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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 01/06/2016 Scarica PDF

Supersocietà di fatto ed estensione di fallimento alle società eterodirette

Francesco Fimmanò, Professore ordinario di diritto commerciale presso l'Università delle camere di commercio "Universitas Mercatorum" di Roma e Vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti


Sommario: 1. Imprenditore occulto ed abuso della personalità giuridica; - 2. L’estensione di fallimento “da responsabilità patrimoniale” e l’autonomo fallimento “da responsabilità risarcitoria”; - 3. La partecipazione di società di persone a società di capitali; - 4. segue. L’orientamento della Cassazione; - 5. La supersocietà affetta da nullità è pur sempre una supersocietà in liquidazione che è venuta ad esistenza; - 6. Abuso della personalità giuridica ed affectio societatis.

 

 

1. Imprenditore occulto ed abuso della personalità giuridica

Una recente sentenza della Suprema Corte è intervenuta sul tradizionale fronte della Supersocietà di fatto, riaperto ormai da un decennio[1] a seguito delle novelle al codice civile ed alla legge fallimentare[2]. Si tratta di un tema classico del diritto commerciale che tuttavia più di ogni altro riflette la profonda evoluzione del sistema prodotta anche (e non solo) dalle riforme. L’ambito di riferimento è quello del  c.d. imprenditore occulto, ovvero dell’ampia e diversificata casistica in cui un imprenditore, individuale o collettivo, domina una o più società di capitali [3], per abusare della personalità giuridica e della responsabilità limitata.

Tullio Ascarelli nei suoi saggi, diretti a confutare la teoria dell’imprenditore occulto di Walter Bigiavi, scriveva più di mezzo secolo orsono che «non è possibile imputare un’attività indipendentemente dall’imputazione degli atti che la integrano e non è perciò possibile qualificare un soggetto in funzione dell’attività compiuta da un altro…..La “spendita del nome” non è affatto un requisito che si possa aggiungere o non aggiungere agli altri necessari per qualificare l’imprenditore, ….essa invero si identifica con la imputabilità a un soggetto degli atti nei quali si concreta l’attività imprenditrice….l’art. 2082 riporta l’attribuzione della qualifica dell’imprenditore innanzi tutto all’esercizio di un’attività che a sua volta si traduce in una serie di atti»[4].

L’impostazione era evidentemente diretta a dimostrare che non esiste nell’ordinamento un criterio di imputazione sostanziale della responsabilità degli atti di impresa e quindi dell’attività di impresa, diverso da quello formale della spendita del nome, salvo che non si tratti del committente che, aggiunge Ascarelli, è «sicuramente imprenditore ed imprenditore in nome proprio e quand’anche la sua impresa si svolga solo attraverso commissionari… come imprenditore il committente è soggetto al fallimento; come committente è responsabile a sua volta nei confronti del commissionario per i debiti da questi contratti per suo conto. Fallendo il commissionario, il committente sarà responsabile verso di questi e, in quanto ne ricorrano i presupposti, potrà venir dichiarato a sua volta il fallimento…»[5].

Tuttavia, il totem della imputazione formale degli atti d’impresa e della spendita del nome  nelle more ha dovuto fare i conti con la progressiva affermazione del ruolo della informazione nel diritto commerciale e della tendenza a tutelare nel mercato non solo i creditori involontari[6] ma anche quelli non adeguatamente informati, in una logica diversa dal vecchio “incolpevole affidamento”[7].D’altra parte già nel 1877 il celebre giureconsulto inglese sir George Jessel scriveva «non vedo la ragione per cui le persone non possano gestire affari liberi da ogni responsabilità che ecceda la somma che hanno sottoscritto, se ciò si è debitamente notificato ai creditori, sia con responsabilità limitata ad una determinata somma, superiore all’apporto, sia con responsabilità completamente illimitata» [8].

In particolare è emersa nel nostro ordinamento, fino ad essere codificata (artt. 2497 ss. c.c.), l’attività di direzione e coordinamento di società: quindi non singoli atti di direzione ma l’attività di dominio che, come dice Ascarelli, a sua volta si traduce in una serie di atti.

Una autonoma attività che per sua natura non esige spendita del nome e che non ha una autonoma economicità rispetto a quella dell’impresa dominata e che può generare uno specifico tipo di responsabilità risarcitoria in caso di abuso, che è una responsabilità appunto da attività e non da atti[9].

Tradizionalmente però lo snodo normativo più utilizzato, in dottrina e giurisprudenza, per l’attuazione delle diverse tecniche di «superamento» della personalità giuridica per abuso della stessa e per sanzionare questi contegni di fatto od occulti, è stato per decenni l’art. 147 l. fall.[10].

Tra le diverse teorie, emerse già prima dell’entrata in vigore del codice civile[11], quella della società di fatto (od occulta) fra società di capitali[12] aveva registrato un certo successo[13], arginato poi dalla questione della nullità di questo tipo di partecipazione societaria, divenuta pacifica in giurisprudenza, specie dopo l’intervento della Suprema Corte a sezioni unite alla fine degli anni ‘80 [14]. Come noto la posizione della Suprema Corte era legata alla preoccupazione che una rottura degli argini del diaframma della personalità avrebbe potuto generare una tracimazione sul terreno della certezza del diritto delle società e della tenuta complessiva del sistema[15].

La riforma del diritto delle società di capitali ha, come noto, superato il problema, almeno apparentemente, rendendo ammissibile, a certe condizioni, la partecipazione di società di capitali a società di persone.

La novella alla legge fallimentare, ha poi, dal canto suo, espressamente contemplato l’estensione del fallimento di uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del codice civile ai soci illimitatamente responsabili pur se non persone fisiche.

Questo nuovo quadro normativo ha appunto riaperto l’antico fronte usato per poter arrivare allo squarcio del velo della personalità attraverso il fallimento della società di fatto (od occulta) tra società di capitali e la conseguente estensione della procedura. E’ infatti apparso subito chiaro che il tema dell’insolvenza della c.d. supersocietà di fatto, era destinato a diventare una delle reazioni all’abuso della personalità “preferite” in giurisprudenza per efficienza[16].

L’impostazione, infatti, lasciava aperti comunque diversi problemi in ordine all’ammissibilità sul piano generale di una supersocietà di fatto e alla dimostrazione, sul piano probatorio, dell’esistenza di una concreta affectio societatis tra persone fisiche e giuridiche, tale da far qualificare la società di capitali socio delle persone fisiche e non veicolo strumentale delle loro condotte in mera posizione di dominata, come viceversa accade nella gran parte dei casi. Solitamente, infatti, le società dominate sono utilizzate da imprenditori (individuali o in società di fatto con altri soggetti), come mero strumento abusivo (adoperato come una cosa propria per definirlo alla Bigiavi)[17], e non certo sulla base di un contratto sociale.

D’altra parte, il comma 1 dell’art. 147 l. fall.  ha circoscritto espressamente la regola dell’estensione ai soci illimitatamente responsabili, di società appartenenti a specifici tipi. Per queste ultime in assenza di dati formali riguardanti l’imputazione della responsabilità, la scelta normativa non è l’esistenza nell’ordinamento di criteri di imputazione sostanziale diversi dalla spendita del nome oppure l’assimilazione, altrettanto sostanziale ed improbabile, tra socio illimitatamente responsabile e imprenditore individuale, ma una vera e propria eccezione normativa che altri ordinamenti hanno peraltro abbandonato. Eccezione che il legislatore fallimentare, alla luce dell’art. 2361 c.c., inevitabilmente (e per alcuni versi pleonasticamente) ha esteso anche ai soggetti diversi dalle persone fisiche che rivestano la qualità di soci illimitatamente responsabili della società fallita.

Orbene - nel caso in oggetto - i giudici della Corte si sono pronunciati su un ricorso in cui come al solito si denunciava la violazione o la falsa applicazione degli artt. 2361, 2384 e 2479 c.c. e dell’art. 147 l. fall., in quanto l’acquisto della partecipazione, da parte di una società di capitali, in una società di persone sarebbe di competenza esclusiva dell’assemblea, quale limite legale ai poteri gestori e di rappresentanza degli amministratori, onde lo stesso dovrebbe essere necessariamente espresso, restando inefficace ove compiuto senza le condizioni previste dall’art. 2361 c.c..

In sostanza, parte ricorrente affermava, sulla base delle note impostazioni emerse negli ultimi dieci anni, la inammissibilità di una società di fatto tra società di capitali, in quanto sarebbe consentita solo quella in società regolare, con disposizione applicabile in via diretta alla s.r.l., per la quale l’art. 2479 c.c., da leggere alla luce dell'art. 2361, paleserebbe come vi sia un’area inderogabile di competenze dei soci, fra cui andrebbe ricondotta l’assunzione della partecipazione. Ciò, a tutela dei soci e dei creditori di società di capitali, che vedrebbero la propria società assumere, a loro insaputa, lo status di soggetto fallibile pur in assenza di insolvenza, come avviene per il fallimento in estensione ai sensi dell'art. 147, comma 4, l. fall. Nè l’estensione del fallimento iniziale di una società di capitali ad una presunta società di fatto potrebbe fondarsi sull’art. 147, comma 5, l. fall., norma eccezionale e riferibile – come noto - solo al fallimento originario di un imprenditore individuale.

   

2. L’estensione di fallimento “da responsabilità patrimoniale” e l’autonomo fallimento “da responsabilità risarcitoria”

Il fenomeno in esame, ha - salvo casi peculiari - uno schema tipo: una o più persone si servono di una o più società di capitali per frammentare e segregare attività e patrimoni, subornando le stesse società ad una strategia complessiva che può avere connotazioni patologiche.

Se l’imprenditore si serve di società strumentali in maniera conforme alla legge, e soprattutto alla sua ratio (sul rispetto della quale anche altri soggetti hanno fatto affidamento), allora è corretto e doveroso che egli si giovi del beneficio della responsabilità limitata.

Ma se viceversa opera nell’interesse imprenditoriale contrario a quello delle società utilizzate ed in violazione dei principi di corretta gestione (rendendole meri veicoli strumentali all’interesse proprio od altrui), deve diventare in qualche modo responsabile in via diretta per il pregiudizio patrimoniale provocato alle subornate verso i creditori di queste. Ed è irrilevante, a tal fine, se sia una persona fisica o giuridica, e nel primo caso se abbia o meno rivestito cariche formali di amministratore o legale rappresentante.

Qualora infatti il travalicamento delle forme societarie avvenga, non in relazione alla gestione di singole società prescindendo da ogni rapporto con le altre società facenti parte del medesimo gruppo, ma con interventi e modalità coordinate, in attuazione di un progetto unitario, non si è in presenza di un amministratore, ma di chi attua, nei fatti, il governo dell’impresa unitariamente considerata[18].

Ora questo schema presenta due situazioni assolutamente ricorrenti: il primo che le società di capitali spesso non hanno alcuna affactio societatis rispetto alle persone fisiche che le dominano ed il secondo che nella pratica quella che emerge è la insolvenza delle società di capitali subornate e solo partendo da questa insolvenza si arriva alla sovrastruttura e non viceversa. Ciò comporta che, al di là delle questioni giuridiche, la figura in esame è stata adattata dalla recente sentenza della cassazione in modo improprio alle due situazioni tipo.

Questo adattamento, forzato sul piano ricostruttivo, presenta i vantaggi competitivi della estensione patrimoniale dell’insolvenza a fronte della tecnica alternativa in cui il curatore della società dominata dichiarata insolvente,acquista, a seguito dell’assoggettamento a procedura concorsuale, la legittimazione ad esercitare la sola azione risarcitoria spettante ai creditori, e non anche quella spettante ai soci, nei confronti della holding, in virtù di un altro riferimento normativo espresso: l’art. 2497, ultimo comma, c.c.

La responsabilità del dominus, individuale o collettivo, per abuso di eterodirezione sulla dominata insolvente può infatti generarne a sua volta l’autonoma insolvenza (e non l’estensione) a due condizioni:  che i creditori danneggiati non siano stati soddisfatti, e che ricorrano i presupposti soggettivi della fallibilità. Il dominus (soggetto fisico o giuridico, individuale o collettivo), tuttavia, non sarà automaticamente e necessariamente insolvente e fallibile, come accade col sistema dell’estensione per il socio illimitatamente responsabile nelle ipotesi contemplate dall’art. 147, l. fall., trattandosi di responsabilità comunque risarcitoria.

Occorrerà accertare se il dominus sia o meno capiente e quindi in grado o meno di soddisfare le pretese creditorie rappresentate dal passivo delle società dominate assoggettate a procedura concorsuale ed in secondo luogo accertare se abbia esercitato l’attività di direzione abusiva con quelle caratteristiche di stabilità, professionalità ed organizzazione che  integrano lo status di imprenditore commerciale. Pertanto laddove venga dimostrato che l’abuso del dominio abbia avuto i descritti caratteri tipici dell’attività d’impresa e laddove il dominus si riveli insolvente potrà essere dichiarato fallito in via autonoma ed i creditori delle società eterodirette concorreranno sul suo patrimonio con i suoi creditori diretti [19].

Le riforme del diritto societario e del diritto fallimentare hanno chiarito, a nostro avviso, il rapporto esistente nell’ordinamento giuridico tra titolarità dell’impresa, imputazione dei relativi atti, imputazione dell’interesse imprenditoriale e responsabilità patrimoniale[20].

Orbene, il sistema delle responsabilità di chi nell’interesse imprenditoriale proprio od altrui svolge attività di direzione e coordinamento di società, titolari dell’impresa, risulta strutturato, a seguito delle riforme, su due modelli alternativi:  la responsabilità risarcitoria per abuso del dominio e la responsabilità patrimoniale in estensione ex art. 147 l. fall..

L’art. 2497, c.c., conferma che l’attività di dominio è di per sé lecita e configura una situazione soggettiva attiva di cui può, e talora deve, farsi uso[21]: non contrasta con i principi inderogabili dell’ordinamento giuridico il fatto che il centro decisionale delle strategie venga posto al di fuori delle singole società controllate[22].

L’attività di dominio diviene fonte di responsabilità diretta solo se abusiva, e l’abuso  si verifica là dove il dominus la eserciti nell’interesse imprenditoriale proprio od altrui, e comunque non nell’interesse del dominato, e là dove venga svolta in violazione dei criteri di corretta gestione imprenditoriale e societaria.

Il dominio può essere esercitato mediante tutti gli strumenti possibili. Il controllo assembleare e l’influenza dominante (in via partecipativa o contrattuale) possono rappresentare indici meramente presuntivi, ma il controllo e la direzione possono concretizzarsi anche e soprattutto di fatto od occulto con le modalità più disparate.

Queste ultima forma di controllo c.d. esterno è particolamente rilevante ai nostri fini, in quanto si identifica con un potere effettivo nei confronti della società dominata - che prescinde dalleregole organizzativedella stessa - di determinarne o comunque influenzarne l’attività d’impresa. Lo stesso sistema delle presunzioni evidenzia implicitamente che il dominio non ha modalità tipiche di attuazione e quindi neppure di accertamento quando si verifica di fatto, soprattutto attraverso direttive impartite fuori da schemi organizzativi e\o negoziali (e comunque senza rilievo esterno, perché indirizzate esclusivamente verso la società dominata) e frutto di un potere effettivo.

D’altra parte l’eterodirezione è cosa completamente diversa dalla partecipazione alla gestione (o dalla ingerenza nella stessa) che invece ha una sua diversa regolamentazione e che può soltanto rappresentare in taluni casi un indice rivelatore dell’attività di dominio. Quest’ultima si concretizza insomma nello svolgimento di una funzione finanziaria, e più precisamente capitalistica di direzione strategico-finanziaria, accompagnata (solo eventualmente) dal potere di nominare e di revocare le persone preposte allo svolgimento di funzioni direttive o dal potere di amministrazione diretta. Il dominus può essere un socio (di maggioranza) oppure un perfetto estraneo alla società, che ne dipende economicamente o  finanziariamente[23], od anche l’amministratore (di diritto o di fatto), senza che però rilevi, ai fini della configurazione del fenomeno, che tale dominio venga esercitato in virtù di poteri formali o meno.

L’attività di dominio su società di capitali, poi dichiarate insolventi, viene esercitata in genere da altre persone giuridiche, da enti [24], da società di persone, anche di fatto od occulte, da soggetti di diritto e soprattutto da persone fisiche. Le tecniche giurisprudenziali di reazione all’abuso della personalità giuridica non sono superate dal nuovo impianto normativo si muove come visto su un doppio binario: l’estensione della responsabilità derivante dalla eccezione tipologica ed in particolare della società ai soci di capitali, e la responsabilità derivante dalla subornazione sull’impresa dichiarata insolvente.

Quando l’impresa o le imprese dominate (assoggettate poi a procedura concorsuale) sono società di capitali subornate contro l’interesse sociale, e cioè utilizzate come veicolo di una condotta economica e strategica unitaria nell’interesse extrasociale, la questione non è più l’imputazione sostanziale degli atti  nè l’abuso della personalità giuridica, nè lo squarcio della segregazione [25], né la simulazione di società[26], nè la trasformazione tacita in società in nome collettivo irregolare[27], né il ripristino della regola della responsabilità illimitata di cui all’art. 2740 c.c.[28], ma  l’abuso del dominio.

Se partiamo da questa costruzione complessiva, allora il caso del fallimento della c.d. supersocietà di fatto e della estensione ai soci illimitatamente responsabili società di capitali, appare fenomeno assolutamente residuale nella pratica che può diventare giudizialmente prevalente solo mediante qualche forzatura, su cui torneremo alla fine.

 

3. La partecipazione di società di persone a società di capitali

L’art. 2361, secondo comma, c.c., esige – come noto - che l’assunzione di partecipazioni in società di persone, almeno per le società per azioni, deve essere deliberata dall’assemblea ed evidenziata poi in nota integrativa.

La preventiva delibera sarebbe posta a tutela dei soci, che hanno il diritto di decidere se effettuare un investimento che sottrae la porzione di patrimonio sociale alle regole che disciplinano l’amministrazione e la redazione del bilancio delle società di capitali, mentre l’evidenza della partecipazione nella nota integrativa andrebbe a tutela dei creditori sociali, affinché abbiano la consapevolezza (ed il conseguente monitoraggio), delle reali condizioni di rischio e di garanzia, influenzate dalle vicende della società partecipata[29]. Si è rilevato che sarebbe incongruo che “in antinomia a tali principi, i soci ed i creditori di una s.p.a. vedessero la loro società acquisire, a loro insaputa e inconoscibilità, lo status di soggetto fallibile in assenza di insolvenza”[30].

Una parte giurisprudenza di merito ha perciò ritenuto che le disposizioni di cui all’art. 2361, comma 2, c.c., siano preclusive rispetto alla configurazione di un rapporto partecipativo di fatto od occulto, e comunque attuato sulla base di facta concludentia e non di una delibera assembleare espressa[31], con la conseguente inapplicabilità dell’art. 147 comma 1, l. fall., ad una  società irregolare, o di mero fatto, fra società di capitali [32].

In senso diametralmente opposto si è mossa altra giurisprudenza basata sulla disposizione di cui all’art. 2384 c.c.[33], che introducendo il principio della rappresentanza generale degli amministratori, travolgerebbe, nell’interesse preminente dei terzi, ogni argine all’efficacia esterna di atti ultra vires [34].

Il tema è stato riproposto dalla Corte costituzionale nell’ordinanza del 12 dicembre 2014 n. 276 [35] e poi - recentemente - nella decisione del 29 gennaio 2016, n. 15[36], che ha dichiarato la questione posta inammissibile in quanto i giudici rimettenti non si erano espressi sull’eventualità che una società di capitali partecipi ad una società di persone anche per fatti concludenti, senza osservare le prescrizioni dettate dall’art. 2361 c.c. e solo una interpretazione favorevole a tale eventualità, infatti, avrebbe, eventualmente, potuto consentire l’applicazione dell’art. 147, co. 5, l. fall., di cui si chiedeva l’illegittimità costituzionale nella parte in cui prevede l’applicazione al solo imprenditore individuale.

Le vicende trovavano origine da ricorsi proposti dalla curatela di S.r.l. fallite che avevano adito il Tribunale di Bari[37], di Parma e di Catania[38]  al fine di ottenere la declaratoria di fallimento anche delle presunte società di fatto costituite tra le società di capitali e persone fisiche.

In ogni caso, gli ostacoli evidenziati per le società per azioni potrebbero, come rileva anche la Consulta,  non riguardare le società a responsabilità limitata alle quali da un lato non è applicabile per rinvio espresso l’art. 2361 c.c., ma che dall’altro lato, a norma dell’art. 111 duodecies disp. att. c.c., sono annoverate tra le persone giuridiche che possono partecipare a società personali[39].

Il legislatore, parla semplicemente di s.n.c. e s.a.s. non facendo riferimento al fatto che la stessa società debba essere regolare, sicchè potrebbe anche implicitamente dedursi la possibilità di dare vita a società irregolari o più semplicemente di fatto[40]. Ciò che l’art. 2361,c.c. consente, infatti, è la partecipazione “in altre imprese comportante una responsabilità illimitata” e la società di fatto è sicuramente tale.

Per le società a responsabilità limitata sembrerebbe quindi, in assenza di prescrizioni normative, che l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle stesse, rappresenti un atto gestorio proprio degli amministratori, non rimesso alla competenza dei soci ai sensi dell’art. 2479, comma 2 n. 5, c.c. Ciò anche se a contrario va rilevato che in ogni caso sono riservate alla competenza dei soci di società a responsabilità limitata le decisioni di compiere operazioni che comportino una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale o una rilevante modificazione dei diritti dei soci, quale potrebbe essere la partecipazione in oggetto[41]. Non vi sarebbero preclusioni per l’applicazione analogica della disciplina di cui all’art. 2361, comma 2, c.c., in quanto nella s.r.l. sussistono interessi interni paragonabili a quelli di una s.p.a.[42]. Le limitazioni al potere degli amministratori previste per quest’ultima, sussistendo l’eadem ratio, si giustificherebbero anche per questo tipo di società [43].Resta infine la considerazione che l’ordinamento delle  società di persone non impone generalmente la forma scritta per esprimere la volontà sociale, ed è quindi preferibile ritenere che la S.r.l. possa assumere tale qualifica senza una formale deliberazione o attraverso comportamenti concludenti anche in una società palese [44].

In ogni caso, nonostante le diverse aperture[45] , parte della giurisprudenza ha continuato ad affermare che l’assenza della necessaria delibera assembleare renderebbe inefficace la partecipazione (torneremo più avanti sulla supposta patologia), con ogni conseguente effetto sulla configurablità società di fatto tra o con società di capitali, in quanto la violazione del precetto precluderebbe la riferibilità o imputabilità giuridica, non dei singoli atti compiuti, ma dell’attività d’impresa unitariamente considerata (intesa come coordinamento temporale e funzionale dei singoli atti) ed effettivamente svolta dagli amministratori[46].

 

4. segue. L’orientamento della Cassazione

Secondo la Suprema Corte chi entra in contatto con l’ente deve poter confidare sulla spendita del nome dello stesso da parte di coloro che ne hanno la rappresentanza senza dover avere l’onere di accertare se siano stati rispettati o meno i procedimenti endo-corporativi per quelle operazioni che gli amministratori potrebbero porre in essere con i terzi[47]. Agli amministratori dunque sarebbe conferito un potere di rappresentanza generale - sino al punto in cui la legge “consente di conferirlo” ed il terzo deve poter contare su tale estensione restando così indifferente la divisione delle varie competenze - e, al contempo, non vi sono norme che dettano una diversa disciplina per i limiti legali.

La norma di cui  2384 c.c. rappresenterebbe proprio un rimedio diretto ad evitare che il terzo possa abusare della tutela offertagli dal principio dell’inopponibilità, attribuendo all’ente la possibilità di sollevare l’exceptio doli.

Pertanto, l’assenza della delibera assembleare dovrebbe considerarsi inopponibile ai terzi, tranne qualora si provi che gli stessi hanno agito intenzionalmente a danno della società.

L’ordinamento, in linea generale, esclude la nullità o l’inefficacia di un atto posto in essere dall’organo gestorio senza il rispetto delle regole sull’autorizzazione assembleare, quando richieste, al fine di privilegiare una tutela obbligatoria rispetto ad una reale. E l’art. 2361 c.c. non rappresenterebbe una norma di divieto, né  una condizione di efficacia dell’atto da parte degli amministratori autorizzati. Il potere gestorio e rappresentativo, anche per le materie sottoposte all’assemblea, rimarebbe  sempre in capo agli amministratori.

Nella detta sentenza per i giudici di legittimità la delibera va insomma intesa a guisa di una “autorizzazione”, distinta come tale dall’atto gestorio, e come tale inidonea a configurare patologie invalidanti[48], in linea con la sentenza d’appello secondo cui l’art. 2361 c.c. “mira a rimuovere un limite ai poteri gestori all’unico fine di esonerare gli amministratori da responsabilità sociale, mentre l’assunzione della partecipazione resta valida ed efficace”, anche in considerazione del fatto che la delibera non è soggetta a iscrizione e pertanto “non sarebbe ragionevole, nel bilanciamento degli interessi dei creditori della società di capitali e di quelli della società di fatto che sull’unicità del centro d’imputazione abbiano confidato, preferire i primi”.

Dunque per la Cassazione “nessuna disposizione sancisce il divieto di assumere la partecipazione in una società che preveda la responsabilità illimitata della società azionaria - esistendo, al contrario, una norma di permesso - nè commina al riguardo, ai sensi dell'art. 1418, 3° comma, c.c., la nullità della partecipazione stessa, sol perchè manchi la previa deliberazione assembleare o l'indicazione nella nota integrativa; quanto all’inadempimento degli amministratori a detto obbligo di darne notizia nella nota integrativa al bilancio, ancor più dubbio è che da ciò possa derivare, quale adempimento successivo all’assunzione della partecipazione ed in mancanza di espressa previsione contraria, tale conseguenza”.  La nullità contemplata dall’art. 1418 “postula violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto” ma in questo caso, al contrario, la partecipazione è ammessa. Il legislatore della riforma, invero, aveva di fronte il chiaro testo di divieto previsto al preesistente art. 2361 c.c., 1°  comma, (“non è consentita”), che ben avrebbe potuto mutuare nella sua struttura: ma ha dettato una disposizione abilitativa costruita all’inverso.

Condizionare la sussistenza di una società di fatto al rispetto delle indicazioni normative  andrebbe in contrasto anche con il principio dell’apparenza in forza del quale, proprio al fine di tutelare i terzi, viene considerata centro di imputazione di rapporti giuridici una società priva degli elementi costitutivi che non sarebbe comunque l’ipotesi in esame che, al contrario, riguarderebbe proprio “l’effettiva collaborazione d’impresa tra più soggetti, non situazioni meramente apparenti per i terzi”.

Accanto ai soci devono essere tutelati anche i creditori in quanto, a seguito dell’assunzione di responsabilità illimitata, aumenta l’esposizione debitoria dell’ente con conseguente concorso dei creditori della conferitaria sull’intero patrimonio sociale, anche in considerazione la delibera assembleare non è soggetta ad iscrizione. L’art. 2361 c.c. non pare estendere il precetto relativo all’autorizzazione assembleare anche alla S.r.l., ma “intende solo dire che la società personale interamente partecipata da società di capitali sarà soggetta alle medesime prescrizioni di bilancio, mentre le partecipanti avranno l’obbligo del consolidamento”. Ma se si ammette che la partecipazione di una S.p.A. sia comunque efficace in assenza dell’autorizzazione, la stessa sarebbe tanto più superflua qualora la partecipazione riguardi una S.r.l., essendo difficile immaginare che i soci non siano a conoscenza dell’operato dell’organo gestorio avendo poteri di indirizzo e di controllo sulla società. In ogni caso  “dovrebbe accertarsi che la partecipazione sia così eterogenea rispetto ai fini sociali da modificare l’oggetto in concreto” ed anche i diritti dei soci non risultano modificati, continuando ad essere vincolati entro il conferimento, ma unicamente quelli della partecipante stessa che diviene illimitatamente responsabile. L’indicazione contenuta nell’art. 2497, n. 5, c.c., può rappresentare una limitazione legale al potere degli amministratori, ma, in particolare, solo al “loro potere decisionale”; quindi l’operazione modificativa dell’oggetto sociale compiuta in assenza della delibera esporrebbe gli amministratori ad una eventuale azione di responsabilità o a revoca, ma non andrebbe a travalicare il limite al potere di rappresentanza, nei rapporti esterni: L’operato resterebbe impegnativo per la società perchè la legge consente di conferire quei poteri agli amministratori, anche se a quelle condizioni.

Secondo tale orientamento va dunque valorizzato l’accento posto sull’eccesso dai poteri agli amministratori conferiti per legge ed anche da quelli che essa “consente di conferire” loro.  La riserva “posta dall’art. 2384 c.c., comma 2 post riforma rappresenta un rimedio diretto ad evitare che il terzo possa abusare della tutela offertagli dal principio dell'inopponibilità, attribuendo alla società una vera e propria exceptio doli, volta a garantire che la regola del contenuto inderogabile della rappresentanza non sia utilizzata per finalità contrastanti con gli interessi tipici che il legislatore ha inteso tutelare”. Qui la soluzione prescelta per la tutela dei terzi non utilizza il criterio della tutela dell'affidamento incolpevole, ma è più radicale, ricorrendo il legislatore ad un’astrazione del potere di rappresentanza dal sottostante potere di gestione.

Le limitazioni al potere di rappresentanza degli amministratori non operano nei confronti dei terzi, salva la prova che essi abbiano intenzionalmente agito in danno della società: onde si esclude sia la sussistenza di un onere del terzo di accertarsi preventivamente dell’esistenza di tali limitazioni, sia la rilevanza della mera conoscenza delle stesse da parte del terzo. Del resto, “come si è osservato da molti, sarebbe assai semplice, per gli amministratori della società, aggirare le norme sulla responsabilità patrimoniale e quelle a ciò collegate, invocando la mancata autorizzazione in caso di risultati negativi e, invece, acquisire gli effetti favorevoli di quella partecipazione”.

 

5. La supersocietà affetta da nullità è pur sempre una supersocietà in liquidazione venuta ad esistenza

Occorre innanzitutto prendere in considerazione un aspetto fondamentale che nè la Cassazione né la dottrina ha preso in considerazione, nonostante sia stato da che da tempo rilevato, rappresentato proprio dagli effetti che la violazione del limite comporterebbe[49].

Il fenomeno della configurazione di una “supersocietà” di fatto, quand’anche fosse viziato sul piano genetico, produce comunque delle conseguenze rilevanti di natura sostanziale.

Se infatti, propendendo in astratto per una interpretazione più rigida e restrittiva, si giungesse ad affermare che il mancato rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 2361 c.c., comporta l’inefficacia o la nullità dell’assunzione della partecipazione o del vincolo associativo nella superocietà di fatto, bisogna pur sempre considerare che, in forza di un principio di conservazione degli atti posti in essere in forza di un contratto di società nullo[50], l’attività di fatto compiuta dall’ente dovrebbe comunque continuare ad avere rilevanza[51].

Si badi bene che nella fattispecie non ci troviamo al cospetto di una società di persone regolarmente costituita ed iscritta al registro delle imprese e della quale una o più S.r.l. acquistano quote di partecipazione, ma al contrario si tratta di una partecipazione nascente dalla costituzione “di fatto” e per comportamenti concludenti di un centro autonomo di imputazione di diritti soggettivi, attivi e passivi.

Qui non si tratta della inefficacia di un acquisto di quote, ovvero di una vicenda in cui la società vede venir meno uno dei soci  senza generare lo scioglimento dell’intero contratto sociale. Come noto nel contratto di società la tendenziale plurilateralità associativa comporta che il venir meno di una delle parti del contratto, a differenza di quanto accade nei negozi di scambio, non genera la fine dell’intero contratto, a meno che quella parte (ed il relativo conferimento) non fosse essenziale al raggiungimento dello scopo sociale.

Nella casistica in esame non parliamo dell’acquisto di una quota, ma parliamo dell’assunzione di una partecipazione generata da facta concludentia “costitutivi” dell’ente. Dunque il vizio generato dal mancato rispetto delle norme di legge contenute nell’art. 2361 comma 2 c.c. (da cui trova origine la super-società di fatto) sarebbe così sanzionato con la nullità dell’intero rapporto, che si convertirebbe quindi sempre e comunque – nel sistema del diritto societario – in una causa di scioglimento con la necessaria apertura della fase liquidatoria[52]. Quando dal comportamento concludente nasce infatti il centro autonomo di imputazione dei rapporti soggettivi, attivi e passivi, la regola diventa la liquidazione, per la necessità di definire i rapporti pendenti.

La società nulla è considerata, per il passato, una società valida e, per il futuro, una società valida in stato di liquidazione[53].

In questo caso quindi non sarebbero comunque travolti gli atti posti in essere sino a quel momento che rimangono vincolanti per la compagine sociale né i relativi effetti complessivi. Gli effetti dell’invalidità della società, infatti, in deroga ai generali principi dell’ordinamento sulla nullità del contratto, non retroagiscono e sono applicabili anche alle società di persone. 

Come ha avuto modo di affermare una certa giurisprudenza, aderendo integralmente alla nostra impostazione[54], la violazione dell’art. 2361 comma 2 c.c., “pur importando la nullità della partecipazione alla società, non comporta la caducazione retroattiva della sua esistenza, stante la disciplina peculiare delle nullità societarie, applicabile anche alle società di persone[55].

Ed allora, tutte le questioni affrontate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, che il fenomeno in esame pone, potrebbero trovare questa soluzione interpretativa se si considera che l’ente di fatto illegittimamente venuto ad esistenza si intenderà sciolto e, per l’effetto, sottoposto alle regole dettate per la fase della liquidazione delle società[56]. Sembra banale ma è così.

Dal verificarsi di una causa di scioglimento non discende l’automatica estinzione in quanto si rende necessario, preliminarmente adempiere alle obbligazioni assunte dall’ente o meglio alla definizione dei rapporti pendenti. E così, anche nell’ipotesi in commento, dovranno essere definiti tali rapporti, con evidenti effetti sui diritti dei terzi in buona fede. Dunque sarebbe accertata l’esistenza di una supersocietà di fatto sciolta cui resta applicabile lo statuto della società in nome collettivo irregolare e lo statuto dell’imprenditore commerciale a cominciare dal fallimento[57].

La citata giurisprudenza di merito ha convenuto che va evidenziata la peculiarità dei contratti societari ed in particolare la loro funzione organizzatoria; i contratti associativi “danno luogo non solo alla costituzione di un rapporto giuridico tra i contraenti, ma alla istituzione di un’organizzazione per l’esercizio di un’attività, alla nascita di un soggetto che a sua volta intraprende rapporti con i terzi. Ciò impone la necessità di valorizzare le conseguenze derivanti dallo svolgimento dell’attività da parte dell’ente, ragion per cui acquistano rilevanza giuridica (e vanno necessariamente regolamentati) gli effetti prodotti dal fatto verificatosi ed ineliminabile consistente nell’avvenuto esercizio dell’attività sociale. Ne consegue che deve ritenersi vigente nel nostro ordinamento un generale principio – valevole per le società di capitali, come per quelle personali – per cui le cause di invalidità del contratto costitutivo provocano la caducazione della società, fermo restando gli effetti prodotti medio tempore, mediante l’esercizio di attività esterna”[58].

Si deve rimarcare che sarebbe contrario al principio di buona fede, canone conformante tutte le relazioni tra privati, la condotta di chi, dopo aver concluso ed eseguito un contratto secondo una forma diversa rispetto a quella programmata, pretenda, nel caso in cui il risultato conseguito sia difforme rispetto a quello sperato, di liberarsi dal vincolo negoziale. È agevole osservare che il piano della volontà è distinto rispetto a quello della sua manifestazione e, quindi, della forma tramite la quale essa è indirizzata al suo destinatario. La nullità per mancanza dell’elemento della volontà deriva dalla completa assenza della determinazione soggettiva di regolare i propri interessi e proprio perché si caratterizza per l’inesistenza sul piano empirico della componente volitiva prescinde dal problema della manifestazione e, quindi, della forma.

Le disposizioni di cui all’art. 2332 comma 2 e ss. sono espressione di un principio generale, per cui la dichiarazione di nullità non ha effetto retroattivo e comporta gli effetti propri dello scioglimento e della liquidazione della società[59].

In definitiva alla invalidità della partecipazione assunta da parte della S.r.l. nella ipotizzata società di fatto non consegue la caducazione con effetti ex tunc della stessa, con la conseguenza che l’eventuale dichiarazione di nullità lascia pur sempre sopravvivere sino alla sua pronuncia la compagine sociale che abbia agito, consentendone l’assogettabilità alla liquidazione concorsuale, in caso di insolvenza.

 

6. Abuso della personalità giuridica ed affectio societatis

In ogni caso supposta in astratto l’ammissibilità di una super-società di fatto[60], almeno con soci delle S.r.l., va ribadita la necessità di analizzare i due schemi fattuali assolutamente ricorrenti nella realtà.

Nella quasi totalità dei casi è il curatore della società subornata e fallita ad agire per ottenere il fallimento in estensione di altre società di capitali socie, semmai, unitamente a persone fisiche della supersocietà di fatto (basta leggere nelle varie sentenze, comprese quelle della Corte costituzionale il substrato fattuale delle vicende).

Orbene a nostro avviso l’art. 147, comma 1, l. fall., non consente comunque di arrivare in via ascendente dalla società di capitali fallita (utilizzata come veicolo strumentale) alla società di fatto (od occulta) holding, ma viceversa esige, come emerge dallo stesso art. 147 l. fall., la previa dichiarazione di insolvenza della società di persone, anche se di fatto (od occulta), per produrre poi in via discendente (rectius per caduta) il fallimento in estensione della (o delle) società di capitali in successione almeno logica (anche se non cronologica laddove siano contestuali)[61].

Nè a questo fine è ipotizzabile un fallimento virtuale prima di una sua effettiva dichiarazione[62] o comunque un accertamento meramente incidentale di una supersocietà di fatto [63], come presupposto per la richiesta di estensione del fallimento ai soci, considerato il carattere costitutivo [64] della sentenza di fallimento che ha efficacia erga omnes ed ex nunc [65].

Tra la pronuncia di fallimento della società e quella dei soci illimitatamente responsabili, «esiste un rapporto di dipendenza unidirezionale», nel senso che, anche se non è vero il contrario, «la dichiarazione di fallimento del socio trova il suo presupposto nella dichiarazione di fallimento della società, la cui eventuale nullità infatti travolge anche l’altra dichiarazione»[66].

Né ancora – come si è visto - è allo stato immaginabile che ai sensi del quarto comma dell’art. 147 l.fall. dopo il fallimento di una società di persone regolare possa conseguirne il fallimento anche del socio di fatto/società di capitali [67], come testualmente escluso dal disposto del quinto comma del richiamato art. 147 l.fall.[68] Quest’ultima disposizione prevede infatti che l’estensione del fallimento della società e dei soci illimitatamente responsabili possa conseguire unicamente all’iniziale fallimento di un imprenditore individuale ed utilizza quindi un’ espressione è riferita (e riferibile) soltanto all’imprenditore-persona fisica[69]. Di conseguenza non è possibile estendere il fallimento iniziale di una società di capitali ad una società di fatto, sia essa formata solo da società di capitali o anche da persone fisiche, anche perché, trattandosi di norma eccezionale[70], l’eventuale superamento in via interpretativa non può basarsi su un’applicazione meramente analogica [71].

Quindi ove si configuri una società sottostante all’attività d’impresa apparsa in un primo momento come gestita da un unico titolare, l’estensione del fallimento dovrà necessariamente passare attraverso il fallimento della società (di fatto od occulta) e solo come effetto di quest’ultimo – come nella sentenza in epigrafe - potrà essere estesa ai soci illimitatamente responsabili non falliti, anche non persone fisiche [72]. E’ evidente che anche nel caso del fallimento della supersocietà l’estensione non sarebbe l’effetto del superamento della personalità giuridica che resta intatta ed impenetrabile, ma la conseguenza di una mera eccezione tipologica, l’essere cioè socio illimitatamente responsabile di un certo tipo di società [73].

La norma insomma non si presta all’estensione al dominus (società o persona fisica) dell’insolvenza di società strumentali utilizzate in un gruppo verticale, ma tutt’al più all’estensione ad un gruppo orizzontale di società (socie tra loro ed eventualmente di persone fisiche) non soggetto a direzione e coordinamento.

Non va dimenticato, al riguardo, che nella società di fatto le partecipazioni ed i poteri di tutti i soci, anche se persone giuridiche, si presumono uguali, visto che le norme dettate in materia di società semplice prevedono esattamente questo in assenza di diverse previsioni contrattuali [74]. Ed occorre per tutti l’attività comune, l’effettiva partecipazione ai profitti ed alle perdite dei soggetti interessati, il vincolo di collaborazione tra i soci”  (c.d. affectio societatis).

Ecco che anche la giurisprudenza favorevole alla configurabilità della super-società di fatto continua a confondere talora, nell’applicare la tecnica dell’estensione, l’affectio societatis tra persone fisiche e persone giuridiche, con l’abuso strumentale delle seconde da parte delle prime.

Il fallimento in estensione di società di capitali in quanto socie (tra loro od anche con persone fisiche) per facta concludentia di una super-società di fatto, pur sposando la tesi della Cassazione, riguarda fattispecie concrete in cui, almeno sul piano logico (se non su quello cronologico essendo possibile la contestualità), venga accertata prima l’insolvenza della super-società, visto che l’estensione ai soci-persone giuridiche è solo un effetto tipologico. Quindi non può mai avere alla base l’iniziativa di un curatore di una S.r.l. che tenta di risalire alla capogruppo dal basso.

Deve trattarsi viceversa del caso in cui il creditore dimostra che c’è un intero gruppo insolvente dove una o più S.r.l. partecipano e controllano una società di persone (la supersocietà di fatto).

Ma in questo caso come afferma la stessa recentissima citata Corte Costituzionale[75], i giudici di merito devono innanzitutto accertare la c.d. affectio societatis  in grado di provare l’effettiva esistenza di una società occulta costituita con la partecipazione di S.r.l., e semmai della società originaria fallita.

Insomma tutto si fonda sull’accertamento  dell’effettiva sussistenza dell’affectio societatis tra le persone giuridiche e non l’(ab)uso delle stesse, quali veicoli strumentali dominati da parte di persone fisiche (eventualmente in società-holding di fatto tra loro). Questa ultima ipotesi non potrebbe mai configurare l’eccezione tipologica di cui all’art. 147, comma 1, l. fall., ma sarebbe un escamotage diretto a costruire per analogia una fictio, che viceversa configura una situazione sanzionata dall’ordinamento in termini di responsabilità risarcitoria derivante da attività di direzione e coordinamento esercitata dalla holding contro l’interesse sociale delle persone giuridiche eterodirette ed abusate[76].

La Cassazione afferma però, nella recente sentenza richiamata in epigrafe, che “per lo più, nelle vicende concrete sussiste, all’opposto, proprio l'intento di collaborare e svolgere attività in comune” invece che l’abuso dell’attività di eterodirezione e coordinamento della capogruppo.

Orbene su questa considerazione dissentiamo in modo netto, se ci fosse affectio societatis - e non abuso strumentale - la super-società non dovrebbe mai agire contro l’interesse dei propri soci (persone giuridiche), cosa che invece accade tipicamente.

L’affectio, infatti, presuppone il perseguimento di un comune interesse sociale, e viceversa l’abuso del dominio sulla presunta socia utilizzata come strumento è proprio una prova contraria dell’esistenza di una super-società con soci persone giuridiche e costituisce prova a favore viceversa dell’esistenza di una holding di fatto che controlla in posizione di dominio le medesime persone giuridiche abusate.

Mentre l’abuso del dominio si concretizza nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento nell’interesse proprio od altrui, l’affectio anche per facta concludentia si manifesta nel perseguimento di un interesse comune. Il concetto è un sinonimo  della “comunione di scopo” dei contratti plurilaterali associativi previsti dal codice civile del 1942[77].

E qui viene il punto davvero dolente della costruzione di certa giurisprudenza.

Ma davvero si può affermare nello schema più ricorrente che le società subornate, abusate e strumentalizzate pongano in essere facta concludentia che ne cristallizzano l’affectio societatis e quindi la partecipazione di fatto con chi ne abusa utilizzandole come mero strumento o “adoperandole come cosa propria”, come avrebbe detto Walter Bigiavi ? [78]

Non è forse vero l’esatto contrario?

Si legge nella sentenza in epigrafe che “gli elementi raccolti, nei provvedimenti impugnati di merito, confermano la prova piena della sussistenza del vincolo sociale, esistendo plurimi indizi della sussistenza di un’unica struttura economica associativa”.

Ma si badi bene che ciò che avviene nella pratica configura una partecipazione della società di fatto alle società di capitali controllate ed abusate e non – viceversa - una la struttura associativa capovolta, dove è impossibile che le controllanti siano abusate dalla controllata e dove quindi l’estensione diventa - per così dire - “inversa”.

La comunione di scopo, il vincolo di collaborazione tra i soci, il patrimonio e l’attività comune[79], l’effettiva partecipazione ai profitti ed alle perdite dei soggetti interessati, l’affectio[80] si concretizzerebbero per le s.r.l. – a seguire tale impostazione - paradossalmente nel fatto di farsi abusare nell’interesse esclusivo degli altri soci, persone fisiche, in una sorta di societas leonina[81] o di affectio, per così dire, masochista.



© Pubblicato altresì in Gazzetta forense 2016, n. 2, a cura di Universitas Mercatorum ed Università telematica Pegaso.

[1] Al riguardo mi permetto di rinviare sulla evoluzione del dibattito ai miei: Fimmanò, Dal socio tiranno al dominus abusivo, in nota a Trib. Vicenza 23 novembre 2006, in Fall., 2007, 415; Id., Super-società di fatto ed abuso della personalità giuridica, in il caso.it;  Id., Il fallimento della supersocietà di fatto, in Fall., , 2009, 91 s.; Id., Art. 2497, commi 3-4, in Sbisà (a cura di), Direzione e coordinamento di società, in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti-Bianchi-Ghezzi-Notari, Milano, 2012, 152; Id., Abuso di direzione e coordinamento e tutela dei creditori delle società abusate, in Riv. not., 2012, 267 s.; Id., Abuso dell’attività di eterodirezione ed insolvenza delle società dominate, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di Ghia, Piccininni, Severini, Vol. 1, Utet, Torino, 2010, 299 s.

[2] Si tratta di Cass. civ., sez. I, 21 gennaio 2016, n. 1095 – Pres. Ceccherini - Rel. Nazzicone, in ilcaso.it, 2016; in Fallimento, 2016, 524 ss., con nota di Angiolini, Consulta e S.C. a confronto su partecipazione societaria di fatto e fallimento; ed in Società, 2016, 453 s. con nota di Fimmanò, L’estensione “inversa” del fallimento della supersocietà  di fatto controllata ai soci-s.r.l. controllanti e “subornati” . La sentenza trae origine dal ricorso proposto da due S.r.l. fallite avverso la sentenza della Corte di Appello di Bari (App. Bari, 31 dicembre 2012 n. 1611, in www.iusexplorer.it) che, ritenendo ammissibile anche di fatto la partecipazione di società di capitali a società di persone, e considerando altresì non applicabile alla S.r.l. il disposto dell’art. 2361 c.c. ha dichiarato il fallimento della società di fatto e, a norma  dell’art. 147, comma 1, ha confermato anche il fallimento dei soci della stessa, ivi comprese le società di capitali.

[3] Cfr. in tema Bigiavi, L’imprenditore occulto, Padova, 1954; Id., Difesa dell’«Imprenditore occulto» Padova, 1962; Id., Responsabilità del socio tiranno, in Foro it., 1960, I, 1180;  Id., Fallimento dei soci sovrani, pluralità di imprenditori occulti, confusione di patrimoni, ivi, 1954, I, 2, 691; Id., L'imprenditore occulto nelle società di capitali e il suo fallimento "in estensione", ivi, 1959, I, 2, 149; Id., "Imprese di finanziamento" come surrogati del socio tiranno-imprenditore occulto, ivi, 1967, IV, 49; Ferrara jr., Società etichetta e società operante, in Riv. dir. civ., 1956, II, 668.

[4] Ascarelli Società di persone tra società; imprenditore occulto; amministratore indiretto; azionista sovrano, in Foro it., 1956, I, 405; Id., Ancora sul socio sovrano e sulla partecipazione di una società di capitali ad una società di persone, ivi, 1957, I, 1443; e prima ancora Id., Società e personalità giuridica, in Riv. dir. comm., 1954, 129.

[5] Per una puntuale ricostruzione complessive della fenomenologia: Rondinone, Tecniche di coinvolgimento di domini e holders nel fallimento delle imprese eterodirette e “superamento” della spendita del nome, in Riv. soc., 2015, 6,1054 s. Bassi, Il fallimento della società con soci a responsabilità limitata in Trattato di diritto fallimentare dir. da Cottino e Jorio, 2016;

[6] Si è affermato, ad esempio, in un caso di abuso del dominio, che il requisito della spendita del nome rileva solo per le “obbligazioni volontarie” assunte mediante atti negoziali, e non per le obbligazioni “involontarie”, «quali sono per loro natura le obbligazioni risarcitorie » compresa quella fondata sul disposto dell’art. 2497 c.c. (App. Napoli, 1° agosto 2014, in Fallimento, 2015, 677 con nota di Angiolini, I nuovi orizzonti della fallibilità della società di fatto holding). La corte ha affermato in quella occasione che al fine di configurare la responsabilità ex art. 2497 c.c. non occorre l’esteriorizzazione dell’attività di direzione e coordinamento in quanto ciò che rileva non è l’imputazione diretta od indiretta degli atti di impresa al dominus, ma il dato fattuale o formale del governo della condotta unitaria. Infatti la previsione novellata dell’art. 2497 c.c. è espressione del principio secondo cui la conservazione del beneficio della responsabilità limitata non può prescindere dal rispetto di certe regole ovvero solo il rispetto dei principi che regolano il diritto societario consente al socio di evitare la commistione delle proprie obbligazioni con quelle della società partecipata.

[7] Al riguardo mi permetto di rinviare a Fimmanò, Abuso del diritto societario e tutela dei “creditori involontari”, in Gazz. For., 2015, 6, 8 s.

[8] Perez Fontana, Responsabilità limitata del commerciante, in Riv. dir. comm., 1960, 326.

[9] Se il criterio della spendita del nome – si è osservato - risulta ormai superfluo in relazione alla individuazione di un imprenditore o di una società, restando comunque necessario dimostrare la presenza degli elementi contemplati dall’art. 2082, 2247 e 2195, resta invece invalicabile sotto il profilo della responsabilità delle obbligazioni poste in essere, al di là della ipotesi eccezionale della impresa occulta– di cui appunto all’art. 147, comma 5 l. fall. (Rondinone, Tecniche di coinvolgimento cit,1137; Michieli, Il fallimento del socio occulto, in Giur. comm., 2014, 2, 218).

[10] Sul tema dell’abuso della personalità giuridica cfr. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo- Portale, vol. 9, tomo 2, Torino, 1993, 433; Inzitari, La vulnerabile persona giuridica, in Contr. impr., 1985, 679 ss.; Fabiani, Società insolvente e responsabilità del socio unico, Milano, 1999; Franceschelli-Lehmann, Superamento della personalità giuridica e società collegate: sviluppi di diritto continentale, in Responsabilità limitata e gruppi di società, Milano, 1987, 71.

[11] In senso contrario: già Cass. 20 marzo 1930, in Foro it., I, 526; Cass. 14 gennaio 1937, in Foro it. rep., 1937 voce Società n. 18 giugno 1930. In dottrina Salandra, Le società fittizie, in Riv. dir. comm., 1932, I, 290; Cicu, Simulazione di società commerciali, ivi, 1936, II, 141.

[12] Al riguardo innanzitutto Ascarelli, Studi in tema di società, Milano 1952, 55; Id., Società di persone cit., 405; Id., Ancora sul socio sovrano cit. 1443; Id., Saggi di diritto commerciale, Milano, 1955,  256 n. 65; Brunetti, Trattato delle società, Milano, 1948, I, 195; Graziani, Società, III ed., Napoli, 1952, 61; Romano Pavoni, Imprenditore occulto e società di fatto tra persone fisiche e società di capitali, in Riv. dir. comm., 1952, II, 53.

[13] In giurisprudenza tra le altre: App. Napoli 4 aprile 1955, in Foro it., 1955, I, 1726 (pubblicata unitamente a Trib. Ancona 5 luglio 1954 e Trib. Ravenna 10 giugno 1954); Trib. Torino 22 febbraio 1954 in Foro. it., 1954, I, 842; e più recentemente Tribunale  Torino 27 maggio 1997, in Giur. it., 1997, I, 2, 702 (riferita però a società di persone socie tra loro); Trib. Palermo, 29 ottobre 1988, in Temi Siciliana, 1989, 75 (secondo cui, allorché i soci di una società di capitali costituiscano una società di fatto collaterale alla prima e che si occupi degli stessi affari, operando con i medesimi strumenti e nella stessa area operativa e di mercato della società di capitali, lo stato di insolvenza della società di fatto coincide con quello della società di capitali).

[14] Cass. sez. un., 17 ottobre 1988, n. 5636, in Giur. it., 1989, I, 1, 59. Ma in tema cfr. pure Cass., 2 gennaio 1995, n.7, Riv. Dir. Comm., 1996, II, 35; Cass., 19 novembre 1981, n.6151, Foro it., 1982, I, 2897, con nota di Marziale, Riv. not., 1982, 283, Dir. Fall., 1982, II, 302, con nota di Ragusa Maggiore; da ultimo ante riforma, App. Milano, 25 maggio 2004, in Banca e borsa, 2006, I, 22 s., con nota di Garcea, È inammissibile la partecipazione di una società di capitali ad una società di persone: l’ultimo respiro del veto della Cassazione? e in Giur. comm., 2005, 3, II, 269, con nota di Dagnino, La partecipazione di società di capitali in società di persone.

[15] L’argomento principale riguardava il contrasto che nell’amministrazione del nuovo ente sociale veniva a determinarsi con la normativa dettata per la società azionaria, “dove la legge riserva inderogabilmente agli amministratori la gestione del patrimonio sociale, mentre, ammettendosi la partecipazione ad una società di persone e a fortiori di fatto, priva di ogni garanzia di pubblicità, il patrimonio verrebbe fatalmente gestito, almeno in parte, da soggetti diversi, e, quindi, sottratto ai controlli predisposti per l’amministrazione della società di capitali”. Perplessità superata dal legislatore della riforma, quando ha contemplato espressamente la fattispecie; pur avendo, poi, richiesto la deliberazione assembleare, l'indicazione in nota integrativa e la redazione anche da parte della società personale del bilancio secondo i criteri previsti per le società per azioni, oltre al bilancio consolidato in presenza dei presupposti di legge.

[16] Si sono espressi contro questa impostazione: Trib. Torino 4 aprile 2007, in Giur. it.,2007, 1442, con nota di Cottino;  in Giur. piem., 2007, 1, 326; in Nuovo dir. soc.,2007, n. 9, 59, con nota di Irrera, Un primo no all’ipotesi di società di fatto tra società di capitali; App. Torino 30 luglio 2007, decr., in Giur. it.,2007, 2219, con nota di Cottino, Note minime su società di capitali (presunta) socia di società di persone e fallimento; in  Nuovo dir. soc.,2007, n. 18, 59, con nota di Irrera, Un secondo no all’ipotesi di società di fatto tra società di capitali; in Riv. dott. comm., 2008, 316, con nota di Bartalena, Società di fatto partecipata da società di capitali; in Riv. dir. impresa, 2008, 2, 315, con nota di Di Febo, Società di fatto, società a responsabilità limitata e partecipazione di società di capitali in società di persone; App. Bologna, 11 giugno 2008 n. 965 in Fall., 2008, 1293 con nota di Platania, Il fallimento di società di fatto partecipata da società di capitali ed in Riv. dir. soc., 2010, 1, 99, con nota di Di Febo, La partecipazione di fatto di società di capitali in società di persone. Profili sostanziali; Trib. Forlì, 9 febbraio 2008, in Giur. it., 2008, 1425; in Fall., 2008, 1328 con nota di Irrera, La società di fatto tra società di capitali e il suo fallimento per estensione; in  Nuovo dir. soc., 2008, n. 12, 86, con nota di Spiotta, Un inaspettato sì all’ipotesi di società di fatto tra società di capitali; App. Napoli, 15 maggio 2009, in Riv. dir. soc., 2010, 1, 102; App. Napoli 5 giugno 2009, in DeJure ed in Nuovo dir. soc., 2009, 16, 42, con nota di Angiolini, L’estensione del fallimento della società di fatto alla s.r.l. socia; App. Venezia 10 dicembre 2011, in ilcaso.it; Trib. Napoli 14 maggio 2012, rel. Dongiacomo, inedito;  Trib. Mantova 30 aprile 2013, in Giur. comm., 2014, 5, II, 906; Trib. Foggia, 3 marzo 2015 in ilcaso.it; Trib. Como sez. I, 7 maggio 2015, in dejure.it; Trib. S.M. Capua Vetere, decr., 15 gennaio 2015, in ilcaso.it; Trib. Bergamo, 19 marzo 2015, in dejure.it.

In senso favorevole invece: Trib. Santa Maria Capua Vetere, 8 luglio 2008, in Fall., n. 1, 2009, 89 con nota di Fimmanò Il fallimento della supersocietà di fatto (riferita  ad un caso particolarmente sintomatico di abuso, visto che i soci persone fisiche erano, nella fattispecie concreta, formalmente imprenditori individuali con omonimìa di ditta, che operavano nello stesso sito, utilizzavano lo stesso compendio produttivo, o meglio la medesima azienda, e svolgevano la stessa attività economica della loro presunta socia-persona giuridica); Trib. Forlì, 9 febbraio 2008, in Giur. it., 2008, 1425; in Fall., 2008, 1328 con nota di Irrera, La società di fatto tra società di capitali e il suo fallimento per estensione; in  Nuovo dir. soc., 2008, n. 12, 86, con nota di Spiotta, Un inaspettato sì all’ipotesi di società di fatto tra società di capitali;; Trib. Bolzano, 3 ottobre 2008, in Giur. it., 2009, 2459; Trib. Prato, 10 novembre 2010, in Dir. fall, 2010, II, 382; Trib. Busto Arsizio, 16 giugno 2010, in Rondinone, Tecniche di coinvolgimento cit.,1047, n. 2; Trib. Napoli, 19 gennaio 2011, in ilfallimento.it.; Trib. Palermo, 14 ottobre 2012, in Fallimento, 2013, 392; Trib. Brindisi, 7 gennaio 2013, in Giur. comm., 2014, II, 906; Trib. Milano, 28 marzo 2013, in il Fallimentarista.it; Trib. Vibo Valentia, 21 marzo 2013, ined.; Trib. Reggio Calabria, 8 aprile 2013, in Dir. fall., 2014, II, 63; Trib. Nola, 29 maggio 2013, in Foro napoletano, 2014, 975; Trib. Gela, 15 ottobre 2013, in ilcaso.it; Trib. Milano, 30 settembre 2013, in Società, 2014, 816, con nota di ATTANASIO, che non si pronuncia sul fallimento. 

[17] Bigiavi, Società controllata e società adoperata "come cosa propria", in Giur.it., 1959, I, 1, 623.

[18] Peraltro la Cassazione ha recentemente affermato che l’abuso delle controllate da parte della holding  può essere  realizzato anche mediante una ingerenza diretta dei soci, come amministratori di fatto, in uno schema in cui le due figure di dominus abusivo e gestore di fatto non sono alternative ma si cumulano e coesistono (Cass. 23 giugno 2015  n. 12979, in Giur. it, 2015, 2131 s.).

[19] In tal senso già Fimmanò, Dal socio tiranno al dominus abusivo, in nota a Trib. Vicenza 23 novembre 2006, in Fall., 2007, 415; cui aderisce Angiolini, Dal caso Caltagirone al dominus abusivo: la responsabilità della holding nella insolvenza delle controllate, in nota ad App. Bologna 23 maggio 2007, in Società, 2008, 323;  Blatti, La revocabilità dei pagamenti infragruppo e l’autonomia delle società controllate in Fall., 2008, 568; e autorevolmente Cottino in nota ad App. Torino 30 luglio 2007, cit., 2223 (che parla di una responsabilità azionabile dal curatore del fallimento della società soggetta a tale direzione e coordinamento e che potrebbe portare, ove si traducesse in una condanna al risarcimento del danno della società dominante, anche al suo fallimento, ma se ed in quanto essa fosse o diventasse a sua volta insolvente).

[20] Titolarità è comunque concetto diverso da imputazione nel senso che il primo è concetto formale e il secondo no: pur confluendo normalmente in capo alla medesima persona  la titolarità dell’impresa e l’imputazione dell’interesse imprenditoriale, può accadere che tale interesse faccia capo (anche) ad altri e per l’effetto diverga da quello del titolare (Buonocore, voce Impresa (diritto privato), in Enc. dir., Annali I, Milano, 2008, 768).

[21] Sul dovere di esercizio della direzione unitaria in particolare: Rovelli, La responsabilità della capogruppo, in Fall., 2000, 1098 s.; Libonati, Responsabilità del e nel gruppo, in Aa.Vv., I gruppi di società, Atti del convegno internazionale di studi, Venezia 16-17-18 novembre 1995, Milano, 1996, II, 1489; Marchetti, Controllo e poteri della controllante, ibidem , II, 1556 s; Tombari, Poteri e doveri dell’organo amministrativo di una s.p.a. «di gruppo»tra disciplina legale e autonomia privata, in Riv. soc. 2009,  122 s.; Fimmanò, I “Gruppi” nel convegno internazionale di studi per i quarant’anni della Rivista delle Società, in Riv. not., 1996, 522 s.

[22] Al riguardo Blatti – Minutoli, Il fallimento della holding personale tra nuovo diritto societario e riforma della legge fallimentare, in Fall., 2006, 428.

[23] Anche nel caso dell’impresa illecita, la capogruppo invece di svolgere attività economica in via diretta, dirige e coordina, scatole vuote dolosamente precostituite all’inadempimento delle obbligazioni da assumere ed alla conseguente insolvenza (al riguardo Trib. Vicenza 23 novembre 2006, in Fall., 2007, 415). In questo contesto si pensi addirittura al caso limite dell’impresa mafiosa che domina imprese di terzi imponendo una condotta economica attraverso pratiche di tipo intimidatorio (come avviene in alcuni specifici settori in determinate aree del Paese dove il mercato di certi servizi o prodotti è controllato).

[24] La norma si riferisce evidentemente anche ad enti non societari quali associazioni, fondazioni ed enti pubblici (in tal senso Galgano, I gruppi nella riforma delle società di capitali, in Contr. impr., 2002, 1021; Romagnoli, L’esercizio di direzione e coordinamento di società da parte di enti pubblici, in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, 216 s.; Ibba, Società pubbliche cit., 7; Portale, Fondazioni «bancarie» e diritto societario, in Riv. soc., 2005, 28 s.). 

[25] Ci riferiamo ad elaborazioni ispirate alle tecniche utilizzate in altri ordinamenti, ed in particolare a quella del piercing the corporate veil (cfr. Tonello, L’abuso della responsabilità limitata nelle società di capitali, Padova 1999, 2;  Garrido, Preferenza e proporzionalità nella tutela del credito, Milano 1998, 358) e della Durchgriffshaftung (al riguardo per tutti l’autorevole ricostruzione di G.B. Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Trattato delle società per azioni, diretto da Portale  - Colombo, 1 **, Torino, 2004).

[26] Nel senso che la società  rappresenterebbe solo una simulazione per occultare nei confronti dei terzi la diversa volontà dei soci riconducibile alle cause di nullità di cui all’art. 2332 c.c. (Cass., 30 giugno 1955, n. 2016, in Dir. fall., 1955, II, 609, Salandra, Le società fittizie, in Riv. dir. comm., 1932, I, 290; Cicu, Simulazione di società commerciali, ivi, 1936, II, 141).

[27] Ferrara jr., Società etichetta e società operante, in Riv. dir. civ., 1956, II, 668.

[28] Il riferimento è alla nota teoria dell’imprenditore indiretto, in base alla quale la persona giuridica sarebbe solo uno strumento del linguaggio che riassume quella speciale disciplina che, in deroga al diritto comune, l’ordinamento avrebbe previsto per limitare la responsabilità delle persone fisiche in presenza di determinati presupposti, a condizione che siano rispettate le regole del diritto societario e la cui violazione comporta abuso della personalità giuridica e ripristino della regola della responsabilità illimitata (F. Galgano, I gruppi di società cit., 2001, 231 s.; Ascarelli, Problemi giuridici, I, Milano, 1959, 233)

[29] Si è affermato invece che i soggetti che devono essere tutelati sarebbero i creditori della società di persone (e non i venditori delle quote) ovvero i soggetti che non sono in grado di conoscere l’esistenza o meno dell’autorizzazione neppure usando la massima diligenza possibile, considerato che le delibere dell’assemblea ordinaria (ovvero dell’organo che dovrebbe concedere l’autorizzazione secondo il disposto dell’art. 2361 c.c.) non sono pubblicate nel registro delle imprese (Platania, op. cit., 1298). Si è altresì affermato che la volontà del legislatore della riforma sarebbe nel senso di fare prevalere la tutela dei terzi (nei cui confronti la società non può sottrarsi agli effetti degli atti compiuti dagli amministratori eccedendo i limiti imposti dallo statuto o da una delibera assembleare pubblicata), sull’esigenza di tutelare l’aspettativa dei creditori sociali e l’affidamento dagli stessi riposto sul rispetto di quei limiti da parte degli amministratori. Secondo questa impostazione l’infondatezza dell’eccezione relativa alla necessità di tutelare i creditori della società di capitali emergerebbe anche dalla considerazione che a norma dell’art. 147 l.fall. il socio occulto di società palese, o addirittura di società occulta, fallisce anche se i suoi creditori personali ne vengono pregiudicati e anche se gli stessi creditori sociali non avevano riposto alcun affidamento sullo stesso (Trib. Forlì 9 febbraio 2008, cit., 1331).

[30] App. Torino 30 luglio 2007, cit., 2221.

[31] App. Torino 30 luglio 2007, cit. 2219, con autorevole commento di Cottino, che ha confermato sostanzialmente quanto statuito da Trib. Torino, 4 aprile 2007, cit., 1442. In verità questa giurisprudenza mette insieme i due adempimenti, viceversa la disciplina contenuta nell’art. 2361, comma 2, c.c., nell’ambito della società per azioni si compone di due distinti nuclei aventi ad oggetto il momento anteriore all’atto di assunzione della partecipazione (la delibera assembleare) ed il momento successivo (l’informazione da offrire ad opera degli amministratori nella nota integrativa a tutela dei terzi). La delibera assembleare viene ricondotta allo schema dell’art. 2364, comma 1, n. 5, c.c. producendo l’inefficacia dell’atto che necessita l’autorizzazione assembleare (cfr. in tema Tombari, La partecipazione di società di capitali in società di persone come nuovo «modello di organizzazione dell’attività di impresa», in Riv. soc., 2006, 194; Mirone, Sub art. 2361 c.c., in Società di capitali. Commentario,a cura di Niccolini  Stagno d’Alcontres, I, Napoli, 2004, 419). Nello stesso senso App. Bologna, 11 giugno 2008 n. 965 , cit. 1298.

[32] Il legislatore, invero, non richiede che l’autorizzazione dell’assemblea sia espressa e preventiva, sicché la stessa potrebbe intervenire a ratifica della operazione compiuta dagli amministratori, ovvero manifestarsi anche successivamente, laddove l’assemblea approvi il progetto di bilancio predisposto dagli amministratori e nel quale questi danno specifica informazione nella nota integrativa del  bilancio. Ciò che deve affermarsi è comunque che la decisione sia presa consapevolmente in seno a una assemblea quale frutto del suo deliberato, sicchè a nulla vale a tal fine una decisione extrassembleare.

[33] La norma esclude l’opponibilità ai terzi delle limitazioni ai poteri degli amministratori derivanti dallo statuto o da una decisione degli organi competenti, ma appare agnostica rispetto ai limiti legali, sebbene pare difficile che il silenzio possa uniformarne il regime omologandolo a quello dei limiti convenzionali (Sciuto - Spada, Il tipo della società per azioni, in Trattato della società per azioni, diretto da Colombo – Portale, 1*, Torino, 2004, 59).

[34] In buona sostanza, poiché la concreta configurazione di una società di fatto fra società di capitali consegue necessariamente a comportamenti concludenti dell’organo amministrativo, la mancanza degli adempimenti (così individuati) non si sottrarrebbe al disposto di cui all’art. 2384 c.c., quale norma che esprime un principio di carattere generale attraverso cui guardare tutte le condotte, anche illegittime, degli amministratori, i quali hanno la rappresentanza generale della società (primo comma) e le limitazioni ai loro poteri «non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate» (secondo comma). Trib. Forlì, 9 febbraio 2008, cit, 1330, che in realtà prova troppo quando afferma che escludere la costituzione per facta concludentia di una società di persone tra società di capitali significherebbe negare l’ammissibilità della stessa società di fatto tra società di capitali. Infatti non va escluso che il legislatore abbia voluto raggiungere proprio questo risultato. In realtà l’art. 2384, secondo comma c.c. è riferito unicamente alle «limitazioni che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti», ovvero alle sole limitazioni convenzionali e non a quelle legali (In tema Cass. 26 gennaio 2006, n. 1525, in Giur. it., 2006, 1863) l’attribuzione esclusiva all’assemblea della delibera, e non della mera autorizzazione, non solo rappresenta un limite direttamente posto dal legislatore, ma si pone su un piano diverso rispetto a quello della mera limitazione legale dei poteri gestori. Il legislatore riconduce l’oggetto della delibera alla competenza dell’assemblea (art. 2364 n. 5 – ove è chiara al legislatore la differenza fra «oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea» e «autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti amministrativi» – e 2365, primo comma c.c.), sottraendolo alla competenza dell’organo amministrativo e, dunque, all’operatività dell’art. 2384, secondo comma, c.c. (App.  Bologna 11 giugno 2008 cit., 1294, secondo cui, nella fattispecie, non trovano spazio applicativo i principi di effettività dell’attività di impresa, in materia desunta anche dalla conservazione degli atti compiuti da società di capitali nulla ex art. 2332 c.c., con conseguente ed inammissibile prevalenza delle esigenze di tutela dei soci e dei creditori della società rispetto a quelle di tutela dell’affidamento dei terzi che con essa entrino in contatto e principalmente espresse proprio dalla disposizione di cui all’art. 2384 c.c.  I suddetti principi non hanno alcuna valenza, ove sia lo stesso ordinamento normativo ad escluderli, essendo evidente che nessun affidamento può essere posto dal terzo in presenza di una norma che elimina in radice la possibilità di attribuire ai comportamenti dell’organo amministrativo di una società di capitali valenza di estrinsecazione, giuridicamente tutelabile, della partecipazione della società di capitali amministrata ad una società di mero fatto, con ogni evidente ed ulteriore irrilevanza, sul punto, del disposto di cui all’art. 2384, secondo comma c.c. Né analogamente rileva il diverso richiamo all’art. 2332 c.c., nell’ambito del quale la ragione della tutela dei terzi e della conservazione degli atti è prevista solo per gli atti successivi all’intervenuta iscrizione della società – nonostante la nullità – al Registro delle Imprese  in ossequio alla generale disciplina pubblicitaria che, per l’appunto, presiede l’agire giuridicamente rilevante delle società di capitali). E’ stato inoltre rilevato dai fautori della tesi dell’ammissibilità della super-società di fatto, che gli artt. 2391, terzo comma,  2385, quinto comma e 2486, secondo comma, c.c., fanno salvi i diritti acquistati dai terzi in ipotesi, rispettivamente, di deliberazioni del C.d.A. assunte in conflitto di interessi, di nullità e/o annullabilità della nomina degli amministratori, di operazioni poste in essere dagli amministratori in caso di sussistenza di una causa di scioglimento della società. Tuttavia anche queste ipotesi sembrano porsi sul piano delle limitazioni inopponibili ai terzi ex art. 2384 c.c., e non su quello di distribuzione delle competenze fra gli organi della società.

[35] Corte costituzionale, 12 dicembre 2014, n. 276, in Fallimento, 2015, 4, 414,  con nota di Angiolini, Super-società” di fatto: la Consulta non “scioglie la riserva”.

[36] C.C. n. 15 del 2016, Pres. Criscuolo – Rel. Morelli, in corso di pubblicazione in Fall., con nota di Angiolini, Consulta e Suprema Corte a confronto su partecipazione societaria di fatto e fallimento. Il Tribunale di Catania con ordinanza del 27 novembre 2014 aveva sollevato, in riferimento agli artt.  3, primo comma, e 24, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, comma 5, in quanto, secondo il rimettente, la norma denunciata – nel ricollegare alla dichiarazione del “fallimento di un imprenditore individuale” la possibilità del fallimento in estensione di altro soggetto (persona fisica o giuridica) che risulti socio (di fatto) dell’originario fallito – contrasterebbe, appunto, con gli evocati parametri costituzionali, nella parte in cui, “nell’ipotesi di fallimento originariamente dichiarato nei confronti di una società di capitali” (nella specie una s.r.l.), non ne consentirebbe l’estensione ad altri soci di fatto, siano essi persone fisiche o società, come, nel giudizio  a quo invece richiesto dal curatore ricorrente (con riguardo, in particolare, ad una società in accomandita semplice).  Esclusa la possibilità di una interpretazione analogica della suddetta disposizione, in ragione del suo carattere eccezionale, ne conseguirebbe - come già denunciato con ordinanza in data 13 novembre 2013 del Tribunale ordinario di Bari – la violazione, in primo luogo, del precetto dell’uguaglianza. Ciò sotto il duplice profilo di una disparità di trattamento, per un verso, tra impresa individuale e società di capitali, agli effetti della estensibilità del rispettivo fallimento, e, per altro verso, “tra società di fatto, posto che, ove il fallimento venga richiesto immediatamente nei confronti della stessa società di fatto, esso sarebbe ammissibile ex art. 147, comma 1, l. fall. mentre non sarebbe possibile ove venga richiesto in estensione, quando il fallimento originariamente dichiarato riguardi una società di capitali”; che ulteriore vulnus risulterebbe poi arrecato all’art. 24, primo comma, Cost., per l’ingiustificata maggior tutela che la norma censurata riconoscerebbe ai creditori di società di fatto composte esclusivamente da soci persone fisiche, o, comunque, di società di fatto dichiarate fallite in estensione al fallimento di un imprenditore individuale, rispetto ai creditori di società di fatto allorché l’originario fallimento riguardi una società di capitali socia della società di fatto. Identica questione è stata sollevata dal Tribunale di Parma, con ordinanza del 13 marzo 2014, iscritta al n. 93 del registro ordinanze del 2015. In entrambi i giudizi – che sono stati riuniti – è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, la questione è dichiarata inammissibile atteso che entrambi i Tribunali rimettenti hanno omesso del tutto di valutare se le circostanze di fatto siano espressive di una affectio societatis che riveli l’effettiva esistenza di una società occulta costituita con la partecipazione della società originaria fallita: dal che la rilevanza meramente eventuale della questione di estensibilità del fallimento ad una società di fatto di cui non è stata previamente accertata l’esistenza. Inoltre – come rilevato nella sentenza n. 276 del 2014, con riguardo alla precedente già richiamata ordinanza del Tribunale di Bari - “ il rimettente (cioè il Tribunale di Catania e quello di Parma) non si è preliminarmente interrogato sulla possibilità per una società di capitali di partecipare ad una società di fatto, a fronte del disposto del novellato art. 2361, comma 2. Con la conseguenza che “il giudice a quo non ha verificato la compatibilità di tale previsione con la possibilità per le società di capitali  di partecipare a società di fatto la cui costituzione avviene  per facta concludentia, prescindendo, dunque, da qualunque formalità. Per di più,  nel giudizio dinanzi al Tribunale di Catania, introdotto dal curatore di una società a responsabilità limitata, il rimettente non ha nemmeno accertato se la disciplina relativa all’assunzione di partecipazione in società a responsabilità illimitata, testualmente riferita alle società per azioni, cui ha specificamente riguardo l’art. 2361 co. civ., possa estendersi  anche alle società a responsabilità limitata per le quali manca una analoga previsione espressa.

[37] Trib. Bari, 20 novembre 2013, in Dir. fall, 2014, 3, 319 con nota di Dell’Osso, La supersocietà di fatto (tra società di capitali) al vaglio della Corte Costituzionale ed in Giur. comm., 2014, 5, II, 906 con nota di Murino, Sulla fattispecie di società di fatto tra società di capitali. Conforme, Trib. Parma, 13 marzo 2014, (ord.),

[38] Trib. Parma, 13 marzo 2014, in Fallimento, 2014, 8-9 (con nota critica di Signorelli, Estensione del fallimento da società di capitali a società di fatto?); in Giur. it., 2015, 138 con nota di Russo, Società di fatto partecipata da società di capitali: un problema di costituzionalità?, secondo cui «è rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, quinto comma, R.D. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui, nell’ipotesi di fallimento originariamente dichiarato nei confronti di una società di capitali, non consente l’estensione di fallimento ad una società di fatto tra la società originariamente dichiarata fallita ed altri soci di fatto, siano esse persone fisiche o altre società, per contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 24, primo comma, Costituzione»). Sussisterebbe nella prospettiva dei giudici di merito anche la violazione dell’art. 24, primo comma, Cost., in quanto sarebbe maggiore la tutela concessa ai creditori di società di fatto composte da persone fisiche (o anche di società di fatto fallite dopo il fallimento di un imprenditore individuale) rispetto all’ipotesi di un originario fallimento di società di capitali, socia della s.d.f.

[39] La norma infatti prevede che “qualora tutti i loro soci illimitatamente responsabili di cui all’art. 2361, comma secondo siano spa, sapa o srl, le società in nome collettivo o in accomandita semplice devono redigere il  bilancio secondo le norme previste per la spa. Esse devono inoltre redigere e pubblicare il bilancio consolidato come disciplinato dall’art.26 D.lgs 9 aprile 1991 n. 127 ed in presenza dei presupposti ivi previsti”.

[40] A sostegno dell’ammissibilità sarebbe per qualcuno il fatto che la fattispecie della «supersocietà» di fatto è per certi versi ammessa tout court dal medesimo primo comma dell’art. 147 l.fall. (il capo III del titolo V del libro V espressamente richiamato nel corpo dell’art. 147, primo comma l.fall., contempla pur all’art. 2297 c.c., il modello della collettiva irregolare, alla cui disciplina si ricollega, come mera variante, la società di fatto esercente attività d’impresa commerciale, sicchè la possibilità di soci illimitatamente responsabili non persone fisiche, che lo stesso art. 147, primo comma l.fall. prospetta, va riferita sia al modello che alla sua pura e semplice variante (Abete, L’insolvenza nel gruppo e del gruppo, in Fall., 2009, 1119).

[41] Cagnasso, La società a responsabilità limitata, in Tratt. di dir. comm., diretto da G. Cottino, Padova, 2007, 298 s..

[42] Bartalena, La partecipazione di società di capitali in società di persone, cit., 118. In senso conforme, ritenendo di dover ritenere applicabile l’art. 2361 anche alle S.r.l., M. Irrera, La società di fatto, cit., 1334.

[43] Audino, Partecipazioni, Il nuovo diritto delle società, a cura di Maffei Alberti, Padova, 2005, I,426. L’applicazione analogica dell’art. 2361 sarebbe opportuna in quanto, se l’approvazione dell’assemblea è prevista per le società per azioni ove i soci sono assolutamente estranei alla vita dell’impresa, tanto più si rende necessaria in un modello societario ove sono notevolmente ampliati i poteri decisionali degli stessi (Cian, Le competenze decisorie dei soci, in Le decisioni dei soci. Le modificazioni dell’atto costitutivo. Trattato delle società a responsabilità limitata, diretto da Ibba e Marasà, Padova, 2009, IV, 22).

[44] In questo ambito va risolto anche il problema del socio amministratore persona giuridica visto che la dottrina preferibile propende per l’ammissibilità (cfr. al riguardo Regoli, L’organizzazione delle società di persone, in Diritto delle società. Manuale breve, Milano, 2005, 53).

[45] Nel senso della possibilità di partecipare per facta concludentia con le relative conseguenze: Trib. Brindisi 7 gennaio 2013, in Giur. comm., 2014, 5, II, 906; Trib. Nola 23 maggio 2013, cit.; Trib. Reggio Calabria 8 aprile 2013, in Dir. fall., 2014, 1, 63, con nota di Guerrera, Note critiche sulla c.d. supersocietà e sulla estensione del fallimento in funzione repressiva dell’abuso di direzione unitaria; App. Catanzaro 30 luglio 2012, in Giur. comm., 2013, 3, 43; Trib. Palermo 14 ottobre 2012, in Società, 2013, 392, con nota di Hamel, Il fallimento di società di fatto tra società di capitali; Trib. Vibo Valentia 10 giugno 2011, in Giur. merito, 2012, 3, 656, con nota di Franchi, Appunti sulla partecipazione di una S.r.l. ad una società di persone; Trib. Prato 10 novembre 2010, in Giur. merito, 2011, 11, 2721, con nota di Gaeta, Riflessioni sull’assunzione di partecipazioni in mancanza della autorizzazione assembleare prevista dall’art. 2361, comma 2 c.c., in Dir. fall., 2011, 3-4, II, 382 con nota di Bailo Leucari, La partecipazione di società di capitali ad una società di fatto: presupposti normativi ed esigenze di tutela dei terzi.

[46] Trib. S.M. Capua Vetere, decr., 15 gennaio 2015, in ilcaso.it; Trib. Foggia, 3 marzo 2015 in ilcaso.it; Trib. Como sez. I, 7 maggio 2015, in dejure.it; Trib. Mantova 30 aprile 2013, in Giur. comm., 2014, 5, II, 906; Id. 8 aprile 2013, in Fall., 2013, 1001; App. Napoli 5 giugno 2009, cit.; App. Venezia 10 dicembre 2011, in ilcaso.it, Trib. Bergamo, 19 marzo 2015, in dejure.it). In tema cfr anche fr. Della Tommasina, Dissociazione fra gestione e rappresentanza nella società per azioni e diritti dei terzi, in Riv. soc., 2015, 4, 657.

[47] Nella stessa linea nella dottrina più recente: Sciuto, Problemi in materia di potere rappresentativo degli amministrativo di S.r.l., in Riv. soc., 2014, 35, secondo cui l’ambito della opponibilità al terzo coincide con quello che si pone al di là del perimetro massimo dei poteri rappresentativi che, in qualunque caso, l’autonomia privata potrebbe attribuire agli amministratori, ivi comprese quelle operazioni che gli amministratori, sia pure a certe condizioni potrebbero efficacemente realizzare con i terzi”.

[48] Sul piano definitorio, può parlarsi “di autorizzazione (sulla falsariga della previsione generale di cui all'art. 2364 c.c., comma 2, n. 5), quale atto che integra poteri già esistenti in capo all'organo amministrativo; ma ciò potrebbe non risolvere ancora la questione, posto che non dice se essa, nel diritto privato societario, costituisca una condizione di efficacia dell'atto dell'organo autorizzato opponibile a chiunque, o se abbia solo una valenza organizzativa interna: fine al quale provvede allora il ricordato art. 2384 c.c.”.

[49] Fimmano’, Abuso di direzione e coordinamento e tutela dei creditori delle società abusate, in Riv. not., 2012, 298 s.

[50] Sul tema anche Palmieri,  La nullità della società per azioni, in Trattato Colombo-Portale, 1*, Torino, 2004, 490; Id., Nullità della società, in Società di capitali, Commentario, a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, 99.

[51] In tal senso Cottino, Sulla disciplina dell’invalidità del contratto di società di persone, in Riv. dir. civ., 1963, I, 302 ss. ove osserva (ivi, 308) che «dal momento dell’entrata nel traffico giuridico si tratta di regolare una situazione il cui vizio di origine non le impedisce di combaciare nella sua estrinsecazione concreta con la fattispecie di una società di fatto: di fatto due o più soggetti realizzano un’attività societaria, così come avviene nel caso in cui, senza l’osservanza di alcuna formalità, altri soggetti diano corso in comune, allo scopo di dividerne gli utili, all’esercizio di un’attività economica»

[52] Fimmanò, Art. 2497, commi 3-4, cit., 152.

[53] Sciuto, La nullità della società, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum G.F. Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, Torino, 2007, 1, 431.

[54] Fimmano’, Abuso dell’attività di eterodirezione ed insolvenza delle società dominate, in La dichiarazione di fallimento. Trattato delle procedure concorsuali, Torino, 2010, 33.

[55] App. Napoli 14 gennaio 2013, Pres. Lipani, Est. Pica, inedito, 15 (secondo cui la sanzione per la violazione non può che essere quella della nullità,  anche sulla base della considerazione che la deficienza di potere costituisce mancanza di un elemento essenziale per l’agire rappresentativo, cfr., con riguardo all’ipotesi di cui all’art. 1398 c.c., Cass. n. 3178/1958. D’altronde sarebbe incongruo che il legislatore avesse introdotto, per interessi superiori norme restrittive ai poteri dell’organo amministrativo prevedendo poi come sostanzialmente priva di effetti – specio verso i terzi – la loro violazione, in tal modo svuotandone la portata precettiva).

[56] Fimmano’, Abuso di direzione e coordinamento e tutela dei creditori, cit., 299.

[57] Fimmanò, art. 2497, commi 3-4, op.loc. ult cit. ; ID., Affectio societatis, affectio familiaris ed accomandante occulto, in Riv. not., 5, 1996, 1243.

[58] App. Napoli 14 gennaio 2013, cit., 16. La Cassazione ha affermato che la declaratoria di nullità della società di persone che ha operato come tale va equiparata, quoad effectum, allo scioglimento della stessa, sia perché è possibile applicare in via analogica l’art. 2332 c.c. (in quanto espressione di una regola estensibile alla totalità dei rapporti sociali di fatto), sia perché può farsi ricorso alla categoria concettuale della fattispecie contrattuale di fatto, con la conseguenza che la dichiarazione di nullità lascia sopravvivere fino alla sua pronuncia una compagine sociale che abbia agito (Cass 19 gennaio 1995, n. 565 in Giur.it., 1995, I, 1, 1165 con nota di Cottino).

[59] Alla nullità del contratto di società di persone non si applica la regola prevista per i contratti di scambio, secondo cui quod nullum est nullum producit effectum, ma la suddetta previsione generale valida per i contratti associativi, con la conseguenza che, allorchè accerta la nullità, il giudice provvede alla nomina del liquidatore (App. Napoli 14 gennaio 2013, cit., 17, che rileva come le norme di cui all’art. 2332 non sono ececzionali e sono richiamate anche dalle altre società di capitali e le cooperative e di cui all’art. 20 del d.lgs 96\2001 regolante la invalidità della società tra avvocati).

[60] In tema cfr tra gli altri: Tombari, La partecipazione cit., 185 s.; Autuori, Art. 2361 c.c., in Commentario alla riforma delle società,diretto da Marchetti,  Bianchi, Ghezzi, Notari, Azioni, Milano, 2008, 739; Platania, Partecipazione di società di capitali in società di persone, Milano, 2005; Audino, Sub Art. 2361 c.c.,in Il Nuovo diritto delle società,a cura di Maffei Alberti, I, Padova, 2005, 411 s.; Donativi, Sub art. 2361 c.c., in La riforma delle società. Commentario del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, a cura di Sandulli - Santoro, 2, I, Torino, 2003, 220; Toschi Vespasiani, La partecipazione della s.p.a. in altre imprese comportante responsabilità illimitata, in Società, 2004, 1076 s.; Riccio, La società di capitali può, dunque, essere socia e amministratore di una società di persone, in Contr. e impr., 2004, 314; Cavanna, Sub Art. 2361, 2° comma, c.c., in Il nuovo diritto societario, commentario Cottino, I, Bologna, 2004, 450; Dagnino, La partecipazione di società di capitali cit., 291; Bartalena, La partecipazione di società di capitali in società di persone, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum di G. F. Campobasso, diretto da Abbadessa - Portale, I, Torino, 2007.

[61] Bisogna accertare l’esistenza della società occulta con un “procedimento prima ascendente e poi discendente” sulla cui base è necessario dimostrare prima l’esistenza della società e solo successivamente il vincolo sociale del singolo socio (Fabiani, Diritto fallimentare. Un profilo organico, Bologna, 2011, 531).

[62] In questo senso Patti, La gestione del fallimento sociale e dei soci tra comunanza e separazione patrimoniale, in Fall., 2007, 355.

[63] Cfr. già Bigiavi, La sentenza c.d. di estensione del fallimento alla società occulta, in Riv. dir. civ., 1956, 448 con riferimento anche alla scelta del legislatore francese dell’epoca di escludere il faillite de fait.

[64] La natura è necessariamente costitutiva in quanto modifica una situazione ed in particolare uno status personale (al riguardo Pizzigati, Fallimento del socio e tutela dei creditori, Padova 1996, 60). In tal senso anche App. Torino 30 luglio 2007 cit., 2220, che pur richiama l’orientamento risalente della Cassazione sull’ammissibilità del fallimento implicito della società (Cass. 6 dicembre 1996 n. 10889). In realtà nella fattispecie, anteriore peraltro alle riforme, si trattava del caso completamente diverso del fallimento di un soggetto nella sua qualità di socio di una società di fatto con altro soggetto in precedenza dichiarato fallito quale imprenditore individuale e la Suprema Corte ha ritenuto che il fallimento del secondo soggetto, essendo basato solo sulla qualità di socio di fatto del fallito e non di imprenditore individuale, non potrebbe che essere dichiarato ai sensi dell’art. 147 l. fall., secondo cui la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce anche il fallimento di questi ultimi.

[65] La sentenza di fallimento in estensione, pur avendo una funzione integrativa (in senso lato) della sentenza originaria, dal punto di vista dei soggetti da dichiarare falliti, ha natura di provvedimento autonomo e distinto (tra le tante Cass., sez. Unite, 7 giugno 2002, n. 8257, in Foro it., 2002, I, 3082, riferita alla decorrenza del periodo sospetto per la revocatoria degli atti compiuti dal socio dichiarato fallito in estensione).

[66] Cass. 6 febbraio 2003, n. 1751; App. Bologna 11 giugno 2008, cit., 1296. Sui profili processuali cfr. da ultimo Fabiani, Le nuove regole del procedimento di estensione del fallimento del socio, in Giur. comm., 2009, I, 429 s.

[67] Si è rilevato che, comuneue rispetto alla fattispecie generale dell’“imprenditore occulto”, la sub-fattispecie della “società occulta” presenta un importante elemento differenziale, correlato alla circostanza che il socio-prestanome, se gli altri soci non dovessero deliberare di somministrargli mezzi sufficienti per l’esercizio dell’impresa, non può fare leva — e dunque non possono avvalersene neppure i creditori in via surrogatoria o il curatore fallimentare — sull’actio mandati contraria, perché i rapporti in terni sono regolati dalle norme sulla società di fatto, non da quelli sul contratto di mandato (Rondinone, Tecniche di coinvolgimento cit., 1073).

[68] Ed infatti con riguardo alla sentenza in commento, le ricorrenti censuravano il provvedimento di secondo grado sostenendo che la Corte territoriale avesse dichiarato il fallimento della società di fatto e dei suoi soci applicando analogicamente l’art. 147, 5° comma.

[69] Il quinto comma dell’art. 147 l. fall. recepisce – come sottolinea la Relazione Ministeriale – il noto orientamento giurisprudenziale in tema di società occulta, secondo cui la mancata esteriorizzazione della società non impedisce ai terzi di invocare la responsabilità anche della società occulta e degli altri soci, ove l’esistenza della stessa venga successivamente scoperta. Necessario e sufficiente a tal fine è che i terzi provino successivamente l’esistenza del contratto di società e che gli atti posti in essere in nome proprio siano comunque riferibili a tale società (al riguardo Cass. 10 febbraio 2006 n. 2975, in Giust. civ. Mass. 2006, 2; Cass. 26 marzo 1997 n. 2700, Fall. 1997, 1009; Cass. 30 gennaio 1995 n. 1110, ivi, 1995).

[70] Una parte della giurisprudenza ha invece ritenuto applicabile l’art. 147, comma 5, l. fall. “anche all’ipotesi di società di fatto risultante dopo la dichiarazione di fallimento di una società di capitali”: App. Caltanissetta 28 luglio 2014, in ilcaso.it; Trib. Reggio Calabria 8 aprile 2013, cit., 63; Trib. Palermo 14 ottobre 2012, cit., 392; Trib. Benevento 5 luglio 2012, Pres. Ed est. Monteleone, inedito; Trib. Gela 15 ottobre 2013, in ilcaso.it; Trib. Prato 10 novembre 2010, cit. 372; Trib. Vibo Valentia 10 giugno 2011, cit., 656, Cfr. in tema anche Menti, Fallisce un’altra holding personale: anzi no, è un noto imprenditore occulto, in Fall., 2011, 10, 1237.

[71] App. Bologna 11 giugno 2008, cit., 1294, che sottolinea come costituisca una precisa scelta del legislatore il differenziato trattamento offerto dal diritto societario e dell’impresa all’imprenditore persona fisica, alle società di persone ed, appunto, alle società di capitali. Sulla eccezionalità della norma cfr. pure Trib. Roma 28 novembre 2006, cit., 414.

[72] In questo senso cfr. già Fimmanò, Il fallimento cit., 94; alla impostazione aderisce Restuccia, Brevi note sul fallimento del socio illimitatamente responsabile: questioni superate e problemi ancora aperti, in Dir. fall, 2010, I, 128; in tema cfr. pure App. Torino 30 luglio 2007, cit. 2220, secondo cui non è perciò ammissibile istanza di estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili, senza previa o contestuale istanza di estensione del fallimento alla società occulta o apparente.

[73] Per poter dichiararne il fallimento si è affermato che sarebbe comunque necessario che vi sia sempre una “identità di impresa” (Rondinone, Tecniche di coinvolgimento cit., 1045). deve sussistere un’unica impresa tra quella della società occulta e quella del socio-imprenditore palese. In caso contrario, il fallimento dovrà essere dichiarato in via autonoma, nei rispetto dei requisiti soggettivi ed oggettivi di ciascuno (Dell’Osso, La supersocietà di fatto (tra società di capitali) al vaglio della Corte costituzionale, cit., 332).

[74] In particolare si tratta degli articoli 2253 comma 2, c.c., («Se i conferimenti non sono determinati, si presume che i soci siano obbligati a conferire, in parti eguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell'oggetto sociale»), 2257 comma 1, c.c.Salvo diversa pattuizione, l’amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri») e 2263, comma 1, c.c. («Le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti. Se il valore dei conferimenti non è determinato dal contratto, esse si presumono eguali»).

[75] C.C. n. 15 del 2016, Pres. Criscuolo – Rel. Morelli, cit. 3.

[76] Si vedano al riguardo ad esempio le fattispecie concrete esaminate da: Trib. Nola 28 settembre 2011, in ilfallimentarista.it; App. Napoli 24 gennaio 2012, in ilfallimentarista.it; Trib. Roma 21 novembre 2011, in il caso.it; Trib. Venezia 11 ottobre 2012, in ilcaso.it ein il fallimentarista con nota di Zorzi, Fallimento della holding società di fatto sulla base di crediti risarcitori per abusiva attività di direzione e coordinamento; Trib. Salerno 11 giugno 2012, in Dir. fall. 2014, II, 514 s. con nota di Murino, Brevi note sul fallimento della holding personale (persona fisica e società di fatto tra persone fisiche) e sugli incerti confini tra responsabilità civile ed impresa commerciale; Trib. Parma 13 marzo 2014, cit. 138 (che parla di società “completamente asservite alle esclusive esigenze finanziarie e personali della famiglia”). Analogamente Trib. Torre Annunziata 9 maggio 2013, in Dir. fall., 2014, II, con nota di Macchiarulo, I presupposti di fallibilità di una holding società di fatto; Trib. Pordenone 13 giugno 2014 e Trib. Pordenone 24 giugno 2014 inediti; App. Napoli, 1° agosto 2014, cit., 677; Trib. Roma 19 dicembre 2012, in ilcaso.it; Trib. Milano 4 febbraio 2016, in il caso.it (le ultime due sentenze riferite con il medesimo percorso all’holder persona fisica). Cass. 23 giugno 2015  n. 12979, cit., delinea una fattispecie in cui l’abuso delle controllate da parte della holding è realizzato mediante una ingerenza diretta dei soci come amministratori di fatto in uno schema in cui le due figure di dominus abusivo e gestore di fatto non sono alternative ma cumulative. Sullo schema più in generale delle società subornate mi permetto di rinviare a Fimmanò, Abuso di direzione e coordinamento cit, 296 s.

[77] Così Bassi, Il fallimento della società con soci a responsabilità limitata , 32.

[78] Bigiavi, Società controllata e società adoperata "come cosa propria",  cit. 623

[79] Si è evidenziato che persino se ci si volesse limitare ad ammettere la configurabilità di una società di fatto fra la società di capitali fallita e uno o più soci “tiranni” nessuno dei quali eserciti anche una propria autonoma impresa, sarà stabilmente carente il requisito della formazione di un fondo comune, in quanto il patrimonio della persona giuridica non è giuridicamente suscettibile di confluire in via di fatto in un coacervo patrimoniale più ampio (Rondinone, Tecniche di coinvolgimento cit., 1075).

[80] Trib. Milano 30 settembre 2013, cit, 816 rileva che della supersocietà di fatto costituiscono elementi essenziali, nei rapporti interni tra le parti, l’accordo avente ad oggetto l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili, il fondo comune costituito da conferimenti dei soci finalizzati all’esercizio dell’attività medesima, l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista dell’esercizio dell’attività, l’alea comune dei guadagni e delle perdite, nonché, nei confronti dei terzi, l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di uno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole convincimento dell’esistenza della società (Cass., n. 4529 del 2008; Cass., n. 9250 del 2006; Cass., n. 12663 del 1998; Cass., n. 4089 del 2001; Cass., n. 1573 del 1984; Cass., n. 84 del 1991).

[81] La giurisprudenza di legittimità già da oltre un ventennio si è pronunciata in relazione al campo di estensione del divieto, imposto ai soci delle società, di assumere un patto tendente a restringere il rischio d’impresa, sancendo che il divieto sancito dall’art.2265 c.c., valevole per ogni modello societario, è volto ad evitare non solo clausole statutarie, ma anche accordi parasociali che alterino tra i soci la ripartizione interna del rischio d’impresa, in modo tale che uno o più soci siano esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite e risultino in questo modo deresponsabilizzati rispetto all’esercizio prudente ed avveduto dei diritti sociali, o al contrario abbia solo gli svantaggi e le responsabilità derivanti dal vincolo sociale, in difformità all’interesse della società e all’obiettivo di salvaguardia. Il divieto in questione, in effetti, si basa sul principio per il quale è carattere essenziale di ogni società – qualunque ne sia il tipo e l’organizzazione – la partecipazione dei soci ai risultati dell’attività sociale, sicche´ un patto  che ‘‘avesse la funzione essenziale di eludere il divieto dell’art. 2265 c.c. diverrebbe un negozio in frode alla legge non meritevole di autonoma tutela ed incorrente a sua volta nella previsione di nullità dell’articolo citato’’ (Cass. 29.10.1994 n. 8927 in Società, 1995, 178 e segg., con nota di Baffi, Il patto leonino nell’ambito di partecipazione a scopo di finanziamento, in Giur. comm., 1995, II, 478, con nota di Ciaffi, Finanziaria regionale e patto leonino, in N.g.civ.comm., 1995, I, 1161, con nota di Tedeschi, Sul divieto di patto leonino, e in Notariato, 1995, 244., con nota di La Porta, Patti parasociali e patto leonino). Cfr. in tema anche  Abriani, Il divieto di patto leonino. Vicende storiche e prospettive applicative, in Quaderni di Giur. Comm., 1994;  Sraffa, Patto leonino e nullità del contratto sociale, in Riv. dir. comm., 1915, II, 956 s.



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