Diritto Civile


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20587 - pubb. 09/10/2018

L’Avvocato può ricevere le somme del cliente anche senza specifica autorizzazione contenuta nella procura alle liti

Cassazione civile, sez. III, 25 Settembre 2018, n. 22544. Est. Giaime Guizzi.


Avvocato – Procura ad litem – Mandato all’incasso – Mancanza – Incarico anche imlicito di ricevere il pagamento



Il "procuratore ad litem, se non è specificamente autorizzato, non è legittimato a riscuotere le somme dovute al proprio cliente ed a liberare il debitore" (Cass. Sez. 3,  24 aprile 1971, n. 1199; Cass. Sez. 3, 9 settembre 1998, n. 8927). Ciò non toglie, tuttavia, che pur in difetto di una specifica autorizzazione ad operare come rappresentante del creditore, rinvenibile nella già citata procura notarile ad lites, la legittimazione del D. a riscuotere i crediti di F.G. potesse trovare titolo - come ha correttamente ritenuto la Corte perugina - nel conferimento di un autonomo potere, ex art. 1188 c.c., comma 1, di ricevere la prestazione, quale mero indicatario di pagamento.

Nota è, infatti, la differenza tra le due figure, giacchè - come ha da tempo affermato questa Corte - l'art. 1188 c.c., "dopo avere enunciato la regola che il pagamento deve essere fatto al creditore, consente che questi può commettere anche ad altri soggetti di ricevere la prestazione, secondo il principio per cui la titolarità di un diritto non ne implica la necessaria gestione da parte del titolare, il quale ben può affidarla ad altri"; orbene, "il fatto che la legge distingua tra rappresentante e soggetto (espressamente o tacitamente) indicato dal creditore implica, poi, che la designazione del secondo (denominato anche adiectus solutionis causa) avviene al di fuori di un rapporto di rappresentanza in senso tecnico, come si ricava logicamente dal fatto che le due categorie di soggetti sono indicate distintamente" (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, 23 giugno 1997, n. 5579).

Ne deriva, dunque, che a prescindere dall'esistenza di un (espresso) potere di riscuotere la prestazione conseguente alla sua posizione di procuratore ad lites, l'avvocato può porsi come indicatario di pagamento. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -

Dott. DI FLORIO Antonella - Consigliere -

Dott. SCARANO Luigi Alessandro - Consigliere -

Dott. ROSSETTI Marco - Consigliere -

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

 

Svolgimento del processo

1. La società F.G., Finanziaria Generale S.p.a. (d'ora in poi, "F.G.") ricorre, sulla base di sei motivi, per la cassazione della sentenza n. 490/13 del 5 novembre 2013 della Corte di Appello di Perugia che accogliendo l'appello principale proposto dal Ministero della Giustizia avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Perugia n. 692/08 del 9 giugno 2008 e respingendo, invece, quello incidentale dell'odierna ricorrente - rigettava la domanda risarcitoria da essa F.G. avanzata nei confronti del predetto Ministero.

2. Riferisce, in punto di fatto, di aver convenuto innanzi al Tribunale perugino l'Avv. D.V. ed il Ministero della Giustizia, sul presupposto di aver affidato, al primo, una procura generale alle liti per atto notarile, priva, però, del potere di incassare e rilasciare quietanze, documento attraverso la cui esibizione il legale aveva, nondimeno, ottenuto - dalla cancelleria dell'ufficio esecuzioni del Tribunale del capoluogo umbro - diversi mandati di pagamento, per un importo complessivo di Euro 346.700,75, oltre accessori, e ciò in relazione a diverse procedure esecutive nelle quali essa F.G. risultava creditrice.

Lamentando che l'Avv. D. avesse illegittimamente trattenuto tali somme e che la condotta omissiva e gravemente negligente dei funzionari di cancelleria si ponesse in rapporto di diretta causalità col danno da essa subito, l'odierna ricorrente conveniva in giudizio, oltre al suddetto legale, il Ministero della Giustizia.

Riunito al descritto giudizio altro radicato - innanzi a quello stesso ufficio giudiziario - da essa F.G., in qualità di rappresentante processuale della società Banca dell'Umbria 1462 S.p.a., relativo a fatto di identico tenore (ovvero l'incasso, attraverso le medesime modalità e dunque in asserito difetto del potere di incassare e rilasciare quietanze, dell'importo di Euro 18.807,36, spettante alla predetta società all'esito di procedura esecutiva), l'allora parte attrice vedeva parzialmente soddisfatta la propria pretesa. L'adito Tribunale, infatti, condannava - per quanto qui ancora di interesse - al risarcimento del danno patrimoniale, nella misura di Euro 365.308,11 (comprensiva della somma dovuta alla società Banca dell'Umbria 1462 S.p.a.), oltre che il D., anche il Ministero, quantunque, quest'ultimo, limitatamente al minore importo di Euro 260.740,21 (incluso sempre quanto dovuto alla società testè menzionata), accogliendo l'eccezione di parziale prescrizione del diritto azionato, avanzata dal Ministero.

Proposto gravame principale da quest'ultimo, mentre F.G. chiedeva, con appello incidentale, la riforma della sentenza impugnata in punto prescrizione, la Corte perugina, accogliendo il primo e respingendo il secondo, riformava parzialmente la pronuncia del giudice di prime cure, escludendo la responsabilità del Ministero.

A tale esito essa perveniva - secondo la prospettazione dell'odierno ricorrente - sul rilievo che dall'interpretazione della suddetta procura generali alle liti, condotta alla stregua dei canoni ermeneutici di cui all'art. 1362 c.c., comma 2, e art. 1367 c.c., si ricaverebbe che "il pagamento effettuato verso il D. avesse effetto liberatorio ai sensi dell'art. 1188 c.c., comma 1".

3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la F.G., svolgendo sei motivi.

3.1. Con il primo motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), - è dedotta "violazione e falsa applicazione dell'art. 84 c.p.c., comma 2".

Si rileva che, secondo quanto confermerebbe la giurisprudenza di legittimità, tra gli atti che comportano la disposizione del diritto in contesa - e che, come tali, necessitano, ai sensi della norma testè richiamata, del conferimento di mandato speciale - rientrerebbero anche la riscossione dei crediti ed il rilascio delle rispettive quietanze, sicchè un difensore, ove non sia espressamente munito del potere di compierli, opererebbe come falsus procurator, con la conseguenza che il pagamento effettuato in suo favore non avrebbe efficacia liberatoria, secondo quanto previsto dall'art. 1188 c.c., comma 2.

Nondimeno, la sentenza impugnata, pur riconoscendo che la procura generale alle liti rilasciata all'Avv. D. non contemplasse espressamente il potere di incassare i crediti di F.B., nell'affermare che talune espressioni in essa contenute varrebbero a qualificare il legale come indicatario di pagamento (rilevando in tal senso, in particolare, il riconoscimento allo stesso della facoltà di compiere "quant'altro sia opportuno e necessario nell'interesse della società F.G. S.p.a. o dei suoi mandanti", nonchè l'aggiunta del periodo "il tutto con dichiarazione di avere per rato e valido l'operato dei nominati procuratori senza bisogno di ulteriori atti di ratifica e/o conferma"), avrebbe violato l'art. 84 c.p.c., comma 2.

3.2. Il secondo motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), - deduce "violazione e falsa applicazione dell'art. 1188 c.c., comma 1".

Si contesta la sentenza impugnata, laddove la Corte di Appello ha ricondotto la fattispecie sottoposta al suo vaglio nell'alveo della norma suddetta, considerando il D. non come difensore, bensì come indicatario dei pagamento.

Un esito, questo, che si fonda - secondo la ricostruzione che la ricorrente propone del decisum della Corte perugina - su di un "duplice ordine di argomenti".

In primo luogo, la necessità di interpretare alla stregua del principio della conservazione del contratto, ex art. 1367 c.c., le clausole contrattuali già sopra indicate; difatti, dette clausole, "non potendo stabilire una ratifica anticipata", varrebbero, da un lato, "ad estendere l'ambito dei poteri rappresentativi" del legale, nonchè, dall'altro, "a qualificare il D. quale indicatario a ricevere il pagamento".

In secondo luogo, lo stesso comportamento delle parti (destinato ad assumere rilievo ex art. 1362 c.c., comma 2) confermerebbe detta circostanza, rilevando, in tal senso, la condotta tenuta in sede processuale da F.G., giacchè essa - a fronte dell'affermazione del Ministero, tesa ad evidenziare come l'odierna ricorrente avesse, in passato, ricevuto pagamenti dal D. senza obiezioni di sorta - non avrebbe contestato di aver ricevuto i pagamenti, ma solo di non aver avanzato rimostranze. Nella stessa prospettiva, ovvero di un'interpretazione della procura che tenga conto del comportamento delle parti, rileverebbe l'impegno assunto dal legale - con scrittura del 20 ottobre 1992 - a versare nel più breve tempo possibile gli importi incassati, giacchè esso confermerebbe che l'intento originario delle parti era nel senso di consentirgli di incassare dalle cancellerie quanto dovuto da F.G.. La sentenza impugnata, difatti, afferma che la vicenda in esame si pone "al di fuori dei rapporti di rappresentanza, essendo la posizione giuridica del D. da qualificare quale adiectus solutionis causa anche a prescindere da un rapporto di rappresentanza (processuale)'; rilevando in tale prospettiva il "rapporto di indicazione all'incasso che ha fonte nella nota del 21.10.1992", anche in ragione del fatto che "il conferimento di un mandato a riscuotere un credito non è soggetto a particolari forme".

Ciò premesso, la ricorrente rileva che neppure le controparti hanno sostenuto che il D. si qualificasse, presso la cancelleria del Tribunale di Perugia, come mero indicatario di pagamento, invocando la convenzione del 21 ottobre 1992, di talchè la sentenza impugnata, operando tale ricostruzione, avrebbe "falsamente applicato ad una fattispecie attinente il qualificato rapporto parte/difensore le regole destinate a disciplinare il rapporto tra il debitore e l'indicatario".

3.3. Il terzo motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) - deduce "violazione dell'art. 1363 c.cv.", nonchè, subordinatamente, "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti", identificato con la "espressione "nell'ambito delle suddette attività" contenuta nella procura generale alle liti".

Secondo la ricorrente, la Corte di Appello avrebbe contravvenuto al criterio della "interpretazione complessiva delle clausole", nel compiere l'operazione ermeneutica che l'ha indotta a trarre, dalla citata procura generale alle liti, anche la qualificazione del D. come indicatario di pagamento. Essa, infatti, avrebbe ignorato che l'espressione "nel sopra delineato ambito", pure presente nel documento, "riferisce e limita alle sole attività delegate" (e non oltre esse) "la facoltà di fare quanto altro opportuno e necessario", consentendo così "di porre in essere quelle attività materiali ed esecutive, oggettivamente implicite nei poteri conferiti e che, come tali, non richiedono nè ratifica, nè conferma", in tal senso dovendosi intendere la frase "senza bisogno di ratifica e/o conferma", pure presente nel documento.

Inoltre, l'omesso esame di tale espressione - che avrebbe imposto un'interpretazione restrittiva dei poteri del D., incompatibile con quella, opposta, invece adottata - configura, secondo la F.G., un palese vizio di motivazione, con tutte le relative conseguenze.

3.4. Il quarto motivo - proposto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. - ipotizza "violazione o falsa applicazione dell'art. 1367 c.c.".

Assume la ricorrente che le clausole della procura, nell'interpretazione da essa proposta, lungi dall'essere prive di senso e/o effetto, hanno semplicemente una portata più limitata rispetto a quella ipotizzata nella sentenza impugnata, donde la dedotta violazione o falsa applicazione dell'art. 1367 c.c., laddove si è ritenuto che il principio di conservazione degli atti sia destinato a regolare anche l'ipotesi in cui vi siano due diverse interpretazioni, (ma) entrambe con un proprio senso ed un proprio effetto.

3.5. Con il quinto motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4) e 3) - si ipotizza, rispettivamente, "nullità della sentenza per violazione dell'art. 345 c.p.c.", nonchè, in via subordinata e alternativa, "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti", identificato "nella tardiva produzione della nota D./FG s.p.a. del 21.10.1992".

La ricorrente, muovendo dalla constatazione che l'impugnata sentenza ha qualificato come "tardiva" la produzione - in sede di gravame - del suddetto documento, si duole del fatto che abbia ricostruito anche in base ad esso quello che ha assunto essere l'intento originario delle parti (ovvero, individuare nell'Avv. D. anche un adiectus solutionis causa), addirittura riconoscendo, anzi, in quella convenzione la fonte del potere di incassare conferito al legale; di qui l'ipotizzata violazione dell'art. 345 c.p.c. e la conseguente nullità della sentenza.

In alternativa, si ipotizza che tale riconoscimento sia frutto dell'omesso esame del fatto che la produzione del relativo documento risulta avvenuta tardivamente, donde il lamentato vizio di motivazione.

3.6. Infine, con il sesto motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4) e 3) - si ipotizza, rispettivamente, "nullità della sentenza per violazione dell'art. 115 c.p.c., comma 1", nonchè, in via subordinata e alternativa, "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".

Il motivo si appunta sull'affermazione della Corte di Appello secondo cui il conferimento al D. della qualità di indicatario di pagamento sarebbe comprovato anche dal comportamento processuale delle parti, e segnatamente dal fatto che essa F.G. non ha contestato di aver ricevuto le somme incassate dal legale, ma solo di aver avanzato rimostranze.

Lamenta, al riguardo, l'odierna ricorrente che il principio di non contestazione presuppone che siano state dedotte circostanze specifiche, mentre, nella specie, nè il D. nè il Ministero (come, del resto, neppure la sentenza impugnata) hanno chiarito quali siano "le somme incassate", come confermerebbe il fatto che, il secondo, ha cercato di produrre in giudizio, tardivamente, quietanze relative a versamenti effettuati, al legale, dalle cancellerie, ulteriori rispetto a quelli oggetto di causa. D'altra parte, nessuno dei due convenuti avrebbe dedotto - nè, tanto meno, provato - che anche uno solo dei pagamenti effettuati dalla cancellerie (sia quelli indicati in citazione, sia quelli diversi di cui alla documentazione tardivamente prodotta dal Ministero) sia stato riversato dal D. ad essa F.G..

3.7. Nel concludere, dunque, per l'accoglimento del ricorso, la F.G. evidenzia che, in relazione alla questione già oggetto del suo appello incidentale (quella concernente la prescrizione parziale del suo diritto a conseguire il risarcimento del danno), nulla osta a che questa Corte possa decidere nel merito, trattandosi di questione di diritto.

Assume, in particolare, l'erroneità della statuizione del giudice di appello che ha qualificato la responsabilità del Ministero come aquiliana, "non ravvisandosi l'esistenza di alcun vincolo contrattuale tra le parti".

In senso contrario rileva che, nella specie, sussisteva un obbligo specifico del Ministero di pagare ad essa F.G. le somme ottenute dalle esecuzioni immobiliari, come confermerebbe, del resto, lo stesso riferimento - contenuto nella sentenza impugnata - all'art. 1189 c.c. (recte: 1188), che facendo riferimento ad un "creditore" e un "debitore" presuppone l'esistenza di una relazione tra le parti preesistente al danno.

A tale esito, ovvero al riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità del Ministero (con le debite conseguenze in tema di prescrizione del diritto al risarcimento di essa F.G.), conducono secondo la ricorrente - due alternativi rilievi. Per un verso, la constatazione che la giurisprudenza di legittimità circoscrive i casi di responsabilità aquiliana della P.A. alle sole ipotesi in cui ricorra una condotta della stessa la cui idoneità lesiva possa esplicarsi, indifferentemente, nei nei confronti della generalità dei cittadini, ovvero un'evenienza da escludersi nel caso di specie, visto che solo essa F.G. poteva risentire (come ha, effettivamente, risentito) un danno dal contegno tenuto dai funzionari della cancelleria del Tribunale di Perugia. Per altro verso, invece, potrebbe trovare applicazione, nel caso in esame, la fattispecie della responsabilità da "contatto sociale".

4. Sopravvenuto il fallimento della F.G., si costituiva per la curatela, con comparsa del 21 novembre 2016, il nuovo difensore, che ha rinnovato - nei riguardi del Ministero della Giustizia - la notificazione del ricorso, che la società in bonis aveva compiuto presso l'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Perugia, e non presso l'Avvocatura Generale, ribadendo quanto in precedenza dedotto e richiesto.

5. Ha resistito, con controricorso, alla descritta impugnazione il Ministero della Giustizia, chiedendone la declaratoria di inammissibilità e, comunque, il rigetto.

Quanto, in particolare, al primo e al secondo motivo, se ne assume l'infondatezza sul rilievo che la procura alle liti può conferire, come accaduto nella specie, il potere di ricevere il pagamento, senza che ciò escluda il potere di rappresentanza.

In ordine, invece, al terzo ed al quarto motivo, ne è eccepita, innanzitutto, l'inammissibilità, atteso che l'interpretazione degli atti di autonomia privata costituisce un'indagine di fatto affidata al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità, ove immune da vizi logici o da errori di diritto. Nella specie, poi, la ricorrente - lungi dall'evidenziare insufficienze o aporie intrinseche al ragionamento ermeneutico - si è limitata a prospettare, inammissibilmente, una diversa (e ad essa più favorevole) interpretazione delle clausole della procura alle liti. Nel merito, peraltro, si ribadisce che quella accolta dalla Corte di Appello costituirebbe l'unica soluzione interpretativa razionale.

Sul quinto motivo si rileva che la conclusione raggiunta dalla sentenza impugnata, circa la qualità di indicatario di pagamento posseduta dal D., non si fonda - per espresso riconoscimento della Corte perugina, che ha ritenuto, difatti, tardiva siffatta produzione documentale - sulla convenzione del 21 ottobre 1992, presa in considerazione solo in ultima istanza e come elemento idoneo a corroborare la conclusione già raggiunta.

Infine, in relazione al sesto motivo, si ribadisce che il D. ha riscosso svariati crediti per conto di F.G., per un lungo arco di tempo, in difetto di qualsiasi rimostranza e senza che l'odierna ricorrente abbia mai contestato di avere ricevuto dal legale altri pagamenti. All'uopo il Ministero evidenzia di aver dedotto, con l'atto di appello, di essere riuscito a ritrovare - solo dopo il deposito della sentenza di prime cure - "documentazione comprovante il pagamento di altri crediti della F.G. s.p.a. riscossi dall'Avv. D. negli anni 1994-95-9698 e 2001", sicchè esso avrebbe analiticamente indicato, diversamente da quanto assume il ricorrente, quali siano le somme incassate, senza contestazione alcuna da parte di F.G..

 

Motivi della decisione

6. Il ricorso non è fondato (recte: entrambi i ricorsi non sono fondati).

6.1. In limine, peraltro, deve affermarsi che è idonea ad escludere il passaggio in giudicato della sentenza impugnata la rinnovazione della notificazione del ricorso, operata dalla curatela del fallimento F.G. su autonoma iniziativa, avendo essa constatato che quella originaria era stata compiuta presso l'Avvocatura Distrettuale di Perugia e non presso l'Avvocatura Generale dello Stato.

Come evidenziato dalla stessa ricorrente, opera, nella specie, il principio secondo cui la "nullità della notifica del ricorso per cassazione è sanabile in forza della rinnovazione della notifica, sia quando il ricorrente vi provveda di propria iniziativa, anticipando l'ordine contemplato dall'art. 291 c.p.c., sia quando agisca in esecuzione di esso, senza che rilevi che alla rinnovazione si provveda posteriormente alla scadenza del termine per impugnare" (da ultimo, Cass. Sez. Lav., sent. 18 ottobre 2016, n. 710, Rv. 638230-01; nello stesso senso Cass. Sez. 5, sent. 27 settembre 2011, n. 19702, Rv. 619311-01; Cass. Sez. 5, sent. 14 maggio 2004, n. 9242, Rv. 572885-01).

6.2. Nondimeno, sebbene ammissibile, il ricorso proposto dalla società F.G., e poi dalla curatela, deve essere rigettato.

6.2.1. Non fondati risultano il primo ed il secondo motivo, suscettibili di trattazione unitaria data la loro stretta connessione.

Al riguardo, occorre muovere dalla constatazione che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il "procuratore ad litem, se non è specificamente autorizzato, non è legittimato a riscuotere le somme dovute al proprio cliente ed a liberare il debitore" (Cass. Sez. 3, sent. 24 aprile 1971, n. 1199, Rv. 351351-01; Cass. Sez. 3, sent. 9 settembre 1998, n. 8927, Rv. 518729-01). Ciò non toglie, tuttavia, che pur in difetto di una specifica autorizzazione ad operare come rappresentante del creditore, rinvenibile nella già citata procura notarile ad lites, la legittimazione del D. a riscuotere i crediti di F.G. potesse trovare titolo - come ha correttamente ritenuto la Corte perugina - nel conferimento di un autonomo potere, ex art. 1188 c.c., comma 1, di ricevere la prestazione, quale mero indicatario di pagamento.

Nota è, infatti, la differenza tra le due figure, giacchè - come ha da tempo affermato questa Corte - l'art. 1188 c.c., "dopo avere enunciato la regola che il pagamento deve essere fatto al creditore, consente che questi può commettere anche ad altri soggetti di ricevere la prestazione, secondo il principio per cui la titolarità di un diritto non ne implica la necessaria gestione da parte del titolare, il quale ben può affidarla ad altri"; orbene, "il fatto che la legge distingua tra rappresentante e soggetto (espressamente o tacitamente) indicato dal creditore implica, poi, che la designazione del secondo (denominato anche adiectus solutionis causa) avviene al di fuori di un rapporto di rappresentanza in senso tecnico, come si ricava logicamente dal fatto che le due categorie di soggetti sono indicate distintamente" (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 23 giugno 1997, n. 5579, Rv. 505372-01).

Ne deriva, dunque, che a prescindere dall'esistenza di un (espresso) potere di riscuotere la prestazione conseguente alla sua posizione di procuratore ad lites, l'Avv. D. potesse porsi come indicatario di pagamento, come ha ritenuto la sentenza impugnata, senza, pertanto, che il giudice di appello sia incorso in alcuna violazione e/o falsa applicazione dell'art. 84 c.p.c., comma 2, e art. 1188 c.c., comma 1.

6.2.2. Non fondati sono anche i motivi terzo e quarto.

Essi censurano la decisione della Corte umbra laddove nell'interpretare il testo della procura notarile rilasciata al legale - ha ritenuto che la stessa si ponesse come fonte (anche) della legittimazione dell'Avv. D. a ricevere il pagamento, con effetto solutorio nei riguardi del soggetto obbligato.

Sul punto, come ha esattamente osservato in udienza il sostituto Procuratore Generale presso questa Corte, deve muoversi dal rilievo che la procura ad litem "è atto geneticamente sostanziale con rilevanza processuale, che va interpretato secondo i criteri ermeneutici stabiliti per gli atti di parte dal combinato disposto di cui all'art. 1367 c.c. e art. 159 c.p.c., nel rispetto in particolare del principio di relativa conservazione, in relazione al contesto dell'atto cui essa accede, rimanendo sotto tale profilo censurabile l'interpretazione datane dal giudice di merito solo per eventuali omissioni ed incongruità argomentative, e non anche mediante la mera denunzia dell'ingiustificatezza del risultato interpretativo raggiunto, prospettante invece un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità" (così Cass. Sez. 1, sent. 12 ottobre 2006, n. 21924, Rv. 594608-01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 3, sent. 21 gennaio 2011, n. 1419, Rv. 615705-01).

Orbene, proprio l'operatività - anche in tale ambito - dei principi relativi all'ermeneutica contrattuale comporta, pertanto, la necessità di fare applicazione di quanto enunciato, in siffatta materia, da questa Corte.

Va, dunque, qui ribadito che "la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell'interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui all'art. 1362 c.c. e ss., avendo invece l'onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi" - come, invece, avvenuto nel caso di specie - "nella mera contrapposizione tra l'interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest'ultima non deve essere l'unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l'altra" (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 28 novembre 2017, n. 28319, Rv. 646649-01).

D'altra parte, non appare destinata a miglior sorte neppure la censura - articolata, in particolare, con il terzo motivo di ricorso - di omesso esame di un "punto" decisivo, identificato, come dianzi illustrato, nella "espressione "nell'ambito delle suddette attività" contenuta nella procura generale alle liti".

In proposito, infatti, è sufficiente notare che "l'omesso esame della questione relativa all'interpretazione del contratto" (ovvero, come nella specie, di un atto ad esso equiparabile) "non è riconducibile al vizio di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5), in quanto l'interpretazione di una clausola negoziale non costituisce "fatto" decisivo per il giudizio, atteso che in tale nozione rientrano gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi" (Cass. Sez. 3, sent. 8 marzo 2017, n. 5795, Rv. 643401-01).

6.3. Non suscettibili di accoglimento, infine, risultano il motivo quinto e sesto.

Essi, a tacer d'altro, non colgono l'effettiva ratio decidendi che sorregge la sentenza impugnata. La decisione della Corte perugina, infatti, nel ritenere che l'Avv. D. rivestisse la posizione di un mero adiectus solutionis causa, ha attribuito rilievo sia al contenuto della procura notarile alle liti, sia alla situazione di fatto esistente, ritenendo integrata, pertanto, "un'indicazione di pagamento per facta concludentia".

Orbene, lungi dall'investire tale statuizione, i motivi in esame ipotizzano la violazione del divieto di nova in appello, ovvero del principio di "non contestazione", attribuendo importanza dirimente ad aspetti - l'efficacia della nota integrativa del 21 ottobre 2012 (della quale, peraltro, la sentenza impugnata ha affermato espressamente di non voler tenere conto) e del silenzio serbato da F.G. in ordine ai pagamenti ricevuti - che assumono, invece, nel ragionamento del giudice di appello rilievo del tutto ancillare.

Va, pertanto, fatta applicazione del principio secondo cui la "proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall'art. 366 c.p.c., n. 4), con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d'ufficio" (Cass. 6-1., ord. 7 settembre 2017, Rv. 645744-01).

7. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente - e, per essa, ormai, della curatela fallimentare della società F.G., Finanziaria Generale S.p.a. - a rifondere al Ministero della Giustizia le spese del presente giudizio, che si liquidano come da dispositivo.

8. A carico della ricorrente, atteso l'integrale rigetto della proposta impugnazione, sussiste l'obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi, condannando la curatela fallimentare della società F.G., Finanziaria Generale S.p.a. a rifondere al Ministero della Giustizia le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 10.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, all'esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 22 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2018.