrente, che oltre a contestare la domanda attorea, agiva in via riconvenzionale.

Sul presupposto che il contratto, scaduto alla data del 25 settembre 1982, si fosse rinnovato, in assenza di disdetta, per altri otto anni, e quindi fino al 26 settembre 1990, l'odierna ricorrente deduceva che la locatrice, in forza di delibera del proprio comitato di gestione n. 80 del 16 marzo 1990, aveva prorogato di altri due anni la durata della locazione, proseguita, peraltro, anche successivamente, visto che in data 1 luglio 1992 le parti concludevano un nuovo contratto, in forma pubblica, con il quale la durata della locazione veniva fissata in otto anni a decorrere dal 26 settembre 1990, e quindi fino al 26 settembre 1998. Orbene, sul rilievo che a tale scadenza nessuna disdetta fosse intervenuta da parte della locatrice, l'odierna ricorrente assumeva l'avvenuta rinnovazione del rapporto fino al 26 settembre 2006.

In via riconvenzionale, peraltro, essa chiedeva dichiararsi la nullità della clausola, contenuta nell'art. 3 del già citato contratto pubblico del 1 luglio 1992, nella parte in cui stabiliva che la durata del rapporto fosse destinata a terminare, improrogabilmente, il giorno 26 settembre 1998, assumendone la contrarietà alla L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 79, chiedendo, per l'effetto, la società A.B. di dichiarare che il contratto si era tacitamente rinnovato per ulteriori otto anni, e dunque fino al 26 settembre 2004.

Il giudice di prime cure, accogliendo integralmente la domanda attorea dichiarava l'avvenuta cessazione del rapporto - qualificato come di natura concessoria, secondo la prospettazione dell'attrice alla data del 26 settembre 1998, condannando l'odierna ricorrente al pagamento della somma risultante dalla differenza fra i canoni da essa corrisposti e quelli che l'attrice avrebbe potuto, invece, percepire dalla società nuova concessionaria del servizio di bar-ristoro.

2.1. Proposto appello dall'odierna ricorrente, lo stesso veniva accolto solo parzialmente, riconoscendosi, innanzitutto, la natura locatizia del rapporto intercorso fra le parti.

Infatti, la Corte potentina, sul presupposto che con il contratto stipulato il 1 luglio 1992 (il primo nel quale risultava come contraente la società A.B., nonchè quello avente ad oggetto l'intero compendio immobiliare) si fosse avuta una novazione del rapporto, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, riteneva la clausola inserita nel testo contrattuale violativa della L. n. 392 del 1978, art. 79, perchè non conforme alla durata legale dello stesso (pari a sei anni, ai sensi dell'art. 28 della stessa legge), essendosi, nella specie, invece prevista una durata di anni otto a decorrere dal 26 settembre 1990. Pertanto, secondo il giudice di appello, il rapporto, in difetto di diniego motivato di rinnovazione alla scadenza dei primi sei anni, si sarebbe dovuto protrarre per dodici anni, fino al 26 settembre 2004, ma non oltre, trovando applicazione - nella specie - il principio, costantemente enunciato da questa Corte, secondo cui deve escludersi che, ove le parti abbiano "ab initio" stabilito una durata contrattuale superiore al minimo fissato dalla legge (nel caso di specie otto, anni anzichè sei), la rinnovazione tacita del rapporto, in conseguenza del difetto di diniego della rinnovazione stessa alla prima scadenza, possa comportare una durata superiore al minimo legale.

D'altra parte, avendo il locatore, prima della scadenza del termine del 26 settembre 2004 (risultante, come detto, "ex lege"), manifestato la volontà di ottenere il rilascio dell'immobile locato, e ciò sia con raccomandata del 4 dicembre 2000, sia, successivamente, con la stessa citazione a giudizio, ciò avrebbe comportato la cessazione del rapporto alla data suddetta.

Difatti, quantunque la richiesta dell'attrice - ha osservato la Corte di Appello - fosse stata avanzata sull'errato presupposto della già.

avvenuta scadenza del rapporto in data 26 settembre 1998, tale contegno non avrebbe impedito alla disdetta di produrre ugualmente i suoi effetti per la esatta scadenza, ricorrendo una situazione non dissimile da quella in cui locatore, nel fare la disdetta, indichi un'erronea data di cessazione del rapporto.

3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione la società A.B., sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), - si deduce "error in procedendo", in particolare per violazione degli artt. 112 e 277 c.p.c., nonchè della L. n. 392 del 1978, artt. 27,28 e 29, oltre che degli artt. 1596 e 1597 c.c..

Ci si duole del fatto che la sentenza impugnata - sebbene abbia riconosciuto la natura negoziale, e non concessoria, del rapporto intercorso tra le parti, nonchè la nullità della clausola contrattuale che fissava al 26 settembre 1998, improrogabilmente, la data di scadenza del rapporto stesso - abbia ritenuto che la locazione fosse venuta meno in data 26 settembre 2004.

Ricorrerebbe, infatti, un'ipotesi di ultrapetizione, dal momento che la "causa petendi" sulla quale si fondava la domanda attorea era costituita, per l'appunto, dall'art. 3 del contratto di locazione stipulato in data 1 luglio 1992 (clausola dichiarata nulla dalla Corte territoriale), mentre il "petitum" consisteva nella richiesta di rilascio dell'immobile il 26 settembre 1998 e di risarcimento del danno sempre con decorrenza da quella data.

Il riconoscimento della nullità della clausola contrattuale suddetta avrebbe dovuto avere come effetto, per contro, il semplice rigetto della domanda attorea.

D'altra parte, neppure corretto potrebbe ritenersi il riferimento al principio giurisprudenziale secondo cui l'indicazione di una data di scadenza del rapporto locatizio rivelatasi erronea in corso di causa non esclude la possibilità di dichiarare cessato il rapporto in data diversa, giacchè esso si riferirebbe alle ipotesi in cui la disdetta comunicata dal locatore si riveli inefficace, mentre, nel caso in esame, ricorre una diversa fattispecie, tra l'altro assai peculiare.

3.2. Con il secondo motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) - si deduce "error in iudicando", in particolare per violazione della L. n. 392 del 1978, artt. 27,28 e 29.

Si censura, in questo caso, la decisione impugnata per aver attribuito efficacia, quale valida disdetta del rapporto contrattuale, alle note del 4 dicembre 2000 e del 23 marzo 2001 provenienti dalla locatrice, in quanto, per il principio di invalidità derivata, esse sarebbero affette da un insanabile nullità, non solo perchè specificamente riferite alla prima scadenza contrattuale (ovvero, quella del 26 settembre 1998), ma soprattutto perchè travolte dalla nullità della clausola contrattuale summenzionata.

La nullità, in particolare, comporterebbe l'estraneità, rispetto alla presente controversia, dell'indirizzo giurisprudenziale richiamato dalla Corte territoriale, giacchè essa non solo renderebbe la disdetta inidonea a produrre gli effetti suoi propri in relazione alla prima scadenza, ma le impedirebbe di valere, per la scadenza successiva, come espressione di volontà contraria alla rinnovazione della locazione, e ciò anche in considerazione del fatto che siffatta volontà dovrebbe risultare in modo inequivocabile.

Nè, d'altra parte, potrebbe obbiettarsi che la nullità della disdetta non sia stata eccepita nel giudizio di merito, giacchè essa avrebbe carattere assoluto, potendo, dunque, essere fatta valere da chiunque vi abbia un interesse in qualsiasi stato e grado del giudizio.

3.3. Con il terzo motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), - si deduce "error in iudicando", in particolare per violazione della L. n. 392 del 1978, artt. 27,28 e 29, oltre che dell'art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c..

La doglianza, in questo caso, investe la decisione della Corte potentina di riconoscere all'attrice anche il risarcimento del danno, ancorchè dovuto solo per il periodo successivo al 26 settembre 2004.

Premesso, ovviamente, che l'accoglimento dei due primi motivi di ricorso comporterebbe, in via automatica, il rigetto anche della domanda risarcitoria, la ricorrente lamenta la "clamorosa contraddittorietà interna della sentenza". Essa, infatti, una volta accertato che il rapporto di locazione aveva conservato efficacia fino al 26 settembre del 2004, non avrebbe potuto ritenere che la procedura di gara svoltasi nel 2001 (e, dunque, durante la valida pendenza del rapporto di locazione con essa Bi.RI.VI.), potesse costituire prova idonea a dimostrare l'ammontare del danno lamentato dall'attrice. E ciò per due ordini di motivi, il primo di carattere strettamente cronologico, ovvero perchè il prezzo offerto nella suddetta procedura di gara era riferito alle condizioni di mercato del 2001, nonchè, in secondo luogo, perchè non potrebbe valere come prova di un danno verificatosi oltre tre anni dopo.

Nè, d'altra parte, potrebbe ritenersi che il giudice di appello abbia utilizzato il prezzo offerto nella gara svoltasi del 2001 quale parametro per la quantificazione del danno da ritardato rilascio, giacchè nulla viene detto in sentenza al riguardo.

4. La ASP Potenza ha resistito, con controricorso, all'avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza, nonchè svolgendo ricorso incidentale sulla base di tre motivi.

4.1. In particolare, con riferimento al ricorso principale, il controricorrente ne eccepisce, innanzitutto, l'inammissibilità, per difetto di tempestività.

Infatti, essendo stato il ricorso notificato a mezzo PEC alle ore 21:01.09 del giorno 27 marzo 2017, il termine breve per proporre impugnazione dovrebbe ritenersi decorso, in quanto scaduto, ai sensi dell'art. 147 c.p.c., alle ore 21:00.00 di quello stesso giorno. In ogni caso, si assume l'infondatezza dei singoli motivi di impugnazione.

In relazione al primo, difatti, si evidenzia come non ricorra il vizio di ultrapetizione, dal momento che i fatti posti a fondamento della decisione adottata in sede di appello sono i medesimi fatti costitutivi allegati dall'attrice sia il primo grado che in secondo grado, così come deve escludersi che la condanna resa abbia ecceduto il limite della domanda, avendo, anzi, addirittura modificato la sentenza di primo grado accogliendo la stessa solo in parte.

In ordine, invece, secondo motivo del ricorso principale si evidenzia come le doglianze relative alle note inviate dall'odierna controricorrente non potrebbero ritenersi ammissibili, visto che nessuna contestazione risulta essere stata mossa, a riguardo, in primo grado.

Infine, quanto al terzo motivo dell'impugnazione di A.B., si sottolinea come lo stesso sia precluso dall'avvenuto passaggio in giudicato, sul punto, della sentenza di primo grado, come rilevato dalla stessa Corte di Appello, secondo cui non vi è stato "motivo di impugnazione riguardante il danno".

4.2. Il ricorso incidentale si articola, come detto, in tre motivi.

4.2.1. Il primo motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) - deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 826 c.c., comma 3.

Si contesta la sentenza impugnata laddove ha escluso che quello intercorso tra le parti del presente giudizio fosse un rapporto di natura concessoria, e ciò sul rilievo che l'atto amministrativo di destinazione a pubblico servizio di un bene patrimoniale, non appartenente al demanio necessario (nella specie, il compendio immobiliare per cui è causa), dovrebbe provenire solo dal proprietario dello stesso.

Difatti, la Corte territoriale, pur correttamente richiamandosi secondo la controricorrente - al principio secondo cui il carattere pubblico, proprio dei beni patrimoniali indisponibili, può essere impresso a beni non appartenenti al demanio necessario, purchè ricorra un doppio requisito (l'uno soggettivo, costituito dalla manifestazione di volontà dell'ente titolare del diritto reale pubblico su di esso, ed l'altro oggettivo, costituito dell'effettiva e attuale destinazione del bene, mediante atto concessorio, al pubblico servizio), ha negato la ricorrenza del primo requisito sul rilievo, ritenuto erroneo dall'ASP Potenza, che l'odierna controricorrente fosse titolare solo di un diritto di uso pubblico e non della proprietà del bene.

In questo modo, essa avrebbe falsamente applicato il disposto dell'art. 826 c.c., comma 3.

4.2.2. Il secondo motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) - ipotizza violazione e falsa applicazione degli artt. 1230,1235,2697 e 2730 c.c., nonchè delle norme in materia di ermeneutica contrattuale (ovvero gli artt. 1362 c.c. e ss.), oltre che della L. n. 392 del 1978, artt. 28, 29 e 79, ed infine degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Anche, infatti, a voler ammettere che il rapporto oggetto del presente giudizio abbia natura di locazione, e non di concessione, sarebbe errata - ad avviso della ricorrente incidentale l'affermazione della Corte potentina secondo cui esso troverebbe titolo nel contratto concluso il 1 luglio 1992, in quanto novativo, sul piano soggettivo e oggettivo, del precedente rapporto obbligatorio.

Nel pervenire a tale conclusione, difatti, il giudice di appello non avrebbe tenuto conto delle risultanze documentali del giudizio, nonchè delle stesse ammissioni dell'odierna ricorrente principale.

I documenti versati in atti confermerebbero che, sul piano soggettivo, vi è stata una mera successione nell'intera posizione contrattuale sia per quanto riguarda la locatrice che la conduttrice, ed inoltre che, nel luglio del 2001, non vi è stata alcuna novazione dell'obbligazione originaria, ma soltanto un ampliamento dell'oggetto del contratto, peraltro già avvenuta nel 1981, allorchè ai due vani oggetto contratto originario, vale a dire quello stipulato nel 1974, vennero aggiunti i rimanenti altri due facenti parte di quello stesso compendio immobiliare.

In tal senso, del resto, deporrebbe la dichiarazione del 10 ottobre 1998, avente inconfutabile valore confessorio, acquisita al protocollo della ASL col n. 016870, con il quale S.B., nella qualità di amministratore della società odierna ricorrente, affermava che, in forza del già ricordato contratto del 13 marzo 1981, gli vennero concessi in locazione altri due vani da "aggiungere" a quelli già ottenuti in locazione in virtù del contratto del 1974. Siffatta dichiarazione confessoria smentirebbe la tesi della novazione, rendendo palese, invece, l'unicità del rapporto contrattuale nonostante il succedersi delle pattuizioni intervenute fa le parti ed il subingresso di altre parti a quelle originarie.

Di conseguenza, l'atto del 1 luglio 1992 non avrebbe integrato una distinta fattispecie negoziale, risolvendosi in un atto meramente ricognitivo della preesistente situazione giuridica, determinatasi, in particolare, in conseguenza della omessa disdetta (o meglio della rinuncia alla stessa) entro il 25 marzo 1990. Pertanto, l'unica finalità dispositiva di tale atto sarebbe da individuare nella manifestazione di volontà di non avvalersi di future proroghe, esprimendo - già alla data del 1 luglio 1992 - la volontà di disdire il contratto alla scadenza del 26 settembre 1998. D'altra parte, che quello allora posto in essere non fosse un contratto sorto "ex novo", risulterebbe confermato dalla circostanza che esso non avrebbe potuto certo individuare nel 26 settembre 1990 il termine iniziale di decorrenza del rapporto, trattandosi di data anteriore alla sua stessa conclusione.

4.2.3. Infine, con il terzo motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) - si ipotizza violazione e falsa applicazione del R.D. 28 novembre 1923, n. 2240, art. 10, nonchè della L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 44.

Per l'ipotesi in cui questa Corte dovesse ravvisare la fonte del rapporto in esame nel già citato contratto del 1 luglio 1992, si censura la sentenza impugnata laddove essa ha ritenuto che la durata del rapporto, derivante da quel titolo negoziale, sia venuta meno il 26 settembre 2004, "essendo inapplicabile alla materia locatizia il divieto di rinnovo tacito dei contratti della P.A. previsto dalla L. n. 724 del 1994, art. 44, avente ad oggetto la diversa materia delle pubbliche forniture".

Si sottolinea come la L. n. 724 del 1994, quantunque non abbia incluso il contratto di locazione nell'area del divieto di rinnovo tacito, non ha, tuttavia, inteso derogare alla necessità che la manifestazione di volontà della pubblica amministrazione sia manifestata, "ad substantiam", in forma scritta, così come prescritto dal R.D. n. 2440 del 1923, art. 10.

Si assume, in altri termini, che il rinnovo della locazione per omessa disdetta, se costituisce un'evenienza ipotizzabile anche nei confronti della pubblica amministrazione, presuppone, tuttavia, che la stessa sia stata prevista per iscritto nel contratto, non potendo ricollegarsi ad una volontà presunta, ma ad un preciso impegno assunto nella prescritta forma. In difetto, pertanto, di una simile specifica previsione, la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che l'odierna controricorrente potesse esprimere una volontà di rinnovo "per facta concludentia", e dunque avrebbe errato nell'escludere che il rapporto fosse cessato il 26 settembre 1998 e, per l'effetto, nel riconoscere il danno conseguente al mancato rilascio dell'immobile solo a partire dalla data del 26 settembre 2004.

5. Entrambe le parti hanno presentato memoria.

5.1. In particolare, la ricorrente deduce la tempestività del proprio ricorso.

Rileva, infatti, come la comunicazione a mezzo posta elettronica, almeno nei riguardi della ASP, risultati consegnata nella casella di destinazione della stessa alle ore 20:58.47 del 27 marzo 2017.

Quanto, invece, al difensore domiciliatario, rileva come una prima notificazione, che risulta consegnata nel medesimo orario, non ebbe ad andare a buon fine, per un errore nella battitura dell'indirizzo di posta elettronica, non essendo stato inserito un punto tra le parole "lombardi" e "vincenzo". Pertanto, sebbene la successiva notificazione a mezzo PEC risulti consegnata effettivamente alle ore 21:01.14, essa dovrebbe ritenersi iniziata comunque anteriormente alle ore 21:00; in ogni caso, considerata la peculiarità della fattispecie, si dovrebbero ritenere sussistenti le condizioni sull'errore legittimante la rimessione in termini.

Nel merito, la ricorrente ribadisce le proprie argomentazioni.

5.2. Per parte propria, la controricorrente insiste nell'accoglimento del primo motivo di ricorso, sul presupposto che un'eventuale conferma della decisione della Corte territoriale, laddove ha escluso la configurabilità, nella specie, di una concessione, finirebbe col sancire una sorta di esclusività del diritto di proprietà in capo al concedente, come unico diritto che consenta al medesimo di destinare un immobile a pubblico servizio, affermazione, si sottolinea, inedita nella giurisprudenza di questa Corte.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. "Il limine" va disattesa l'eccezione preliminare - sollevata dalla controricorrente (e ricorrente incidentale) di inammissibilità del ricorso principale, per difetto di tempestività ex art. 147 c.p.c..

6.1. Invero, dagli atti di causa emerge che la ricorrente - come dalla stessa dichiarato nella propria memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c. - risulta aver notificato il ricorso, a mezzo PEC, anche alla parte personalmente con messaggio addirittura "consegnato nella casella di destinazione" alle ore 20:58.47.

Trova, pertanto, applicazione il principio secondo cui la "notifica del ricorso per cassazione alla parte personalmente e non al suo procuratore non determina l'inesistenza, ma la nullità della notificazione, sanabile ex art. 291 c.p.c., comma 1, con la sua rinnovazione, oppure con l'intervenuta costituzione della parte destinataria, a mezzo del controricorso" (che è quanto accaduto nel caso di specie), secondo la regola generale dettata dall'art. 156 c.p.c., comma 2, applicabile anche al giudizio di legittimità" (da ultimo, Cass. Sez. Lav., ord. 17 ottobre 2017, n. 24450, Rv. 646202-01; nello stesso senso già Cass. Sez. 3, sent. 3 luglio 2014, n. 15236, Rv. 631742-01; Cass. Sez. 3, sent. 15 ottobre 2004, 20334, Rv. 577727-01).

L'eccezione, pertanto, va rigettata su tali basi, a prescindere dalla constatazione che la Corte costituzionale - con sentenza (la n. 75 del 2019) sopravvenuta, rispetto all'adunanza camerale di questa Corte dell'8 febbraio 2019 - ha dichiarato l'illegittimità del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16-septies, convertito, con modificazioni, nella L. 18 ottobre 2012, n. 179, nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche, la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21:00 ed entro le ore 24:00, si perfeziona per il notificante entro le ore 7:00 del giorno successivo, anzichè al momento di generazione della predetta ricevuta.

7. Ciò premesso, deve essere esaminato con carattere di priorità il primo motivo del ricorso incidentale, che presenta carattere assorbente, giacchè tende a mettere in discussione la qualificazione in termini di rapporto negoziale (ed esattamente, di locazione immobiliare) della relazione intercorsa tra le parti del presente giudizio, riconducendolo - come fatto dal primo giudice - alla concessione di un bene pubblico.

7.1. Il motivo non è fondato, per le ragioni di seguito illustrate.

7.1.1. Sul punto, occorre rammentare che - secondo un'affermazione consolidata di questa Corte - perchè "un bene non appartenente al demanio necessario" (qual è il compendio immobiliare oggetto di causa) "possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati ad un pubblico servizio, ai sensi dell'art. 826 c.c., comma 3, deve sussistere il doppio requisito (soggettivo ed oggettivo) della manifestazione di volontà dell'ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell'ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio) e dell'effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio", sicchè "in difetto di tali condizioni e della conseguente ascrivibilità del bene al patrimonio indisponibile, la cessione in godimento del bene medesimo in favore di privati non può essere ricondotta ad un rapporto di concessione amministrativa, ma, inerendo a un bene facente parte del patrimonio disponibile, al di là del "nomen iuris" che le parti contraenti abbiano inteso dare al rapporto, essa viene ad inquadrarsi nello schema privatistico della locazione" (Cass. Sez. Un., sent. 28 giugno 2006, n. 14865, Rv. 590191-01; in senso conforme, da ultimo, Cass. Sez. Un., ord. 25 marzo 2016, n. 6019, Rv. 63898701).

Ciò detto, l'odierna ricorrente incidentale contesta la sentenza impugnata laddove ha escluso l'esistenza del requisito soggettivo (necessario per la configurazione del rapporto concessorio), ovvero la manifestazione di volontà dell'ente titolare del diritto reale pubblico, e ciò perchè difetterebbe, in capo all'ASP di Potenza, il requisito dell'appartenenza del bene. Rileva, per contro, la ricorrente incidentale come la giurisprudenza sopra menzionata, lungi dal richiedere la "appartenenza" del bene (e, dunque, la titolarità in capo da un ente pubblico del solo diritto dominicale) faccia riferimento alla titolarità di un "diritto reale", tale ritenendosi la condizione dell'ASP, giacchè titolare su quei locali di "un diritto d'uso".

Senonchè tale ricostruzione - e con essa la censura che qui si esamina - si fonda su di un presupposto erroneo, ovvero che sia stato accertato, in capo all'ASP Potenza, la titolarità di un diritto reale di godimento riconducibile alla previsione di cui all'art. 1021 c.c..

Per contro, "l'uso gratuito" menzionato dalla sentenza impugnata, lungi dal potersi intendere come richiamo alla titolarità dello "ius in re aliena" summenzionato, si riferisce all'utilizzazione nascente un contratto di comodato, giacchè (a tacer d'altro) l'art. 1051 c.c.. attribuisce "al suo titolare il diritto di servirsi della cosa e di trarne i frutti" - sebbene da intendersi come "ogni utilità che esso può dare" (Cass. Sez. 2, sent. 4 aprile 2006, n. 7811, Rv. 588943-01) - "per il soddisfacimento dei bisogni propri e della propria famiglia" (da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 31 agosto 2015, n. 17320, Rv. 63622001). Il tutto non senza evidenziare come, in ragione della tipicità dei diritti reali limitati, alla "ampiezza e illimitatezza" di quello ex art. 1051 c.c., corrisponde la "multiforme possibilità di atteggiarsi" del diritto personale di godimento (Cass. Sez. 2, sent. 26 febbraio 2008, n. 5034, Rv. 601842-01), sicchè, nel dubbio, l'attribuzione della facoltà di utilizzazione di un bene va ricondotta, preferenzialmente, al secondo dei due schemi.

Il motivo va, dunque, rigettato.

8. Ciò detto, e passando all'esame del ricorso principale, anch'esso va rigettato.

8.1. I motivi primo e secondo - suscettibili di trattazione congiunta, data la loro connessione - non sono fondati.

8.1.1. In particolare, con riferimento al primo motivo, trova applicazione il principio secondo cui, in "caso di domanda giudiziale di risoluzione del contratto di locazione per scadenza del termine legale, l'eventuale errore nella indicazione della data di scadenza del contratto, in cui sia incorso il locatore, non comporta la reiezione della domanda, nè configura una caso di extra o ultrapetizione la rettifica operata dal giudice al riguardo, allorchè sia la legge a determinare termini e scadenza del contratto", in quanto "la "causa petendi"" risulta, pur sempre, "costituita dalla risoluzione del contratto alla scadenza naturale, che è onere del giudice accertare in base alla normativa (alternativamente contrattuale o legale) che disciplina il rapporto, ed a prescindere dalle indicazioni (eventualmente erronee) delle parti" (Cass. Sez. 3, sent. 17 settembre 2013, n. 21153, Rv. 627960-01).

Nella stessa prospettiva, ovvero quello del rilievo officioso della nullità, nonchè a confutazione anche del secondo motivo di ricorso, occorre qui rammentare che "la nullità della clausola che limita la durata di un contratto soggetto alle disposizioni della L. n. 392 del 1978, art. 27, ad un tempo inferiore al termine minimo stabilito dalla legge determina l'automatica eterointegrazione del contratto, ai sensi dell'art. 1419 c.c., comma 2, con conseguente applicazione della durata legale prevista dal comma 4 del citato art. 27" (Cass. Sez. 3, sent. 26 aprile 2004, n. 7927, Rv. 572337-01).

8.2. Il terzo motivo di ricorso principale è, invece, inammissibile.

8.2.1. In base a quanto emerge dalla ricostruzione che la stessa ricorrente offre dei motivi di appello sottoposti all'esame della Corte potentina (oltre che dal testo della sentenza da essa pronunciata), il tema relativo al danno risarcito alla ASP di Potenza, o meglio alle sue modalità di calcolo, non è stato oggetto di gravame da parte dell'odierna ricorrente principale.

Sul punto, dunque, opera una preclusione di giudicato, che questa Corte - anche in difetto di eccezione di parte (nella specie, peraltro, formulata) - può rilevabile anche d'ufficio (Cass. Sez. 3, sent. 19 dicembre 2000, n. 15950, Rv. 542732-01).

In ogni caso, la censura oggetto del motivo risulta anche non fondata, se è vero che, nell'ipotesi "di immobile concesso in locazione dalla P.A., quest'ultima non è esonerata dall'onere di provare, con ogni mezzo - e, quindi, anche per presunzioni - l'esistenza di una concreta lesione del suo patrimonio, benchè tale dimostrazione, ove l'immobile fosse destinato ad investimento produttivo mediante locazione, non debba essere data necessariamente attraverso proposte contrattuali ricevute, potendo essere desunta da altre circostanze di fatto che depongano per il mancato conseguimento di corrispettivi locativi commisurati a quelli di mercato" (Cass. Sez. 3, sent. 20 giugno 2017, n. 15146, Rv. 644949-02), essendo, del resto, "inesigibile la dimostrazione da parte di questa dell'esistenza di concrete proposte provenienti da aspiranti locatari", considerato "che l'esperimento della procedura pubblica per la locazione presuppone la libertà dell'immobile" (Cass. Sez. 3, sent. 8 luglio 2010, n. 16143, Rv. 614028-01).

Orbene, se a tale rilievo si aggiunge la constatazione che il "conduttore in mora nella restituzione della cosa locata è tenuto, ai sensi dell'art. 1591 c.c., oltre al risarcimento di un danno minimo preventivamente determinato dal legislatore in misura pari al canone dovuto per il periodo di durata convenzionale del rapporto, ad un eventuale maggior danno liquidabile nel concorso dei requisiti di legge anche equitativamente" (così Cass. Sez. 3, sent. 1 dicembre 1994, n. 10270, Rv. 488952-01; nello stesso senso, Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 1980, n. 4298, Rv. 408166-01), si deve ritenere che, nel caso di specie, il riferimento al contratto che avrebbe potuto essere stipulato nel 2001, oltre a rappresentare l'elemento presuntivo in forza del quale il giudice di merito ha riconosciuto il maggior danno ex art. 1591 c.c., si sia posto alla stregua di criterio equitativo in base al quale esso è stato liquidato.

9. Quanto ai restanti motivi di ricorso incidentale, neppure essi possono essere accolti.

9.1. Il secondo motivo, in particolare, non è fondato.

9.1.1. Esso - nel contestare l'affermazione secondo cui con il contratto concluso il 1 luglio 1992 avrebbe avuto effetto "novativo" del rapporto, sia sul piano soggettivo che oggettivo - pone, in realtà, almeno cinque diverse censure, nessuna delle quali è, però, suscettibile di accoglimento.

Non fondata, innanzitutto, è la censura relativa all'errata interpretazione del contratto, e ciò alla stregua del principio secondo cui "la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell'interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., avendo invece l'onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato" (ciò che non risulta avvenuto nel caso di specie), "non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l'interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest'ultima non deve essere l'unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l'altra" (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 28 novembre 2017, n. 28319, Rv. 646649-01).

Altrettanto è a dirsi per la dedotta violazione dell'art. 2697 c.c., "configurabile soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni" (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01); evenienza, quella appena indicata, che non risulta lamentata nel caso di specie.

Quanto, invece, all'errato apprezzamento che la Corte potentina avrebbe fatto delle risultanze documentali del giudizio, nonchè delle stesse ammissioni dell'odierna ricorrente principale, trova applicazione il principio secondo cui l'eventuale "cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (che attribuisce rilievo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4), disposizione che - per il tramite dell'art. 132 c.p.c., n. 4), - dà rilievo unicamente all'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante" (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01).

D'altra parte, in merito all'asserita violazione della L. n. 392 del 1978, artt. 28,29 e 79, a parte il rilievo che il motivo difetta di specificità, dirimente è la constatazione che "il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa" - che è quanto si lamenta nel caso di specie - "è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità" (da ultimo, "ex multis", Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonchè Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).

Nè, infine, ricorre alcuna violazione dell'art. 2730 c.c., nel senso che agli atti del presente giudizio vi sarebbe una "confessione" del legale rappresentante della società ricorrente che smentirebbe la tesi della novazione, e ciò in quanto la "qualificazione giuridica del fatto esula dall'ambito della confessione, la quale può avere ad oggetto solo circostanze obiettive e non già opinioni o giudizi" (Cass. Sez. 1, sent. 6 agosto 2003, n. 11881, Rv. 565707-01).

9.2. Infine, anche il terzo motivo del ricorso incidentale non è fondato.

9.2.1. Non trova, infatti, riscontro nella giurisprudenza di questa Corte la tesi, sostenuta dalla ricorrente incidentale, secondo cui il rinnovo della locazione per omessa disdetta, se costituisca un'evenienza ipotizzabile anche nei confronti della pubblica amministrazione, presupporrebbe, tuttavia, che la stessa sia stata prevista per iscritto nel contratto, non potendo ricollegarsi ad una volontà presunta, ma ad un preciso impegno assunto nella prescritta forma, non essendo possibile, dunque "per facta concludentia".

Per contro, questa Corte ha affermato che anche ai contratti di locazione stipulati da enti pubblici "è applicabile la disciplina dettata dagli artt. 28 e 29 in tema di rinnovazione che accorda al conduttore una tutela privilegiata in termini di durata del rapporto", in quanto, "a differenza dell'ipotesi regolata dall'art. 1597 c.c., la protrazione del rapporto alla sua prima scadenza in base alle richiamate norme della L. n. 392 del 1978 non costituisce l'effetto di una tacita manifestazione di volontà - successiva alla stipulazione del contratto e che la legge presume in virtù di un comportamento concludente e, quindi, incompatibile con il principio secondo il quale la volontà della P.A. deve essere necessariamente manifestata in forma scritta -, ma deriva direttamente dalla legge" (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 24 luglio 2007, n. 16321, Rv. 599164-01; in senso conforme, "ex multis", Cass. Sez. 3, senta 3 agosto 2004, n. 14808, Rv. 577231-01).

Siffatto principio, sebbene enunciato espressamente con riferimento al caso in cui l'ente pubblico sia il conduttore del bene, non può non trovare applicazione anche nel caso (come quello presente) in cui esso rivesta la qualità di locatore, giacchè pure in tale ipotesi che l'effetto della rinnovazione deriva direttamente dalla legge.

10. Attesa la soccombenza reciproca, le spese del presente giudizio vanno integralmente compensate tra le parti.

11. A carico della ricorrente principale e di quella incidentale, atteso l'integrale rigetto delle rispettive impugnazioni, sussiste l'obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale, compensando integralmente tra le spese del presente giudizio.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dallaL. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quella incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, all'esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 8 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 settembre 2019.