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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 08/04/2014 Scarica PDF

Le società in house tra giurisdizione, responsabilità ed insolvenza

Francesco Fimmanò, Professore ordinario di diritto commerciale presso l'Università delle camere di commercio "Universitas Mercatorum" di Roma e Vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti


Sommario - 1. Genesi ed evoluzione del fenomeno della società di gestione in house providing; - 2. La società in house come articolazione interna e strumentale dell’ente pubblico; - 3. La giurisdizione in tema di società a partecipazione pubblica; - 4. La giurisdizione in tema di società in house providing nella sentenza a sezioni unite della Cassazione n. 26283 del 2013; - 5. Gli effetti societari del c.d. “controllo analogo”; - 6. Controllo analogo e squarcio del velo della personalità giuridica; - 7. La società in house come patrimonio separato dell’ente pubblico; - 8. I prevedibili effetti sistemici del pronunciamento delle sezioni unite sulla fallibilità delle società e sulla responsabilità diretta dell’ente pubblico per le obbligazioni sociali.


     

1. Genesi ed evoluzione del fenomeno della società di gestione in house providing

Il tema dell’impresa pubblica è fortemente connotato, nell’evoluzione normativa e giurisprudenziale, dalla “interazione” tra il diritto interno e comunitario, specie per i profili che riguardano i temi della concorrenza, delle liberalizzazioni, degli aiuti di stato, delle procedure di costituzione degli organismi di gestione dei servizi, della disciplina dell’attività economica, degli affidamenti e degli appalti. Nel nostro Paese le pubbliche amministrazioni, favorite dallo stesso legislatore, hanno mantenuto la “sacca” del privilegio derivante dall’affidamento diretto della gestione di attività e servizi pubblici a società interamente partecipate e quindi in deroga ai fondamentali principi comunitari della concorrenza e della trasparenza[2]. Abbiamo assistito, per queste ragioni, a partire dal 1990, ad un percorso legislativo composito e spesso del tutto incoerente, caratterizzato da frequenti ripensamenti, fatta eccezione per una costante: la crescente e progressiva espansione delle società a partecipazione dell’ente pubblico (specie locale), anche attraverso la trasformazione di aziende speciali, consorzi ed istituzioni.

Da una parte v’è stata, infatti, la tendenza ad ampliare l’ambito dei servizi pubblici includendo non solo quelli aventi per oggetto attività economiche incidenti sulla collettività, ma anche quelli riguardanti attività tendenti a promuovere lo sviluppo socio-economico delle comunità locali, fino ad arrivare ad affidare a società partecipate addirittura funzioni, che lungi dal rientrare nell’ambito dei servizi pubblici in senso proprio, costituiscono tipiche attività istituzionali o strumentali dell’ente[3]. Dall’altra parte è stata incentivata la gestione mediante società partecipate in un’ottica rivolta (solo) formalmente alla aziendalizzazione dei servizi e ad una privatizzazione effettiva (come auspicato dal legislatore sin dal 1942) [4], in realtà sostanzialmente diretta ad evitare procedimenti ad evidenza pubblica e a sottrarre comparti dell’amministrazione ai vincoli di bilancio, anche in considerazione della mancata applicazione all’ente-capogruppo dei principi di consolidamento di diritto societario a partire dall’elisione delle partite reciproche[5].

La vicenda complessiva, partita nel 1990 con la espressa previsione nella legge n. 142 della società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria [6], passa attraverso l’introduzione della società c.d. minoritaria  [7], l’apertura al tipo della S.r.l. e l’incentivo alla trasformazione delle aziende speciali e dei consorzi [8], per subire un provvisorio assestamento nel 2000 con il Testo Unico delle autonomie locali (Tuel)che sistemava organicamente la materia[9]. Nel 2001 il quadro viene virtualmente rivoluzionato con l’introduzione della categoria mai definita dei c.d. servizi industriali e l’introduzione rigorosa, mai attuata, dei principi della concorrenza[10]. Con la contro-riforma del 2003 e la legge finanziaria per il 2004, si arriva infatti ad un risultato esattamente opposto [11]. Quest’ultimo intervento, in parte censurato dalla Corte Costituzionale[12], ha suddiviso i servizi in virtù della loro rilevanza economica, in un contesto pesantemente dominato dalla figura della società interamente pubblica, affidataria diretta in house providing e del suo strettissimo collegamento funzionale con l’ente di riferimento, tanto da far evocare una situazione di dipendenza organica.

La tendenza espansiva del modello societario ha subito, negli ultimi anni, almeno da un punto di vista formale, una inversione[13], a cominciare dal decreto c.d. Bersani sulle liberalizzazioni[14]. Tuttavia, nonostante i tanti interventi normativi, allo stato resta diffusissimo il modello organizzativo della società in house.

Questo modello gestorio, come noto, trova la propria origine normativa in una rivisitazione,   che definirei strumentale, fatta dal legislatore della giurisprudenza comunitaria, che in particolare nella famosa sentenza Teckal aveva escluso l’applicabilità delle norme sull’individuazione concorrenziale del concessionario qualora testualmente l’ente “eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano[15]. Si noti che si tratta, e non a caso, proprio delle medesime espressioni successivamente utilizzate dal nostro legislatore per legittimare l’affidamento diretto ed in deroga.

Dell’applicabilità alle società (scelta tutta italiana) del modello c.d. Teckal, riguardante un soggetto giuridico del tutto diverso (e cioè  un consorzio tra comuni), si era giustamente dubitato[16]. In particolare, si era osservato che ben difficilmente potrebbero riscontrarsi i presupposti in una società di capitali. Il ministero dell’Ambiente, in tema di servizio idrico integrato, ebbe modo correttamente di  rilevare che «l’eventuale controllo può avvenire solo secondo modalità previste dal diritto societario e non certo secondo rapporti gerarchici o strumentali di carattere pubblicistico» [17]. D’altra parte, la società si distingue dall’azienda speciale e dal consorzio proprio per l’estraneità e l’autonomia (perfetta sul piano patrimoniale) rispetto all’apparato amministrativo dell’ente locale, di cui non è certamente organismo strumentale [18]. L’affidamento in house esige un rapporto di delegazione interorganica[19] che da un punto di vista civilistico è improponibile tra una società di capitali ed il suo socio, tra i quali v’è comunque il diaframma della personalità giuridica[20].

Secondo l’orientamento della Corte di Giustizia la normativa comunitaria sui pubblici appalti non trova applicazione quando tra le due figure interessate (amministrazione aggiudicatrice e aggiudicatario) non si è in presenza di un vero e proprio rapporto contrattuale, come nel caso di delegazione interorganica, la quale esclude tra essi la terzietà e consente l’applicazione dell’istituto dell’affidamento diretto[21].

Nel nostro ordinamento la delegazione interorganica, quale istituto riconducibile, nell’ambito pubblicistico, ai sistemi di c.d. esecuzione indiretta, comporta il trasferimento da un soggetto all’altro di competenze, funzioni e poteri, con la conseguenza che il  delegante si spoglia di proprie attribuzioni a favore del delegato, il quale a sua volta, agisce solo nell’interesse e per conto di quest’ultimo, acquisendo legittimazione attiva e passiva e diventando direttamente responsabile nei confronti dei terzi degli atti di esecuzione della delegazione.

I requisiti necessari, per potersi affermare la presenza di un tale nesso, sono frutto della elaborazione giurisprudenziale comunitaria, la quale ha individuato tali parametri nella  dipendenza finanziaria, nella dipendenza amministrativa (intesa sia come organizzativa che gestionale) tra una amministrazione aggiudicatrice e un società pubblica, e nella diversa attribuzione dei compiti tra amministrazione e soggetto gestore, seppure in modo che quest’ultimo realizzi la parte prevalente della propria attività in favore dell’Ente controllante.

Quanto alla dipendenza, tale giurisprudenza ha escluso che la forma societaria del soggetto sia un elemento determinante per l’applicazione delle procedure ad evidenza pubblica. In altre parole se il soggetto gestore è una società di capitali non per questo si può escludere che sia parte dell’Amministrazione aggiudicatrice. Quello che occorre accertare in concreto è l’effettivo controllo che la P.A. esercita sulla società partecipata. Quanto alla diversa attribuzione di compiti tra l’Ente locale e la società aggiudicataria, va verificato che essa realizzi la parte prevalente della propria attività in favore del proprio controllante [22].

L’orientamento trova la sua ratio nel fatto che, rispetto ad un soggetto controllato che svolga la sua prevalente attività in favore del soggetto controllore, non sono ravvisabili situazioni di pregiudizio per la parità di trattamento degli altri operatori economici e per il rispetto delle regole di concorrenza. Tale deroga non riguarderebbe solo le articolazioni interne delle amministrazioni aggiudicatrici, le quali sarebbero prive di soggettività separata, ma anche qualsiasi soggetto giuridicamente distinto dall’amministrazione aggiudicatrice, purché sussistano le predette condizioni. In altre parole, il rapporto tra la società appaltatrice e la P.A. si deve sostanziare in una relazione di subordinazione gerarchica tale da concretizzare uno stretto controllo gestionale e finanziario sulla società. La gerarchia si caratterizza per il potere di direzione, per il quale l’organo sovraordinato impartisce direttive e indirizzi, ossia indica gli obiettivi da raggiungere lasciando libertà di azione all’organo sottostante circa le modalità di perseguimento degli stessi; il potere di sostituzione, che sussiste soltanto laddove espressamente previsto dalla legge; i poteri di controllo, che sussistono nella stessa forma di cui al modello di gerarchia in senso stretto [23].

La sussistenza del rapporto di connessione e subordinazione interorganica intercorrente tra l’ente e la società da esso costituita, trova fondamento normativo nell’articolo 42 del D. lgs. 267 del 2000, per cui spetta al Consiglio comunale la “… partecipazione dell’ente locale a società di capitali …”, nonché la “nomina dei rappresentanti del Consiglio presso enti, aziende ed istituzioni ad esso espressamente riservata dalla legge”. Da un rapporto del genere, intercorrente tra l’Ente e la società da esso controllata in toto, deriva la considerazione di entrambi i soggetti come parti di un’unica struttura amministrativa, e scaturisce la configurazione dell’affidamento in parola alla stregua di un’ordinaria ripartizione di funzioni e servizi all’interno del medesimo sistema amministrativo. Da tale qualificazione del rapporto discende che l’attività svolta dalla società affidataria “in house” è, in linea di principio, esclusiva, ossia precluderebbe alla medesima società la partecipazione a procedure di gara per l’aggiudicazione di ulteriori appalti da parte di soggetti aggiudicatori diversi da quello di riferimento.

In ogni caso quando la società, in un modo o nell’altro, viene trattata a guisa di organo dell’ente, come la Corte di Giustizia U.E. ha ritenuto possibile[24], evidentemente ci saranno delle conseguenze gravi sul piano dell’applicazione delle regole societarie che ne disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento.

Questa costruzione rivela, a nostro avviso, una oggettiva debolezza da due diversi punti di vista: quello pubblicistico in quanto la società, specie quella per azioni, non può mai per sua natura essere idonea alla configurazione di quel controllo analogo che la legge richiede, se non come vedremo attraverso strumenti contrattuali; e quello privatistico in quanto la configurazione della fattispecie, laddove possibile, produce l’effetto di per sé del c.d. abuso di direzione e coordinamento, in violazione dei criteri di corretta gestione societaria ed imprenditoriale [25].

Il tutto è reso ancora più complesso ed artificioso nel caso in cui gli enti pubblici soci siano più d’uno, considerato che si è ritenuto ammissibile anche in questo caso l’esercizio congiunto del controllo analogo[26], evidentemente in virtù di patti parasociali. La Corte di Giustizia UE ha affermato che quando più autorità pubbliche, nella loro veste di amministrazioni aggiudicatrici, istituiscono in comune un'entità incaricata di adempiere compiti di servizio pubblico ad esse spettanti, oppure quando un'autorità pubblica aderisce ad un’entità siffatta, la condizione enunciata dalla giurisprudenza della stessa, secondo cui tali autorità, per essere dispensate dal loro obbligo di avviare una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico in conformità alle norme del diritto dell'Unione, debbono esercitare congiuntamente sull’entità in questione un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi, è soddisfatta qualora ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale sia agli organi direttivi dell’entità suddetta[27].

In realtà i giudici europei sono intervenuti ripetutamente sui problemi in esame ed in linea con quanto già stabilito nelle sentenze Stadt Hallee Parking Brixen[28],affermano ormai che le due condizioni del “controllo analogo” e della “parte più importante della propria attività” devono essere interpretate in modo restrittivo, mentre l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza delle circostanze eccezionali che giustificano la deroga a quelle regole grava su chi intenda avvalersene.

La Corte riconduce la nozione di “controllo” nell’alveo dell’esercizio da parte dell’ente affidante di un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti delle società partecipate[29], avendo cura di precisare che la detenzione in mano pubblica dell’intero capitale sociale dell’affidataria non è elemento sufficiente e decisivo ai fini della sussistenza del requisito in parola. Viene esclusa la sussistenza del “controllo analogo” in ragione oltre che dell’ampiezza dei poteri attribuiti al Consiglio di Amministrazione della società anche dell’assenza di specifiche riserve a favore dell’ente . In sostanza, il controllo pubblico, proprio perché circoscritto all’esercizio dei semplici poteri riconosciuti dal diritto societario ai soci di maggioranza, senza alcuna previsione aggiuntiva a beneficio della pubblica amministrazione, non garantisce al soggetto affidante alcuna influenza decisiva sugli obiettivi strategici e sulle decisioni importanti dell’affidataria, anche in ragione di una vigilanza esercitata su quest’ultima mediante una holding pubblica [30].

Quanto alla definizione dell’altro requisito richiesto dalla giurisprudenza comunitaria perché sia possibile l’affidamento diretto del servizio, vale a dire “lo svolgimento della parte più importante dell’attività a favore dell’ente controllante”, il ragionamento compiuto dalla Corte muove dall’esigenza di tutelare il libero gioco della concorrenza. Ogni altra diversa attività da quella principale, svolta dalla affidataria, deve essere considerata assolutamente marginale. A tal proposito, la Corte evidenzia come il vincolo funzionale che lega l’affidataria all’amministrazione aggiudicatrice, in un certo senso, imponga all’impresa di svolgere la propria attività all’interno del territorio del soggetto pubblico, pur non considerando l’extra-territorialità elemento decisivo ai fini della verifica della sussistenza del “controllo analogo”[31].

Nella stessa linea di pensiero si è ormai collocata anche la nostra giurisprudenza amministrativa e contabile[32]. In particolare il Consiglio di Stato ha rinvenuto i germi della contaminazione della libera concorrenza nella circostanza che lo statuto di società affidatarie in house  preveda la possibilità che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere ceduta a terzi [33]. A questo si aggiunga che, sempre secondo i giudici del supremo Consesso amministrativo, i poteri attribuiti dal diritto societario alla maggioranza dei soci non sarebbero sufficienti a garantire all’ente un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi, con la conseguenza che, ricorrendo entrambe le condizioni descritte, occorre che l’affidamento della gestione del servizio sia preceduta dallo svolgimento di una procedura di evidenza pubblica[34].

   

2. La società in house come articolazione interna e strumentale dell’ente pubblico

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno recentemente preso atto di questo quadro ed hanno adattato l’impostazione comunitaria, al fine di riconoscere, per la prima volta, la giurisdizione della Corte dei conti sulle azioni di responsabilità agli organi sociali delle “famigerate” società in house [35]. I giudici del Supremo consesso hanno qualificato questo genere di società come una mera articolazione interna della P.A.. una sua longa manus al punto che l’affidamento diretto neppure consentirebbe di configurare un rapporto intersoggettivo di talchè l’ente in house “non potrebbe ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma dovrebbe considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa”[36]. Il passaggio della sentenza più forte è quello secondo cui “il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva”.

L’uso del vocabolo società, quindi, servirebbe solo a significare che, ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo andrebbe desunto dal modello societario; ma di una società di capitali, intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non sarebbe più possibile parlare. Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure potrebbero essere considerati (a differenza di quanto accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica), come investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società. Essi sarebbero preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla stessa P.A. e quindi personalmente a questa legati da un vero e proprio rapporto di servizio, non diversamente da quel che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico. D’altro canto, se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società in house, che ad esso fa capo, la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si porrebbe in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità. Dal che discenderebbe che, in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile agli organi di controllo, sarebbe arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all’ente pubblico: è quindi un danno erariale, che giustificherebbe l’attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità.

La ragione per cui le sezioni unite adattano (in modo forzato) la costruzione giuspubblicistica e comunitaria Teckal al diritto interno delle società, con i notevoli rischi sistemici conseguenti, nasce, a nostro avviso, dalla consapevolezza che ancora più ardita sarebbe stata la riqualificazione delle società in house in enti pubblici in assenza di norme espresse, come si è tentato in passato (e che infatti viene esclusa). La sentenza cerca di rimanere nel solco tracciato dagli stessi giudici di legittimità tentando di limitare, per quanto possibile, di contraddire il quadro delineato con riferimento più generale alle società pubbliche.

Infatti la stessa Cassazione in un arresto, immediatamente precedente, in tema di insolvenza[37], era pervenuta ad una serie di conclusioni sistematiche assolutamente rilevanti rispetto al tema che ci occupa. Innanzitutto si è affermato che una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale. Peraltro proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore (anche di matrice comunitaria e giuspubblicistica)  che - negli ambiti da esse delimitati attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato - può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica. La Suprema Corte ha richiamato l’art. 4 della legge n. 70 del 1975, che nel prevedere che nessun nuovo  ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge,evidentemente richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco. Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono sul modo in cui essa opera nel mercato né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica. L’eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo, si legge sempre nella sentenza, non appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile. Insomma ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non è il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto. Se così non fosse si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale sarebbero esentate dal fallimento.Viceversa, una volta che il legislatore ha permesso di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, da ciò consegue l’assunzione dei rischi connessi, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza[38].

Sempre la Cassazione in una sentenza della fine del 2012 [39] aveva fissato un altro importante principio che in qualche modo chiudeva il cerchio e cioè che le società  a partecipazione pubblica costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono imprenditori commerciali, indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano tale qualità dal momento della loro costituzione, non dall’inizio del concreto esercizio dell’attività d’impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore individuale. Sicchè, mentre quest’ultimo è identificato dall’esercizio effettivo dell’attività, relativamente alle società commerciali è lo statuto a compiere tale identificazione, realizzandosi l’assunzione della qualità in un momento anteriore a quello in cui è possibile, per l’impresa non collettiva, stabilire che la persona fisica abbia scelto, tra i molteplici fini potenzialmente raggiungibili, quello connesso alla dimensione imprenditoriale. Il controllo totale di una pubblica amministrazione su una società di capitali partecipata non può dar vita a un “tipo” di diritto speciale sulla base di un supposto (ma inesistente) principio di neutralità della forma giuridica rispetto alla natura dello scopo, nè ad una sua connotazione pubblicistica [40], frutto di una sorta di mutazione genetica nel senso di una riqualificazione del soggetto[41]. Si può parlare di società di diritto speciale soltanto laddove una espressa disposizione legislativa introduca deroghe alle statuizioni del codice civile, nel senso di attuare un fine pubblico incompatibile con la causa lucrativa prevista dall’art. 2247 c.c. [42], con la conseguente emersione normativa di un tipo con causa pubblica non lucrativa [43]. Viceversa, a parte i casi di società c.d. legali (istituite, trasformate o comunque disciplinate con apposita legge speciale)[44], ci troviamo sempre di fronte a società di diritto comune, in cui pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella privatistica che regola il funzionamento della società convivono[45].

Insomma, la strada dell’affermazione della giurisdizione contabile attraverso la riqualificazione soggettiva è sbarrata, in quanto solo una legge può riqualificare una società a partecipazione pubblica come ente pubblico e quando ha ritenuto di farlo lo ha fatto. E ciò trova conferma nel divieto di cui all’art. 4 della legge 20 marzo 1975, n. 70, che per porre un freno all’incontrollata proliferazione di enti pubblici , dispose la soppressione di tutti quelli esistenti alla data della sua entrata in vigore, fatte salve le sole eccezioni dalla stessa specificamente indicate, al contempo vietandone l’istituzione o il riconoscimento di nuovi mediante atti non aventi forza di legge[46]. La riqualificazione di una società di capitali in ente sostanzialmene pubblico affermata da un diritto pretorio, è una  operazione interpretativa non consentita in base alla predetta riserva di legge, ed in virtù del principio di cui all’art. 101 Cost., che impedisce di negare l’efficacia precettiva delle norme oltre i limiti consentiti dall’interpretazione, la quale non può mai porsi contra legem.

Discorso affatto diverso riguarda l’attività svolta dalle società in esame. Ad esempio la normativa comunitaria e nazionale in tema di appalti pubblici comprende tra le pubbliche amministrazioni, assoggettate alle norme che impongono il rispetto dell’evidenza pubblica e delle procedure concorrenziali trasparenti conformi ai principi comunitari, non solo i soggetti formalmente pubblici, ma anche quelli con veste privata, ma sottoposti ad un controllo pubblico, al fine di evitare l’elusione dei vincoli procedimentali[47]. Nello stesso senso va la legislazione in tema di “criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi” [48]. Naturale conseguenza è che le relative controversie sono attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo alla luce dell’art. 103 Cost..[49]. Sulla base della medesima impostazione si è registrato un ampliamento della giurisdizione della Corte dei Conti sulla responsabilità amministrativa nei confronti di amministratori e dipendenti non solo degli enti pubblici economici ma anche di soggetti formalmente privati, essendo sufficiente la natura oggettivamente pubblica del danno e cioè il collegamento anche indiretto con la finanza pubblica [50], a prescindere dalla natura giuridica del soggetto o dalla veste utilizzata[51]. Si è sostituito ad un criterio eminentemente soggettivo, che identificava l’elemento fondante della giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica dell'agente, un criterio oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie a tal fine adoperate. Pertanto, quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei conti e giudice ordinario, occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l'agente e la pubblica amministrazione tenendo conto che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo all’amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece un'attività, senza che rilevi nè la natura giuridica dell'atto di investitura - provvedimento, convenzione o contratto - nè quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica[52].

L’affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della gestione di un servizio pubblico integra una relazione funzionale incentrata sull'inserimento del soggetto medesimo nell’organizzazione funzionale dell'ente pubblico e ne implica, conseguentemente, l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, a prescindere dalla natura privatistica dello stesso soggetto e dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il rapporto, anche se l’estraneo venga investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in favore della pubblica amministrazione ed anche se difetti una gestione del danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di rendicontazione proprie della giurisdizione contabile in senso stretto. Lo stesso dicasi per l’accertamento della responsabilità erariale conseguente all'illecito o indebito utilizzo, da parte di una società privata, di finanziamenti pubblici; o per la responsabilità in cui può incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un’opera pubblica, quando la concessione investe il privato dell’esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche, attribuendogli la qualifica di organo indiretto dell'amministrazione, onde egli agisce per le finalità proprie di quest'ultima[53].Nella medesima logica, come si è visto, la Cassazione ha riconosciuto la giurisdizione della magistratura contabile per le società a partecipazione pubblica solo là dove ed in quanto si arrechi un danno erariale all’azionista pubblico. Il risarcimento va dunque all’erario poichè il danno è direttamente alle casse pubbliche e in via mediata alla partecipazione del socio pubblico[54].

Dunque tali società sono assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilievo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e le finanze; saranno invece assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini dell’organizzazione e del funzionamento[55]. E ciò vale anche per l’istituzione, la modificazione e l’estinzione, ove gli atti propedeutici alla formazione della volontà negoziale dell’ente sono soggetti alla giurisdizione amministrativa, ma gli atti societari rientrano certamente nella giurisdizione del giudice ordinario[56]. Così per le controversie riguardanti l’organizzazione societaria, la giurisprudenza ha affermato che non è sufficiente il mero coinvolgimento dell’interesse pubblico per giustificare l’attrazione in capo al giudice amministrativo. In questo senso è stato ad esempio risolto il caso della nomina o della revoca degli amministratori[57] da parte di un ente pubblico: l’atto persegue un fine pubblico ma rimane un atto societario in quanto espressione di una prerogativa squisitamente privatistica e non certo di un potere pubblicistico[58]. Né la partecipazione dell’ente giustifica valutazioni diverse della condotta degli organi sociali ai fini delle loro responsabilità gestionali o di controllo[59].

Il sistema delineato, in cui il soggetto giuridico e la sua organizzazione sono disciplinati dalle regole civilistiche e la relativa attività può essere disciplinata da regole giuspubblicistiche, in sé abbastanza chiaro, è stato “confuso” dalla sovrapposizione di norme e definizioni aventi ad oggetto l’attività e dalla conseguente giurisprudenza amministrativa, a principi e norme di diritto civile e fallimentare. L’esempio più eclatante è stato l’uso improprio (frutto di una mancata visione interdisciplinare) dell’espressione “organismo di diritto pubblico” che è stata utilizzata per riqualificare l’imprenditore commerciale come soggetto di natura pubblica e non semplicemente, come operatore rientrante tra le amministrazioni aggiudicatrici, che, com'è noto, sono tenute, nella scelta del contraente, sia al rispetto della normativa comunitaria che al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale[60].  Insomma una cosa è l’imprenditore commerciale (società a partecipazione pubblica o meno, o concessionaria di servizio beni pubblici) che resta sempre tale ed assoggettato al relativo statuto ed altra cosa è la sua qualificazione di “organismo pubblico” ai fini delle norme cui assoggettare la sua particolare attività[61]. Ed ora anche la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto che la qualificazione come organismo di diritto pubblico non determina di per sé l’esonero dal rispetto delle regole civilistiche , se in fatto tale soggetto abbia agito come operatore economico ben potendo, sussistendo i requisiti da detta norma previsti, un Ente con personalità di diritto privato essere riconosciuto quale organismo di diritto pubblico e viceversa [62]. E la suprema Corte ha confermato questi principi persino per quel ridotto numero di “società legali” per le quali una ipotetica riqualificazione della natura troverebbe almeno la sponda normativa cui la sentenza in epigrafe fa riferimento[63].

   

3. La giurisdizione in tema di società a partecipazione pubblica

Sulla base di questa complessiva impostazione era stato individuato dalla Cassazione, almeno fino alla citata sentenza a sezioni unite del novembre del 2013, l’ambito della giurisdizione della Corte dei Conti, sin dal pronunciamento “spartiacque” del 19 dicembre 2009 n. 26806  e di quelli successivi di analogo tenore, sempre a sezioni unite [64].

La Suprema Corte, in virtù di questo orientamento[65], ha risolto per anni il problema di giurisdizione sulla responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica, in modi opposti a seconda che l’azione avesse ad oggetto un danno arrecato direttamente al socio pubblico o, invece, al patrimonio sociale[66].

Nel primo caso ha sancito la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti. Nel secondo, invece, ha rilevato: l’insussistenza di un rapporto di servizio fra gli amministratori della società e l’ente pubblico socio; l’insussistenza di un danno erariale inteso in senso proprio, essendo il pregiudizio arrecato al patrimonio della società, unico soggetto cui compete il risarcimento; la non conciliabilità dell’ipotizzata azione contabile con le azioni di responsabilità esercitabili dalla società, dai soci e dai creditori sociali a norma del codice civile, dalla cui esperibilità non si può prescindere.

Nei precedenti citati i giudici hanno precisato che solo nel caso in cui l’evento dannoso sia prodotto dagli amministratori “direttamente” a carico del socio-ente pubblico si configura la responsabilità amministrativa con sussistenza della giurisdizione del giudice contabile. In buona sostanza, sulla base di una peculiare interpretazione dell’art. 16-bis della l. 28 febbraio 2008, n. 31, di conversione del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248 [67], ha stabilito un criterio generale, superando il carattere di specialità che connoterebbe la materia, dove, fra le diverse tipologie di società, disciplinate da norme e principi differenti, l’unico denominatore comune sarebbe la presenza di una pubblica amministrazione nel capitale sociale.

Insomma secondo il consolidato orientamento, che resiste salvo che per le società in house providing, non sussiste la giurisdizione diretta della Corte dei Conti sulla responsabilità degli amministratori e sindaci di questo tipo di società in quanto nondiviene essa stessa un ente pubblico sol per il fatto di essere partecipata da una pubblica amministrazione.

L’inquadramento sistematico comporta pertanto che ci siano due forme di responsabilità dei relativi organi amministrativi e di controllo, concorrenti[68] e settoriali[69], quella civilistica comune per danni, secondo le regole ex art. 2393 s.. c.c. , e quella erariale nei confronti del socio pubblico, da far valere con l’azione individuale del socio ex art. 2395 c.c. [70] e peraltro non preclusiva della stessa [71], esattamente come accadrebbe per qualsiasi altra società di diritto comune[72].

Appare decisivo il rilievo secondo cui, quando l’amministrazione per l’espletamento di propri compiti istituzionali si avvale di società di diritto privato da essa partecipate, l’esistenza di un rapporto di servizio idoneo a fondare la giurisdizione del giudice contabile può essere configurata in capo alla società, ma non anche personalmente in capo ai soggetti (organi o dipendenti) della stessa, essendo questa dotata di autonoma personalità giuridica; del pari non sembra superabile il rilievo secondo cui, sempre per effetto della distinta personalità di cui la società è dotata e della sua conseguente autonomia patrimoniale rispetto ai propri soci/e, quindi, rispetto all'ente pubblico partecipante), i danni eventualmente ad essa cagionati dalla mala gestio degli organi sociali o comunque da atti illeciti imputabili a tali organi o a dipendenti non integrano gli estremi del cosiddetto danno erariale, in quanto si risolvono in un pregiudizio gravante sul patrimonio della società, che è un ente soggetto alle regole del diritto privato, e non su quello del socio pubblico. Ciò non significa però che il danno erariale non possa in qualche modo riapparire sotto altra forma ed in capo ad altri soggetti: «la circostanza che l’ente pubblico partecipante possa tuttavia risentire del danno inferto al patrimonio della società partecipata, quando esso sia tale da incidere sul valore o sulla redditività della partecipazione, può eventualmente legittimare un'azione di responsabilità della procura contabile nei confronti di chi, essendo incaricato di gestire tale partecipazione, non abbia esercitato i poteri ed i diritti sociali spettanti al socio pubblico al fine d'indirizzare correttamente l’azione degli organi sociali o di reagire opportunamente agli illeciti da questi ultimi perpetrati»[73].

   

4. La giurisdizione in tema di società in house providing

La volontà “politica” di porre al centro del sistema il modello c.d. in house in cui l’ente pubblico eserciti sulla società un controllo analogo, quanto meno per prerogative ed intensità, a quello esercitato sui propri servizi, ispirata dalla mera finalità dell’affidamento diretto della gestione di attività e servizi pubblici a società eterodirette e “abusate”, in deroga ai fondamentali principi della concorrenza tra imprese e della trasparenza, ha spesso trasformato l’ente pubblico da soggetto gestore in una sorta di holding che si occupa dell’attività di direzione e coordinamento delle società strumentali partecipate (artt. 2497 ss. c.c.).

Questa discutibile esigenza ha portato ad enucleare un vero e proprio “mostro giuridico”, che, come visto, le sezioni unite del novembre 2013 hanno delineato, mutuandolo dall’assetto giurisprudenziale amministrativo e comunitario, nei suoi caratteri principali[74],  e cioè quello della società intesa come articolazione organizzativa dell’ente, posta in una situazione di delegazione organica o addirittura di subordinazione gerarchica, con l’effetto di pretendere addirittura la mancata applicazione dello statuto dell’imprenditore.

Questa operazione non supportata normativamente dall’emersione di un “tipo” genera tuttavia una confusione che non tiene conto del fatto che alcune categorie concettuali e sistematiche di diritto pubblico e comunitario non sono affatto applicabili sic et simpliciter al diritto commerciale. Peraltro intanto si giustifica un modello privatistico in cui l’ente locale si occupa, in forza della sua autonomia privata, della governance delle sue partecipate in quanto i regimi di responsabilità, gestione e organizzazione siano quelli del diritto societario comune, seppure con alcuni accorgimenti nei limiti del principio di tipicità, e non altri. Altrimenti non avrebbe senso servirsi di una fictio per simulare istituti di tutt’altra natura quali l’azienda speciale oppure l’ente pubblico economico[75].

Le sezioni unite della Cassazione, nella citata sentenza n. 26283, precisano che l’espressione “controllo” non allude all’influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull’assemblea della società e, di riflesso, sulla scelta degli organi sociali; si tratta, invece, di un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell'ente con modalità e con un'intensità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile, e sino al punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante autonomia gestionale.

Una lettura conforme ai principi nazionali e comunitari comporta l’inquadramento della società in house providing come longa manus dell’ente, una sua derivazione operativa, formalmente strutturata come società, ma sostanzialmente in tutto e per tutto dipendente dai soggetti pubblici proprietari del capitale, a guisa di un’azienda speciale (una quasi immedesimazione tra società ed ente pubblico proprietario).

Ma questo è l’equivoco di fondo: per configurare il controllo analogo, è necessario uno strumento, di carattere societario, parasociale o contrattuale, diverso dai normali poteri che un socio, anche totalitario, esercita in assemblea, che in ogni momento possa vincolare l’affidataria agli indirizzi dell’affidante. Non può certo bastare il potere di nomina degli organi perché questi saranno comunque autonomi nella gestione, salvo la possibilità di revocarli. Quindi da un lato il controllo partecipativo totalitario è condizione necessaria (con tutti i relativi effetti ex art. 2325, comma 2, c.c. e 2462, comma 2, c.c.), dall’altro è condizione insufficiente a legittimare l’affidamento diretto dei servizi.

Infatti, sul piano del diritto societario, il controllo analogo, nel senso inteso dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, non è possibile, a nostro avviso, nelle società per azioni sulla base delle regole civilistiche e neppure di patti parasociali, in quanto il tipo di società, almeno nel nostro ordinamento, impedisce per sua natura un controllo invasivo del socio sull’amministrazione di tal fatta [76].

In questa logica ci appare del tutto incompatibile la soluzione diffusamente praticata di istituire nello statuto “comitati di controllo analogo” od organismi del genere.  E ciò a prescindere dalla legittimità nelle s.p.a. di patti che contemplino un potere invasivo diretto a togliere autonomia agli amministratori in violazione dei criteri di corretta gestione societaria.

In realtà la riforma del diritto delle società ha accentuato questa caratteristica inibendo agli azionisti, o meglio all’assemblea, qualsiasi forma di “intrusione” nell’attività gestoria. Il socio non può neppure monitorare la gestione, avendo solo il diritto di voto, di impugnare le delibere, e in caso di partecipazione qualificata, di chiedere la convocazione dell’assemblea, di denunciare eventuali sospetti di irregolarità al collegio sindacale e\o al tribunale.

Per la società per azioni l’unico eventuale “luogo” per l’esercizio del controllo sui servizi è appunto il contratto di affidamento dei servizi, dove l’ente, azionista ed appaltante, può effettivamente imporre, in via parasociale[77], modalità, termini e condizioni così stringenti ed unilaterali, da generare la configurazione di un effettivo controllo analogo a quello effettuato sui propri servizi.

Orbene, l’art. 2497 sexies c.c., sancisce che si presume la sussistenza di un’attività di direzione e coordinamento di società da parte della società o dell’ente tenuti al consolidamento dei bilanci (e non è il nostro caso) o che comunque, ai sensi dell’art. 2359 c.c., le controlla disponendo «della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria», o   «di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria» o che sono sotto la sua influenza dominante «…in virtù di particolari vincoli contrattuali». Quest’ultima forma di controllo c.d esterno, prevista dall’art. 2359, n. 3, c.c., si identifica con un potere effettivo nei confronti della società, che prescinde dalle regole organizzative della stessa, di determinare l’attività dell’impresa controllata. Il carattere esistenziale del rapporto contrattuale configura in questo caso un’ingerenza nella gestione che si concretizza attraverso le decisioni degli organi della controllata. Il contratto peraltro non ha ad oggetto il controllo, ma la produzione. Il controllo non si realizza attraverso l’organizzazione societaria, ma attraverso il risultato dell’esercizio dell’attività economica, cioè la produzione (la gestione dei servizi) che la controllante indirizza mediante il rapporto contrattuale verso il proprio profitto.

Dal punto di vista invece del c.d. controllo interno, l’unico modello conforme al dettato del legislatore è il tipo della società a responsabilità limitata[78], ammessa ormai da  tempo nella gestione dei servizi pubblici[79], dove è concepibile un controllo di tipo invasivo ed anche asimmetrico. Si pensi innanzitutto al disposto dell’art. 2479, comma 1, c.c., il quale sancisce che «i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione». E di conseguenza, a norma dell’art. 2476, comma 7, c.c., «sono solidalmente responsabili con gli amministratori…i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi».

 

5. Gli effetti societari  del c.d. controllo analogo

Il fenomeno del gruppo di società controllato da un ente pubblico, o addirittura da un’amministrazione dello Stato, è del tutto consueto nel nostro ordinamento, basti pensare addirittura all’esistenza in passato di un dicastero delle “partecipazioni statali” al vertice di una serie di holding settoriali (a cominciare da Iri, Eni, Efim etc.). D’altra parte l’attività di dominio è di per sé lecita e configura una situazione soggettiva attiva di cui può, e talora deve, farsi uso[80]: non contrasta con i principi inderogabili dell’ordinamento giuridico il fatto che il centro decisionale delle strategie venga posto al di fuori delle singole società controllate[81].  Ciò può valere a maggior ragione quando la società è a partecipazione pubblica ed il dominio può essere finalizzato ad evitare pregiudizi alla collettività [82]. L’art. 2497, comma 1, c.c., sancisce che «Le società o gli enti [83] che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società. Non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette».

Il legislatore ha poi chiarito che «per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività  imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria». [84],

L’attività di dominio diviene fonte di responsabilità diretta verso soci e creditori se abusiva, ovvero se il dominus-ente pubblico la esercita nell’interesse imprenditoriale proprio od altrui (e comunque non nell’interesse del dominato) e se è contraria ai criteri di corretta gestione imprenditoriale e societaria. La responsabilità dell’ente pubblico-dominus sorge per effetto della violazione di un dovere specifico derivante da un preesistente rapporto obbligatorio verso soggetti determinati e non dal generico dovere del neminem laedere verso qualsiasi soggetto dell’ordinamento. Ma c’è di più nel sistema di cui agli artt. 2497 ss., c.c., la responsabilità contrattuale del dominus che esercita l’attività di direzione e coordinamento nell’interesse proprio od altrui e violando gli obblighi di corretto perseguimento degli interessi di gruppo quale risultante dall’equo contemperamento degli interessi delle società eterogestite, convive con la responsabilità risarcitoria di “chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi abbia consapevolmente tratto beneficio” (art. 2497 comma 2).

E’ abbastanza evidente che il controllo “analogo” che legittima l’affidamento diretto del servizio pubblico viene (nella migliore delle ipotesi) esercitato in funzione degli interessi istituzionali dell’ente e della collettività cui viene erogato il pubblico servizio e non dell’interesse (lucrativo) della controllata, e come tale genera la responsabilità sussidiaria  dello stesso ente. Addirittura si badi che per i c.d. servizi senza rilevanza economica la gestione secondo criteri di economicità, quindi di corretta gestione imprenditoriale, è esclusa addirittura dalla legge. Quindi in una situazione in cui l’interesse della controllata diverge da quello del soggetto controllante e sussistono i presupposti previsti dalla legge, scatterebbe la responsabilità della capogruppo a prescindere dalla sua natura e dall’interesse in concreto perseguito.

In ogni caso, laddove si verifichi l’ipotesi di controllo “analogo” contemplata dalla sentenza a sezioni unite in oggetto, ci troviamo di fronte ad un caso di violazione, in re ipsa, delle regole dettate dal codice civile in tema di eterodirezione e cordinamento (artt. 2497 ss.). Anche nel caso di controllo esterno, l’abuso della dipendenza economica può tradursi di per sé in abuso dell’attività di direzione e coordinamento con la conseguente responsabilità riconosciuta dalla giurisprudenza anche prima delle riforme [85].

Peraltro la più attenta dottrina commercialistica già sottolineava questa criticità in relazione agli effetti del vecchio art. 2362, c.c., in caso di pubblica amministrazione-azionista unica [86], rispetto all’impossibilità di ammettere, per le regole di contabilità pubblica, una spesa di ammontare indeterminato come quella derivante dalla responsabilità delle obbligazioni societarie sorte nel periodo di controllo totalitario [87]. Problema che in verità si pone tuttora, in aggiunta alle responsabilità da eterodirezione abusiva, nei casi in cui a norma e per gli effetti degli artt. 2325, comma 2, c.c. e  2462, comma 2, c.c., non siano state rispettate le cautele in tema di conferimenti e pubblicità [88]. Quindi l’abuso del dominio finisce con il generare anche la violazione delle regole di contabilità pubblica, in ordine all’assunzione indiretta di spese di ammontare indeterminato come quella derivante dalla responsabilità ex art. 2497 c.c.

   

6. Controllo “analogo” e squarcio del velo della personalità giuridica

Secondo i giudici delle sezioni unite “nei gruppi societari il potere di direzione e coordinamento spettante all’ente capogruppo attiene all’individuazione delle linee strategiche dell’attività d’impresa senza mai annullare del tutto l’autonomia gestionale della società controllata. Gli amministratori di quest’ultima sono perciò tenuti ad adeguarsi alle direttive loro impartite, ma conservano nondimeno una propria sfera di autonomia decisionale (giacchè, pur con gli adattamenti resi necessari dall’esser parte di un gruppo imprenditoriale più vasto, continua ad applicarsi alla singola società il disposto dell'art. 2380 bis c.c., comma 1) nè, soprattutto, essi possono prescindere dal valutare se ed in qual misura quelle direttive eventualmente comprimano in modo indebito l’interesse della stessa società controllata: interesse di cui sono garanti ed in virtù del quale hanno il dovere, se del caso, di discostarsi da direttive illegittime. La disciplina della direzione e del coordinamento dettata dai citato art. 2497 e ss., insomma, è volta a coniugare l’unitarietà imprenditoriale della grande impresa con la perdurante autonomia giuridica delle singole società agglomerate nel gruppo, che restano comunque entità giuridiche e centri d’interesse distinti l’una dalle altre”.

Altrettanto non si potrebbe dire invece per la società in house, sia per la subordinazione dei suoi gestori all’ente pubblico partecipante, nel quadro di un rapporto gerarchico che non lascerebbe spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso, sia per l’impossibilità d’individuare nella società un centro d'interessi davvero distinto rispetto all’ente pubblico che l’ha costituita e per il quale essa opera.

Allo stesso modo, sempre secondo le sezioni unite, ove si abbia a che fare con una società a responsabilità limitata, non sarebbe possibile ricondurre sic et simpliciter il controllo analogo, caratteristico del fenomeno dell’ in house, ad uno dei “particolari diritti riguardanti l’amministra-zione” che l’atto costitutivo può riservare ad un socio (art. 2468 c.c., comma 3): giacchè neppure siffatti diritti speciali di amministrazione sono equiparabili, in presenza di un amministratore non socio, ad un rapporto di natura gerarchica da cui quest'ultimo sia vincolato, restando comunque intatto il suo primario dovere di perseguire l’interesse sociale, che conserva pur sempre un qualche grado di autonomia rispetto a quello personale del socio.

La società in house, invece, non sarebbe un’entità posta al di fuori dell'ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria articolazione interna.  Il “velo” che normalmente nasconde il socio dietro la società sarebbe dunque  - nella fattispecie - squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizzerebbe più in termini di alterità soggettiva.

In verità questa ricostruzione, pur suggestiva, non ci pare condivisibile. La situazione della società in house è esattamente quella di una società soggetta a direzione e coordinamento.

In caso di società per azioni come visto non c’è alcuna possibile previsione statutaria o parasociale che possa rendere gli amministratori degli “automi”. Si tratterebbe in ogni caso di soggetti che possono gestire la società come vogliono anche contro le direttive impartite o contro “improbabili” clausole c.d. “di controllo analogo”, pena la revoca dalla carica e l’azione risarcitoria. Ma evidentemente il potere di nomina e revoca (e di deliberare l’eventuale azione di responsabilità) non è certo eccezionale rispetto a ciò che si verifica nel diritto comune. Davvero non vediamo nel diritto delle società per azioni modalità per realizzare nei confronti degli organi della società partecipata “un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso” (come testualmente si afferma in sentenza).

Anche laddove il dominio dell’ente-socio, in linea con quanto da noi rilevato, venga realizzato nella S.p.a. attraverso il contratto di servizio, trattandosi peraltro di controllo analogo a quello realizzato sul proprio servizio (e quindi anche nel nomen più adeguato), questo al massimo può realizzarsi attraverso una vera e propria “sostituzione” nella gestione dell’attività, laddove l’amministratore “ribelle” non dia seguito alle direttive dell’ente-dominus. Ma in questo caso tuttavia non si porrà un problema di “immedesimazione” ma al limite di una gestione di fatto dell’impresa effettuata dall’esterno, od in via sostitutiva, che comunque non realizza alcuno squarcio del velo della personalità giuridica. Ed anche in questo caso, quindi, non si realizzerà “un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso”, in quanto comunque l’amministratore “ammutinato” sarà libero di fare quel che vuole, pena la revoca e la reazione risarcitoria.

Discorso analogo può essere fatto nella società a responsabilità limitata, dove è possibile addirittura che il socio in sostanza, come visto, amministri. Tuttavia anche in questo caso ciò non comporta alcuna eccezione al diritto comune. La Srl partecipata dalla P.A. che intervenga direttamente a gestire al posto degli amministratori non realizza  un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso”, ma configura una situazione tipica che l’ordinamento prevede e che in caso di mala gestio sanziona, come visto, ex art. 2476, comma 7, c.c.,.

Anche in questo caso non c’è alcuna ipotesi di piercing the corporate veil. D’altra parte le tecniche giurisprudenziali di reazione all’abuso della personalità giuridica basate sullo squarcio[89] o sulla confusione patrimoniale, sono state definitivamente superate dal nuovo impianto normativo (risultante dalle riforme del diritto societario e fallimentare) che si muove su un doppio binario: l’estensione della responsabilità derivante dalla eccezione tipologica e la responsabilità derivante appunto dall’abuso dell’attività di direzione e coordinamento.

La normativa di cui agli artt. 2497 ss., c.c., unitamente a quella di cui all’art. 147 l. fall., ora esclude la possibilità dello squarcio della segregazione mediante la  “estensione” della responsabilità o la confusione dei patrimoni, che rimane una tecnica possibile solo per i tipi che contemplano una connaturata responsabilità illimitata dei soci o di alcuni di essi[90]. In ogni caso non si tratterà di squarcio del velo (che resta intangibile ed anzi si rafforza) ma di responsabilità da abuso del dominio[91].

   

7. La società in house come patrimonio separato dell’ente pubblico

Secondo le sezioni unite se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società in house che ad esso fa capo, “è giocoforza concludere che anche la distinzione tra il patrimonio dell'ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità”.

Dal che discende che, in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile agli organi di controllo, sarebbe “arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all’ente pubblico: è quindi un danno erariale, che giustifica l’attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità[92].

In realtà la separazione del patrimonio unitario, nel nostro ordinamento, è un fenomeno caratterizzato dal vincolo di destinazione specifico [93], cui una pluralità di rapporti giuridici attivi e passivi, che possono fare capo ad una o più persone fisiche o giuridiche, è indirizzato [94]. La funzione alla quale detti rapporti sono chiamati evidenzia come essi debbano essere costituiti in unità e tenuti distinti dagli altri rapporti attivi e passivi di cui le stesse persone siano “domini[95] e rende il patrimonio vincolato.

La possibilità convenzionale di creare patrimoni separati è preclusa all’autonomia privata dal sistema di cui all’art. 2740 c.c.[96], che tuttavia consente la deroga per espressa previsione legislativa. [97] Il sistema di cui all’art. 2740 c.c. che nasce, come noto, dalla concezione, di origine francese, del patrimonio come emanazione della personalità, con i relativi corollari dell’unicità e della indivisibilità, da un lato, e dell’impossibilità di individuare l’appartenenza di più patrimoni in capo al medesimo individuo dall’altro (oltre che, ovviamente, nelle teorie patrimoniali dell’obbligazione di matrice tedesca), presidia dall’esterno il buon funzionamento del rapporto obbligatorio e ne assicura comunque il risultato utile anche contro l’inerzia o la cattiva volontà del debitore, esponendo tutti i beni di quest’ultimo all’azione esecutiva. Tant’è che, in questa medesima prospettiva, la possibilità di destinare patrimoni a uno scopo suppone, almeno tendenzialmente, la creazione di un centro autonomo di diritto, dotato di distinta soggettività e di un proprio patrimonio diverso da quello delle persone fisiche partecipanti, come avviene nello schema tipico della società di capitali.

Si tenga conto che la protezione del principio, quasi dogmatico, dell’interdipendenza tra unicità del patrimonio, inseparabilità e regime di responsabilità [98], fu alla base della scelta del legislatore di qualche anno fa di attuare la dodicesima direttiva[99] di armonizzazione del diritto societario [100], ricorrendo alla personalità giuridica[101] ed alla introduzione della società unipersonale. E la scappatoia che certi collegamenti di beni “i quali per la loro destinazione diventano, in misura e in maniera molto varie, termini indipendenti di rapporti giuridici” potendo dar luogo ad una sorta di soggettivizzazione dei patrimoni, appare confusoria sul piano sistematico ed in particolare sul piano dell’imputazione giuridica.

I giudici di legittimità hanno così coniato in via giurisprudenziale e senza una previsione normativa una sorta di patrimonio separato, destinato ad uno specifico affare (la gestione di un servizio pubblico), a guisa della fenomenologia contemplata dall’art. 2447 bis e ss., c.c.,[102].

Ma c’è di più, la Cassazione evoca, con il risultato raggiunto, l’unica norma dell’ordinamento italiano che prevede una forma di squarcio, l’art. 2447 quinquies, comma 3, seconda parte, c.c. Anche se per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la Spa risponde nei limiti del patrimonio destinato allo stesso, il legislatore fa salva  la responsabilità illimitata del patrimonio generale per le obbligazioni derivanti da “fatto illecito”, sorte evidentemente dopo la gemmazione. Si è osservato che si tratta della penetrazione nell’ordinamento di quella tendenza, sviluppata in altri ordinamenti, che basa sulla distinzione della natura della fonte dell’obbligazione i limiti del privilegio della limitazione della responsabilità [103].

Anche se l’impatto sistematico nel nostro caso è diverso e ben meno rilevante, considerato che una cosa è superare il diaframma della personalità giuridica in caso di abuso della stessa [104] e tutt’altra è semplicemente rendere inopponibile ai creditori involontari un vincolo di destinazione funzionale a scopo di garanzia, in un contesto in cui manca ogni alterità soggettiva. Tuttavia ci pare che la disciplina sia dettata dalle medesime ragioni economiche poste alla base dell’applicazione della tecnica giurisprudenziale del c.d. piercing the corporate veil [105].

Il legislatore italiano approfittando della sua stessa scelta di non attribuire ai patrimoni destinati a specifici affari di Spa una autonomia esterna ed una assenza di alterità soggettiva (esattamente come ragionano le sezioni unite), ha mutuato dal sistema americano la tecnica del superamento del diaframma (o meglio di inefficacia dello stesso), traducendola nella inopponibilità del diaframma della garanzia generica, quando nell’esecuzione dello specifico affare siano sorte obbligazioni derivanti da torts (nel modello anglosassone non si distingue tra illecito contrattuale ed extracontrattuale).

In realtà , a nostro avviso, non si può ipotizzare, in assenza di norma espressa, che  la società in house sia un patrimonio separato sprovvisto di autonoma personalità e di alterità soggettiva rispetto al socio. Sarebbe peraltro operazione ripetibile nei confronti di qualsiasi soggetto che faccia un uso meramente strumentale del veicolo societario.

Pur condividendo l’obiettivo della Cassazione di consentire alle Procure della Corte dei conti di agire per la mala gestio delle società veicolo in house, ciò deve e può passare attraverso le regole e l’ordinamento del diritto delle società, oppure attraverso una norma di legge che preveda la fattispecie concreta. E si tenga conto che il legislatore si è mosso nella direzione esattamente opposta laddove all’art. 4, comma 13, del d.l. 95 del 2102 (cd. spending review), ha dettato una norma generale di rinvio alla disciplina codicistica, secondo cui “le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali[106].

E’ vero che una lettura conforme ai principi nazionali e comunitari comporta l’inquadramento della società in house providing come longa manus dell’ente, una sua derivazione operativa, formalmente strutturata come società, ma sostanzialmente in tutto e per tutto dipendente dai soggetti pubblici proprietari del capitale, a guisa di un’azienda speciale. Tuttavia, laddove si verifichi l’ipotesi di controllo “analogo” contemplato dalle sezioni unite ci troviamo di fronte ad un caso di violazione, in re ipsa, delle regole dettate dal codice civile in tema di direzione e coordinamento, fonte di responsabilità  diretta verso soci e creditori ex art. 2497, c.c.,  di responsabilità risarcitoria “aggiuntiva” di “chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi abbia consapevolmente tratto beneficio” (art. 2497 comma 2, c.c.). Il tutto con violazione delle regole di contabilità pubblica, in ordine all’assunzione indiretta di spese di ammontare indeterminato.

Insomma siamo in una situazione in cui c’è la responsabilità dell’ente pubblico per abuso del dominio, dei suoi amministratori e dirigenti per la stessa ragione (e per aver violato le regole di contabilità) esponendo l’ente a spese indiscriminate e degli amministratori e dirigenti della società partecipata per aver preso parte al fatto lesivo. Se la responsabilità consiste nel depauperamento del patrimonio dell’ente generato dal danno al patrimonio della società partecipata e dominata, gli amministratori di quest’ultima saranno responsabili in solido come quelli dell’ente-dominus per aver preso parte al fatto lesivo.[107].

   

8. I prevedibili effetti sistemici del pronunciamento delle sezioni unite sulla fallibilità delle società e sulla responsabilità diretta dell’ente pubblico per le obbligazioni sociali

Il nuovo orientamento della Cassazione sulla giurisdizione per le società in house nasce dalla giusta sollecitazione delle Procure presso la Corte dei conti a rivedere la diversa consolidata impostazione, evidenziando come condizionamenti di carattere politico finiscano col rendere altamente improbabili iniziative serie da parte degli enti locali dirette a sanzionare gli organi societari (controllati) davanti al giudice ordinario, dando luogo ad un sostanziale esonero da responsabilità di soggetti che pure arrecano danno a società sostanzialmente pubbliche, in quanto totalmente partecipate dalla pubblica amministrazione, di cui costituiscono longa manus per l’attuazione delle relative decisioni strategiche ed operative. Tutto ciò dovrebbe indurre a ritenere “irragionevole che siano sottoposti alla giurisdizione contabile gli amministratori di un'azienda speciale, quelli di una società concessionaria, la giunta comunale ed i consiglieri comunali che approvano il conto consolidato e controllano la società partecipata e non anche coloro che l'hanno gestita causando direttamente un danno erariale” [108]..

In questa logica si è fatto appello anche ad una serie di novità normative che avrebbero aperto, almeno sul piano sistematico, la strada alla giurisdizione contabile almeno per le società in house. Il riferimento è: al D.l. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 25, comma 1, nn. 5 e 6, [109], il cui art. 1 prevede la responsabilità amministrativa in caso di stipulazione, da parte di talune società a totale partecipazione pubblica, di contratti conclusi in violazione delle previste modalità di approvvigionamento; al D.l. 6 luglio 2012, n. 95, art. 4, comma 12, [110], laddove stabilisce che "le amministrazioni vigilanti verificano sul rispetto dei vincoli di cui ai commi precedenti; in caso di violazione dei suddetti vincoli gli amministratori esecutivi e i dirigenti responsabili della società rispondono, a titolo di danno erariale, per le retribuzioni ed i compensi erogati in virtù dei contratti stipulati"; al D.l. n. 95 del 2012, art. 6, commi 3 e 4, che estende alle società a totale partecipazione pubblica il potere ispettivo attribuito agli organi statali nei confronti delle amministrazioni pubbliche (comma 3) e prevede che comuni e province alleghino al rendiconto della gestione una nota informativa contenente la verifica dei crediti e dei debiti reciproci tra ente e società partecipate e, in caso di discordanze, adottino senza indugio i provvedimenti necessari ai fini della riconciliazione delle partite debitorie e creditorie (comma 4); ed infine al D.l. 10 ottobre 2012, n. 174[111], art. 3, che ha inserito l’art. 147 ter nel testo unico degli enti locali, prevedendo penetranti controlli da parte dell'ente pubblico partecipante ed un bilancio consolidato riguardante le “aziende non quotate partecipate”.

Abbiamo avuto modo, già da anni, di segnalare che le esigenze socio-economiche e politiche  dovevano trovare risposta nella emanazione di “norme efficienti” ovvero nella interpretazione giurisprudenziale efficace, capace di sanzionare l’abuso del modello societario, utilizzato per soddisfare obiettivi “impropri” attraverso la segregazione patrimoniale. In particolare si era rappresentato che la società partecipata da un socio pubblico, rimane un contratto tipico con comunione di scopo lucrativo, soggetto al diritto comune, che non può essere “storpiato o manipolato” per finalità abusive dirette a creare in vitro una sorta di azienda speciale, organica all’ente per alcuni fini e separata per altri, solo per ottenere una autonomia formale e la conseguente disapplicazione delle regole pubblicistiche [112].

La strada più semplice sarebbe stata l’emersione di un tipo di società pubblica “legale” cioè individuata e disciplinata dalla legge cui applicare regole in deroga al diritto comune, analoghe a quelle vigenti per le aziende speciali. Ma visto il silenzio del legislatore, che nonostante i buoni propositi “dichiarati” non è intervenuto espressamente a riconoscere la più efficace giurisdizione della Corte dei conti (ed a porre un argine effettivo al disastrato mondo delle società in house), le sezioni unite non hanno potuto far altro che sostituirsi (come troppo spesso sta accadendo negli ultimi tempi) al fine di raggiungere il risultato più efficiente, in un momento tanto delicato per la finanza pubblica[113].

Tuttavia oltre a tutti i problemi sistemici che il percorso seguito comporta sul piano dei principi fondamentali del diritto delle società, va aggiunta una considerazione per alcuni versi ancora più rilevante: le sezioni unite propongono una soluzione tipologica che in realtà riguarda una fattispecie che deve essere oggetto di una valutazione caso per caso[114].

In questo modo la Cassazione lega la giurisdizione (esclusiva?) sulle società in house, individuando un tipo sulla base di alcune caratteristiche concrete, neppure solo statutarie, ma in parte addirittura fattuali. Per stabilire se c’è (oppure no) giurisdizione contabile occorrerà stabilire se in una determinata società pubblica esista o meno “un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso”.

Nella fattispecie concreta considerata nella sentenza n. 26283 del 2013, la Cassazione premette che il giudice di primo grado ha fatto questa valutazione rimasta incontestata, e quindi la dà per accertata e giudicata. Ma immaginiamo cosa accadrà dopo questa sentenza: si verificherà un florilegio di eccezioni, si faranno nei giudizi mille distinguo, perché non c’è una esatta qualificazione tipologica normativa. Ed immaginiamo addirittura quando l’accertamento di questo presunto controllo analogo riguarderà più enti soci della medesima società, che devono averlo esercitato congiuntamente. E’ prevedibile l’esplosione dell’incertezza. Sarebbe stato diverso se una volta introdotto un tipo di società legale, appunto in house (costituita come tale fin dalla denominazione), si fosse conseguentemente affermata la giurisdizione della Corte dei conti. La sentenza sarebbe stata in tal caso condivisibile in pieno.

E la conferma di tutto ciò viene dalle stesse sezioni unite che, infatti, una settimana dopo questa sentenza ne hanno emessa un’altra, nella medesima composizione (n. 26936 del 2 dicembre 2013) in cui non riconoscono la giurisdizione contabile per l’inesistenza dei tre requisiti individuati: la necessaria appartenenza pubblica del capitale della società (con la previsione statutaria del divieto di cedere a soggetti privati quote della stessa), l’inesistenza di margini di libera agibilità sul mercato (neppure attraverso partecipate e la sottoposizione a controllo analogo (che non può ridursi al potere di nomina degli organi sociali). Analogamente nella sentenza del 16 dicembre 2013 i giudici sono pervenuti al medesimo risultato con riferimento alle condizioni in cui si trovava la persona giuridica all’epoca dei fatti che configuravano la responsabilità[115].

Insomma ci troveremo di fronte a innumerevoli fattispecie diverse in cui i giudici dei diversi gradi di giudizio dovranno valutare in un alveo molto ampio caratteri non codificati, con una incertezza complessiva ancora più volatile della precedente.

L’impatto poi  sui principi di diritto societario, sui regimi di responsabilità e sull’applicazione o meno dello statuto dell’imprenditore commerciale alla società in house sarà ancora più devastante[116].

Anche qui si possono fare degli esempi epifanici a distanza di appena due mesi dalla sentenza di novembre 2013.

Il Tribunale di Pescara ha infatti sancito l’assoggettabilità alla procedura di concordato preventivo delle società in house anche se dotate dei famosi tre requisiti, rilevando che comunque non mutano la loro natura di soggetto di diritto privato solo perché gli enti pubblici ne posseggono le azioni, in tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell’azionista, dato che la società privata, opera “nell'esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’ente pubblico” e gli strumenti utilizzati per regolare il rapporto tra società ed ente locale non possono essere quelli autoritativi di diritto pubblico spendibili nell'organizzazione diretta dell’ente, ma l’ente può avvalersi unicamente degli strumenti propri del diritto societario, da esercitare per il tramite dei membri di nomina pubblica presenti negli organi sociali.  Sempre secondo i giudici abruzzesi la legge non prevede alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, per le società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall’ente locale. La posizione del Comune all'interno della società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla “prevalenza” del capitale da esso conferito; e soltanto in tale veste l'ente pubblico potrà influire sul funzionamento della società... avvalendosi non già dei poteri pubblicistici che non gli spettano, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società.[117]  quindi il contemperamento fra tutela dei creditori e necessità di efficiente gestione del servizio, secondo questa giurisprudenza non va cercato nell’applicazione di istituti di privilegio, tipicamente previsti per enti pubblici, che operano sul piano dell'attività (come l’esenzione dal fallimento).

In senso diametralmente opposto il Tribunale di Verona ha affermato che l’esenzione dalle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo prevista per gli enti pubblici dall’articolo 1, comma 1, l. fall. deve essere applicata anche alle società in house, così come sancito nella sentenza delle sezioni unite non essendo configurabile un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società [118].

Il Tribunale di Nola, ancora, ha decretato l’ammissione a concordato preventivo di una società per azioni interamente controllata da un comune , rilevando che la mancanza di uno solo dei tre requisiti configuranti il c.d. controllo analogo consente l’applicabilità dell’art. 161 l.fall.[119].

Il Tribunale di Modena [120] ha ammesso una S.r.l. in house a concordato, ritenendo che, in difetto di diversa qualificazione legislativa, rimane valido il principio generale della assoggettabilità alle procedure concorsuali delle imprese che abbiano assunto la forma societaria iscrivendosi nell’apposito registro e quindi volontariamente assoggettandosi alla disciplina privatistica. I giudici hanno opportunamente attribuito alla sentenza del supremo consesso una valenza meramente “settoriale” in tema di giurisdizione, escludendo qualunque altro profilo che non attenga al rapporto tra partecipante e partecipato[121].

Il Tribunale di Napoli, invece, ribaltando il suo precedente orientamento, ha affermato che se è vero che gli enti pubblici sono sottratti al fallimento anche la società in house integralmente partecipata dagli stessi non potrà essere soggetta alla liquidazione fallimentare, in quanto costituisce un mero patrimonio separato dell’ente pubblico, centro decisionale autonomo e distinto dal socio pubblico titolare della partecipazione, che esercita sullo stesso un potere di governo del tutto corrispondente a quello esercitato sui propri organi interni[122].

Come si può vedere, dunque, si sono immediatamente realizzate le preoccupazioni da noi espresse all’indomani della sentenza n. 26283[123]. L’orientamento delle sezioni unite è stato riprodotto acriticamente in ambiti completamente diversi da quello della giurisdizione che richiederebbero invece una vera e propria riqualificazione dell’ente[124].

Condividiamo in pieno quanto affermato da autorevole dottrina e cioè che i giudici della Cassazione pur radicando la giurisdizione della Corte dei Conti avevano posto un insuperabile argine alla c.d riqualificazione, ossia all’attribuzione alla società partecipata della qualifica di ente pubblico “per contrastare erronee derive interpretative inclini, con eccessivo semplicismo, alla qualificazione della società partecipata da soggetti pubblici come ente pubblico” [125].

Ma al tempo stesso dobbiamo registrare che ciò invece, come volevasi dimostrare, è subito accaduto. Difatti gran parte della giurisprudenza di merito ha interpretato l’orientamento delle sezioni unite proprio come una riqualificazione, altrimenti non si spiega l’affermazione che la società in house rientra tra i soggetti non assoggettabili alle procedure concorsuali a norma dell’art. 1 della legge fallimentare, ossia tra gli enti pubblici[126].

Affermare che la mancanza di alterità soggettiva genera ai fini fallimentari l’esenzione, equivale a dire che la società coincide con l’ente pubblico, ed il passaggio successivo naturale è che la responsabilità delle obbligazioni sociali è dell’ente pubblico.

Conclusione clamorosa e devastante per la finanza pubblica (ed in particolare per i bilanci degli enti locali) è inevitabilmente quella che i creditori sociali della società in house divengono tutti creditori dell’ente pubblico, verso cui possono agire in via diretta. Ogni ulteriore commento sarebbe evidentemente superfluo[127].

L’orientamento della suprema Corte, frutto di un intento diretto a salvaguardare l’erario dalla diffusa mala gestio degli organi sociali di società strumentali, raggiunge così, per una sorta di “eterogenesi dei fini”, il risultato esattamente opposto cioè quello di aprire una voragine nei conti pubblici derivante dalla responsabilità diretta delle pubbliche amministrazioni per tutti i debiti contratti dalle famigerate società in house providing.



[1] Lo scritto riproduce con taluni aggiornamenti il saggio destinato alla Rivista “Gazzetta Forense”, a cura dell’Università Telematica Pegaso, n. 1 (gennaio febbraio) 2014, 12 s..

[2] Si veda l’art. 4, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012: “A decorrere dal 1° gennaio 2014 l’affidamento diretto può avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house”.

[3] D’altra parte la giurisprudenza ha evidenziato che la qualificazione di servizio pubblico locale spetta a quelle attività caratterizzate sul piano oggettivo dal perseguimento di scopi sociali e di sviluppo della società civile, selezionate in base a scelte di carattere eminentemente politico quanto alla destinazione delle risorse economicamente disponibili ed all’ambito di intervento e su quello soggettivo dalla riconduzione diretta o indiretta ad una figura soggettiva di rilievo pubblico (cfr. Cons. Stato, 13 dicembre 2006 n. 7369; TAR Campania, Napoli,  24 aprile 2008 n. 2533).

[4]  Nella Relazione al Codice Civile, si legge, in riferimento alle società pubbliche che lo Stato “si assoggetta alla legge della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici” (Relazione al Codice Civile, n. 998. Artt. 2458 e ss., vecchio testo).

[5] L’introduzione del bilancio consolidato civilistico per la holding-ente pubblico poteva rappresentare una scelta funzionale all’indirizzo ed al coordinamento dell’intero gruppo pubblico locale (cfr.  Tredici, Il bilancio consolidato del gruppo pubblico locale quale strumento di programmazione e controllo, in Il controllo nelle società e negli enti, 2006, 256 s.). Solo con  il d.lgs. n. 118 del 2011, recante disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, si è previsto che tali enti territoriali adottino <<...comuni schemi di bilancio consolidato con i propri enti ed organismi strumentali, aziende, società controllate e partecipate e altri organismi controllati....>> (art. 11, comma 1).  Tale importante innovazione che impone (e non facultizza più) l’adozione di un bilancio preventivo (e non solo un conto consuntivo) di tipo consolidato, è progressiva nel corso del tempo, mediante la previsione, ai sensi dell’art. 36, d.lgs. cit., di un periodo di sperimentazione biennale (2012-2013), coinvolgente talune amministrazioni pubbliche territoriali prescelte in ragione della loro collocazione geografica e densità demografica, per poi entrare a regime dall’anno finanziario 2014. In tema cfr già Fimmanò, L'ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e natura dell'attività, in Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza, (a cura di Fimmanò), Ricerche di Law & Economics, Milano, 2011, 12 s.

[6] La società mista a prevalente capitale pubblico locale venne prevista per la prima volta dall’art. 22, lettera e) della legge 142 del 1990, (testo poi modificato dall’art. 17, comma 58, legge 15 maggio 1997, n. 127, Bassanini-bis) e la legge non vietava peraltro che la società fosse interamente in mano pubblica (al riguardo cfr. Cavazzuti, Forme societarie, intervento pubblico locale e privatizzazione dei servizi: prime considerazioni sulla nuova disciplina delle autonomie locali, in Giur. It. 1991, IV, 248 s.).

[7] La società mista con partecipazione maggioritaria dei soci privati ha trovato riconoscimento testuale con l’art. 12 della legge n. 498 del 1992, attuata con la normativa regolamentare dettata dal D.p.r. n. 533 del 16 settembre 1996 (al riguardo Campobasso, La costituzione delle società miste per la gestione dei servizi pubblici locali: profili societari, in Riv. soc., 1998, 390 s., che esamina in particolare gli aspetti della compagine, della scelta dei soci e dello scopo di lucro; Rocco di Torrepadula, Aspetti di diritto societario delle s.p.a. con partecipazione comunale, in Riv. soc., 1997, 128 s.; Nanni, Regolamento recante norme sulla costituzione di società miste in materia di servizi pubblici degli enti territoriali, Commentario a cura di Caia - Nanni, in Nuove leggi civ. comm., 1997, 586).

[8] Norme contenute nella c.d. legge Bassanini bis (n. 127 del 15 maggio 1997), che all’art. 17, commi 51-58,  consentiva agli Enti locali di procedere alla trasformazione delle aziende speciali, deputate alla gestione dei servizi pubblici, in società per azioni o a responsabilità limitata con capitale misto, pubblico e privato, anche a partecipazione minoritaria.

[9] D. lgs. n. 267 del 2000.

[10] Articolo 35 della legge n. 448 del 2001.

[11]Si tratta in particolare dell’art. 14 del d.l. n. 269 del 30 settembre 2003 «Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici», convertito con  modificazioni nella l. n. 326 del 2003 (conseguente alle osservazioni della Commissione Europea sul sistema delineatosi con l’entrata in vigore dell’art. 35 ).

[12] Nel luglio del 2004, la Corte Costituzionale accolse in parte il ricorso avanzato dalla regione Toscana e dichiarò illegittimo l’art. 14, comma 1, lett. e), e comma 2, del D.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. nella L. 24 novembre 2003, n. 326, (Corte Costit., 27 luglio 2004, n.272, cfr. al riguardo Marchi, I servizi pubblici locali tra potestà legislativa statale e regionale, in Giorn. Dir. Amm., 1, 2005).

[13] Alla data di emanazione del decreto Bersani si era calcolato che le partecipazioni, dirette e indirette, detenute dallo Stato attraverso il Ministero dell’economia e delle finanze riguardavano circa 400 società, mentre le società partecipate dalle amministrazioni locali (comuni, province, regioni e comunità montane) erano 4874, legate ai tradizionali compiti di prestazione di servizi pubblici negli ambiti territoriali di loro competenza (Rapporto Assonime settembre 2008, Principi di riordino del quadro giuridico delle società pubbliche, in www.emagazine.assonime.it).

[14] D.l. n. 223 del 4 luglio 2006, convertito nella legge n. 248 del 4 agosto 2006.

[15] Corte di Giustizia 18 novembre 1999, in causa C-107/98 TECKAL s.r.l. contro Comune di Aviano in Riv.it.dir.pubbl.com., 2000, 1393 s. In modo più o meno conforme: Corte di Giustizia, 10 novembre 1998, BHI HOLDING contro G. ARNHEM e G. RHEDEN; Corte di Giustizia, 09 settembre 1999, RI.SAN s.r.l. contro Comune di Ischia; Corte di Giustizia, 15 iugno 2000, ARGE Gewassserschutz contro Bundersministerium  fur Land und Forstwirtschaft.

[16] D’altra parte il diritto dell’UE «non impone in alcun modo alle autorità pubbliche di ricorrere ad una particolare forma giuridica per assicurare in comune le loro funzioni di servizio pubblico» (al riguardo cfr. Corte di giustizia, 9 giugno 2009, C-480/06, Commissione c. Germania).

[17] Circolare del Ministro dell’Ambiente 17 ottobre del 2001 n. 11559/B01.

[18] Cons. Stato, 3 settembre 2001 n. 4586 (al riguardo Pittalis, Regolazione pro-concorrenziale dei servizi pubblici locali: un principio vincolante per Stato e Regioni, in www.giust.it).

[19] Escluso anche dal Ministro per le Politiche Comunitarie (Circolare 1 marzo 2002 n. 3944, in G.U.R.I. n. 102/02 – Serie generale, e 19 ottobre 2001 n. 12727, in G.U.R.I. n. 264/01 – Serie generale. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento delle Politiche Comunitarie, Circolare 12727 del 19 Ottobre 2001).

[20] Anche sul piano processuale il Consiglio di Stato, ha affermato che le società controllate o collegate hanno un’autonoma soggettività giuridica e possono assumere la posizione di controinteressate necessarie dinanzi al giudice amministrativo. (Cons. Stato, 26 gennaio 2007 n. 278). E non a caso ad esempio l’Agenzia delle entrate, sul piano tributario, ha affermato che le prestazioni di servizio rese da una società in house all'ente locale, dietro pagamento di un corrispettivo, sono da assoggettare ad IVA (Direzione centrale normativa e contenzioso, 8 marzo 2007 n. 37).

[21] La giurisprudenza comunitaria ha più volte ribadito che un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi. In tal caso, non si può parlare di contratto a titolo oneroso concluso con un’entità giuridicamente distinta dall'amministrazione aggiudicatrice. Non sussistono dunque i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici. La partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi. Pertanto, nell'ipotesi in cui un'amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell'ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 92/50, come modificata dalla direttiva 97/52, con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono sempre essere applicate (Corte giustizia U.E., 11 gennaio 2005 n. C-26/03).

[22] Cons. Stato, 18 settembre 2003, n. 5316.

[23] Circolare Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Politiche Comunitarie, 1 marzo 2002, n. 3944. L’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici, con deliberazione 25 giugno 2003, n. 175, ha ammesso la deroga esclusivamente all’attività posta in essere da soggetti, necessariamente di composizione mista, quindi che prevedono la partecipazione del capitale da parte di privati.

[24] In particolare la Corte ha statuito che “Le direttive del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, e 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, non ostano ad un regime giuridico quale quello di cui gode la Transformación Agraria SA, che le consente, in quanto impresa pubblica operante in qualità di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di diverse amministrazioni, di realizzare operazioni senza essere assoggettata al regime previsto dalle direttive in parola, dal momento che, da un lato, le amministrazioni pubbliche interessate esercitano su tale impresa un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi e che, dall’altro, la detta impresa realizza la parte più importante della sua attività con le amministrazioni di cui trattasi” (Corte giustizia U.E., Sez. II, 19 aprile 2007 n.C-295/05).

[25] Sugli effetti del c.d. dominio abusivo, mi permetto di rinviare a Fimmanò, La responsabilità da abuso del dominio dell’ente pubblico in caso di insolvenza della società controllata, in Dir. fall., 2010,  724 s.; cfr. in tema anche carlizzi, La direzione unitaria e le società partecipate dagli enti pubblici, in Riv.dir.comm., 2010, I, p. 1177 ss.

[26] Si è affermato in giurisprudenza che nel caso di affidamento in house, conseguente alla istituzione da parte di più enti locali di una società di capitali da essi interamente partecipata per la gestione di un servizio pubblico, il controllo, analogo a quello che ciascuno di essi esercita sui propri servizi, deve intendersi assicurato anche se svolto non individualmente ma congiuntamente dagli enti associati, deliberando se del caso anche a maggioranza, ma a condizione che il controllo sia effettivo, dovendo il requisito del controllo analogo essere verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente che il controllo della mano pubblica sull'ente affidatario, purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione di ogni singolo ente. Occorrerebbe, in particolare, verificare che il consiglio di amministrazione della società di capitali affidataria in house non abbia rilevanti poteri gestionali, e che l’ente pubblico affidante (rispettivamente la totalità dei soci pubblici) eserciti(no), pur se con moduli societari su base statutaria, poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario, caratterizzati da un margine di rilevante autonomia della governance rispetto alla maggioranza azionaria, sicché risulta indispensabile, che le decisioni più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante o, in caso di in house frazionato, della totalità degli enti pubblici soci (Cons. Stato, Sez. V, 24 settembre 2010, n. 7092).

[27] Il Giudice dell’UE non indica, di regola, soglie quantitative, ma in una pronuncia ha affermato che, quando la società «realizza mediamente piu` del 55% della sua attività con le comunità autonome e circa il 35% con lo Stato», deve ritenersi che «la parte più importante dell’attività  della società di cui trattasi è realizzato con gli enti e gli organismi pubblici che la detengono» (Sentenza 19 aprile 2007, C-295/05, Asociacio´n Nacional de Empresas Forestales) La Corte si è così pronunciata nella controversia che vedeva opposti una società e tre comuni ed avente ad oggetto la regolarità dell'affidamento diretto di un appalto di servizi, relativo alla gestione del servizio di igiene urbana, senza l'organizzazione di una procedura di aggiudicazione di tale appalto in conformità alle norme del diritto dell'Unione; in particolare, uno dei tre comuni aveva costituito apposita società quale prestatore di servizi in house, mentre gli altri due enti vi avevano aderito successivamente in qualità di azionisti pubblici, mediante la partecipazione al capitale sociale attuata attraverso l’acquisizione di un'azione ciascuno (Corte giustizia UE  sez. III, 29 novembre 2012, n. 182. in Foro amm. CDS, 2012, 11, 2748).

[28] Decisione C.G.E. dell'11 Gennaio 2005 (cd. sentenza Stadt Halle); decisione C.G.E. del 13 Ottobre 2005 (cd. sentenza Parking Brixen Gmbh). Da ultimo cfr. sentenza 29 novembre 2012, C-182/11 e n. C- 183/1, Econord S.p.a.

[29] Uno degli interventi più rilevanti in materia di affidamento in house da parte di enti pubblici italiani è contenuto nella sentenza Agesp dell’11 maggio 2006, C- n. 340/04 (in cui i giudici comunitari hanno avuto modo di affrontare una controversia riguardante la fornitura di combustibili e la manutenzione degli impianti termici a favore del Comune di Busto Arsizio disciplinata attraverso la stipula di contratti, qualificati come appalti di fornitura, aggiudicati, senza gara, alla società Agesp S.p.a. in ragione del controllo esercitato sul soggetto affidatario dal Comune mediante l’Agesp holding S.p.a, società a capitale interamente pubblico. Nello stesso senso Corte di giustizia europea, Sez. II, 17/7/2008 n. C-371/05 (c.d. sentenza Asi). In tema cfr. pure In argomento, Libertini, Le società di autoproduzione in mano pubblica: controllo analogo, destinazione prevalente dell’attività ed autonomia statutaria, in Benazzo, Cera, Patriarca, Il diritto delle società oggi, Innovazioni e persistenze, Studi in onore di Giuseppe Zanarone, Torino, 2011, 496 s.

[30] Il 6 aprile 2006 i giudici comunitari sono ritornati sul tema (sentenza C-410/04). L’occasione è stata fornita dall’esame di una controversia sottoposta al loro vaglio dal TAR Puglia, sezione di Bari, ed ha investito il caso di un affidamento, senza gara, compiuto dal Comune di Bari del servizio di trasporto pubblico - da garantirsi all’interno del territorio comunale - ad una S.p.a. controllata interamente dall’ente locale affidante. I giudici comunitari, dunque, operano un chiaro richiamo ai concetti di “controllo analogo” e di “parte più importante della propria attività” svolta dal soggetto affidatario, concetti già coniati all’epoca della sentenza “Teckal” per giustificare l’astratta compatibilità con il dettato comunitario di una norma di uno Stato membro che non preveda alcuna procedura selettiva per l’affidamento di un servizio pubblico.

[31] La giurisprudenza amministrativa ha affermato che le società a partecipazione dell’ente pubblico locale, pur legittimate in via di principio a svolgere la propria attività anche al di fuori del territorio del comune dal quale sono state costituite, in quanto munite dal legislatore di capacità imprenditoriale sono pur sempre tenute, per il vincolo genetico-funzionale che le lega all’ente di origine, a perseguire finalità di promozione dello sviluppo della comunità locale di emanazione. Tale vincolo funzionale implicitamente imposto alle imprese miste va confrontato con l’impegno extraterritoriale richiesto in concreto e inibisce tale attività quando diventino rilevanti le risorse e i mezzi eventualmente distolti dall’attività riferibile alla collettività di riferimento senza apprezzabili utilità per queste ultime. Si tratta, in definitiva, di verificare che l’impegno da assumere non comporti una distrazione di mezzi e risorse tali da arrecare pregiudizio alla predetta collettività, in sostanza la necessità di una concreta verifica intesa ad accertare se l’impegno extraterritoriale eventualmente non distolga, e in caso positivo in che rilevanza, risorse e mezzi, senza apprezzabili ritorni di utilità (anch’essi da valutarsi in relazione all’impegno profuso e agli eventuali rischi finanziari) per la collettività di riferimento. Tale verifica non può che ritenersi rimessa alle commissioni giudicatrici delle gare quando a queste chiedano di partecipare società miste. La capacità, in termini di mezzi tecnici e finanziari, della società mista ad assumere, in aggiunta a quelle derivanti dal servizio svolto per l’ente di riferimento, anche il servizio oggetto della specifica gara alla quale chiede di partecipare, attiene alla legittimazione della società a partecipare alla gara ed assume quindi la valenza di un requisito soggettivo che, in quanto tale, deve essere assoggettato a verifica come avviene per altri requisiti soggettivi (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 25 agosto 2008 n. 4080; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 9 maggio 2008 n. 1552).

[32] Cfr. Corte conti, sez. regionale di controllo per la Regione Sicilia, Delibera n. 14, 2 aprile 2008 in sede di controllo di legittimità su atti - Ricusazione del visto e conseguente registrazione del D.D.G. n. 1189 del 19 dicembre 2007 del Dipartimento Regionale Urbanistica della Regione siciliana, in www.dirittodeiservizipubblici.it.

[33] Si tratta in particolare della sentenza del Consiglio di Stato, V Sezione, n. 4440 del 13 luglio 2006 sull’affidamento del servizio di gestione di alcuni parcheggi a pagamento disposto dal Comune di Bolzano a favore della SEAB S.p.a., società a capitale interamente pubblico. Nello stesso senso è la successiva sentenza del 30 agosto 2006 n. 5072, che sancisce che è illegittimo l’affidamento diretto da parte di un ente locale ad una società a capitale pubblico maggioritario dei servizi pubblici di gestione della comunità alloggio per minori, del centro educativo diurno per minori e della mensa sociale, di assistenza domiciliare in favore di persone anziane e/o svantaggiate, consegna di pasti caldi a domicilio, lavanderia e stireria, nonché gestione del centro di aggregazione per anziani. I suddetti servizi pubblici possiedono rilevanza economica, poiché si tratta di attività suscettibili, in astratto, di essere gestite in forma remunerativa e per le quali esiste certamente un mercato concorrenziale. Vero è che in base all'art. 113, c. 5 lett. c), Tuel, anche la gestione dei servizi di rilevanza economica può essere affidata senza gara a società a capitale interamente pubblico, ma ciò, a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano". Tale situazione si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell'ente pubblico sull'ente societario (Cons. Stato, VI Sez., 25gennaio 2005 n. 168, Corte Giust. CE. 18 novembre 1999, in causa C-107/98) e nel caso di specie, il controllo non ha queste caratteristiche in quanto gli amministratori, fintanto che sono in carica, gestiscono autonomamente le attività societarie senza che il Comune abbia alcun potere di intervento sui singoli atti gestionali.

[34] In tema cfr. da ultimi: Ilacqua, L’in house «puro » dopo la riforma della materia dei servizi pubblici locali, in Foro amm-Cons. Stato, 2012, 747; Mazzamuto, L’apparente neutralità comunitaria sull’autoproduzione pubblica: dall’in house al Partenariato ‘‘Pubblico-Pubblico’’ (nota a CG 19 dicembre 2012, n. 159), in Giur. it., 2013, 6;  Mento, Il controllo analogo sulle società in house pluripartecipate da enti pubblici, in Giornale dir. amm., 2013, 495.

[35]Cass., Sez. Un., 25 novembre 2013, n.26283 - Pres. Rovelli – est. Rordorf, in Società, 2014, 55 s. con nota di Fimmanò, La giurisdizione sulle “società in house providing”, ed in Fallimento, 2014, 33 s., con nota di Salvato, Riparto della giurisdizione sulle azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali delle società in house.

[36] In buona sostanza la Cassazione ha riprodotto l’impostazione del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 3 marzo 2008 n. 1, su rimessione di Cons. Stato, Sez. V, 23 ottobre 2007 n. 5587 ; nello stesso senso Cons. Stato, sez. VI, 16 marzo 2009, n. 1555 e prima TAR Valle d’Aosta, 13 dicembre 2007 n. 163; TAR Sicilia, 5 novembre 2007 n. 2511; TAR Piemonte, 4 giugno 2007 n. 2539; TAR Calabria, Catanzaro, 15 febbraio 2007 n. 76 e dopo TAR Campania, Napoli, Sez. I, 28 luglio 2008 n. 9468). Il Consiglio di stato ha sostenuto in particolare che il modello di società mista elaborato, in sede consultiva, con il parere n. 456 delle 2007, rappresenta solo una delle possibili soluzioni delle problematiche connesse alla costituzione di tali società e all’affidamento del servizio alle stesse, anche se, in mancanza di indicazioni precise da parte della normativa e della giurisprudenza comunitaria, non può allo stato essere elaborata una soluzione univoca o un modello definitivo di società mista. In ogni caso, il modello di società costruito con il citato parere non è rinvenibile allorchè il socio non venga scelto mediante procedura a evidenza pubblica nella quale la gestione del servizio sia stata definita e precisata.

[37] Cass. 27 settembre 2013, n.22209 - Pres. Rordorf, Est. Cristiano, in Ilcaso.it, 2013 (al riguardo cfr. Fimmanò, Il fallimento delle società pubbliche, in Gazzetta forense, Nov – Dic. 2013, 13 s.).

[38] Qualche mese prima una certa giurisprudenza di merito aveva affrontato, e risolto in modo assai simile, con diverse sentenze “sistematiche” e “complementari” il tema della insolvenza delle c.d. società pubbliche, sviluppando in modo analitico tutte le questioni poste dalla evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale (App. Napoli, Sez. I, 24 aprile 2013, n. 57, e App. Napoli, Sez. I, 27 maggio 2013, n. 346, in Fallimento, 2013, 1296 s. con nota di Fimmanò, La società pubblica, anche se in house, non è un ente pubblico ma un imprenditore commerciale e quindi è soggetta a fallimento; App. Napoli 27 giugno 2013, n. 84, Fall. Arzano Multiservizi spa(inedita) sempre nel senso della fallibilità, con il quale dopo aver richiamato il d. lgs. n. 165 del 2001-  che individua le amministrazioni pubbliche - afferma che “…il rilievo pubblico di alcuni organismi strutturati in forma civilistica consente l’applicazione di determinati istituti di natura pubblicistica, ma non consente di qualificare l’ente come pubblico e di sottrarlo alla ordinaria disciplina codicistica”). Sulla base di questo orientamento che ha contaminato in positivo la giurisprudenza di legittimità, tuttavia altra giurisprudenza di merito subito successiva (Trib. Avezzano 26 luglio 2013  Pres. Forgillo – Est. Elefante, in ilcaso.it, 2013), ha eccepito che al fine di accertare l’assoggettabilità di un soggetto giuridico alla disciplina concorsuale occorre innanzitutto che quest’ultimo non solo non sia stato previamente qualificato espressamente dalla legge come Ente pubblico (clausola negativa), ma anche che in capo allo stesso sia possibile riconoscere simultaneamente la qualifica di  “imprenditore” che esercita una “attività commerciale”.

[39] Cass., 6 dicembre 2012, n. 21991, in Fallimento, 2013, 1273, con nota di Balestra, Concordato di società a partecipazione pubblica e profili di inammissibilità della domanda.

[40] Cfr. in particolare Cons. Stato, nn. 1206 e 1207 del 2001 e nn. 4711 del 2002 e 1303 del 2002.

[41] Nel senso della riqualificazione crf. tra gli altri: Cons. St., 2 marzo 2001, n. 1206, in Foro amm., 2001, II, 614; Cons.St., 17 settembre 2002, n. 4711, in Foro it., 2003, III; Cons.Stato, 5 marzo 2002, n. 1303, in Foro it., 2003, III, 238

[42] Al riguardo: Visentini, Partecipazioni pubbliche in società di diritto comune e di diritto speciale, Milano, 1979, 4 s.; Mazzarelli, La società per azioni con partecipazione comunale, Milano, 1987, 117; Marasà, Le «società» senza scopo di lucro, Milano, 1984, 353; Spada, La Monte Titoli S.p.a. tra legge ed autonomia statutaria, in Riv. dir. civ., 1987, II, 552.

[43] Al riguardo Guarino, La causa pubblica nel contratto di società, in Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza, a cura di Fimmanò, Ricerche di Law & Economics, Milano, 2011, 131 s.

[44] Ci riferiamo agli enti pubblici con mera struttura organizzativa societaria (cfr. al riguardo Ibba, Le società «legali», Torino, 1992, 340; Id., La tipologia delle privatizzazioni, in Giur. comm., 2001, 483 s.; Id., Le società “legali” per la valorizzazione, gestione e alienazione dei beni pubblici e per il finanziamento di infrastrutture. Patrimonio dello Stato e infrastrutture s.p.a, in Riv. dir. civ., 2005, II. 447;  ed in un’ottica estensiva: Napolitano, Soggetti privati «enti pubblici»,in Dir. amm., 2003, 81 s.) previsti, trasformati o costituiti appunto in forma societaria con legge (ad es. l’art. 7 del D. L. 15/4/2002 n. 63, convertito dalla L. 15/6/2002, n. 112, ha istituito la Patrimonio dello Stato S.p.a.; l’rt. 8 del D.L. 8/7/2002 n. 138, convertito dalla L. 8/8/2002, n. 178, ha gemmato la Coni Servizi s.p.a.; il D. Lgs. 9/1/1999 n. 1, ha istituito Sviluppo Italia s.p.a. poi integrato con altre norme dirette a disciplinarne la governance dell’attuale “Invitalia s.p.a”; l’art. 3, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79, ha previsto la costituzione del Gestore della rete di trasmissione nazionale S.p.a.; l’ art. 13, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79 ha contemplato la nascita della Sogin s.p.a.; stessa cosa è accaduta per  “Gestore del Mercato s.p.a.”  ex art. 5, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79 e l’Acquirente Unico s.p.a. ex art. 4, D. Lgs. 16/3/1999 n. 79). In altri casi il legislatore ha trasformato o previsto la trasformazione di enti pubblici in società (così per l'Ente Nazionale per le Strade ex art. 7 D.L. 8/7/2002 n. 138, convertito in L. 8/8/2002 n. 178; per l'Istituto per i servizi assicurativi del commercio estero Sace ex art. 6 D. L. 30/9/2003, n. 269, convertito in L. 24/11/2003, n. 326; per l’Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma  ex D. Lgs. 17/8/1999 n. 304; per la Cassa Depositi e Prestiti ex art. 5 D.L. 30/9/2003 n. 269, convertito in L. 24/11/2003, n. 326).

[45] Al riguardo mi permetto di rinviare a Fimmanò, L'ordinamento cit.,  19 s.

[46] In questo senso da ultime App. Napoli, 24  aprile 2013 e App. Napoli 27 maggio 2013, cit.

[47] Ad esempio il Codice degli appalti, di cui al d.lgs 163 del 2006, impone il rispetto delle regole di evidenza pubblica ad una serie di soggetti (comprese società per azioni miste o  totalmente private) solo al fine dello specifico settore degli appalti.

[48] A cominciare dal D.L. 112 del 25 giugno 2008, convertito con modificazioni nella Legge 6 agosto del 2008 n. 133, che, all’art. 18, capo sesto (“liberalizzazioni e deregolazione”) introduce, per le società a totale partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblici, locali il rispetto dei principi di cui al comma 3 dell’articolo 35 del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (recante norme per il reclutamento del personale nelle amministrazioni pubbliche), e per le altre società partecipate l’obbligo di adottare criteri e modalità conformi ai principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, di pubblicità e imparzialità. In tema ed in modo ancora più incisivo cfr. il regolamento di attuazione dell’art. 23 bis, D.P.R. del 7 settembre 2010, n. 168.

[49] E nello stesso senso va la disciplina sull’accesso agli atti dopo che l’art. 15 della l. n. 15 del 2005 ha sostituito l’art. 22, della l. n. 241 del 1990, prevedendo che ai fini dell’accesso per “pubblica amministrazione” si intendono anche “i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”. Con riferimento specifico all’accesso ai documenti di una società mista incaricata di svolgere alcuni servizi pubblici locali (Cons. Stato, Sez. V, 23 settembre 2010 n. 7083).

[50] L’organo a cui compete il controllo contabile e di legalità degli enti pubblici è, ai sensi dell’art. 100 Cost., la Corte dei Conti e ai fini del controllo contabile e della responsabilità contabile rileva il dato sostanziale della permanenza dell’ente nella sfera delle finanze pubbliche. La qual cosa conseguentemente rende necessari controlli finalizzati a verificare la corretta gestione del denaro pubblico; al contrario risulta irrilevante ai detti fini il dato formale della veste societaria, sotto questo profilo neutra e irrilevante (Corte Cost. 23 dicembre 1993, n. 446; Corte Conti, Lombardia, febbraio 2006 e 30 ottobre 2006 n. 17).

[51] Sul tema più in generale cfr.Buccarelli, Il sistema della responsabilità amministrativa e civile nelle società  di capitale pubbliche, in Fimmanò, Le società pubbliche cit., 2011, 403 s.; Miele, La responsabilità contabile concorrente degli amministratori delle società partecipate in caso di insolvenza, ivi, Le società pubbliche cit., 2011, 450 s.

[52]  Cass, sez. un. 3 luglio 2009, n. 15599; 31 gennaio 2008, n. 2289; 22 febbraio 2007, n. 4112; 20 ottobre 2006, n. 22513; 5 giugno 2000, n. 400; Sez. un., 30 marzo 1990, n. 2611.

[53] Cass., sez. un., 5 giugno 2008, n. 14825.

[54] C. Conti, sez. giur. Reg. Friuli Venezia-Giulia, 18 giugno 2009, n. 203; sez. I giur. centr. app., 5 agosto 2008, n. 361/A; sez. giur. Reg. Sardegna, 16 maggio 2008, n. 1181. Sul tema cfr. anche Imparato, L’amministrazione straordinaria delle società di riscossione degli enti locali.  Il caso Tributi Italia s.p.a.  in Fimmanò, Le società pubbliche: ordinamento, crisi ed insolvenza, 2011, 687; Id., Il rapporto tra provvedimenti cautelari contabili e le procedure concorsuali,  in FimmanòDiritto delle imprese in crisi e tutela cautelare, 2012, 281.

[55] Anche sul piano del diritto antitrust ed in particolare della disciplina degli aiuti di stato si esclude che il controllo pubblico su un’impresa ne giustifichi un trattamento differenziato (al riguardo Giannelli, Impresa pubblica e privata nella legge antitrust, Milano, 2000, 201 s.).

[56] Il Consiglio di Stato ha affermato che l’art. 33 co. 2 lett. A, del d.p.r. n. 80/98 nel prevedere come rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie riguardanti l’istituzione, la modificazione o l’estinzione dei soggetti gestori di pubblici servizi (comprese le società di capitali) ha inteso riferirsi alle relative procedure pubblicistiche (di istituzione, modificazione ed estinzione) con esclusione quindi delle questioni che hanno attinenza al diritto societario (cfr. Cons. Stato sez. V, 20 ottobre 2004 n. 6867; Id., 3 settembre 2001 n. 4586). In modo ancora più esplicito è stato affermato che tutti gli atti che ineriscono alla vita delle società a partecipazione pubblica pongono questioni di diritti soggettivi e pertanto rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (Cass. Sez. un., 15 aprile 2005, n. 7799 cit.; Cons. Stato V sez., 11 febbraio 2003 n.781). Da ultimo per la giurisdizione ordinaria in tema di fusione per incorporazione cfr. TAR Veneto, 15 aprile 2008 n. 968, in www.dirittodeiservizipubblici.it.

[57] Imparato, La revoca degli amministratori pubblici. Nota a sentenza n. 7063/2013 resa dal Tribunale di Napoli, in Gazzetta Forense, nov. –dic., 2013, 37 s.

[58] In ordine al dibattito sulla natura della nomina e della revoca (e dei relativi effetti) cfr da ultimo Trib. Palermo, 13 febbraio 2013, in Società, 2013, 1036 s. con nota di Caprara. In tema cfr. anche Cass., 15 ottobre 2013 n.23381 in ilcaso.it, 2013; Di Marzio, Insolvenza di società pubbliche e responsabilità degli amministratori. Qualche nota preliminare, in Fimmanò, Le società pubbliche cit., 377 s.;

[59] La Suprema corte ha affermato recentemente che in una , società di capitali a partecipazione pubblica, il venir meno del rapporto fiduciario tra socio Amministrazione comunale e amministratori è rilevante, ai fini di integrare una giusta causa di revoca del mandato, solo quando i fatti che hanno determinato il venir meno dell’affidamento siano oggettivamente valutabili come  idonei a mettere in forse la correttezza e le attitudini gestionali dell’amministratore. Altrimenti lo scioglimento del rapporto fiduciario deriva da una valutazione soggettiva della maggioranza che legittima da un lato il recesso ad nutum ma legittima altresì l’amministratore revocato senza una giusta causa a richiedere il risarcimento del danno derivatogli dalla revoca del mandato. La giusta causa di revoca di un amministratore non diverge da quella di una società comune e non comprende il semplice logoramento dei rapporti tra soci e amministratori. Gli amministratori che agiscono in giudizio contro il socio amministrazione comunale perché siano rispettati i diritti della società derivanti dal contratto di servizio, tengono un comportamento sgradito a una componente dell’amministrazione comunale che non costituisce giusta causa di revoca. Imporre una fedeltà degli amministratori al socio pubblico snaturerebbe la natura privata della società in danno degli interessi sociali e della minoranza, oltre che, nel caso di società partecipata per motivi di pubblico interesse, anche dagli stakeholders a cui vantaggio la partecipazione pubblica è prevista. Non rappresenta giusta causa di revoca degli amministratori non aver consentito l’accesso diretto alla contabilità sociale da parte dei consiglieri comunali, in quanto si tratta di una pretesa giuridicamente illegittima e un comportamento collusivo degli amministratori comporterebbe una violazione delle norme che regolano i rapporti tra società e soci (Cass., 15 ottobre 2013 n.23381, in ilcaso.it, 2013).

[60] Infatti l’art. 3, co. 26, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, recante il codice degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, soltanto «ai fini del codice» medesimo, definisce «organismo di diritto pubblico ... qualsiasi organismo, anche in forma societaria: - istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; - dotato di personalità giuridica; - la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico»[60]. Anzi proprio queste disposizioni legislative di carattere settoriale costituiscono la migliore dimostrazione dell’esigenza e dell’intento del legislatore di attrarre solo a determinati effetti nella sfera del diritto pubblico soggetti che generalmente orbitano e che sono dunque destinati, per il resto, a rimanere nella sfera del diritto privato.

[61] Chiarissima al riguardo è la Suprema Corte (Cass., Sez. un., 9 marzo 2012 n. 3692, secondo cui la qualificazione della società come organismo di diritto pubblico , rileva solo sul piano della disciplina di derivazione comunitaria in materia di aggiudicazione degli appalti ad evidenza pubblica).  In questo senso chiaramente anche la Corte giustizia UE grande sezione,  24 gennaio 2012, in  Riv. dir. int. 2012, 2, 562, che distingue chiaramente la forma giuridica del soggetto dalla circostanza che sia stato incaricato, con atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di quest'ultima, un servizio d'interesse pubblico e che disponga a tal fine di poteri che oltrepassano quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra singoli.

[62]Cons. Stato,  sez. V, 9 gennaio 2013,  n. 66 in Foro amm. CDS, 2013, 1, 180 (secondo cui la nozione di organismo di diritto pubblico di matrice comunitaria è stata recepita nell’ordinamento Italiano con l’art. 3, comma 26, del d. lgs. n. 163/2006, e prescinde dal formale collocamento dello stesso nel novero delle persone giuridiche pubbliche o private; Nello stesso senso Cons. Stato  sez. VI, 20 maggio 2011,  n. 3013, in  Foro amm. CDS, 2011, 5, 1637.

[63]Cass., sez. un.,  22 dicembre 2011,  n. 28329, in  Giust. civ. Mass., 2011, 12, 1827, in Giust. civ., 2012, 2, I, 320 (secondo cui la Rai-Radiotelevisione s.p.a., pur costituendo un organismo di diritto pubblico ed essendo soggetta a varie forme di controllo ed indirizzo pubblici, resta pur sempre una società per azioni, come tale soggetta alle regole privatistiche ove dalla legge non diversamente disposto).

[64] Cfr. Cass. Sez. Un., 19 dicembre 2009, n. 26806, in Nds, n. 3, 2010, 36 s.; in Giur.  comm., 2011,II, 315 s. ; Cass., sez. un., 15 gennaio 2010, n. 519, in Società, 2010, 803 s.; Sez. un., 15 gennaio 2010, 520, 521, 522, 523 e Cass, Sez. un., 23 febbraio 2010, n. 4309; Cass., sez. un., 9 aprile 2010, n. 8429, riferita al direttore generale, in Società, 2010, 1177 s.; Cass. Sez. Un.,  9 maggio 2011, n. 10063, in Riv. corte conti , 2011, 3-4, 372,  in Foro it. 2012, 3, I, 832, Cass. Sez. Un., 5 luglio 2011, n. 14655, in Resp. civ. e prev., 2011, 12, 2596,  in Giust. civ., 2012, 5, I, 1287; Cass. Sez. Un., 7 luglio 2011, n. 14957, in Foro it. 2012, 3, I, 831 (ove il danno era ravvisabile nella perdita di valore di una quota di partecipazione in società poi dichiarata fallita), Cass. Sez. Un. 20941 del 12 ottobre 2011 in Foro it.,  2012, 3, I, 831; e Cass. Sez. Un., 9 marzo 2012, n. 3692, in  Foro amm. CDS, 2012, 6, 1498, con nota di Nicodemo, Società pubbliche e responsabilità amministrativa: le Sezioni Unite della Cassazione ritornano sulla questione di giurisdizione;  Cass. sez. Unite, 23 marzo 2013, n. 7374, in Guida dir., 2013, 23, 57;  Cass. Sez. Un. 5 aprile 2013,  n. 8352, in  Giust. civ. Mass.,  2013). In tema in precedenza ma di diverso tenore: Cass. sez. un., n. 19667 del 2003 in Giur. it., 2003, 1830; n. 3899 del 2004 in Giur. it., 2004, 1946; n. 3367 del 2007, n. 20886 del 2006, n. 4511 del 2006.

[65] Si vedano in particolare al riguardo Cagnasso, La responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica secondo una recente e innovativa sentenza della Cassazione, in Nds, 2010, n. 3, 36 ss.; Salvago, La giurisdizione della Corte dei conti in relazione alla posizione dei soggetti responsabili ed a quella degli enti danneggiati, in Giust. civ., 2010, I, 2505; Sinisi, Responsabilità amministrativa di amministratori e dipendenti di s.p.a. a partecipazione pubblica e riparto di giurisdizione: l'intervento risolutivo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Foro amm., 2010, I, 77; Tenore, La giurisdizione della Corte dei conti sulle s.p.a. a partecipazione pubblica, in Foro. Amm., 92; Patrito, Responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica: profili di giurisdizione e diritto sostanziale, in Giur. it., 2010, 1709.

[66] Un tipico danno diretto è considerato dalla suprema Corte quello all’immagine dell’ente (al riguardo cfr. Caravella, La lesione all’immagine dell’ente pubblico ed il risarcimento del danno, in Fimmanò, Le società pubbliche. Ordinamento, crisi e insolvenza, Milano, 2011, 541 s.).

[67]  Con la strana norma del c.d. decreto milleproroghe 2008  è stata sancita la devoluzione in via esclusiva alla giurisdizione del giudice ordinario della materia della responsabilità degli amministratori di società quotate partecipate da amministrazioni pubbliche, anche in via indiretta, in misura inferiore al cinquanta per cento e delle loro controllate La norma lascia intendere, in realtà, che in tutti gli altri casi vi sia una giurisdizione della magistratura contabile che non le è propria, ovvero per tutte le azioni di responsabilità riguardanti amministratori e dipendenti di società partecipate. Se questa fosse stata la lettura, il legislatore avrebbe dato seguito all’orientamento della Corte dei Conti diretto ad allargare l’ambito della propria giurisdizione (già Corte Conti, sez. I, App., 3 novembre 2005, n. 356, in Foro amm., 2005, 3842; Corte conti, sez. Lombardia, 4 marzo 2008 n. 135; Corte Conti, sez. Lombardia, 25 gennaio 2005, n. 22, in Foro amm., 2005, 80; Corte conti, sez. Trentino Alto adige, 1 giugno 2006, in www.corteconti.it; Corte Conti, sez. Lombardia, 5 settembre 2007 n. 448. Cfr. al riguardo in modo critico Ibba, Azioni ordinarie di responsabilità e azione di responsabilità amministrativa nelle società a mano pubblica. Il rilievo della disciplina privatistica, in Riv. dir. civ., 2006, II, 145 ss., Romagnoli, Le società degli enti pubblici: problemi e giurisdizioni nel tempo delle riforme, in Giur. comm., 2006, II, 478).Si è osservato che l’art. 16 bis del decreto milleproroghe sarebbe illegittimo in primis sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza poiché trattandosi di società quotate anche il c.d. pacchetto di controllo (cioè quella quota azionaria inferiore al 50%) consente in ipotesi di azionariato diffuso di avere il controllo della società parimenti al caso di partecipazione pubblica maggioritaria. In entrambi i casi la s.p.a. è sostanzialmente gestita da soggetti pubblici e, pertanto, non appare giustificato il discrimen di competenza giurisprudenziale posto dal decreto milleproroghe (al riguardo cfr. Santosuosso, Società a partecipazione pubblica e responsabilità degli amministratori (contributo in materia di privatizzazioni e giurisdizione), in Riv. dir. soc., 2009, 47 s.; Colangelo, Nuove questioni in tema di società a partecipazione pubblica, in dircomm.it, 2008, 9 s.).

[68] Cfr. in tema Ibba, Forma societaria e diritto pubblico, in Riv. dir. civ., 2010, I, 365 s.; Id., Azioni ordinarie di responsabilità a azione di responsabilità amministrativa nelle società in mano pubblica, Il rilievo della disciplina privatistica, in Riv. dir. civ., 2006, II, 145 s.; Id., Sistema dualistico e società a partecipazione pubblica, in Riv. dir. civ., 2008, I, 584. Per la responsabilità concorrente propende Rordorf, Le società pubbliche nel codice civile, in Società, 2005, 424; per quella alternativa Venturini, L’azione di responsabilità amministrativa nell’ambito delle società per azioni in mano pubblica. La tutela dell’interesse pubblico, in Foro amm., Cons. Stato, 2005, 3442 s.; incerto Romagnoli, La responsabilità degli amministratori di società pubbliche fra diritto amministrativo e diritto commerciale, in Società, 2008, 441 (secondo cui tuttavia la non coincidenza degli interessi tutelati dalle due azioni emerge dalla distinta natura rispettivamente compensativa di quella civile e sanzionatoria di quella contabile. Nella seconda è peraltro prevista la possibilità di attenuare la condanna rispetto all’entità del danno accertato ex art. 1, comma 1 bis, L. n. 20 del 1994, e di concordare per l’appellante il pagamento di una somma non superiore al terzo della condanna di primo grado ex art. 1, comma 231 L. n. 266 del 2006, a conferma della inidoneità del processo erariale ad appagare le esigenze di reintegrazione del patrimonio sociale tutelate dal diritto societario). Sul tema cfr pure Corte Conti, sez. Molise, 11 gennaio 2001, n. 157, in www.corteconti.it,  secondo cui nel giudizio contabile ed in quello civile non viene fatta valere la tutela dello stesso bene per la diversità di causa pretendi.

[69] L’estensione della giurisdizione contabile in assenza di una espressa previsione contrasta, peraltro, con l’art. 103 Cost., nella parte in cui impone una chiara delimitazione dei giudici speciali, visto che il concetto stesso di materia presuppone una precisa definizione dei suoi confini atteso il suo ruolo discriminante rispetto alla sfera d’azione riservata all’autorità giudiziaria ordinaria (Corte Cost. 6 luglio 2004, n. 204, in Foro it., I, 2594 s.)

[70] Ex adverso l’azione individuale ex art. 2395, c.c., è stata ritenuta dalla magistratura contabile fuori dall’ambito della propria giurisdizione (Corte Conti, sez. I, app. 3 novembre 2005, n. 356, cit., 3).

[71] Questo pare essere il risultato cui perviene la Cassazione che ha affermato che la Corte dei conti può pronunciarsi solo sul danno erariale, cioè quello subito dal socio pubblico al suo patrimonio, risarcibile in sede civile ai sensi dell’art. 2395 c.c., potendosi qualificare erariali tali pregiudizi direttamente incidenti sul patrimonio del socio pubblico e fonte di responsabilità da accertare con lo speciale procedimento, su iniziativa del procuratore della Corte dei conti (Cass., sez. un., 23 febbraio 2010, n. 4309, in Società, 2010, 1361). Da questo punto di vista l’azione contabile esperita dal procuratore della corte non dovrebbe comunque precludere l’azione ex art. 2395 c.c. esperita dal socio innanzi al giudice ordinario, vista la diversità dei presupposti e dei risultati perseguibili (contra: Corso, La responsabilità societaria ed amministrativa degli amministratori di società a prevalente partecipazione pubblica, in Riv. arb., 2008, 570).

[72] Per Corte dei conti, sez. giur. Reg. Friuli Venezia-Giulia, 18 marzo 2009, n. 98, l’azione di responsabilità amministrativa concorre con le azioni civili di responsabilità sociale degli amministratori e sindaci della società, e non si sostituisce ad esse, costituendo una forma di tutela aggiuntiva, giustificata dall’esigenza di salvaguardia delle funzioni e dei servizi pubblici ai quali la società stessa è preordinata, anche al fine di evitare le conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’eventuale inerzia dei soggetti legittimati dinanzi al giudice ordinario.

[73] Cass. Sez. Un. , 12 ottobre 2011, n. 20941, cit.

[74] Le sezioni Unite individuano la sussistenza dei seguenti requisiti: la società è stata costituita dall’ente pubblico comunale, il quale ne è l’unico socio e le cui azioni non possono essere neppure parzialmente alienate a terzi;  essa ha per oggetto l’esercizio del servizio di trasporto pubblico locale e di altri servizi inerenti alla mobilità urbana ed extraurbana (quali il servizio degli ausiliari della sosta e quello dei parcheggi); la parte più importante dell'attività sociale è svolta in favore del comune partecipante; e che sulla medesima società detto comune esercita un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

[75] Da ultimoriguardo ad una trasformazione di una società in house in azienda speciale, cfr.Corte Conti, Sez.e Autonomie, Delibera 21 gennaio 2014 n. 2, in Notariato, 2014, 113 s., con nota di Laurini.

[76] La giurisprudenza di merito ha affermato che sarebbe possibile in linea di principio l’adeguamento degli statuti delle società a capitale pubblico finalizzato a consentire un controllo da parte degli enti pubblici titolari del capitale sociale analogo a quello dai medesimi esercitato sui propri servizi se le modificazioni introdotte sono unicamente finalizzate a consentire agli enti pubblici soci, sia collettivamente che individualmente, un potere di controllo concreto circa l’organizzazione delle attività e le erogazioni dei servizi affidati alla società, come consentito dall’art. 2364 n. 5 c.c., rimanendo attribuiti al Consiglio di Amministrazione tutti i poteri di amministrazione e gestione della società, in conformità con la previsione dell’art. 2380 bis c.c., ed al Collegio Sindacale le prerogative di cui agli artt. 2403 e 2403 bis c.c. (Trib. Mantova 8 maggio 2007, in ilcaso.it, 2007). Tuttavia a nostro avviso questo controllo sarebbe insufficiente ad integrare il requisito della delegazione interorganica.  

[77] Al riguardo l’art. 2341 bis c.c. contempla una disciplina dei patti parasociali, a cominciare dalla durata massima quinquennale, che si applica alle società per azioni  e alle loro controllanti dirette o indirette, quindi pure se si tratta di enti pubblici che non rivestano la forma di S.p.a.

[78] In questo senso anche Occhilupo, L’ordinamento comunitario, gli affidamenti in house e il nuovo diritto societario, in Giur. comm., 2006, II, 63 s.; Demuro, La compatibilità del diritto societario con il c.d. modello in house providing per la gestione dei servizi pubblici locali, ibidem, 780 s.

[79] Ibba, Le società a partecipazione pubblica locale fra diritto comune e diritto speciale, in Riv. dir. priv., 1999, 36 s.

[80] Sul dovere di esercizio della direzione unitaria in particolare Rovelli, La responsabilità della capogruppo, in Fallimento, 2000, 1098 s.; Libonati, Responsabilità del e nel gruppo, in Aa.Vv., I gruppi di società, Atti del convegno internazionale di studi, Venezia 16-17-18 novembre 1995, Milano, 1996, II, 1489; Marchetti, Controllo e poteri della controllante, ibidem , II, 1556 s; Fimmanò, I “Gruppi” nel convegno internazionale di studi per i quarant’anni della Rivista delle Società, in Riv. not., 1996, 522 s.

[81] Al riguardo Blatti - Minutoli, Il fallimento della holding personale tra nuovo diritto societario e riforma della legge fallimentare, in Fallimento, 2006, 428.

[82]In questa stessa logica già vent’anni fa il legislatore, nell’ambito della disciplina dei gruppi bancari, aveva espressamente sancito che la capogruppo, nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, emana le direttive, riconoscendo una vera e propria espressione di supremazia gerarchica meritevole di tutela. Nelle norme “per la ristrutturazione e per la disciplina dei gruppi bancari” (art. 25 d. lgs. n. 356 del 1990) e poi con il Testo unico bancario (art. 61 comma 4, del d.lgs n. 385 del 1993). Anche in quel caso si trattava della tutela dell’interesse, di rilievo pubblicistico, alla stabilità del sistema bancario a seguito dell’evoluzione del modello del c.d. gruppo polifunzionale composto anche di società esercenti attività strumentali a quella bancaria e finanziaria, con conseguenti rischi di instabilità ed irregolarità, derivanti dal mancato assoggettamento alla vigilanza prudenziale delle stesse (Al riguardo Costi, Le relazioni di potere nell’ambito del gruppo bancario, in Giur. comm., 1995, I, 885 s.).

[83] La norma si riferisce evidentemente anche ad enti non societari quali associazioni, fondazioni ed appunto enti pubblici (in tal senso Galgano, I gruppi nella riforma delle società di capitali, in Contr. impr., 2002, 1021; Romagnoli, L’esercizio di direzione e coordinamento di società da parte di enti pubblici, in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, 216 s.; Ibba, Società pubbliche cit., 7; Portale, Fondazioni «bancarie» e diritto societario, in Riv. soc., 2005, 28 s.).

[84]Il decreto legge n. 78 del 1 luglio 2009, convertito con legge 3 agosto 2009, n. 102 (pubb. in G.U. n. 179 del 4 agosto 2009), recante «Provvedimenti anticrisi, nonche proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali», ha previsto all’art. 19 (rubricato «Società pubbliche»), commi da 6 a 13 (concernenti «Partecipazioni in società delle amministrazioni pubbliche»), talune modifiche alla disciplina delle società pubbliche e degli organi di amministrazione delle società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato.  In particolare, a fronte dei dubbi interpretativi sorti in relazione a quegli enti che esercitano attività di direzione e coordinamento di società in ordine al perseguimento di un interesse imprenditoriale di gruppo (quale risultato complessivo dell’attività di dominio), il comma 6 dell’articolo citato fornisce un’interpretazione autentica dell’art. 2497, comma 1, c.c. Al riguardo ed in particolare sulla interpretazione autentica cfr. Eballi, Direzione e coordinamento nelle società a partecipazione pubblica alla luce dell’intervento interpretativo fornito dal “Decreto Anticrisi”, in Nuovo dir. soc., n. 10, 2010, 44 s. Il legislatore è intervenuto con la norma assai discutibile, apparentemente generale, diretta invece ad un caso specifico e cioè alla vicenda della crisi Alitalia, svoltasi in modo tale da configurare una evidente responsabilità da abuso del dominio da parte del Ministero dell’Economia, esercitato in violazione dei criteri di corretta gestione societaria e imprenditoriale e nell’interesse proprio od altrui. Giustamente critico Cariello, Brevi note critiche sul privilegio dell’esonero dello Stato dall’applicazione dell’art. 2497, comma 1, c.c. (art. 19, comma 6, D.L.. n. 78/2009), in Riv. dir. civ., 2010, 343 ss.

[85] Al riguardo Angiolini, Abuso di dipendenza economica ed eterodirezione contrattuale, Milano, 2012 87 ss.

[86] Ancora Buonocore, op. cit., 14 il quale evidenziava che «a nulla varrebbe obiettare che per le aziende municipalizzate è tenuto a pagare le perdite di gestione, perché le aziende sono bracci operativi del comune, mentre le società a partecipazione comunale sono soggetti assolutamente autonomi e organicamente distinti dal comune…».

[87] La Corte dei Conti con riferimento al vecchio regime dell’art. 2362, c.c., ha infatti affermato, seppure in modo discutibile sul piano tecnico, che «Quando il capitale azionario è interamente posseduto dal comune, e conseguentemente è posta a carico di quest'ultimo un’illimitata responsabilità patrimoniale e quando la gestione della società da parte del comune è stata effettuata in modo esclusivo come se si trattasse di un organismo legato all’ente da un rapporto di ausiliarietà che si concretizza in un rapporto di sovraordinazione, indipendentemente dal nomen juris, ossia dalla qualificazione giuridica, non ci si trova di fronte ad una società per azioni ma ad un organismo ausiliario dell’ente. Deve escludersi che lo Stato oppure gli enti locali - salvo che non sia espressamente previsto da una specifica norma - possano acquistare la titolarità dell'intero pacchetto originario e ciò non solo per il danno che possa essere arrecato in conseguenza delle perdite subite ma anche in considerazione che l’illimitata responsabilità patrimoniale, la quale è correlata all'azionariato unico si pone in contrasto con l’art. 81 cost., per l’indeterminatezza dell'incidenza della spesa e della relativa copertura a carico del bilancio dello Stato, dell'ente locale e quindi a carico della collettività. La partecipazione totalitaria da parte di un solo ente locale non solo è inammissibile ma va considerata anche come stipulata in frode alla legge perché costituisce un mezzo per eludere l'applicazione della normativa vigente prima e dopo l'entrata in vigore della l. 8 giugno 1990 n. 142. È responsabile per culpa in vigilando il sindaco che non abbia controllato il generale andamento della gestione di una s.p.a. e che, quale rappresentante del comune, non abbia adottato alcuna valida ed efficace difesa dei propri interessi e diritti» (C. Conti reg. Lazio, 10 settembre 1999, n. 1015, in Giorn. dir. amm., 2000, 235 con nota di Dugato).

[88] Adempimenti e cautele previste dagli artt. 2342 e 2362 c.c. per le società per azioni (anche per i contratti con l’unico socio e le operazioni a suo favore) , e dagli artt. 2464 e 2470 per le società a responsabilità limitata.

[89] Ci riferiamo ad elaborazioni ispirate alle tecniche utilizzate in altri ordinamenti, ed in particolare a quella del piercing the corporate veil (cfr. Tonello, L’abuso della responsabilità limitata nelle società di capitali, Padova 1999, 2;  Garrido, Preferenza e proporzionalità nella tutela del credito, Milano 1998, 358) e della Durchgriffshaftung (al riguardo per tutti l’autorevole ricostruzione di Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Trattato delle società per azioni, diretto da Portale  - Colombo, 1 **, Torino, 2004). Sul tema dell’abuso della personalità giuridica cfr. tra gli altri A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo-Portale, vol. 9, tomo 2, Torino, 1993, 433; B. Inzitari, La vulnerabile persona giuridica, in Contr. e impr., 1985, 679 s.; M. Fabiani, Società insolvente e responsabilità del socio unico, Milano, 1999; V. Franceschelli – M. Lehmann, Superamento della personalità giuridica e società collegate: sviluppi di diritto continentale, in Responsabilità limitata e gruppi di società, Milano, 1987, 71 s.

[90] Il nuovo comma 1 dell’art. 147, l. fall., infatti, circoscrive espressamente la regola dell’estensione ai soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili, di società appartenenti «ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del Titolo V del Libro V del codice civile». Per queste ultime in assenza di dati formali per l’imputazione della responsabilità, la scelta normativa non è l’esistenza nell’ordinamento di criteri di imputazione sostanziale diversi dalla spendita del nome, ma una vera e propria eccezione normativa che altri ordinamenti hanno peraltro abbandonato . Eccezione che il legislatore fallimentare, alla luce dell’art. 2361 c.c., inevitabilmente (e per alcuni versi pleonasticamente) ha esteso anche alle persone giuridiche che rivestano la qualità di soci illimitatamente responsabili. Questa restrizione dell’alveo di applicazione produce un risultato sistematico ben più rilevante: la tecnica dell’estensione, mentre nelle società contemplate nel nuovo comma 1 dell’art. 147 l. fall. non produce alcun superamento del diaframma della personalità.  E’ stato evidenziato che il principio antico dell’automatico assoggettamento dei soci illimitatamente responsabili al fallimento in ripercussione della procedura aperta a carico della società (già contenuto nell’art. 847 del codice di commercio del 1882) è una scelta normativa che non presenta connotati di necessarietà (A. Nigro, Articolo 147, in Il nuovo diritto fallimentare, commentario diretto da Jorio, Vol. II, Torino, 2007, 2169). Tant’è che molte legislazioni lo hanno da tempo superato (da ultime la legge di riforma spagnola del 9 luglio 2003 e quella francese del 26 luglio 2005, al riguardo G.B. Portale, La legge fallimentare rinnovata: note introduttive, in Banca, borsa, tit., 2007, 372) e viene auspicato da più parti che lo faccia anche il nostro legislatore (in tal senso e per una ricostruzione storica cfr. da ultimo A. Dimundo, Interrogativi sull’attualità del fallimento in ripercussione dei soci, in Fallimento, 2009, 1039 s.).

[91] Anche la responsabilità illimitata per le obbligazioni sorte nel periodo in cui il socio eraazionista o quotista unico, che non ha adempiuto ai dettami di cui agli artt. 2325, comma 2, e  2462 comma 2, c.c., non produce più infatti alcuna estensione, visto che l’art. 147, l. fall., novellato esclude dall’ambito applicativo le società per azioni ed a responsabilità limitata. E l’esclusione dall’alveo della fallibilità dell’unico azionista, o quotista, produce a cascata una serie di conseguenze sulle applicazioni, analogiche od estensive, che si fondavano su questo presupposto. L’eventuale autonomo fallimento del socio unico non è ricollegabile allo status di socio, ma al fatto che lo stesso abbia esercitato un’attività di direzione e coordinamento abusiva, utilizzando la condizione di socio, ma anche prescindendo da questa, e sia qualificabile come  imprenditore commerciale insolvente.

[92] L’azione del procuratore contabile, stante la mancanza dell’alterità dei soggetti dovrebbe avvantaggiare la società e, quindi, il risultato eventuale dovrebbe rifluire nel patrimonio della società, costituendo una forma di tutela aggiuntiva.

[93] Sulle destinazioni patrimoniali sin dagli studi della dottrina germanica della fine del XIX secolo cfr. Ferrara, Teoria delle persone giuridiche, Napoli, Torino, 1915, 558 s.

[94] La peculiare destinazione può incidere sulla disciplina giuridica, così come avviene nell’ipotesi delle fondazioni ove manca un soggetto fatta eccezione per la fondazione stessa. Nelle fondazioni il patrimonio è destinato prevalentemente ad uno scopo predeterminato dall’Ente e quest’ultimo lo amministra, benché il patrimonio abbia struttura autonoma. La dottrina configura in questo caso il patrimonio dedicato strettamente connesso ed in simbiosi con l’ente da cui proviene (cfr. Galgano, Delle Persone giuridiche, in Comm. al codice civile, Scialoja e Branca, 1969, Bologna-Roma, 85).

[95] Messineo, Manuale di Diritto Civile e Commerciale, I, IX ed., 1957, 386 s.; F. Santoro Passarelli, (nt. 10), 86. Sul tema cfr. Bigliazzi Geri, (nt. 33) 280.

[96] La norma dell’art. 2740, cod. civ., è considerata di ordine pubblico dalla prevalente dottrina (Barbero, Sistema istituzionale di diritto privato italiano, V ed., Torino, 1958, II, 154; Tucci, voce Privilegi. 1) Diritto civile, in Enc. giur., XXIV, Roma 1991, 39). La giurisprudenza ha poi affermato che la violazione della disposizione comporta la nullità dell’atto negoziale: Trib. Genova, 27 gennaio 1983, in Dir. Fall., 1984, II, 836. Si è ritenuto in dottrina che in generale i negozi tesi ad aggirare il dettato dell’art. 2740 non potrebbero considerarsi illeciti ma semplicemente revocabili e dunque inefficaci ad istanza di parte. Sul tema Masi, Destinazione di beni e autonomia privata, in AA.VV., Destinazione di beni allo scopo, Milano, 2003, 44 e s.; La Porta, Destinazione dei beni allo scopo e causa negoziale, Napoli, 1994, 36).

[97] Il legislatore individua volta per volta strumenti giuridici tipici, normalmente di natura negoziale, mediante i quali si permette al debitore di conseguire il risultato dell’impignorabilità, di regola relativa, di determinati beni. Nell’ordinamento esiste anche una tecnica alternativa, e molto più diffusa, con la quale il legislatore sancisce in via diretta, e non mediata, l’impignorabilità di determinati beni che a seconda dei casi è assoluta o relativa, totale o parziale, definitiva o temporanea (così Granelli, La responsabilità patrimoniale del debitore fra disciplina codicistica e riforma in itinere del diritto societario, in Riv. dir. civ., 2002, 507).

[98] Principio che discende, seppure in modo completamente riveduto e corretto, da una delle più famose teorie di tradizione francese, ossia dalla théorie du patrimoine di Charles Frédéric Rau ed Charles Aubry (Course de droit civil francais, Paris, 1917, tomo IX, 337 s.), di impostazione giusnaturalistica, secondo cui “l’idée du patrimoine se déduit directemente de celle de la personnalité” (riferimento diretto è il codice napoleonico, indiretto è addirittura il droit coûtumier dal XV secolo in poi). Sul tema cfr. L. Barbiera, Responsabilità patrimoniale. Disposizioni generali. Art. 2740-2744, in Commentario al codice civile a cura di P. Schlesinger, Milano, 1991, 31.

[99] L’art. 7 della XII direttiva CEE prevede che “uno Stato membro può non consentire la società unipersonale quando la sua legislazione preveda, a favore degli imprenditori unici, la possibilità di costituire imprese a responsabilità limitata ad un patrimonio destinato ad una determinata attività, purchè per questo tipo di impresa siano previste garanzie equivalenti a quelle imposte dalla direttiva”. Al riguardo C. Ibba, La s.r.l. unipersonale fra alterità soggettiva e separazione patrimoniale, in studi in onore di P. Rescigno, vol IV, 3, Impresa, società, lavoro, Milano 1998, 249 s.

[100] Anche la dodicesima direttiva, come noto, prevedeva la possibilità per gli stati membri dell’UE di ricorrere al patrimonio separato, in alternativa alla s.r.l. unipersonale (invero anche il patrimonio separato, sul piano funzionale, consente una limitazione di responsabilità all’interno di una società di qualsiasi tipo. L’istituto non rappresenta una novità assoluta; infatti, un precedente, ancorché scarsamente utilizzato, è previsto dall’art. 7 della Direttiva 86/667 sulla s.r.l. unipersonale che disciplina accanto a tale opzione, quella della costituzione di patrimoni destinati ad una specifica attività nell’ambito del patrimonio dello stesso soggetto. Alla fattispecie ha dato ad attuazione il solo ordinamento portoghese con la norma dell’art. 1 comma 2 del decreto n. 248 del 25 agosto 1986.

[101] Si è opportunamente ricordato che la disciplina portoghese dell’estabelecimento individual de responsabilidade limitada ha necessitato di ben trentasei articoli, mentre per introdurre la società unipersonale nel nostro ordinamento è stato sufficiente emendare in taluni punti le regole codicistiche già previste per la Srl (A. Zoppini, Autonomia e separazione del patrimonio nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. Dir. Civ., 2002, 560; C. Ibba La s.r.l. unipersonale tra alterità soggettiva e separazione patrimoniale, in studi in onore di P. Rescigno, Milano, 1998, IV, 3, 251). In argomento cfr. sul piano generale già A. Grisoli, Unipersonalità, patrimonio separato, impresa individuale a responsabilità limitata e problemi affini, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, 286. Sui temi della limitazione della responsabilità del debitore-impresa e della separazione come sistema di regolazione dei conflitti ed al tempo stesso di incentivo si veda tra gli altri E. Courir, Limiti alla responsabilità imprenditoriale e rischi dei terzi, Milano 1997.

[102] Al riguardo mi permetto di rinviare a: Fimmanò, Patrimoni destinati e tutela dei creditori nella società per azioni, Milano 2008,

[103] E tale tendenza si è manifestata nel sistema nordamericano quale ipotesi di superamento della persona giuridica a favore dei titolari di un credito per risarcimento “dei danni di dimensioni tali da non poter essere soddisfatto dal patrimonio della persona giuridica, con conseguente allargamento della responsabilità al di là della limitazione connessa alla persona giuridica”.

[104] Il ricorso a tecniche di squarcio del velo della personalità è stato, come noto, tentato anche da una parte della dottrina italiana che si richiama alle cosiddette teorie riduzionistiche. Tale impostazione collega all’accertamento di alcuni presupposti tipici, indicativi di un comportamento fraudolento da parte del soggetto o dell’ente che controlla e dirige le imprese di gruppo, l’effetto della confusione giuridica dei patrimoni con l’assunzione illimitata, da parte della controllante, di tutte le obbligazioni della controllata. Dal che consegue che, diversamente da quanto pure proposto in dottrina, l’entità imprenditoriale individuata nel gruppo, in mancanza dell’abuso, non è di per sé capace di determinare il superamento dello schermo della personalità giuridica. L’altro strumento di repressione dell’abuso consiste invece nell’applicazione di regole di responsabilità: responsabilità chiaramente della società capogruppo e dei suoi amministratori verso i creditori e i soci di minoranza della controllata verso la controllata medesima. Il rimedio si fonda “sulla premessa che ogni società resti pur sempre un centro di profitto indipendente e che pertanto sia necessario salvaguardarne appunto l’autonomia, impedendo, attraverso lo strumento risarcitorio, il travaso di risorse da un ente all’altro con conseguente danno dei soggetti controinteressati. Il risarcimento però, determinando il limitato effetto di riportare il patrimonio della società danneggiata nella situazione precedente all’inizio del rapporto di dominio, non determina, a differenza dei fenomeni di piercing, la confusione delle masse e dunque dei rischi, sicché finisce per tutelare maggiormente le ragioni dei creditori della controllante” (in tema Montalenti, Persona giuridica, gruppi di società, corporate governance, Padova, 1999).

[105] Il principio è espresso nella giurisprudenza statunitense in una nota massima: “A corporation will be looked upon as a legal entity as a rule and until sufficient reason to the contrary appears; but when the notion of legal entity is used to defeat public convenience justify wrong,protect fraud, or defend  crime, the law will regard the corporation as an association of persons”United States v Milwaukee Refrigerator Transit Co 142 F.247,255 (Wis.1905). Sul tema cfr Fabiani, Società insolvente e responsabilità dell’unico socio, Milano 1999, 44 s.; J.Garrido, Preferenza e proporzionalità nella tutela del credito, Milano 1998, 358 s. ; Ianniello, Tecniche sanzionatorie dell’abuso dello schermo societario: limiti teorici e pratici, in Fallimento, 1999, 122 s.

[106] Negli atti parlamentari si sottolinea che la norma di interpretazione autentica è volta “…ad imprimere un indirizzo (al legislatore e forse più al giudice amministrativo e contabile) di cautela verso un processo di progressiva “entificazione” pubblica di tali società, valorizzando la forma privata societaria e la disciplina comune dell’attività rispetto alla sostanza pubblica del soggetto e della funzione” (parere del Comitato per la legislazione del Senato sul disegno di legge n. 5389 e Servizio Studi della Camera, Osservatorio legislativo e parlamentare, riportato da Codazzi, La società in mano pubblica e fallimento: alcune considerazioni sulla disciplina applicabile tra diritto dell’impresa e diritto delle società, in orizzontideldirittocommerciale.it, atti dei convegni, 2014, 19, che ricorda come proprio le sezioni unite della Cassazione, 13 maggio 2013, n. 11417, evidenziano che l’art. 4, comma 13, stante la sua natura di norma di interpretazione autentic, confermerebbe, da un lato, che il socio pubblico deve rapportarsi con la società di capitali alla stregua di qualsiasi altro socio privato e, dall’altro, che il rapporto tra ente pubblico e società deve ritenersi di assoluta autonomia, essendo obiettivo del legislatore impedire che gli enti pubblici, operanti a mezzo di società di diritto privato, agiscano con una razionalità estranea al mercato).

[107] Peraltro secondo la suprema Corte in tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, proprio a norma dell'art. 2395 c.c., il socio (nel nostro caso pubblico) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all'esperimento dell’azione per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall'amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l'ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti proponibile la diversa azione (di natura contrattuale) prevista dall'art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore , ai sensi dell'art. 146 l. fall. (Cass. 22 marzo 2010, n. 6870, inRed. Giust. civ. Mass., 2010, 3, in Diritto & Giustizia, 2010, in Giust. civ. Mass. 2010, 3, 417).

[108] In questo senso si veda in particolare Cass., Sez. Un., 3 maggio 2013 n. 10299, in Società, 2013, 974 s., con nota di Fimmanò, La giurisdizione sulle “società pubbliche”. Infatti, La Corte dei conti ha spesso continuato a radicare la propria giurisdizione con riguardo a queste società, affermando che costituiscano un modello organizzatorio della stessa P.A., sia pure per certi versi atipico, con la conseguenza che il danno prodotto dagli amministratori va qualificato come erariale (C. Conti, sez. I App., 22 luglio 2013, n. 568; C. Conti, sez. III App., 19 luglio 2011, n. 582; v. anche C. Conti, sez. giur. Reg. Campania, 19 ottobre 2012, n. 1626.); reputando tale soluzione coerente con i principi costituzionali e del diritto comunitario, dato che quest’ultimo valorizza l’interesse dei cittadini e delle imprese contribuenti ad una gestione delle risorse pubbliche trasparente, efficiente ed economica (C. Conti, sez. giur. Reg. veneto, 28 settembre 2012, n. 749; C. Conti, sez. giur. Reg. Trentino-Alto Adige, 6 settembre 2011, n. 28.) e valorizzando i citati interventi normativi  (C. Conti, sez. giur. Reg. Campania, 7 gennaio 2011, n. 1.; C. Conti, sez. giur. Reg. Campania, 23 ottobre 2012, n. 1629; C. Conti, sez. giur. Reg. Marche, 15 luglio 2013, n. 80; C. Conti, sez. giur. Reg. Lazio, 24 febbraio 2011, n. 339; C. Conti, sez. giur. Reg. Lazio, 23 febbraio 2011, n. 327).

[109] Convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27.

[110] Convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 135, recante “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica...”).

[111] Convertito in legge dalla L. 7 dicembre 201, n. 213.

[112] Fimmanò, Le società di gestione dei servizi pubblici locali, in Riv. not., 2009, 897 s.

[113] Non a caso il Presidente Rordorf, estensore della sentenza, ha avuto modo di rilevare che occorre “affrontare i problemi che abbiamo dinanzi senza fermarci a profili meramente formali, ma dando invece prevalenza ai dati sostanziali, anche perché è questo che c’impone l’inquadramento nel sistema giuridico europeo” (Rordorf, Le società partecipate fra pubblico e privato, in Società, 2013, 1326).

[114] Si tratta di una prospettiva dai “… profili problematici, soprattutto derivanti dall’assenza di una precisa definizione legislativa del fenomeno dello in house providing e di sicuri indici normativi circa la natura pubblica degli enti in veste societaria…. potendo eventualmente siffatti indici esser ricercati, ma non senza difficoltà, nel ginepraio delle frammentarie disposizioni speciali che talvolta menzionano a vari fini dette società in house, al di fuori però di un quadro coerente di sistema” (Rordorf, op.cit, 1332).

[115] Cassazione, SS.UU., 16 dicembre 2013 n. 27993, che in ordine al primo requisito ha rammentato  come già la giurisprudenza europea abbia ammesso la possibilità che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purchè si tratti sempre di enti pubblici (Corte giust., 10 settembre 2009, n. 573/07, Sea, e 13 novembre 2008, n. 324/07, Coditel Brabant), e come nel medesimo senso si sia espresso, del tutto persuasivamente, anche il Consiglio di Stato (n. 7092/10 ed 8970/09); e che occorrerà pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari. Quanto al requisito della prevalente destinazione dell'attività in favore dell’ente o degli enti partecipanti alla società, si è osservato che esso "..... pur presentando innegabilmente un qualche margine di elasticità, postula in ogni caso che l’attività accessoria non sia tale da implicare una significativa presenza della società quale concorrente con altre imprese sul mercato di beni o servizi. Ma, come puntualizzato da Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 439 (anche sulla scorta della giurisprudenza comunitaria, in particolare, Corte di Giust., 11 maggio 2006, n. 340/04, Carbotermo), non si tratta di una valutazione solamente di tipo quantitativo, da operare con riguardo esclusivo al fatturato ed alle risorse economiche impiegate, dovendosi invece tener conto anche di profili qualitativi e della prospettiva di sviluppo in cui l'attività accessoria eventualmente si ponga. Quanto infine al requisito del cosiddetto controllo analogo, la sentenza ha riaffermato che “......quel che rileva è che l’ente pubblico partecipante abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della società in house, i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica. Dallo scrutinio dello statuto della s.p.a. AMA applicabile alla società negli anni ai quali si riferisce la vicenda in disamina emerge la insussistenza dei tre requisiti: per il primo profilo disposto dell'art. 5, comma 7 là dove si statuisce la (sola) prevalenza del capitale pubblico locale, ovvero, là dove non si fa affatto divieto di acquisire, previa cessione, una partecipazione privata pur minoritaria ma comunque pari al 49% (e ciò a fronte della previsione dello Statuto del 2005 per la quale il capitale sociale è "interdiente pubblico”: cfr. art. 6, comma 1); per il secondo requisito, la previsione dell'art. 3, commi 10 ed 11 delineante una ampia latitudine di facoltà di assunzione di partecipazioni in soggetti con l'osservanza della sola clausola generica della "affinità" di scopi;  per il terzo requisito, il comma 7 dell’art. 15 nel quale la ingerenza del socio Comune di Roma nel consiglio di amministrazione è quella, e solo quella, dell'art. 2449 c.c. (a fronte di quanto regolato agli artt. 13, 14, 15 e 16 dello Statuto del 2005), al quale fa speculare riscontro la totale mancanza di previsioni di alcuna forma di controllo penetrante e continuo del socio pubblico nella gestione della attività sociale.

[116] D’altra parte proprio il Presidente Rordorf ha avuto modo di evidenziare a proposito delle società pubbliche che non possiamo dimenticare “come certe affermazioni, magari anche molto suggestive su questo specifico terreno, hanno molteplici riflessi - per esempio nella materia del diritto concorsuale ed in quella del diritto del lavoro - dei quali è doveroso farsi carico. Pur se si voglia predicare un approccio eclettico, o meramente funzionale, non si può ignorare che con larghissima probabilità l’affermazione di un determinato principio ad opera delle sezioni unite della Cassazione, benchè magari formulata solo per decidere un regolamento di giurisdizione, è suscettibile di avere un’eco in ambiti diversi, se in quegli ambiti ugualmente ci si trovi poi a discutere della natura giuridica di tali società ed argomentare sull’applicabilità a dette società or di questa or di quella disciplina giuridica generale o di settore” (Rordorf, Le società partecipate cit., 2013, 1327).

[117]  Trib. Pescara 14 gennaio 2014 (che richiama Cass., sez. un., 15 aprile 2005, n. 7799) in ilcaso.it, 2014.

[118] Trib. Verona, 19 dicembre 2013, in ilcaso.it, ed in "Il Quotidiano Giuridico" edizione del 14 gennaio 2014 in con nota critica di Imparato.

[119] Trib. Nola 30 gennaio 2014 – Pres. Tedesco – Est. Savarese, in ilcaso.it, 2014.

[120] Trib. Modena 10 gennaio 2014, Pres. ed est. Zanichelli, in ilcaso.it, 2014 (si trattava nella fattispecie della Sassuolo gestioni patrimoniali S.r.l., il cui atto costitutivo lasciava al socio unico anche una competenza su decisioni operative e gestionali)

[121] I giudici modenesi hanno correttamente rilevato che anche la circostanza che siano stati conferiti nella società gli impianti necessari per l’erogazione dei servizi (utilizzando una opportunità prevista dall’art. 113 d. lgs 267\2000) rileva in relazione ai limiti ed alle modalità dell’eventuale liquidazione ma non incide sulla natura della società.

[122] Trib Napoli 9 gennaio 2014, Pres. Di Nosse – Est. Grimaldi, ilcaso.it, 2014, secondo cui ai sensi dell’art. 6 dello Statuto della E.A.V., ricorre il requisito dell’integrale partecipazione pubblica al capitale, essendo statutariamente previsto che le quote della società possono essere trasferite solo a soggetti pubblici, su delibera della Giunta Regionale previo parere della commissione consiliare permanente, dunque con l’esclusione della possibilità di partecipazione di soci privati; ricorre, inoltre, il c.d. controllo analogo da parte della Regione Campania,  espressamente menzionato nell’art. 8 bis, il quale specificamente contempla l’esercizio da parte della regione di un controllo analogo a quello esercitato sui servizi interni, riservando espressamente – tra gli altri – all’assemblea dei soci l’approvazione, entro il 15 dicembre dell’anno precedente, di un Piano di Programma annuale, cui l’Organo amministrativo dovrà attenersi e dare esecuzione, che definisce le attività, gli obiettivi annuali, le eventuali modifiche dell’assetto organizzativo della società, i costi e ricavi dell’esercizio; infine, quanto all’attività esercitata, è incontroverso che la E.A.V. gestisce il pubblico servizio di trasporto locale, dunque chiaramente l’attività della stessa è prevalentemente destinata in favore dell'ente partecipante, titolare del pubblico servizio. Del resto, la stessa normativa di settore conferma l’identificazione della società resistente come un mero organismo regionale per la gestione del servizio pubblico. Infatti, con il D.L. n. 83 del 22.6.2012, convertito il L. n. 134/2012, è stata prevista una particolare procedura per il rientro dal disavanzo delle società partecipate dalla regione Campania che gestiscono il trasporto regionale, con la nomina di un Commissario ad acta, cui è demandata una ricognizione dei debiti e dei crediti e l’elaborazione di un piano di rientro dal disavanzo accertato ed un piano dei pagamenti, alimentato da risorse regionali disponibili in bilancio e da altre entrate, da sottoporre all’approvazione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e del Ministero dell’Economia e delle finanze (art. 16, co. 5); a completamento di tale procedura e per assicurare lo svolgimento della stessa, nonché l’efficienza e continuità del servizio di trasporto, lo stesso decreto ha previsto il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive, anche concorsuali, nei confronti delle società a partecipazione regionale esercenti il trasporto ferroviario regionale, per un periodo di dodici mesi dalla data di entrata in vigore del decreto citato (co. 7), prorogato dapprima al 31.12.2013 dalla L. n. 228 del 24.12.2012, e poi al 31.12.2014, dal D.L. 30 dicembre 2013, n. 151.

[123] Fimmanò, La giurisdizione sulle “società in house providing” cit., 60 s.

[124] Si è peraltro giustamente sottolineato che l’esonerare da fallimento le società a partecipazione pubblica insolventi potrebbe determinare una grave alterazione del mercato e della concorrenza, nonché una disparità di trattamento tra imprese pubbliche e private, in violazione dell’art. 106, commi 1 e 2 del Trattato U.E., proprio perché, in tal modo, potrebbero continuare ad operare in perdita sul mercato, perlomeno fino a che i soci non decidano autonomamente di porle in stato di liquidazione o gli amministratori non accertino l’esistenza di una causa di liquidazione ovvero non venga loro revocato l’affidamento del servizio pubblico. Secondo il trattato, infatti, “le disposizioni in materia di concorrenza si applicano nei confronti di quelle imprese cui gli Stati attribuiscano diritti speciali o esclusivi, anche nel caso in cui siano incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o abbiano carattere di monopolio fiscale, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata” (Codazzi, La società in mano pubblica cit., 9; in tema cfr. pure Goisis, Il problema della natura e della lucratività delle società in mano pubblica alla luce dei più recenti sviluppi dell’ordinamento nazionale ed europeo, in Dir.ec., 2013,  42 s.).

[125]  Salvato, Riparto della giurisdizione sulle azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali delle società in house cit, 43. Impostazione cui aderisce, come visto, anche il Tribunale di Modena.

[126] Non è bastata dunque quella che è stata definita la cura di confinare “il principio entro i limiti nei quali è stato imposto dall’involuzione (perché è tale) normativa del fenomeno” delle società in house (Salvato,Riparto cit.,47).

[127] Eppure (come ricorda sempre Salvato,Riparto cit., 47) la Corte costituzionale ha affermato che, in relazione a tali società, resta ferma la competenza dello Stato per «gli aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica», non «esclusa dalla presenza di aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche», che «comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato» e include «istituti caratterizzati da elementi di matrice pubblicistica, ma che conservano natura privatistica», applicando in tal modo segmenti di discipline pubblicistiche, senza procedere alla riqualificazione del soggetto come ente pubblico.


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