CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 18/12/2013 Scarica PDF
Il fallimento delle "società pubbliche"
Francesco Fimmanò, Professore ordinario di diritto commerciale presso l'Università delle camere di commercio "Universitas Mercatorum" di Roma e Vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Corte dei contiSOMMARIO - 1. La società a partecipazione pubblica nel più recente orientamento della Cassazione; - 2. L’origine e l’evoluzione del problema; - 3. Attività d’impresa ed “organismo di diritto pubblico”; - 4. La società pubblica come imprenditore commerciale; - 5. Natura del soggetto e procedure concorsuali.
1. La società a partecipazione pubblica nel più recente orientamento della Cassazione
Il titolo di questo scritto evoca oltre al problema giuridico dell’assoggettabilità delle società a partecipazione pubblica alle procedure concorsuali la circostanza storica, rilevante sul piano socio-economico, del risultato “fallimentare” della tendenza espansiva negli ultimi venti anni degli enti pubblici nell’uso del modello societario per la gestione di attività e servizi di interesse pubblico e collettivo.
In realtà come vedremo le due questioni, tanto diverse, anche sul piano dell’approccio, sono in realtà intimamente connesse[2]. Nel nostro Paese, infatti, le pubbliche amministrazioni, incentivate dallo stesso legislatore, hanno cercato a tutti i costi, di creare e poi mantenere la “sacca” del privilegio derivante dall’affidamento diretto della gestione di tali attività e servizi pubblici a società partecipate, in deroga ai fondamentali principi della concorrenza tra imprese e della trasparenza. La Corte dei Conti ha contato, nel momento culminante del ciclo espansivo, nel 2009 (c’è stata poi una curva discendente), 5.860 “organismi” partecipati da 5.928 enti pubblici locali con un incremento dell’11,08% rispetto al dato del 2005. Poco meno del 65% di questi organismi partecipati aveva natura societaria con prevalenza delle società per azioni, mentre circa il 35% ha forma giuridica diversa dalla società, in prevalenza consortile. Da una parte, v’è stata la progressiva tendenza ad ampliare l’ambito dei servizi pubblici includendo non solo quelli aventi per oggetto attività economiche incidenti sulla collettività, ma anche quelli riguardanti attività tendenti a promuovere lo sviluppo socio-economico delle comunità locali, fino ad arrivare ad affidare a società partecipate addirittura funzioni che, lungi dal rientrare nell’ambito dei servizi pubblici in senso proprio, costituiscono tipiche attività istituzionali o strumentali dell’ente[3]. Dall’altra parte si è sviluppato in modo esponenziale un modello di gestione mediante società controllate (c.d. in house) in un’ottica rivolta (solo) formalmente alla aziendalizzazione dei servizi e ad una privatizzazione effettiva, in realtà sostanzialmente diretta ad eludere i procedimenti ad evidenza pubblica ed a sottrarre interi comparti dell’amministrazione ai vincoli di bilancio, anche in considerazione dell’applicazione solo di recente all’ente-capogruppo dei principi di consolidamento di diritto societario a partire dall’elisione delle partite reciproche[4].
Questa tendenza ha avuto l’effetto di trasformare questo modello di gestione da strumento di efficienza in strumento di protezione e nei casi peggiori in escamotage per eludere i c.d. patti di stabilità e le regole di contabilità pubblica. La tendenza espansiva ha subito, negli ultimi anni, almeno da un punto di vista formale, una inversione. Prima il decreto c.d. Bersani sulle liberalizzazioni e poi, nella stessa linea, le leggi finanziarie per gli anni successivi hanno posto un argine all’utilizzo improprio dello specifico fenomeno organizzativo. A completamento del cambio di rotta il legislatore, da qualche tempo, ha previsto che le limitazioni di finanza pubblica stabilite per gli enti territoriali in materia di incremento della spesa e le procedure per l’acquisto di servizi e per l’assunzione di personale si applicano anche alle società a partecipazione pubblica cui siano stati affidati servizi. La magistratura contabile, infatti, ha ripetutamente segnalato le distorsioni che si riscontrano nella gestione delle società, in relazione ai vincoli finanziari e di personale che fanno capo agli enti territoriali e ha evidenziato la necessità che queste entità fossero assoggettate alla stessa disciplina vincolistica degli enti di riferimento.
Il processo di normalizzazione (finalmente in corso) ha fatto emergere i disastri contabili e finanziari prodotti in questi anni e occultati nelle partecipate non consolidate, con la conseguenza che molte di queste società pubbliche sono divenute irrimediabilmente insolventi per l’impossibilità degli enti di coprirne le perdite.
All'opera di “correzione” degli abusi ha preso parte anche la giurisprudenza fallimentare che dopo una fase di incertezza è adesso orientata in modo netto verso l’assoggettamento di queste società alle procedure concorsuali, con la prevedibile conseguente esplosione di questioni nuove riguardanti i diversi e concorrenti regimi di responsabilità civile, penale, contabile ed amministrativa. Ciò per non parlare degli effetti dirompenti dell’abuso di attività di direzione e coordinamento posta in essere dagli enti pubblici sulle controllate in violazione dei criteri di corretta gestione societaria ed imprenditoriale, che oltre alla responsabilità sussidiaria ha generato la violazione delle regole di contabilità pubblica, in ordine all’assunzione indiretta di spese di ammontare indeterminato (quale è quella derivante dalla responsabilità ex art. 2497 c.c.)[5].
In questo quadro la Cassazione in un recente arresto[6] è pervenuta ad una serie di conclusioni sistematiche assolutamente rilevanti rispetto al tema che ci occupa.
Innanzitutto i giudici di legittimità hanno affermato che una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale. Peraltro proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore che - negli ambiti da esse delimitati attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato - può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica.
La Suprema Corte ha richiamato l’art. 4 della legge n. 70/75, che nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge,evidentemente richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco. Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono sul modo in cui essa opera nel mercato né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica.
L’eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo, si legge sempre nella sentenza, non appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile.
Insomma per i giudici di legittimità ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non è il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto. Se così non fosse si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale sarebbero esentate dal fallimento. Viceversa, una volta che il legislatore ha permesso di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, da ciò consegue l’assunzione dei rischi connessi all’insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza.
La scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali (e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico) comporta, per il Supremo consesso, anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto, attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza.
Qualche mese prima una certa giurisprudenza di merito aveva affrontato, e risolto in modo assai simile, con diverse sentenze “sistematiche” e “complementari” il tema della insolvenza delle c.d. società pubbliche, sviluppando in modo analitico tutte le questioni poste dalla evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale[7].
Sulla base di questo orientamento che ha contaminato in positivo la giurisprudenza di legittimità, tuttavia altra giurisprudenza di merito subito successiva, ha eccepito che al fine di accertare l’assoggettabilità di un soggetto giuridico alla disciplina concorsuale occorre innanzitutto che quest’ultimo non solo non sia stato previamente qualificato espressamente dalla legge come Ente pubblico (clausola negativa), ma anche che in capo allo stesso sia possibile riconoscere simultaneamente la qualifica di “imprenditore” che esercita una “attività commerciale”[8]. Se da un lato le società in mano pubblica (anche quando siano concessionarie esclusive di servizi pubblici essenziali, forniscano i beni od i servizi da esse prodotti esclusivamente all’ente pubblico che ne è l’unico socio, siano alimentate da risorse pubbliche, siano sottoposte a penetranti poteri di ingerenza e di controllo di carattere pubblicistico, siano ad altri specifici effetti, equiparate agli enti pubblici), non possono essere definite in linea generale enti pubblici, salvo che, per il dovuto rispetto del divieto di cui all’art. 4 della legge n. 70 del 1975, sia la legge a definirle tali ovvero a fornire indicazioni ermeneutiche tali da indurre a ritenere del tutto impredicabile il contrario. Dall’altro lato secondo i giudici la società di capitali tuttavia è un contratto, seppur plurilaterale, ed ai fini della qualificazione della stessa come commerciale o meno (elemento che attiene alla causa del contratto) occorre comunque avere riguardo non solo al mero dato formale ma anche e agli elementi valutativi concreti e, quindi, alla possibilità, astrattamente derivante dallo statuto ovvero in concreto esercitata di “tipo” commerciale. La prescrizione dell’art. 1 l.fall. importerebbe quindi un accertamento specifico in ordine al requisito della commercialità, peraltro ben coniugabile col disposto del secondo comma dell’art. 2195 c.c., consentendo di escluderlo (come avviene nel caso di scrutinio sulle “cooperative”) nelle limitate ipotesi in cui l’attività economica svolta non consenta, né in astratto né in concreto, per prescrizione di legge o regolamento (e non di certo per libera autodeterminazione degli organi amministrativi), come nel caso di specie, il perseguimento dell’attività precipua lucrativa.
Tuttavia la Cassazione in una sentenza della fine del 2012[9] aveva fissato, al riguardo, un importante principio che in qualche modo chiude il cerchio e cioè che le società a partecipazione pubblica costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili a fallimento, indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non dall’inizio del concreto esercizio dell’attività d’impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore commerciale individuale. Sicchè, mentre quest’ultimo è identificato dall’esercizio effettivo dell’attività, relativamente alle società commerciali è lo statuto a compiere tale identificazione, realizzandosi l’assunzione della qualita` in un momento anteriore a quello in cui è possibile, per l’impresa non collettiva, stabilire che la persona fisica abbia scelto, tra i molteplici fini potenzialmente raggiungibili, quello connesso alla dimensione imprenditoriale[10].
2. L’origine e l’evoluzione del problema
Il problema generale della disciplina da applicare alle società in mano pubblica è nato in passato dalla errata impostazione secondo cui la partecipazione dello Stato o di una pubblica amministrazione ad una società di capitali potesse alterarne la struttura, dando vita a un “tipo” di diritto speciale. In particolare una certa giurisprudenza amministrativa, partendo dal principio della neutralità della forma giuridica rispetto alla natura dello scopo, è arrivata ad attribuire alle società partecipate una connotazione pubblicistica [11], frutto di una sostanziale mutazione genetica nel senso di una riqualificazione del soggetto. In realtà tale impostazione è infondata in quanto si può parlare di società di diritto speciale soltanto laddove una espressa disposizione legislativa introduca deroghe alle statuizioni del codice civile, nel senso di attuare un fine pubblico incompatibile con la causa lucrativa prevista dall’art. 2247 c.c. [12], con la conseguente emersione normativa di un tipo con causa pubblica non lucrativa [13].
Viceversa, a parte i casi di società c.d. legali (istituite, trasformate o comunque disciplinate con apposita legge speciale)[14], ci troviamo sempre di fronte a società di diritto comune, in cui pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella privatistica che regola il funzionamento della società convivono[15].
L’ente pubblico in linea di principio può partecipare alla società soltanto se la causa lucrativa sia compatibile con la realizzazione di un proprio interesse [16]. La Suprema Corte ha, infatti, rilevato che l’interesse che fa capo al socio pubblico si configura come di rilievo esclusivamente extra sociale, con la conseguenza che le società partecipate da una pubblica amministrazione hanno comunque natura privatistica. Il rapporto tra società ed ente è di assoluta autonomia non essendo consentito al secondo di incidere unilateralmente sullo svolgimento dello stesso rapporto e sull’attività della società mediante poteri autoritativi, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario e mediante la nomina dei componenti degli organi sociali [17].
Insomma il legislatore ha inteso equiparare le società partecipate da una P.A. a quelle partecipate esclusivamente da soggetti privati ed infatti nella Relazione al codice civile si legge che «in questi casi è lo Stato che si assoggetta alla legge della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici. La disciplina comune della società per azioni deve pertanto applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici senza eccezioni, salvo che norme speciali non dispongano diversamente» [18].
D’altra parte il codice civile dedica poche norme a queste società [19] e nessuna di esse è in grado di determinare effetti enucleativi di un “tipo” a se stante, dotato di una natura giuridica peculiare. Si tratta degli artt. 2449 e ss. c.c. [20], rinumerati dalla riforma [21] con disciplina sostanzialmente immutata, e dell’art. 2414 bis, comma 2, c.c. [22]. E la disciplina speciale dettata dal codice civile per le società pubbliche è stata ulteriormente ridotta negli ultimi anni con il progressivo assoggettamento, ormai quasi generalizzato, al diritto delle società comune per quanto riguarda organizzazione, funzionamento e governance.
Discorso affatto diverso riguarda l’attività svolta dalle società in esame e più in generale dalle società, anche partecipate da soli soggetti privati, che svolgano attività qualificabili come pubbliche o di pubblico interesse.
Ad esempio la normativa comunitaria e nazionale in tema di appalti pubblici comprende tra le pubbliche amministrazioni, assoggettate alle norme che impongono il rispetto dell’evidenza pubblica e delle procedure concorrenziali trasparenti conformi ai principi comunitari, non solo i soggetti formalmente pubblici, ma anche quelli con veste privata, ma sottoposti ad un controllo pubblico, al fine di evitare l’elusione dei vincoli procedimentali[23]. Nello stesso senso va la legislazione in tema di “criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi” [24]. Naturale conseguenza è che le relative controversie sono attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo alla luce dell’art. 103 Cost. [25]. E nello stesso senso va la disciplina sull’accesso agli atti [26], dopo che l’art. 15 della l. n. 15 del 2005 ha sostituito l’art. 22, della l. n. 241 del 1990, prevedendo che ai fini dell’accesso per “pubblica amministrazione” si intendono anche “i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”[27].
Sulla base della medesima impostazione è stato individuato l’ambito della giurisdizione della Corte dei Conti sulle società pubbliche ed in particolare quello relativo alla responsabilità amministrativa nei confronti di amministratori e dipendenti sia di società a partecipazione pubblica[28] sia privata, essendo sufficiente la natura oggettivamente pubblica del danno e cioè il collegamento anche indiretto con la finanza pubblica, a prescindere dalla natura giuridica del soggetto o dalla veste utilizzata[29]. In particolare la Cassazione ha riconosciuto la giurisdizione della magistratura contabile per le società a partecipazione pubblica solo là dove ed in quanto si arrechi un danno erariale all’azionista pubblico[30]. Il risarcimento va dunque all’erario poichè il danno è direttamente alle casse pubbliche e in via mediata alla partecipazione del socio pubblico[31]. Viceversa il corretto inquadramento sistematico comporta che ci siano due forme di responsabilità concorrenti[32] e settoriali, quella civilistica comune per danni, e quella erariale nei confronti del socio pubblico, da far valere con l’azione individuale del socio ex art. 2395 c.c. [33] e peraltro non preclusiva della stessa[34]. In verità con una recente sentenzaa Sezioni Unite [35] la Cassazione ha affermato la giurisdizione della Corte dei conti sulle società a partecipazione pubblica c.d. in house providing, pervenendo a questo risultato mediante “lo squarcio del velo della personalità giuridica della società”. Da questo punto di vista la sentenza può avere effetti sistemici e ben più rilevanti di quelli diretti. In buona sostanza la Cassazione riconosce la giurisdizione contabile sulle azioni di responsabilità ad amministratori e sindaci delle società in house costituite da enti locali per la gestione dei servizi pubblici e non lo fa mediante la riqualificazione della società in ente pubblico, ma addirittura qualificando la stessa società come un’articolazione della P.A. da cui promana. Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati a vincoli gerarchici, sarebbero preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla P.A. e a questa legati da un vero e proprio rapporto di servizio. Non ci sarebbe dunque un rapporto di alterità tra l'ente pubblico e la società in house che configurerebbe una sorta di patrimonio separato e non una autonoma persona giuridica.
Dunque le società a partecipazione pubblica sono assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilievo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e le finanze; saranno invece assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini dell’organizzazione e del funzionamento[36]. E ciò vale anche per l’istituzione, la modificazione e l’estinzione, ove gli atti propedeutici alla formazione della volontà negoziale dell’ente sono soggetti alla giurisdizione amministrativa, ma gli atti societari rientrano certamente nella giurisdizione del giudice ordinario[37]. Così per le controversie riguardanti l’organizzazione societaria, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che non è sufficiente il mero coinvolgimento dell’interesse pubblico per giustificare l’attrazione in capo al giudice amministrativo. In questo senso è stato ad esempio risolto il caso della nomina o della revoca degli amministratori da parte di un ente pubblico: l’atto persegue un fine pubblico ma rimane un atto societario in quanto espressione di una prerogativa squisitamente privatistica e non certo di un potere pubblicistico[38]. Né la partecipazione dell’ente giustifica valutazioni diverse della condotta degli organi sociali ai fini delle loro responsabilità gestionali o di controllo[39].
In linea con questa impostazione è la giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui una società non muta la sua natura di soggetto di diritto privato sol perché un ente pubblico è titolare di una parte o della totalità del suo capitale, potendo in tal modo, indirettamente, influenzarne le scelte organizzative ed operative secondo le regole proprie del diritto societario, pur se sulla base di determinazioni adottate dai propri organi secondo le regole proprie del diritto amministrativo, essendo anche in tal caso possibile distinguere la sfera delle situazioni giuridicamente riferibili alla società e/o ai suoi organi da quella delle situazioni giuridicamente riferibili all’ente pubblico e/o ai suoi organi[40]. Nella stessa linea i pronunciamenti che hanno sancito l’applicazione della legge n. 231 del 2001 alle società a partecipazione pubblica anche se svolgono funzioni tipiche dell’ente territoriale, secondo cui la natura del soggetto comporta l’applicazione delle norme e viceversa la natura dell’attività, il trasferimento di risorse pubbliche e la titolarità di poteri coattivi di imposizione e riscossione non esonerano la società pubblica dall’applicazione della responsabilità amministrativa da reato per illeciti compiuti da suoi amministratori e dirigenti. Insomma anche in questo caso la scelta della veste comporta l’applicazione dello statuto della società commerciale laddove lo svolgimento della medesima attività in via diretta o a mezzo un ente diverso ne determinerebbe l’inapplicabilità[41].
3. Attività d’impresa ed “organismo di diritto pubblico”
Questo quadro delineato (in cui il soggetto giuridico e la sua organizzazione sono disciplinati dalle regole civilistiche e la relativa attività può essere disciplinata da regole giuspubblicistiche) abbastanza chiaro è stato “appannato” dalla sovrapposizione di norme e definizioni aventi ad oggetto l’attività (e non il soggetto che la esercita) e dalla conseguente giurisprudenza amministrativa.
L’esempio più eclatante è stato l’uso “atecnico” (frutto di una mancata visione interdisciplinare) dell’espressione “organismo di diritto pubblico” che è stata utilizzata per riqualificare l’imprenditore commerciale come soggetto di natura pubblica e non semplicemente, come operatore rientrante tra le amministrazioni aggiudicatrici, che, com’è noto, sono tenute, nella scelta del contraente, sia al rispetto della normativa comunitaria che al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale[42]. Insomma una cosa è l’imprenditore commerciale (società a partecipazione pubblica o meno, concessionaria, o meno, di servizi pubblici) che resta sempre tale ed assoggettato al relativo statuto ed altra cosa è la sua qualificazione di “organismo pubblico” ai fini delle norme cui assoggettare la sua particolare attività[43]. Ed ora anche la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto che la qualificazione come organismo di diritto pubblico non determina di per sé l’esonero dal rispetto delle regole civilistiche , se in fatto tale soggetto abbia agito come operatore economico ben potendo (sussistendo i requisiti previsti) un Ente con personalità di diritto privato essere riconosciuto quale organismo di diritto pubblico e viceversa [44]. E la suprema Corte ha confermato questi principi persino per quel ridotto numero di “società legali” per le quali una ipotetica riqualificazione della natura troverebbe almeno la sponda normativa, cui la sentenza in epigrafe fa riferimento[45].
Questo è il punto nodale della questione che ci riguarda e che la giurisprudenza di legittimità e di merito[46] ha ora perfettamente colto[47], evidenziando peraltro che l’art. 3, co. 26, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, recante il codice degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, soltanto «ai fini del codice» medesimo, definisce «organismo di diritto pubblico ... qualsiasi organismo, anche in forma societaria: - istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; - dotato di personalità giuridica; - la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico»[48].
Anzi proprio queste disposizioni legislative di carattere settoriale, come afferma ora pure la Cassazione, costituiscono la migliore dimostrazione dell’esigenza e dell’intento del legislatore di attrarre solo a determinati effetti nella sfera del diritto pubblico soggetti che generalmente orbitano e che sono dunque destinati, per il resto, a rimanere nella sfera del diritto privato.
La confusione è nata da una errata impostazione diretta a giustificare la volontà politica di porre al centro del sistema il modello della società c.d. in house, in cui l’ente pubblico esercita sulla società un controllo analogo, quanto meno per prerogative ed intensità, a quello esercitato sui propri servizi, ispirata - in realtà - dal mero obiettivo di conservare, come detto, la sacca del privilegio derivante dall’affidamento diretto della gestione di attività e servizi pubblici a società partecipate. Questa discutibile esigenza ha portato al tentativo di enucleare un vero e proprio mostro giuridico e cioè quello della società intesa come articolazione organizzativa dell’ente, posta in una situazione di delegazione organica o addirittura di subordinazione gerarchica, con l’effetto di pretendere poi addirittura la mancata applicazione dello statuto dell’imprenditore. Questo tentativo non supportato normativamente dall’emersione positiva di un “tipo” ha generato una confusione che non tiene conto che alcune categorie concettuali e sistematiche di diritto pubblico non sono affatto applicabili sic et simpliciter al diritto commerciale ed al diritto fallimentare in particolare [49]. Intanto si giustifica un modello privatistico in cui l’ente locale si occupa, in forza della sua autonomia privata [50], della governance delle sue partecipate in quanto i regimi di responsabilità, gestione e organizzazione siano quelli del diritto societario comune, seppure con alcuni accorgimenti nei limiti del principio di tipicità, e non altri. Non si può utilizzare una fictio per emulare istituti di tutt’altra natura quali l’azienda speciale oppure l’ente pubblico economico, al fine di veder applicati solo i vantaggi derivanti dal modello societario, cercando di sottrarsi agli svantaggi derivanti dall’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale.
4. La società pubblica è un imprenditore commerciale
Il quadro delineato ha prodotto una serie di pericolosi effetti discorsivi, anche in parte della giurisprudenza “civilistica”[51], a cominciare da quella che ha talora escluso l’assoggettamento delle società pubbliche allo statuto dell’imprenditore commerciale ed in particolare alle procedure concorsuali [52], mediante «la valorizzazione degli aspetti sostanziali[53] e dell’attività di tali società[54]» a discapito degli aspetti formali e della veste giuridica assunta dalle stesse[55].
Nella medesima logica, anche se con risultati diametralmente opposti, altra giurisprudenza, partendo dal «progressivo stemperamento della tradizionale distinzione tra ente pubblico e società di diritto privato»[56], ha qualificato come impresa commerciale ed ammesso alla procedura di amministrazione straordinaria un consorzio tra comuni, neppure costituito in forma societaria [57]. Secondo questa impostazione il corretto approccio per identificare la natura dell’ente sarebbe quello ispirato ad un metodo funzionale e non tipologico comportante un’applicazione di disposizioni di diritto pubblico, qualora espressamente previste, e di diritto privato, qualora, in assenza di diverse previsioni, non vi siano ragioni di deroga. I giudici hanno ravvisato la proficuità dell’individuazione del carattere di necessità dell’ente rispetto alla realizzazione delle finalità, che condurrebbe ad una soluzione negativa, quando si accerti che la procedura concorsuale interferisca con l’ordinaria attività dell’ente pubblico, con sostituzione degli organi della procedura medesima «a quelli politici di gestione, comportante un’inammissibile interferenza giudiziaria sulla sovranità dell’ente e dei suoi organi eletti, con pregiudizio degli effetti di spossessamento del debitore e di cessazione dell’attività di impresa sulla continuatività e regolare esecuzione del servizio pubblico, rispondente alla realizzazione di interessi generali»[58]. Nello stesso senso altra giurisprudenza di merito che ha enucleato una sorta di società pubblica che presenti il carattere della ‘‘necessità’’, nel senso che la relativa esistenza sarebbe necessaria per l’ente territoriale che vi intrattiene rapporti connessi a tale valutazione. La necessità sarebbe legata allo svolgimento di determinati servizi essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi (quali, ad esempio, il servizio di raccolta dei rifiuti, quello di trasporto pubblico etc.). Carattere necessario assumerebbe non tanto il determinato soggetto o l’ente che svolge il servizio, quanto il servizio medesimo, e da questo si passerebbe alla necessarietà, sia pure in via temporanea, del soggetto che in quel momento ne è titolare, nel senso che l’ente territoriale ritiene essenziale l’esistenza e la operatività del soggetto fino a quando non abbia provveduto alla sua sostituzione, generando una incompatibilità tra l’eventuale suo assoggettamento a procedura fallimentare (ed il conseguente spossessamento) e la tutela degli interessi pubblici[59].
In senso contrario altra giurisprudenza di merito si è pronunciata per l’ammissibilità della riqualificazione [60], valorizzando le argomentazioni della sentenza n. 466 del 1993 della Corte Costituzionale [61]. Si è in particolare rilevato che la veste formale assunta dalle società che sono venute a sostituire gli enti pubblici economici sottoposti a trasformazione non può dirsi caratterizzata da una naturale incompatibilità con i caratteri propri del controllo affidato alla Corte dei Conti dalla Costituzione e regolato dalla legge n. 259, evidenziando così il rilievo secondario e marginale della questione della natura dell’ente rispetto ai presupposti per l’esercizio del controllo[62]. Nello stesso alveo si è mossa la giurisprudenza che ha affermato la natura di ente pubblico di quella società di capitali in cui vi sia stato il trasferimento dell'esercizio di una pubblica funzione, di modo che la medesima vada a rivestire la qualifica di organo indiretto della pubblica amministrazione[63].
Tale approccio è basato anche sulle sentenze nelle quali la giurisprudenza costituzionale ha individuato quale presupposto del controllo della Corte dei conti proprio la provenienza pubblica delle risorse [64] ed in quelle in cui si distingue opportunamente ciò che riguarda l’area dei rapporti generali del diritto privato e ciò che concerne l’area dell’organizzazione pubblica [65]. In relazione a tali società, resta dunque ferma la competenza dello Stato per «gli aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica, per i quali sussista un'esigenza di uniformità a livello nazionale», non «esclusa dalla presenza di aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche», che «comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato» e include «istituti caratterizzati da elementi di matrice pubblicistica, ma che conservano natura privatistica». La Corte costituzionale ha ricondotto le norme dirette «a definire i confini tra l’attività amministrativa e l’attività d’impresa, soggetta alle regole del mercato», «alla competenza legislativa esclusiva in materia di ordinamento civile» e «in materia di tutela della concorrenza» [66].
In realtà, indipendentemente dalla natura dell’attività svolta, la società a partecipazione pubblica è per l’ordinamento un imprenditore commerciale e come tale assoggettato al relativo statuto a cominciare dalle procedure concorsuali [67]. La Suprema Corte ha, d’altra parte, avuto modo di affermare, come visto, che le società partecipate da un ente pubblico non perdono la loro natura privatistico-commerciale per il solo fatto che il loro capitale sia alimentato da conferimenti provenienti da soggetti pubblici[68].
Orbene il nostro ordinamento giuridico “nomina” e disciplina l’imprenditore commerciale, cioè il soggetto che intraprende (sia individuale che collettivo) e non l’impresa ovvero l’attività economica esercitata. Nell’applicazione del relativo statuto non rileva la natura - o la necessarietà - dell’attività svolta oppure gli interessi ad essa sottesi[69], ma la natura del soggetto, per il quale il legislatore non prevede alcuna riqualificabilità: tant’è che ad esempio nella legge fallimentare continuano a fallire gli imprenditori e non le imprese[70]. Se così non fosse sarebbero esentate dall’applicazione del sistema di regole dettate per l’imprenditore commerciale anche le società a capitale totalmente privato laddove siano concessionarie di un servizio pubblico od affidatarie comunque di attività di natura o interesse squisitamente pubblico, ciò quanto meno per evitare sperequazioni di mercato e violazioni delle regole della concorrenza[71] .
Peraltro anche quando la società partecipata gestisce un servizio pubblico non è mai titolare di quel servizio ma semplice affidataria ad opera dell’ente pubblico socio-affidante, quindi l’applicazione dello statuto dell’imprenditore, a cominciare dalla dichiarazione di insolvenza[72], non determina alcuna ingerenza dell’autorità giudiziaria nell’attività della pubblica amministrazione né impedisce l’esecuzione di un servizio necessario alla collettività[73].
Quest’ultima rimane l’unica titolare del servizio e del potere di organizzarlo, per cui in caso di insolvenza della società partecipata-affidataria o questa continuerà a svolgerlo in via temporanea in funzione della vendita a terzi dell’azienda[74] o del risanamento (specie in caso di assoggettamento ad amministrazione straordinaria, o comunque mediante l’esercizio provvisorio in caso di fallimento[75]), o gli organi della procedura procederanno ad affittare l’azienda con il conseguente subentro nel contratto ex art. 2558 c.c.[76], o, ancora, a seguito dello scioglimento del rapporto convenzionale, la P.A. procederà a riaffidare il servizio secondo le regole e le opzioni che vedremo di seguito[77].
La Conferma arriva anche dalla Suprema Corte secondo cui ai fini dell’esclusione di una società mista dal fallimento non è di per sé rilevante la soggezione al potere di vigilanza e di controllo pubblico, che consista nella verifica della correttezza dell'espletamento del servizio comunale svolto, riguardando, pertanto, la vigilanza l'attività operativa della società nei suoi rapporti con l’ente locale o con lo Stato, non nei suoi rapporti con i terzi e le responsabilità che ne derivano[78].
5. Natura del soggetto e procedure concorsuali
Il recente arresto della Cassazione e le sentenze di merito subito precedenti[79] individuano il divieto di cui all’art. 4 della legge 20 marzo 1975, n. 70, che per porre un freno all’incontrollata proliferazione di enti pubblici, dispose la soppressione di tutti quelli esistenti alla data della sua entrata in vigore, fatte salve le sole eccezioni dalla stessa specificamente indicate, al contempo vietandone l’istituzione o il riconoscimento di nuovi mediante atti non aventi forza di legge. Ciò a conferma del fatto che solo una legge potrebbe riqualificare una società a partecipazione pubblica come ente pubblico e quando ha ritenuto di farlo lo ha fatto [80].
Peraltro la novella del diritto societario e del diritto fallimentare, in linea con l’originaria concezione e nonostante la proliferazione delle società in mano pubblica, ha confermato la riconducibilità di queste a quelle di diritto comune, conservando la lettera dell’art.1, co. 1°. l.f. che non menziona le società pubbliche. La riqualificazione di una società di capitali in ente sostanzialmene pubblico affermata da un diritto pretorio, è una operazione interpretativa non consentita in base alla predetta riserva di legge, ed in virtù del principio di cui all’art. 101 Cost., che impedisce di negare l’efficacia precettiva delle norme oltre i limiti consentiti dall’interpretazione, la quale non può mai porsi contra legem.
Inoltre l’art. 2 del d.l. 23 dicembre 2003 n. 347, conv. nella legge 18 febbraio 2004 n. 39 (come modificato dall’art. 1, co. 3 del d.l. 28 agosto 2008 n. 137), ha previsto espressamente “per le imprese operanti nel settore di servizi pubblici essenziali, l’ammissione immediata alla procedura di amministrazione straordinaria, la nomina del commissario straordinario…” [81].
Insomma, al di là del quadro sistematico, dai menzionati dati normativi emerge con tutta chiarezza che il legislatore da un lato non ha mai ritenuto che le società pubbliche possano essere escluse dalle disposizioni sul fallimento, e dall’altra ha previsto l’assoggettamento espresso alle procedure concorsuali delle società che operano nel settore dei servizi pubblici essenziali. Peraltro gli interessi tutelati dal fallimento non possono essere ristretti, specie a seguito della riforma, nell’ambito della mera tutela delle ragioni del ceto creditorio; e, anche ove così fosse, questa tutela è da considerare “come un altissimo interesse pubblico”[82] in contrasto con gli interessi particolaristici sia del debitore sia dei singoli creditori. Più in generale la liquidazione concorsuale evita il propagarsi dell’insolvenza e consente una riallocazione delle risorse economiche non utilizzate, costituendo uno strumento di tutela dell’interesse economico generale e quindi l’area di esonero dalle ordinarie procedure concorsuali non può essere indebitamente estesa nel silenzio del legislatore[83].
La società di capitali a partecipazione pubblica è, in virtù della forma scelta, un imprenditore commerciale a prescindere dall’attività economica svolta e dalle modalità attuative di tale attività (allo stesso modo in cui non rilevano le dimensioni dell’impresa esercitata quando si opta per la veste societaria). La Suprema Corte ha reiteratamente affermato, in linea con la migliore dottrina, che le società costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili al fallimento indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non dall’inizio del concreto esercizio dell’attività d’impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore individuale[84]. Sicché, mentre quest’ultimo è identificato dall’esercizio effettivo dell’attività, relativamente alle società “è lo statuto a compiere tale identificazione”, realizzandosi l’assunzione della qualità in un momento anteriore a quello in cui è possibile per l’impresa non collettiva stabilire che la persona fisica abbia scelto, tra i molteplici fini potenzialmente raggiungibili, quello connesso alla dimensione imprenditoriale[85].
Per quanto concerne l’attività imprenditoriale, la rilevanza giuridica, nell’aspetto di qualificazione della persona fisica come imprenditore commerciale, non può ricadere nella prospettazione interna - perché le qualificazioni giuridiche operano su comportamenti rilevanti nella realtà - ma va determinata nel momento della esteriorizzazione. Se, dunque, presupposto della rilevanza giuridica è la scelta effettuata dal soggetto tra i suoi potenziali fini indeterminati, tale scelta, una volta manifestata, assume il carattere della definitività e si traduce in concreto nell’esercizio professionale di un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, ai sensi dell’art. 2082 c.c. E’, pertanto, il compimento di questa attività a rappresentare il momento giuridicamente rilevante per l’attribuzione dello status in esame [86]. Ciò non vale per le società di capitali, dotate personalità giuridica e contraddistinte, sin dall’origine, dall’oggetto sociale scelto, conoscibile dai terzi per effetto della pubblicità commerciale, e per le quali ciò che giuridicamente rileva, come visto, è la previsione statutaria di un’attività commerciale, piuttosto che il suo effettivo esercizio. La società di capitali è «geneticamente» destinata al fine unico dell’esercizio di una attività economica qualificata come commerciale e ciò a prescindere dalla possibilità di modificare lo scopo sociale. L’indicazione statutaria determina la capacità giuridica ed il motivo dell’esistenza dell’ente: l’attributo imprenditoriale, che è eventuale quando si tratta di qualificare il comportamento economico di una persona fisica, diviene “naturale” per una società. Mentre nel primo caso non vi è connessione diretta tra persona fisica ed attività, nel secondo, invece, il rapporto è diretto ed immediato, perché la destinazione commerciale è immanente al soggetto collettivo [87].
Tutto ciò vale dunque anche quando la società svolga attività e produca servizi pubblici “senza rilevanza economica”[88] ed indipendentemente dal fatto che si collochi in un “mercato concorrenziale”[89] o che svolga attività a favore dei terzi (oltre che in house providing a favore dell’ente socio).
E’ stato opportunamente ricordato che la c.d. “commercialità” va recuperata in negativo dalla previsione degli art. 2135 c.c. nel senso che è commerciale l’imprenditore che non eserciti attività agricola (o, meglio ancora, che le attività commerciali coprono tutto l’ambito delle attività d’impresa, sia pure a carettere industriale, riconducibili all’art. 2082 c.c.)[90]. In positivo si considerano attività commerciali quelle elencate nell’art. 2195 c.c., che indica tuttavia solo gli “imprenditori soggetti a registrazione”; la natura commerciale la si desume, in realtà, dal secondo comma di detta norma secondo cui “le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano”. In tale direzione si afferma che la scelta del modello organizzativo societario, fatta eccezione per la società semplice, integra la sua natura di imprenditore commerciale e l’applicazione del relativo statuto, qualsiasi sia l’attività economica svolta[91]. Il profilo della “concorrenzialità non è un requisito necessario per postularne la commercialità e vale a qualificare piuttosto il regime in cui assicurare la libera competizione” delle imprese sul mercato[92]. Analogamente l’espletamento di attività a favore di terzi non costituisce condizione imprescindibile della commercialità, se è vero che sono tali e che possono indubbiamente fallire “le holding cd. pure che svolgono attività solo a favore delle partecipate”.
Per concludere “la scelta della pubblica amministrazione di acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta” [93] come la scelta di gestire un servizio pubblico essenziale, utilizzando il modello della società di capitali, anzichè l’azienda speciale o la concessione a terzi, comporta l’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale in pieno, qualsiasi sia l’attività economica svolta ed a prescindere dalla relativa collocazione in un mercato concorrenziale, e non solo i vantaggi derivanti dalla segregazione patrimoniale[94]. La volontà del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico comporta, come afferma ora la cassazione, anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza.
Insomma se da un lato si è voluto “approfittare” delle prerogative della “mano morta” dell’affidamento diretto alle proprie società, dall’altro se ne devono subire le conseguenze[95], altrimenti vi sarebbero gravissime ricadute per il complessivo equilibrio del sistema normativo (anche sul piano costituzionale), non consentendo, tra l’altro, di applicare né agli organi amministrativi e di controllo né ai creditori di tale società né ai loro correi le disposizioni penali della legge fallimentare che presuppongono la dichiarazione del fallimento o dell’insolvenza del debitore[96].
[1] Lo scritto è destinato al numero zero della Rivista “Gazzetta Forense”, a cura dell’Università Telematica Pegaso.
[2] Al riguardo mi permetto di rinviare a Fimmanò, L'ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e natura dell'attività, in Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza, (a cura di Fimmanò), Ricerche di Law & Economics, Milano, 2011, 12 s.; Le società di gestione dei servizi pubblici locali, in Riv. not., 2009, 897 s. In realtà autorevole dottrina sin dall’inizio del ciclo espansivo del modello organizzativo, metteva in guardia in ordine ai possibili tentativi di elusione delle norme in tema di contabilità pubblica attraverso lo strumento della società di diritto privato (Buonocore, Autonomia degli enti locali e autonomia privata: il caso delle società di capitali a partecipazione comunale, in Giur. comm., 1994, I, 33).
[3] Si tratta delle cosiddette società strumentali, e cioè quelle identificate dall’art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, come le società che svolgono attività rivolta agli stessi enti promotori o comunque azionisti della società, con funzioni di supporto delle amministrazioni pubbliche, quindi destinata essenzialmente alla P.A., differenziandosi per questo profilo dalle società che gestiscono servizi pubblici locali. La disciplina che le concerne mira ora ad «evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d'impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione». Per tale ragione il legislatore ha vietato alle stesse l'attività cd. extra moenia e, quando ciò accada, potrebbe essere necessario riflettere sull’esistenza degli elementi imprescindibili per l’assunzione della qualità di imprenditore commerciale (al riguardo Salvato, Le società pubbliche alla prova delle procedure concorsuali, in atti del Convegno “I debitori non fallibili: alternative e punti critici del nuovo diritto fallimentare”, Alba 16 novembre 2013, 7 s.)
[4] L’art. 6, commi 3 e 4, del D.L. n. 95 del 2012, estende alle società a totale partecipazione pubblica il potere ispettivo attribuito agli organi statali nei confronti delle amministrazioni pubbliche (comma 3) e prevede che comuni e province alleghino al rendiconto della gestione una nota informativa contenente la verifica dei crediti e dei debiti reciproci tra ente e società partecipate e, in caso di discordanze, adottino senza indugio i provvedimenti necessari ai fini della riconciliazione delle partite debitorie e creditorie (comma 4). L’art. 3 del D.L. 10 ottobre 2012, n. 174, art. 3 (convertito in legge dalla L. 7 dicembre 201, n. 213) ha inserito l’art. 147 ter nel testo unico degli enti locali, prevedendo penetranti controlli da parte dell'ente pubblico partecipante ed un bilancio consolidato riguardante le "aziende non quotate partecipate".
[5] Fimmanò, La responsabilità da abuso del dominio dell’ente pubblico in caso di insolvenza della società controllata, in Dir. fall., 2010, 724 s.
[6] Cass. 27 settembre 2013, n.22209 - Pres. Rordorf, Est. Cristiano, in Ilcaso.it, 2013.
[7] App. Napoli, Sez. I, 24 aprile 2013, n. 57, e App. Napoli, Sez. I, 27 maggio 2013, n. 346, in Fallimento, 2013, 1296 s. con nota di Fimmanò, La società pubblica, anche se in house, non è un ente pubblico ma un imprenditore commerciale e quindi è soggetta a fallimento; App. Napoli 27 giugno 2013, n. 84, Fall. Arzano Multiservizi spa (inedita) sempre nel senso della fallibilità, con il quale dopo aver richiamato il d. lgs. n. 165 del 2001- che individua le amministrazioni pubbliche - afferma che “…il rilievo pubblico di alcuni organismi strutturati in forma civilistica consente l’applicazione di determinati istituti di natura pubblicistica, ma non consente di qualificare l’ente come pubblico e di sottrarlo alla ordinaria disciplina codicistica”.
[8] Trib. Avezzano 26 luglio 2013 Pres. Forgillo – Est. Elefante, in Ilcaso.it, 2013 (secondo cui al di fuori delle ipotesi di società c.d. legali istituite, trasformate o comunque disciplinate da legge particolare . RAI, Cassa Depositi e Prestiti, Patrimonio dello Stato e simili, non esiste un tertium genus tra enti pubblici e persone giuridiche di diritto privato, presidiato da regole incerte di diritto pretorio, al più potendosi la disciplina pubblicistica sovrapporre, ai fini dell’azione di responsabilità nei confronti di amministratori degli enti partecipanti per danni riverberati negli enti partecipanti).
[9] Cass., 6 dicembre 2012, n. 21991, in Fallimento, 2013, 1273, con nota di Balestra, Concordato di società a partecipazione pubblica e profili di inammissibilità della domanda.
[10] La suprema Corte precisa che «il rapporto tra la società e l’ente locale è di assoluta autonomia, sicché non è consentito al Comune incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull'attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali. Invero, la legge non prevede alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, per le società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall'ente locale (…). Dunque, la circostanza che nella fattispecie la fallita sia una società per azioni con partecipazione pubblica del Comune non muta la sua natura di soggetto di diritto privato». La Cassazione inoltre afferma che la s.p.a. non perde la propria qualità di soggetto privato per il fatto che: gestisce un servizio pubblico, riscuotendo una tariffa; sia partecipata da enti pubblici; i mutui dalla stessa contratti siano garantiti dallo Stato; sia soggetta al potere di vigilanza e di controllo, il cui esercizio radica la giurisdizione amministrativa», se questo «consiste nell'attività di verifica nella correttezza dell'espletamento del servizio e riguarda, pertanto, l'attività operativa del gestore e, quindi, nella fattispecie, della società nei suoi rapporti con l’ente locale e con lo Stato e non certo i rapporti con i terzi e la responsabilità che ne deriva per la società stessa.
[11] Cfr. in particolare Cons. Stato, nn. 1206 e 1207 del 2001 e nn. 4711 del 2002 e 1303 del 2002.
[12] Al riguardo: Visentini, Partecipazioni pubbliche in società di diritto comune e di diritto speciale, Milano, 1979, 4 s.; Mazzarelli, La società per azioni con partecipazione comunale, Milano, 1987, 117; Marasà, Le «società» senza scopo di lucro, Milano, 1984, 353; Spada, La Monte Titoli S.p.a. tra legge ed autonomia statutaria, in Riv. dir. civ., 1987, II, 552.
[13] Al riguardo Guarino, La causa pubblica nel contratto di società, in Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza, a cura di Fimmanò, Ricerche di Law & Economics, Milano, 2011, 131 s.
[14] Ci riferiamo agli enti pubblici con mera struttura organizzativa societaria (cfr. al riguardo Ibba, Le società «legali», Torino, 1992, 340; Id., La tipologia delle privatizzazioni, in Giur. comm., 2001, 483 s.; Id., Le società “legali” per la valorizzazione, gestione e alienazione dei beni pubblici e per il finanziamento di infrastrutture. Patrimonio dello Stato e infrastrutture s.p.a, in Riv. dir. civ., 2005, II. 447; ed in un’ottica estensiva: Napolitano, Soggetti privati «enti pubblici»,in Dir. amm., 2003, 81 s.) previsti, trasformati o costituiti appunto in forma societaria con legge (ad es. l’art. 7 del D. L. 15/4/2002 n. 63, convertito dalla L. 15/6/2002, n. 112, ha istituito la Patrimonio dello Stato S.p.a.; l’rt. 8 del D.L. 8/7/2002 n. 138, convertito dalla L. 8/8/2002, n. 178, ha gemmato la Coni Servizi s.p.a.; il D. Lgs. 9/1/1999 n. 1, ha istituito Sviluppo Italia s.p.a. poi integrato con altre norme dirette a disciplinarne la governance dell’attuale “Invitalia s.p.a”; l’art. 3, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79, ha previsto la costituzione del Gestore della rete di trasmissione nazionale S.p.a.; l’ art. 13, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79 ha contemplato la nascita della Sogin s.p.a.; stessa cosa è accaduta per “Gestore del Mercato s.p.a.” ex art. 5, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79 e l’Acquirente Unico s.p.a. ex art. 4, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79). In altri casi il legislatore ha trasformato o previsto la trasformazione di enti pubblici in società (così per l'Ente Nazionale per le Strade ex art. 7 D.L. 8/7/2002 n. 138, convertito in L. 8/8/2002 n. 178; per l'Istituto per i servizi assicurativi del commercio estero Sace ex art. 6 D. L. 30/9/2003, n. 269, convertito in L. 24/11/2003, n. 326; per l’Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma ex D. Lgs. 17/8/1999 n. 304; per la Cassa Depositi e Prestiti ex art. 5 D.L. 30/9/2003 n. 269, convertito in L. 24/11/2003, n. 326). In tema cfr. Santonastaso, Riorganizzazione della pubblica amministrazione e istituti di diritto privato, in Contr. impr., 2010, 237 s.
[15] Al riguardo mi permetto di rinviare a Fimmanò, L'ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e natura dell'attività, in Fimmanò, Le società pubbliche. cit., 12 s.
[16] Cfr. De Ferra, In margine alla riforma delle società per azioni: delle società con partecipazione dello Stato o di enti pubb.lici, in Riv. Soc., 1967, 798 s.; Mazzarelli, op. cit., 119.
[17] La Cassazione ha affermato che «…la società per azioni non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché l’Ente pubblico ne possegga in tutto o in parte le azioni…» (cfr. Cass. Sez. un., n. 4991 del 1995, Cass., n. 17287 del 2006). In particolare la Suprema Corte ha evidenziato che “indubbiamente anche un ente a struttura societaria può assumere natura pubblicistica, qualora ciò non sia espressamente previsto dalla legge….ovvero ricorrano determinate condizioni (comportanti una consistente alterazione del modello societario tipico, v ad esempio Poste italiane Spa)” (Cass, Sez. Un., 15 aprile 2005, n. 7799, in Società, 2006, 870, richiamata non a caso da App. Napoli 27 giugno 2013, n. 84, cit.).
[18] Ibba, Società pubbliche e riforma del diritto societario. in Riv. soc., 2005, 3 s. (che nel sottolineare come la Relazione governativa alla riforma nulla dica in tema, evidenzia che l’aggiunta all’ultimo comma dell’art. 2449, c.c., secondo cui «sono salve le disposizioni delle leggi speciali», con riferimento alla previsione secondo cui gli amministratori ed i sindaci di nomina pubblica hanno diritti ed obblighi dei membri nominati dall’assemblea, rimarca che solo un’apposita norma derogatoria di rango legislativo è in grado di affrancare gli organi di nomina pubblica dall’obbligo di gestire la società in coerenza con il suo scopo legale tipico e non con scopi diversi). Al riguardo cfr. pure Goisis, Contributo allo studio delle società in mano pubblica come persone giuridiche, Milano, 2004, 118 s.
[19] Al riguardo Rordorf, Le Società “pubbliche” nel codice civile, in Società, 2005, 423.
[20] La Corte di giustizia U.E. ha dichiarato l’incompatibilità dell’art. 2449 c.c. con i principi comunitari ritenendo che la norma costituisca una deroga al diritto societario comune nella misura in cui quest’ultimo non prevede un’identica regola valida per tutti i soci, consentendo agli azionisti pubblici di godere di un potere di controllo sproporzionato rispetto alla sua partecipazione al capitale, il che costituisce una restrizione ai movimenti di capitali ai sensi dell’art. 56 Trattato CE (Corte Giust, 6 dicembre 2007, cause riunite C-463/04 e C-464/04, in Società, 2008, 247). La pronuncia appare ancor più significativa se si tiene conto che a seguito della analoga declaratoria di contrarietà ai principi comunitari dell’art. 2450 c.c., la norma è stata poi abrogata, a seguito dell’avvio della procedura di infrazione (n. 2006/2014), con l’art. 3, comma 1 del d.l. 10/2007 convertito con modificazioni nella l. 46/2007.
[21] Rispetto ai precedenti artt. 2458-2460 c.c. ante riforma.
[22] Introdotto con d. lgs. 27 del 2004. Nel senso che le norme prevedono una mera facoltà a favore dei pubblici poteri che solo la volontà del legislatore speciale, o particolari pattuizioni, possono trasformare in obbligo, già Minervini, Amministratori nominati dallo Stato o da enti pubblici, in Banca borsa, 1954, I, 714 (in tal senso anche Ferri, Pubblico e privato nelle partecipazioni statali, in Riv. dir. comm., 1988, I, 415).
[23] Ad esempio il Codice degli appalti, di cui al d.lgs 163 del 2006, impone il rispetto delle regole di evidenza pubblica ad una serie di soggetti (comprese società per azioni miste o totalmente private) solo al fine dello specifico settore degli appalti.
[24] A cominciare dal D.L. 112 del 25 giugno 2008, convertito con modificazioni nella Legge 6 agosto del 2008 n. 133, che, all’art. 18, capo sesto (“liberalizzazioni e deregolazione”) introduce, per le società a totale partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblici, locali il rispetto dei principi di cui al comma 3 dell’articolo 35 del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (recante norme per il reclutamento del personale nelle amministrazioni pubbliche), e per le altre società partecipate l’obbligo di adottare criteri e modalità conformi ai principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, di pubblicità e imparzialità. In tema ed in modo ancora più incisivo cfr. il regolamento di attuazione dell’art. 23 bis, D.P.R. del 7 settembre 2010, n. 168.
[25] Cons. Stato , sez. V, 30 gennaio 2013, n. 570, Diritto & Giustizia , 2013, 11 marzo (che ha affermato la riserva di giurisdizione del g.a. prevista dall'art. 63, comma 4, d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, non può trovare applicazione in relazione ad un soggetto indubitabilmente privato che, sebbene qualificabile quale “organismo di diritto pubblico”, non risulti annoverabile tra le p.a. di cui all'art. 1, comma 2, del citato d.lg. n. 165 del 2001). L’art. 244 del codice degli appalti di cui al d.lgs 163 del 2006 (come modificato ed integrato) sancisce la competenza esclusiva del giudice amministrativo in materia; così come la stessa viene espressamente riconosciuta in tema di accesso ai documenti dalla legge 142/1990 sul procedimento amministrativo (cfr. al riguardo Garofoli, Sviluppi in tema di giurisdizione amministrativa e regole costituzionali, organo indiretto, nozione comunitaria di amministrazione aggiudicatrici, riparto per blocchi di materie, in Foro it., 1999, III, 178). In tema cfr. pure Parisio, Servizi pubblici, giudice amministrativo e in house providing, in Dir. e soc., 2007, 367 s.
[26] L’estensione delle disposizioni sull’accesso ai gestori dei servizi pubblici appare coerente con la devoluzione della materia dei servizi pubblici alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a prescindere dal modello organizzativo, pubblicistico o privatistico, scelto per erogare il servizio. Già da anni la giurisprudenza ritiene documenti amministrativi, e in quanto tali oggetto del diritto di accesso, non solo gli atti espressione di potestà pubbliche, ma anche quelli relativi ad attività di diritto privato (cfr. Cons. Stato, 17 giugno 1997 n. 649; 3 giugno 1997 n. 843, 4 febbraio 1997 n. 82). Il superamento della dicotomia tradizionale avviene attraverso un’interpretazione neutrale della nozione di documento, termine non più riferito ai soli provvedimenti. L’amministrazione e i gestori di pubblici servizi sono sottoposti alle regole dell’accesso per tutta l’attività svolta che sia connessa con le finalità istituzionali. Sono escluse solo attività marginali dell’amministrazione e, nel caso dei gestori, solo le attività imprenditoriali diverse da quelle collegate al rapporto di servizio con l’ente pubblico (Cons. Stato, 15 gennaio 1998 n. 14; Ad. plen., 22 aprile 1999 n. 5; TAR Veneto, 23 novembre 2006, n. 3899).
[27] Con riferimento specifico all’accesso ai documenti di una società mista incaricata di svolgere alcuni servizi pubblici locali (Cons. Stato, Sez. V, 23 settembre 2010 n. 7083).
[28] Cfr. da ultima Cass., Sez. Un., 3 maggio 2013 n. 10299, (in Società, 2013 con nota di Fimmanò, La giurisdizione sulle società pubbliche) che pur ponendosi nella scia del pronunciamento “spartiacque” del 19 dicembre 2009 n. 26806 e di quelli successivi di analogo tenoreaprono ad una prospettica diversa impostazione per le società c.d. in house e non escludono valutazioni del giudice contabile, di merito, dirette a ricollegare azioni od omissioni riguardanti la società ma che abbiano prodotto danni direttamente all’ente pubblico. Nello stesso senso: Cass. Sez. Un., 19 dicembre 2009, n. 26806, in Nds, n. 3, 2010, 36 s.; in Giur. comm., 2011,II, 315 s. ; Cass., sez. un., 15 gennaio 2010, n. 519, in Società, 2010, 803 s.; Sez. un., 15 gennaio 2010, 520, 521, 522, 523 e Cass, Sez. un., 23 febbraio 2010, n. 4309; Cass., sez. un., 9 aprile 2010, n. 8429, riferita al direttore generale, in Società, 2010, 1177 s.; Cass. Sez. Un. , 9 maggio 2011, n. 10063, in Riv. corte conti , 2011, 3-4, 372, in Foro it. 2012, 3, I, 832, Cass. Sez. Un., 5 luglio 2011, n. 14655, in Resp. civ. e prev., 2011, 12, 2596, in Giust. civ., 2012, 5, I, 1287; Cass. Sez. Un., 7 luglio 2011, n. 14957, in Foro it. 2012, 3, I, 831 (ove il danno era ravvisabile nella perdita di valore di una quota di partecipazione in società poi dichiarata fallita), Cass. Sez. Un. 20941 del 12 ottobre 2011 in Foro it., 2012, 3, I, 831; e Cass. Sez. Un., 9 marzo 2012, n. 3692, in Foro amm. CDS 2012, 6, 1498, con nota di Nicodemo, Società pubbliche e responsabilità amministrativa: le Sezioni Unite della Cassazione ritornano sulla questione di giurisdizione; cass. sez. Unite, 23 marzo 2013, n. 7374, in Guida al dir., 2013, 23, 57 Cass. Sez. Un. 5 aprile 2013, n. 8352, in Giust. civ. Mass., 2013;). In tema in precedenza ma di diverso tenore: Cass. sez. un., n. 19667 del 2003 in Giur. it., 2003, 1830; n. 3899 del 2004 in Giur. it., 2004, 1946; n. 3367 del 2007, n. 20886 del 2006, n. 4511 del 2006.
[29] L’organo a cui compete il controllo contabile e di legalità degli enti pubblici è, ai sensi dell’art. 100 Cost., la Corte dei Conti e ai fini del controllo contabile e della responsabilità contabile rileva il dato sostanziale della permanenza dell’ente nella sfera delle finanze pubbliche. La qual cosa conseguentemente rende necessari controlli finalizzati a verificare la corretta gestione del denaro pubblico; al contrario risulta irrilevante ai detti fini il dato formale della veste societaria, sotto questo profilo neutra e irrilevante (Corte Cost. 23 dicembre 1993, n. 446; Corte Conti, Lombardia, febbraio 2006 e 30 ottobre 2006 n. 17).
[30] Le Sezioni unite della Cassazione con sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806 (in Nds, n. 3, 2010, 36 s.), in ordine alla responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica, ha risolto il problema di giurisdizione in modi opposti a seconda che l’azione abbia ad oggetto un danno arrecato direttamente al socio pubblico o, invece, al patrimonio sociale. Nel primo caso ha sancito la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti. Nel secondo, invece, ha rilevato l’insussistenza di un rapporto di servizio fra gli amministratori della società e l’ente pubblico socio; l’insussistenza di un danno erariale inteso in senso proprio, essendo il pregiudizio arrecato al patrimonio della società, unico soggetto cui compete il risarcimento; la non conciliabilità dell’ipotizzata azione contabile con le azioni di responsabilità esercitabili dalla società, dai soci e dai creditori sociali a norma del codice civile, dalla cui esperibilità non si può prescindere. Le Sezioni unite hanno precisato che solo nel caso in cui l’evento dannoso sia prodotto dagli amministratori “direttamente” a carico del socio-ente pubblico si configura la responsabilità amministrativa con sussistenza della giurisdizione del giudice contabile. Un tipico danno diretto è considerato dalla suprema Corte quello all’immagine dell’ente (al riguardo cfr. Caravella, La lesione all’immagine dell’ente pubblico ed il risarcimento del danno, in Fimmanò, Le società pubbliche. Ordinamento, crisi e insolvenza, Milano, 2011, 541 s.).
[31] Il delicato ruolo della Corte dei Conti nella materia va inteso in questo senso, anche se, con una strana norma del c.d. decreto milleproroghe 2008 , è stata sancita la devoluzione in via esclusiva alla giurisdizione del giudice ordinario della materia della responsabilità degli amministratori di società quotate partecipate da amministrazioni pubbliche, anche in via indiretta, in misura inferiore al cinquanta per cento e delle loro controllate La norma lascia intendere, in realtà, che in tutti gli altri casi vi sia una giurisdizione della magistratura contabile che non le è propria, ovvero per tutte le azioni di responsabilità riguardanti amministratori e dipendenti di società partecipate Se questa fosse la lettura, il legislatore avrebbe dato seguito all’orientamento, della Corte dei Conti diretto ad allargare l’ambito della propria giurisdizione (già Corte Conti, sez. I, App., 3 novembre 2005, n. 356, in Foro amm., 2005, 3842; Corte conti, sez. Lombardia, 4 marzo 2008 n. 135; Corte Conti, sez. Lombardia, 25 gennaio 2005, n. 22, in Foro amm., 2005, 80; Corte conti, sez. Trentino Alto adige, 1 giugno 2006, in www.corteconti.it; Corte Conti, sez. Lombardia, 5 settembre 2007 n. 448). Cfr. al riguardo in modo critico Ibba, Azioni ordinarie di responsabilità e azione di responsabilità amministrativa nelle società a mano pubblica. Il rilievo della disciplina privatistica, in Riv. dir. civ., 2006, II, 145 ss., Romagnoli, Le società degli enti pubblici: problemi e giurisdizioni nel tempo delle riforme, in Giur. comm., 2006, II, 478. Si è osservato che l’art. 16 bis del decreto milleproroghe sarebbe illegittimo in primis sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza poiché trattandosi di società quotate anche il c.d. pacchetto di controllo (cioè quella quota azionaria inferiore al 50%) consente in ipotesi di azionariato diffuso di avere il controllo della società parimenti al caso di partecipazione pubblica maggioritaria. In entrambi i casi la s.p.a. è sostanzialmente gestita da soggetti pubblici e, pertanto, non appare giustificato il discrimen di competenza giurisprudenziale posto dal decreto milleproroghe (al riguardo cfr. Santosuosso, Società a partecipazione pubblica e responsabilità degli amministratori (contributo in materia di privatizzazioni e giurisdizione), in Riv. dir. soc., 2009, 47 s.; Colangelo, Nuove questioni in tema di società a partecipazione pubblica, in dircomm.it, 2008, 9 s.).
[32] Cfr. in tema Ibba, Forma societaria e diritto pubblico, in Riv. dir. civ., 2010, I, 365 s.; Id., Azioni ordinarie di responsabilità a azione di responsabilità amministrativa nelle società in mano pubblica, Il rilievo della disciplina privatistica, in Riv. dir. civ., 2006, II, 145 s.; Id., Sistema dualistico e società a partecipazione pubblica, in Riv. dir. civ., 2008, I, 584. Per la responsabilità concorrente propende Rordorf, Le società pubbliche nel codice civile, in Società, 2005, 424; per quella alternativa Venturini, L’azione di responsabilità amministrativa nell’ambito delle società per azioni in mano pubblica. La tutela dell’interesse pubblico, in Foro amm., Cons. Stato, 2005, 3442 s.; incerto Romagnoli, La responsabilità degli amministratori di società pubbliche fra diritto amministrativo e diritto commerciale, in Società, 2008, 441.
[33] Ex adverso l’azione individuale ex art. 2395, c.c., è stata ritenuta dalla magistratura contabile fuori dall’ambito della propria giurisdizione (Corte Conti, sez. I, app. 3 novembre 2005, n. 356, cit., 3).
[34] Questo pare essere il risultato cui perviene la Cassazione che ha affermato che la Corte dei conti può pronunciarsi solo sul danno erariale, cioè quello subito dal socio pubblico al suo patrimonio, risarcibile in sede civile ai sensi dell’art. 2395 c.c., potendosi qualificare erariali tali pregiudizi direttamente incidenti sul patrimonio del socio pubblico e fonte di responsabilità da accertare con lo speciale procedimento, su iniziativa del procuratore della Corte dei conti (Cass., sez. un., 23 febbraio 2010, n. 4309, in Società, 2010, 1361). Da questo punto di vista l’azione contabile esperita dal procuratore della corte non dovrebbe comunque precludere l’azione ex art. 2395 c.c. esperita dal socio innanzi al giudice ordinario, vista la diversità dei presupposti e dei risultati perseguibili (contra: Corso, La responsabilità societaria ed amministrativa degli amministratori di società a prevalente partecipazione pubblica, in Riv. arb., 2008, 570). Sul tema più in generale cfr.Buccarelli, Il sistema della responsabilità amministrativa e civile nelle società di capitale pubbliche, in Fimmanò, Le società pubbliche. cit., 2011, 403 s.; Miele, La responsabilità contabile concorrente degli amministratori delle società partecipate in caso di insolvenza, ivi, Le società pubbliche. cit., 2011, 450 s.
[35] Cass. sez. unite, 25 novembre 2013, n.26283 - Pres. Rovelli – est. Rordorf, in corso di pubblicazionie in Società con nota di Fimmanò, La giurisdizione sulle società in house providing (in cui pur condividendo il risultato del riconoscimento della giurisdizione contabile nella fattispecie concreta non condivide il percorso che passa attraverso una rivoluzione che può avere effetti destabilizzanti per il sistema, laddove sarebbe stato possibile ricorrere alla ordinaria disciplina della responsabilità da abuso di direzione e coordinamento sulle partecipate (artt. 2497 ss.) ed alla responsabilità aggiuntiva di chiunque abbia preso parte al fatto lesivo.
[36] Anche sul piano del diritto antitrust ed in particolare della disciplina degli aiuti di stato si esclude che il controllo pubblico su un’impresa ne giustifichi un trattamento differenziato (al riguardo Giannelli, Impresa pubblica e privata nella legge antitrust, Milano, 2000, 201 s.).
[37] Il Consiglio di Stato ha affermato che l’art. 33 co. 2 lett. A, del d.p.r. n. 80/98 nel prevedere come rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie riguardanti l’istituzione, la modificazione o l’estinzione dei soggetti gestori di pubblici servizi (comprese le società di capitali) ha inteso riferirsi alle relative procedure pubblicistiche (di istituzione, modificazione ed estinzione) con esclusione quindi delle questioni che hanno attinenza al diritto societario (cfr. Cons. Stato sez. V, 20 ottobre 2004 n. 6867; Id., 3 settembre 2001 n. 4586). In modo ancora più esplicito è stato affermato che tutti gli atti che ineriscono alla vita delle società a partecipazione pubblica pongono questioni di diritti soggettivi e pertanto rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (Cass. Sez. un., 15 aprile 2005, n. 7799 cit.; Cons. Stato V sez., 11 febbraio 2003 n.781). Da ultimo per la giurisdizione ordinaria in tema di fusione per incorporazione cfr. TAR Veneto, 15 aprile 2008 n. 968, in www.dirittodeiservizipubblici.it.
[38] In ordine al dibattito sulla natura della nomina e della revoca (e dei relativi effetti) e sulla necessità di una presa d’atto dell’assemblea cfr. Pericu, Artt. 2449 e 2450, in Commentario Società di Capitali, a cura di Niccolini – Stagno d’Alcontres, III, Napoli, 2004, 1291 s. Sulla specifica questione Atelli, La revoca degli amministratori di s.p.a. partecipate da enti locali è atto di diritto privato, in Società, 2006, 870; Di Marzio, Insolvenza di società pubbliche e responsabilità degli amministratori. Qualche nota preliminare, in Fimmanò, Le società pubbliche. cit., 377 s.
[39] La Suprema corte ha affermato recentemente che in una società di capitali a partecipazione pubblica, il venir meno del rapporto fiduciario tra socio Amministrazione comunale e amministratori è rilevante, ai fini di integrare una giusta causa di revoca del mandato, solo quando i fatti che hanno determinato il venir meno dell’affidamento siano oggettivamente valutabili come idonei a mettere in forse la correttezza e le attitudini gestionali dell’amministratore. Altrimenti lo scioglimento del rapporto fiduciario deriva da una valutazione soggettiva della maggioranza che legittima da un lato il recesso ad nutum ma legittima altresì l’amministratore revocato senza una giusta causa a richiedere il risarcimento del danno derivatogli dalla revoca del mandato. La giusta causa di revoca di un amministratore non diverge da quella di una società comune e non comprende il semplice logoramento dei rapporti tra soci e amministratori. Gli amministratori che agiscono in giudizio contro il socio amministrazione comunale perché siano rispettati i diritti della società derivanti dal contratto di servizio, tengono un comportamento sgradito a una componente dell’amministrazione comunale che non costituisce giusta causa di revoca. Imporre una fedeltà degli amministratori al socio pubblico snaturerebbe la natura privata della società in danno degli interessi sociali e della minoranza, oltre che, nel caso di società partecipata per motivi di pubblico interesse, anche dagli stakeholders a cui vantaggio la partecipazione pubblica è prevista. Non rappresenta giusta causa di revoca degli amministratori non aver consentito l’accesso diretto alla contabilità sociale da parte dei consiglieri comunali, in quanto si tratta di una pretesa giuridicamente illegittima e un comportamento collusivo degli amministratori comporterebbe una violazione delle norme che regolano i rapporti tra società e soci (Cass., 15 ottobre 2013 n.23381, in Ilcaso.it).
[40] Cfr. tra le altre Cass., SS.UU., 15 aprile 2005, n. 7799, cit.; Cass., SS.UU., 20 dicembre 2007, n. 26811; Cass., SS.UU., 4 marzo 2009, n. 5161. Contra: Cass., SS.UU., 3 maggio 2005, n. 9096.
[41] Questo è il principio affermato dalla Cassazione penale (con la sentenza 10 gennaio 2011 n. 234) relativa ad una società siciliana attiva nello smaltimento dei rifiuti.In particolare l’art. 1 del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (recante “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'art. 11 della l. 29 settembre 2000, n. 300”), stabilisce, al comma 2, che la medesima si applica “agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica”, mentre non trova applicazione nei confronti dello "Stato, enti pubblici territoriali, altri enti pubblici non economici nonché enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale" (comma 3). Quindi secondo la suprema Corte la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria ma non sufficiente per l’esonero dalla disciplina in questione; deve necessariamente essere presente anche la condizione dell’assenza di svolgimento di attività economica da parte dell'ente medesimo. Nel caso di specie, lo svolgimento dell’attività economica da parte della società di smaltimento rifiuti, proprio in ragione della sua struttura societaria, evidenzia la presenza di una tale caratteristica. Pertanto, la società d’ambito, costituita nella forma di società per azioni, per espletare secondo criteri di economicità le funzioni in materia di raccolta e smaltimento dei rifiuti trasferite alla stessa da enti pubblici territoriali, è soggetta alla normativa in materia di responsabilità da reato degli enti.
[42] I giudici amministrativi hanno spesso riqualificato la società muovendo dalla nozione di «organismo di diritto pubblico» (per l’esame delle relative pronunce cfr. Salvato, I requisiti di ammissione delle società pubbliche alle procedure concorsuali, in Fimmanò, Le società pubbliche. Ordinamento, crisi e insolvenza, a cura di Fimmanò, Milano. Tra gli indici vengono ricordati: la modalità della costituzione ed il finanziamento della società; le regole del funzionamento del consiglio di amministrazione; i controlli esercitati sulla società; la disciplina dei poteri degli azionisti; i vincoli posti all’esercizio dell’attività, assunti tutti quali caratteri idonei a ritenerla funzionalizzata al perseguimento di finalità di interesse pubblico; la circostanza che, in virtù del controllo maggioritario dell’azionista pubblico, la società continua ad essere affidataria di rilevanti interessi pubblici; il perseguimento di finalità oggettivamente pubbliche e l’esercizio di un’attività in regime di concessione amministrativa, oppure di natura amministrativa e non di diritto privato; l’essere la società frutto di una trasformazione dalla forma di ente pubblico economico).
[43]Chiarissima al riguardo è la Suprema Corte (Cass., Sez. Un., 9 marzo 2012 n. 3692, secondo cui la qualificazione della società come organismo di diritto pubblico, rileva solo sul piano della disciplina di derivazione comunitaria in materia di aggiudicazione degli appalti ad evidenza pubblica). In questo senso chiaramente anche la Corte di Giustizia UE grande sezione, 24 gennaio 2012, in Riv. dir. internaz. 2012, 2, 562 (che distingue chiaramente la forma giuridica del soggetto dalla circostanza che sia stato incaricato, con atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di quest'ultima, un servizio d'interesse pubblico e che disponga a tal fine di poteri che oltrepassano quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra singoli).
[44] Cons. Stato, sez. V, 9 gennaio 2013, n. 66 in Foro amm. CDS, 2013, 1, 180 (secondo cui la nozione di organismo di diritto pubblico di matrice comunitaria è stata recepita nell’ordinamento Italiano con l’art. 3, comma 26, del d. lgs. n. 163/2006, e prescinde dal formale collocamento dello stesso nel novero delle persone giuridiche pubbliche o private. A conferma di tar Calabria, Catanzaro, sez. II, n. 595 del 2011). Nello stesso senso Cons. Stato sez. VI, 20 maggio 2011, n. 3013, in Foro amm. CDS, 2011, 5, 1637.
[45] Cass., Sez. Un., 22 dicembre 2011, n. 28329, in Giust. civ. Mass., 2011, 12, 1827, in Giust. civ., 2012, 2, I, 320 (secondo cui la Rai-Radiotelevisione s.p.a., pur costituendo un organismo di diritto pubblico ed essendo soggetta a varie forme di controllo ed indirizzo pubblici, resta pur sempre una società per azioni, come tale soggetta alle regole privatistiche ove dalla legge non diversamente disposto).
[46] Ci riferiamo alle sentenze citate alle note nn. 1 e 2.
[47] In verità evidenziate già da tempo, cfr. al riguardo Fimmanò, Le società di gestione dei servizi pubblici locali, in Riv. not., 2009, 897 s.; ID., L'ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e natura dell'attività, cit., 25 s.
[48] Cfr. Cass, Sez. Un., 9 maggio 2011, n. 10068, in Diritto & Giustizia, 2011, 21 luglio (secondo cui per verificare se un organismo soddisfi specifiche esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale, e sia quindi qualificabile come "organismo di diritto pubblico", occorre accertare che l'organismo interessato agisca in situazione di concorrenza sul mercato, poiché ciò costituisce un indizio a sostegno del fatto che non si tratti di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale; che questi ultimi bisogni siano, di regola, soddisfatti in modo diverso dall'offerta dei beni o servizi sul mercato; che si tratti di bisogni al cui soddisfacimento, per motivi connessi all'interesse generale, lo Stato preferisce provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere una influenza determinante).In tema cfr. Garofoli, L'organismo di diritto pubblico, in Trattato sui contratti pubblici diretto da Sandulli, De Nictolis, Garofoli, I, Milano, Giuffrè, 2008, 555, ove una rassegna anche della posizioni dottrinali e della giurisprudenza comunitaria.
[49] Sul tema Miola, Le società miste come società di «diritto speciale», in Le società miste locali per la gestione dei pubblici servizi, a cura di Di Giandomenico, Fagnano e Ruta, Napoli, 1997, 181 s.
[50] Cfr. Giampaolino, La costituzione delle società a partecipazione pubblica locale per la gestione dei servizi pubblici e l’autonomia privata degli enti pubblici territoriali, in Giur. Comm., 1995, I, 998 .
[51] Per un quadro di tutti i diversi orientamenti cfr. Fiorani, Società pubbliche e fallimento, in Giur. comm., 2012, 532 s.
[52] Trib. Santa Maria Capua Vetere 9 gennaio 2009 (in Fallimento, 2009, 713) che ha richiamato alcuni degli argomenti utilizzati dalla giurisprudenza amministrativa: la nozione di impresa pubblica di derivazione comunitaria, che attribuisce rilevanza alla «influenza dominante dei pubblici poteri» e prescinde dalla natura giuridica, pubblica o privata, dell’ente, nozione valorizzata alla luce di due sentenze della Corte di giustizia, secondo le quali «il concetto di “organismo pubblico” «comprende anche enti formalmente privati»; l’art. 1 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165; la sentenza della Corte costituzionale n. 466 del 1993, sui presupposti del controllo della Corte dei conti; la giurisprudenza del Consiglio di Stato sulla irrilevanza della veste formale della società per impedirne la qualificazione come soggetto pubblico. Il Tribunale al fine di escludere l’assoggettabilità della società al fallimento, ne ha affermato la natura pubblica in virtù del fatto che essa era frutto della trasformazione dei preesistenti consorzi di gestione dei servizi locali, ai sensi dell’art. 35 L. 448/01 ed il capitale sociale è a totale titolarità pubblica e le limitazioni all’autonomia funzionale degli organi societari e all’esercizio dei diritti dell’azionista (Salvato, I requisiti di ammissione delle società pubbliche alle procedure concorsuali,cit.).
[53] In questo senso anche Trib. Catania, 26 marzo 2010 (rel. Cariolo) in www.ilcaso.it, secondo cui è qualificabile quale ente pubblico non assoggettabile alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, ai sensi dell’art. 1, l. fall., la società per azioni esercente il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani partecipata esclusivamente da enti pubblici dotata di poteri di imposizione e di riscossione tipicamente pubblicistici.
[54] Rilievo decisivo all’attività attribuisce altra giurisprudenza (Trib. Nola 17 giugno 2010, in www.il caso.it) che ha escluso l’assoggettamento al fallimento di una società a partecipazione pubblica per l’eterogeneità delle attività in concreto svolte, non funzionali ad un interesse esclusivamente pubblico (nello stesso senso viene richiamata App. Napoli, 15 giugno 2009, n. 60, in www.osservatorio-oci.org).
[55] Trib. Patti, 6 marzo 2009 (rel. Saija) in www.ilcaso.it, invece ha riqualificato come ente pubblico, non assoggettabile al fallimento, la società per azioni partecipata esclusivamente da enti pubblici, in quanto non costituita su base volontaristica, ma in ossequio alle disposizioni di cui al D. lgs. n. 22\97 (sotto la vigilanza dell’Agenzia Regionale per i rifiute e le acque e con un sistema di necessaria ricapitalizzazione e perdite, previsti dalla legge regionale n. 19 del 2005).
[56] Corte d’appello di Torino, decreto del 15 febbraio 2010 (reso nel procedimento n. 1998/09), in www.ilcaso.it
[57] Il giudice di primo grado riformato (Trib. Ivrea 15 dicembre 2009, in www.ilcaso.it) aveva invece affermato che il Consorzio era stato costituito ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267.
[58] L’innovativo principio è stato così sintetizzato «la società di capitali a partecipazione pubblica, in presenza di determinati indici (in particolare, del possesso della totalità delle partecipazioni da parte di un ente pubblico, di erogazioni finanziarie da parte di questi, di limitazioni statutarie all’autonomia degli organi societari) ha natura giuridica pubblica, quindi, in quanto “ente pubblico”, non è soggetta al fallimento; viceversa, un consorzio, sebbene costituito tra enti pubblici ed ai sensi dell’art. 31, d.lgs. n. 267 del 2000, qualora svolga attività economica a carattere imprenditoriale, non costituente necessariamente attività di servizio pubblico, rivolta anche a soggetti, pubblici e privati, diversi dai partecipanti al medesimo, è assoggettabile ad amministrazione straordinaria, se sussistano i requisiti dimensionali stabiliti dal d.lgs. n. 270 del 1999» (Cfr. Salvato, I requisiti di ammissione delle società pubbliche alle procedure concorsuali, cit.).
[59] Trib. Napoli 31 ottobre 2012 in Fallimento, 2013, 875 s. (con nota di D’Attorre, Il concordato preventivo della società in mano pubblica, il quale pur avendo sostenuto questa tesi per il fallimento, evidenzia bene come il concordato preventivo non determina necessariamente le due conseguenze richiamate dal tribunale; infatti l’apertura della procedura non impone l’interruzione dell’attività e lo spossessamento del debitore, nè attribuisce al tribunale un autonomo potere di scelta della destinazione del complesso aziendale. Tutti questi profili sono disciplinati dal piano ex art. 161, comma 2, lett. e, l.fall., redatto dallo stesso debitore, limitandosi il ruolo del tribunale al profilo del controllo. Con particolare riferimento al concordato preventivo con continuità aziendale ex art. 186 bis l.fall., l’ammissione alla procedura non porta con sè l’interruzione nello svolgimento del servizio pubblico, la cui prosecuzione è anzi agevolata dal divieto di azioni esecutive individuali. Anche il concordato preventivo meramente liquidatorio non pone problemi di compatibilità con la tutela dell’interesse pubblico, in quanto la scelta di non proseguire l’attività d’impresa è assunta dalla stessa società in sede di piano di concordato, senza essere imposta dal Tribunale con il provvedimento di ammissione).
[60] Senza considerare il riferimento al d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, il cui art. 1 (come finisce con riconoscere anche Trib. Santa Maria Capua Vetere 9 gennaio 2009, cit.) identifica le amministrazioni pubbliche mediante un’elencazione che non permette affatto di ricondurre tra queste anche le società in esame.
[61] Trib. Palermo, 11 febbraio 2010 in www.ilcaso.it, che ha dichiarato lo stato d’insolvenza di una s.p.a. costituita dal Comune di Palermo, unico azionista, a seguito della trasformazione della Azienda Municipalizzata Igiene Ambientale, avente ad oggetto attività di igiene ambientale. Il Tribunale ha ritenuto infondata la tesi della società, che sosteneva la sua «natura sostanziale di ente pubblico». I giudici siciliani hanno affermato che gli indici sintomatici evocati dalla parte non permettevano di superare il dato formale della personalità giuridica di diritto privato. Nello stesso senso Trib. Velletri, 8 marzo 2010, inwww.ilcaso.it, che ha ritenuto assoggettabile alle procedure concorsuali una s.p.a. «a partecipazione totalitaria di capitale pubblico esercente la gestione del servizio locale di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani», affermando che «la società è inquadrabile nella sfera del diritto privato anche se utilizza risorse pubbliche per lo svolgimento della propria attività giacchè la forma giuridica assunta non è contraddetta dalla disciplina statutaria».
[62] In tal senso anche Trib. Palermo, 11 febbraio 2010, cit., secondo cui «la Corte costituzionale si è limitata a giustificare la legittimità dei controlli della Corte dei conti facendo riferimento alla permanenza dell’apporto finanziario pubblico, sotto forma di partecipazione azionaria esclusiva o prevalente, alla struttura economica dei nuovi soggetti derivanti dalle cd. privatizzazioni, senza soffermarsi specificamente sulla natura giuridica di tali soggetti».
[63] Tribunale Napoli, 24 ottobre 2012 (inediata), riformata da App. Napoli 27 giugno 2013, n. 84 (inedita).
[64] Secondo la Corte costituzionale, l’art. 100, secondo comma, Cost. attribuisce, infatti, alla Corte dei conti «il controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato» «contribuisce in via ordinaria», esaltandone in tal modo il ruolo di garante imparziale dell’equilibrio economico-finanziario del settore pubblico e della corretta gestione delle risorse collettive (per tutte cfr. C. Cost. 6 luglio 2006, n. 267; 30 dicembre 1997, n. 470), che concorre alla tutela dell’equilibrio finanziario ed all’osservanza del patto di stabilità interno (C. Cost. 13 luglio 2007, n. 285; 7 giugno 2007, n. 179).
[65] La Corte ha affermato (in un giudizio promosso dal Commissario dello Stato per la Regione Siciliana, avente ad oggetto norme di una delibera legislativa di tale Regione) che la disciplina dei «rapporti interni alla struttura societaria, i quali, come tali, concernono i modi di essere dei soggetti privati» sono riservati al legislatore statale, attenendo al "diritto privato" (C. Cost. 5 febbraio 1992, n. 35). Irrilevante, nel senso della riqualificazione, è la sentenza 20 maggio 2008, n. 159, che si è limitata a riconoscere che le società partecipate dalle regioni possono essere ricondotte anche alla materia regionale “organizzazione e funzionamento amministrativo” della regione (al riguardo Salvato, I requisiti di ammissione cit.).
[66] C. Cost. 1 agosto 2008, n. 326, punto 8.6 Considerato; in senso analogo, C. Cost. 8 maggio 2009, n. 148, punto 4.2 Considerato (in tema ancora Salvato, I requisiti di ammissione cit., 277 s.).
[67] In questo senso già Fimmano’, Appunti in tema di società di gestione dei servizi pubblici, in Riv. not., 2009, 910 s. Trib. Milano 22 giugno 2007 in www.ilcaso.it, nel procedimento per la dichiarazione di insolvenza R.G. n. 141/07, richiesto di dichiarare lo stato di insolvenza di una s.p.a. totalmente partecipata da un Comune lombardo, ne aveva dichiarato il fallimento, escludendo la sussistenza dei presupposti per ritenerla assoggettata a l.c.a., valutata, tuttavia, in riferimento all’applicabilità della legge 17 luglio 1975, n. 400, concernente gli enti cooperativi, ed alla esposizione debitoria nei confronti dello Stato, che avrebbe potuto fondare la l.c.a. in alternativa al fallimento; quindi, in nessun modo aveva valorizzato la titolarità del capitale sociale da parte di un Comune, quale ragione influente, eventualmente, sulla natura privata della società.
[68] Cass., sez. un., 19 dicembre 2009, n. 26806, cit., (al riguardo Ibba, Forma societaria e diritto pubblico, cit., 367.
[69] D’Attorre, Società in mano pubblica e procedure concorsuali, in Fimmanò, Le società pubbliche. cit., 2011.
[70] Di Nosse, I requisiti soggettivi di fallibilità, in Le procedure concorsuali nel nuovo diritto fallimentare, Torino, 2009, 10.
[71] Scarafoni, Il fallimento delle società a partecipazione pubblica, in Fimmanò, Le società pubbliche. Cit. 307 s., rileva che l’esonero dal fallimento delle società pubbliche creerebbe una grave alterazione del mercato perché sarebbero le uniche società non soggette ad alcun tipo di procedura concorsuale. L’art.106 del trattato sul funzionamento dell’U.E. (già art. 86 del trattato istitutivo) prevede che 1. Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del Trattato, specialmente a quelle contemplate dagli articoli 18 e da 101 a 109 inclusi; 2. Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale, sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata.
[72] In questo senso anche Scarafoni, Il fallimento delle società a partecipazione pubblica, cit., 444.
[73] Non può quindi condividersi quell’approccio della giurisprudenza e della dottrina secondo cui la società pubblica è qualificabile quale ente pubblico non assoggettabile alle procedure concorsuali laddove svolge una attività “necessaria” all’ente territoriale, inerente allo svolgimento di servizi pubblici essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi. Cfr. in particolare Trib. Catania, 26 marzo 2010, in www.ilcaso.it, secondo cui l’esercizio provvisorio non è volto alla soddisfazione del pubblico interesse ma è subordinato unicamente ed esclusivamente all’interesse dei creditori del fallito. Evidentemente sfugge ai fautori di questa impostazione che l’ente pubblico, laddove non sia possibile la prosecuzione dell’attività, affiderà il servizio a terzi, senza che il fallimento dell’affidataria produca l’irrimediabile interruzione del servizio.
[74] Cfr. Fimmanò, Sub Artt. 105, in Il nuovo diritto fallimentare cit.; Id., La vendita fallimentare dell’azienda, in Contr. Impr., 2007, 570 s.
[75] Al riguardo cfr. Fimmanò, Sub Artt. 104, in Il nuovo diritto fallimentare a cura di Jorio, Tomo II, Bologna 2006; Id., Prove tecniche di esercizio provvisorio riformato, in Giur. comm., 2007, I, 759
[76] Cfr. in tema Fimmanò, Sub Artt. 104 bis, in Il nuovo diritto fallimentare a cura di Jorio, Tomo II, Bologna 2006; Id., L’affitto endofallimentare dell’azienda, in Dir. fall., 2007 I, 439 s.; Gallone – Ravinale, L’affitto e la cessione d’azienda nella riforma fallimentare, Milano, 2008, 13 s.; Patti, L’affitto dell’azienda, in Fall., 2007, 1088 s.; e con riferimento alla natura dell’attività: Fimmanò, La crisi delle società di calcio e l’affitto della azienda sportiva, in Dir. fall., 2006, 3; Id., Gli effetti del trasferimento d’azienda sull’autorizzazione sanitaria regionale e sul c.d. accreditamento istituzionale, in Riv. not., 2003, 133
[77] Al riguardo si è pronunciata una certa giurisprudenza di merito favorevole all’assoggettamento delle società, anche in house, al fallimento (Trib. Nocera inferiore, 21 novembre 2013, Est. Fucito, in ilcaso.it 2013). Questa giurisprudenza ha ben evidenziato come infondata sia l’obiezione che l’esercizio provvisorio di cui all’art. 104 l.f. in questo caso non sarebbe svolto nell’interesse della massa, ma degli amministrati e risponderebbe a logiche e presupposti diversi. L’obiezione cade in due errori: confonde sul piano sistematico i piani effettuali della dichiarazione di fallimento con i presupposti; utilizza un istituto eventuale, posto nell’interesse della massa, l’esercizio provvisorio, per affermare che la dichiarazione di fallimento escluderebbe la salvaguardia dell’interesse pubblico. Infatti, aggiungono i giudici di Nocera inferiore, la sospensione di un servizio pubblico è fatto senz’altro rilevante sul piano pubblicistico, ma rileva e deve trovare la sua soluzione migliore nelle sedi preposte, ossia l’ente politico di riferimento, ma non può divenire fattore ostativo alla declaratoria di fallimento di un soggetto privato imprenditore e decotto, il quale ha male gestito soldi, tra l’altro pubblici, e che è causa, con la propria condotta, del disagio per gli utenti. L’ente di riferimento bene potrà agire in revoca verso la società fallita, se ritenuto, dell’affidamento, per procedere a nuova gara successiva oppure, in caso contrario, e se proficuo per la migliore liquidazione del complesso aziendale, il tribunale potrà disporre l’esercizio provvisorio. Ed è chiaro che tale esercizio provvisorio non potrà che avvenire secondo logiche aziendalistiche, le medesime che avrebbero dovuto guidare gli organi di gestione della società in house.
[78] Nella specie, la Cassazione ha reputato irrilevante il controllo, ex art. 60 d.lg. n. 165 del 2001, afferente il solo costo del lavoro (Cass., 6 dicembre 2012, n. 21991, in Red. Giust. civ. Mass. 2012, 12).
[79] Cfr. note numeri 2,3,4.
[80] App. Napoli, 15 luglio 2009, in Fall., 2010, 690 (riguardante il caso della Pomigliano Ambiente S.p.A.) ha evidenziato le eccezione in cui è la stessa legge a definire espressamente le società come tali (come, ad esempio, nel caso della Agecontrol S.p.A., costituita «nella forma di società per azioni con personalità di diritto pubblico» sulla base di quanto disposto dall’art. 18, co. 9, della legge 22 dicembre 1984, n. 887). Nello stesso senso Cons. Stato, sez. VI, 21 febbraio 2006, n. 705 in Foro Amm. Cons Stato, 2006, 553.
[81] App. Napoli, 27 maggio 2013, n. 346, cit. 1299. Analogamente l’art. 27, co 2 b-bis), d.lgs 270/1999 (introdotto dall’art.1, co 1-bis del d.l. 28 agosto 2008 n. 134 nel testo modificato dalla legge di conversoine 27 ottobre 2008 n. 166), avente ad oggetto la disciplina delle condizioni di ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ha previsto che il recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali può essere conseguito “per le società operanti nel settore dei pubblici servizi essenziali anche tramite cessione di complessi di beni e contratti sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio di impresa di duirata non superiore ad un anno (programma di cessione dei complessi di beni e contratti)”.
[82] Relazione del Guardasigilli al R.D. 267/1942, art. 3.
[83] Così Sorci, La società a partecipazione pubblica maggioritaria ed il trattamento normativo in caso d’insolvenza, in Fimmanò, Le società pubbliche, cit., 373.
[84] Da ultima Cass., 6 dicembre 2012, n. 21991, cit.
[85] Cass., 26 giugno 2001, n. 8694, Giust. civ. Mass. 2001, 1262 ed in Fallimento, 2002, 602, con nota di Anfuso, Condizioni di fallibilità dell'impresa collettiva: basta lo scopo od occorre anche l’effettivo esercizio dell’attività commerciale?; nello stesso senso: Cass. 6 dicembre 2012 n. 21991; Cass. pen., 22 novembre 2005, n. 5493, in Cass. pen., 2007, 3, 1253; Cass., 28 aprile 2005 n. 8849, in Giust. civ., 2006, 4-5, I, 902, Giust. civ. Mass., 2005, 4; Cass. 4 novembre 1994, n. 9084, in Giust. civ. 1995, I, 113; Cass. 1° dicembre 1987, n. 8939, in Giust. civ., 1989, I, 1200, con nota di d’Alessandro, Contratto sociale simulato e superamento della personalità giuridica; la giurisprudenza di merito sembra aderire all'indirizzo di maggioranza; Cass. 10 agosto 1979, n. 4644, in Giur. comm., 1981, II, 71, con nota di Rosapepe, Ancora a proposito della distinzione tra società e impresa, ed in Giust. civ., 1980, I,2256; Cass. 9 dicembre 1976, n. 4577, in Foro it., 1977, I, 369, con commento di Niccolini; Cass. 22 giugno 1972, n. 2067, in Giust. civ., 1972, I, 1507; Cass. 22 giugno 1972, n. 2067, in Giust. civ., 1972, I, 1507;Cass. 10 agosto 1965, n. 1921, in Giust. civ., 1965, I, 1959, con commento di Schermi, Momento dell'attribuzione dello status di imprenditore commerciale alle società ed assoggettabilità a fallimento; in Dir. fall., 1967, II, 423, con commento di Farina, Assoggettabilità al fallimento di società commerciali che non esercitano attività imprenditrice?; Trib. Torino, 19 gennaio 2000, in Giur. it., 2000, 544; Trib. Milano , 6 luglio 1995, in Gius, 1995, 3743; App. Catanzaro, 6 marzo 1993, in Dir. fall., 1994, II,1012 con nota di Mazza.Trib. Udine 20 ottobre 1997, in Fallimento, 1998, 414, con nota di Schiavon, Considerazioni in tema di fallimento di socio a responsabilità illimitata e del socio receduto; Trib. Foggia 21 febbraio 1994, in Dir. fall., 1994, II, 639.
[86] Patti, Fallimento delle società commerciali ed esercizio dell’attività di impresa, in Fallimento 1995, 622; Questa impostazione è assolutamente prevalente anche se secondo una vecchia tesi, ormai accantonata, occorrerebbe per l’attribuzione dello status di imprenditore commerciale un esame in fatto dell’attività svolta, sul presupposto di una mancata coincidenza tra le due nozioni di società ed impresa (al riguardo cfr. Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1961, 144; Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1962, 64; Minervini, L'imprenditore, fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 31; Jorio, Osservazioni in tema di società, inizio dell'impresa commerciale e fallimento, in Riv. dir. civ., 1968, I, 50; Buonocore, Enciclopedia del diritto, voce Imprenditore, XX, Milano, 1970, 515; Ragusa Maggiore, Imprenditore, Impresa, fallimento, Padova, 1979, 47).
[87] Anfuso, Condizioni di fallibilità dell'impresa collettiva, cit., 609. L’art. 1 l. fall., ante novella, nel disporre che in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali, evidenzia la volontà del legislatore di assoggettare a fallimento ogni società commerciale, per il solo fatto che presenti una certa forma , a prescindere dall'indagine sull’effettivo e abituale esercizio del commercio (in tal senso già Trib. Livorno 13 dicembre 1954, in Dir. fall., 1955, II, 773, secondo cui «se una società si costituisce ed assume la forma, che in questo caso è anche sostanza, di uno dei tipi previsti dagli artt. 2291 e ss. codice civile, ne viene di conseguenza che lo status di imprenditore commerciale è presunto iuris et de iure, tanto è vero che l'art. 1 l. fall., nel prendere in esame le imprese soggette a fallimento, dichiara che, in nessun caso, le società commerciali possono essere considerate piccoli imprenditori»). Nello stesso senso: Trib. Bologna, 4 novembre 2003, in Foro pad., 2005, 1, 191; Trib. Roma, 11 aprile 2002, Dir. e prat. soc., 2003, 3, 90; Anche dopo la novella legislativa, secondo la giurisprudenza il legislatore ha inteso non distinguere, ai fini della qualifica di piccolo imprenditore al comma 2 dell’art. 1, gli esercenti un’attività comerciale in forma individuale o collettiva che avessero conseguito un limitato volume d’affari e avessero effettuato modesti investimenti, con la chiara esclusione dal novero delle piccole imprese di tutte le società commerciali (Trib. Trani, 13 marzo 2007, n. 185, in Giurisprudenzabarese.it 2007).
[88] L’art. 14 del decreto legge n. 269, del 30 settembre 2003 (convertito con modificazioni nella legge n. 326 del 2003, conseguente alle osservazioni avanzate dalla Commissione Europea sul sistema delineatosi con l’entrata in vigore dell’art. 35 della c.d. legge finanziaria per il 2002), introdusse la suddivisione dei servizi in virtù della loro rilevanza economica, in luogo della precedente distinzione tra servizi a rilevanza industriale e non. <span style="font-size: 10.0pt"> I servizi pubblici locali a rilevanza economica sono quelli gestiti con metodo economico, laddove la tariffa richiesta all’utente risponda allo scopo almeno tendenziale di coprire integralmente i costi di gestione. Laddove invece i costi del servizio siano coperti facendo ricorso alla fiscalità generale, ovvero applicando tariffe politiche con lo scopo di esigere una mera compartecipazione dell’utenza, il servizio in questione sarà privo di rilevanza economica.</span><span style="font-size: 10.0pt"> La giurisprudenza si è avvalsa, ai fini classificatori, di un criterio già conosciuto e utilizzato a livello comunitario, ossia quello della presenza o meno di un mercato concorrenziale, desumibile, tra gli altri, da indici quali l’esistenza di rischi connessi all’attività da esercitare, lo scopo lucrativo in capo al gestore, il finanziamento prevalentemente o esclusivamente pubblico. Più precisamente, la distinzione tra servizi di rilevanza economica e servizi privi della stessa va considerata in relazione all’impatto che l’attività può avere sull’assetto della concorrenza ed ai caratteri di redditività del servizio. Si può infatti sostenere che si è in presenza di servizi aventi la suddetta rilevanza ogni volta risulti possibile, per i caratteri tipici della prestazione, la produzione – anche solo potenziale – di un utile o un avanzo di gestione, ancorché essi derivino da una forma più o meno ampia di finanziamento pubblico dell’attività. Viceversa, saranno “non economici” quei servizi che non generano alcuna competizione, in quanto inidonei ad essere offerti su un dato mercato dietro retribuzione. Non può aversi riguardo, in definitiva, in ipotesi siffatte, all’astratta natura del servizio di cui si tratta (se di rilevanza sociale o meno), ma alla concreta natura del suo espletamento, ai suoi specifici connotati economico-organizzativi ed in particolare alla natura giuridica del soggetto chiamato ad espletarlo.
[89] Ricorre in talune pronunce giurisprudenziali (cfr. Trib. Palemo, 8 gennaio 2013 , cit., Trib. Velletri 8 marzo 2010 in www.ilcaso.it e in Riv. dottori comm., 2010, 2, 413) il rilievo secondo cui la vocazione commerciale di una società predicherebbe l’operare di essa all’interno di un mercato concorrenziale e lo svolgimento di un’attività a favore di terzi.Nel senso della esclusione dalla nozione di impresa, con riguardo alla disciplina della concorrenza nel diritto comunitario, in riferimento allo svolgimento di un servizio di carattere sociale, Corte di giustizia, 22 gennaio 2002, C-218/00, Soc. Cisal, e 16 marzo 2004, C-264, 306, 354 e 355/01, Aok Bundesverband, concernenti l’ attività svolta da organismi di previdenza.
[90] App. Napoli, 27 maggio 2013, n. 346, cit. 1299.
[91] Il consolidato orientamento risale addirittura agli anni ’40 e rappresenta la naturale evoluzione dell’impostazione del vecchio codice di commercio del 1882, secondo cui erano «commercianti coloro che esercitano atti di commercio per professione abituale e le società commerciali» (art. 8). Cfr. tra gli altri: Rocchi, Il fallimento delle società commerciali, Roma, 1937, 10; Brunetti, Trattato del diritto delle società, Milano, 1946, 62; Bigiavi, La professionalità dell'imprenditore, Padova, 1948, 7; ; De Ferra, Sul fallimento della società commerciale che non esercita attività imprenditoriale, in Dir. fall. 1956, II, 482; Ghidini, Inizio e cessazione dell'impresa, in Temi, 1962, 416; Franceschelli, Impresa e Imprenditore, Milano, 1964, 68; De Semo, Diritto fallimentare, Padova, 1968, 491; Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, I, 210.
[92] Quanto ad esempio alla riscossione della tariffa per il servizio pubblico, la Cassazione da tempo ha precisato che una società per azioni, concessionaria dello Stato per la costruzione e l’esercizio di un’autostrada, non perde la propria qualità di soggetto privato - e, quindi, ove ne sussistano i presupposti, di imprenditore commerciale, sottoposto al regime privatistico ordinario e cosi suscettibile di essere sottoposto ad amministrazione controllata (abrogato art. 187 l. fall.) - per il fatto che ad essa partecipino enti pubblici come soci azionisti e che il rapporto giuridico instaurato con gli utenti dell’autostrada sia configurato, dal legislatore, in termini pubblicistici, come ammissione al godimento di un pubblico servizio previo il pagamento di una tassa (pedaggio) e che lo Stato garantisca i creditori dei mutui contratti dalla società concessionaria per la realizzazione del servizio (Cass. 10 gennaio 1979 n. 158 richiamata da Cass., 6 dicembre 2012, n. 21991, cit.).
[93] Cass., sez. un., 19 dicembre 2009, n. 26806. Anche la Corte dei Conti ha rilevato, con riferimento alla legittimità della concessione di un mutuo da parte di un Comune nei confronti di una società in house, che natura del rapporto funzionale con l'ente proprietario non si riflette nei rapporti con i terzi, né sulla disciplina normativa applicabile all'organizzazione societaria, che rimane quella ordinaria stabilita dal codice civilee, ritenendo dunque che al finanziamento concesso dal comune si applichi la postergazione prevista dagli artt. 2467 c.c. e 2497-quinquies c.c., se avvenuto nell'anno precedente alla dichiarazione di fallimento (Corte dei conti, sez. controllo Lombardia, parere 29 giugno 2009 n. 385, consultabile sulla banca dati della Corte dei conti, al sito www.corteconti.it.).
[94] Sull’abuso di segregazione patrimoniale mi permetto di rinviare a Fimmanò, Patrimoni destinati e tutela dei creditori nella società per azioni, Milano 2008, 356 s.
[95] Che non si esauriscono nell’assoggettamento alle procedure concorsuali, ma riguardano ad esempio l’applicazione della responsabilità da direzione e coordinamento ex art. 2497 ss. (al riguardo mi permetto di rinviare a Fimmanò, L'ordinamento delle società pubbliche cit., 11).
[96] App. Napoli, 24 aprile 2013, n. 57, cit.
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