Civile


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 21/12/2014 Scarica PDF

Un secolo di teorie sul contratto preliminare

Gioacchino La Rocca, Professore ordinario di diritto civile nell'Università di Milano Bicocca


Sommario: 1. Il contratto preliminare nella dottrina italiana del primo novecento: il vincolo a contrarre e la sua valenza ideologica - 2. Il contratto preliminare nella dottrina italiana del primo novecento: il contratto preliminare come fonte di un’obbligazione di dare - 3. La dottrina all’indomani dell’entrata in vigore del codice del 1942 – 4. Le insoddisfazioni della dottrina di fine secolo - 5. La rivalutazione dell’obbligazione di dare - 6. Il “problema del preliminare” come problema della “causa” del preliminare - 7. Il preliminare di vendita e la novella del 1997.

 

 

 

1. Il contratto preliminare nella dottrina italiana del primo novecento: il vincolo a contrarre e la sua valenza ideologica

Il contratto preliminare costituisce da oltre un secolo un istituto tra i più controversi e studiati dalla dottrina italiana ([1]): ciò malgrado continua ad essere oggetto di monografie e di contributi minori. È segno che, malgrado la mole di lavori, la dottrina appare ancora insoddisfatta e divisa intorno ai risultati ottenuti. I motivi di un interesse tanto tormentato possono essere forse individuati nel fatto che quanti si interessino al contratto preliminare si trovano prima o poi ad intercettare temi tradizionalmente assai delicati e dibattuti.

In proposito, gli esempi non mancano davvero: un elenco  in ordine sparso e senza alcuna pretesa di completezza delle questioni in qualche modo connesse più o meno strettamente con il contratto preliminare comprende le modalità di trasferimento della proprietà e, dunque, il nesso tra proprietà e contratto; il processo di formazione di quest’ultimo e del consenso che ne costituisce caratteristica peculiare, nonché l’efficacia  da riconoscere al consenso medesimo per la produzione degli effetti contrattuali; la nozione di negozio giuridico e quello che un’autorevole corrente dottrinaria ha chiamato il rapporto tra “posse giuridico”, “non licere giuridico” e “debere giuridico”; la rilevanza sostanziale dell’esecuzione forzata e lo stesso rapporto tra diritto e processo, tanto nei suoi aspetti tecnico giuridici, quanto nella dimensione più propriamente politica che tale rapporto può assumere fino ad investire il problema dei limiti dell’intervento dello Stato nei rapporti privati e nel sistema economico nel suo complesso ([2]).

Altri problemi ha proposto e propone l’art. 2932 c.c. Essi non sono circoscritti al piano più propriamente processuale, quale può essere il tema della compatibilità del procedimento richiesto dall’art. 2932 c.c. con le nozioni tradizionalmente ricevute di “esecuzione forzata” e di “esecuzione in forma specifica” ([3]). L’art. 2932 c.c., invero, impatta su profili più schiettamente sostanziali. In questo ambito i dubbi investono (o hanno investito), ad esempio, la qualificazione giuridica da assegnare alle situazioni giuridiche soggettive rispettivamente riferibili al promittente e al promissario. In proposito, tenuto conto della tradizione dottrinale formatasi sulla sentenza costitutiva prevista dall’art. 2932 c.c., ci si è chiesto se il promittente possa davvero ritenersi in una situazione di “soggezione”, cui corrisponderebbe dal lato attivo un “diritto potestativo” secondo la tradizionale configurazione delle sentenze costitutive ([4], o se, invece, sul promittente faccia carico una normale “obbligazione”, come, peraltro, sembra indicare la lettera dell’art. 2932 c.c. Questo interrogativo, sul quale una parte della dottrina ha costruito le differenze tra preliminare ed opzione ([5]), riporta in primo piano il dubbio di fondo sul contratto preliminare, già sottinteso nei quesiti che prima si sono rammentati: qual’è l’effetto del contratto preliminare? il promissario ha sempre e comunque diritto alla produzione degli “effetti del contratto non concluso”? 

Vi sono, poi, altri interrogativi, attinenti più propriamente alle modalità con le quali il giudice procede alla costituzione del rapporto giuridico finale. Essi mirano a definire i confini all’interno dei quali deve contenersi l’intervento del giudice ai sensi dell’art. 2932 c.c.; più precisamente, in passato la letteratura ha dedicato molte energie al tema della corrispondenza tra “gli effetti del contratto non concluso” – che costituiscono il “territorio” riservato esplicitamente all’intervento del giudice dall’art. 2932 c.c. – e la volontà manifestata dalle parti nel preliminare. In particolare ci si è chiesti se il giudice possa integrare detta volontà ai sensi dell’art.1374 c.c., ovvero se le azioni in ipotesi nascenti dal rapporto definitivo (ad es. le azioni edilizie) possano essere esercitate contestualmente all’azione ex art. 2932 c.c.

Certamente, non tutti gli argomenti elencati sono ancora al centro dell’attenzione degli studiosi, ma tutti concorrono, o nel tempo hanno concorso, a costruire il fascino, la complessità, se si vuole, la difficoltà del contratto in esame e a fatica ne può prescindere chi miri ad un’indagine non superficiale sull’istituto.

Fascino e complessità del contratto preliminare sono, poi, sicuramente accresciuti quando si prendano in esame le risposte offerte nel tempo dalla dottrina alle questioni sopra elencate: sul punto una analisi attenta deve registrare analogie singolari e non di secondo piano tra gli orientamenti che si vengono delineando nella dottrina più recente, e gli spunti e le suggestioni offerte dagli studiosi in tutto il corso del novecento.

Un primo esempio in tal senso è offerto da due approfondite analisi della fase delle trattative antecedenti la conclusione del contratto, scritte a distanza di quasi ottanta anni l’una dall’altra: agli albori del novecento, quando un primo periodo del capitalismo industriale stava ormai avviandosi a maturazione e la crescente complessità della contrattazione suscitava l’interesse della dottrina giuridica, ci si interrogava sugli “atteggiamenti della volontà precontrattuale”, individuandoli in “trattative, minute, contratti preliminari” ([6]). Non diversamente, sul declinare del secolo è stato esperito il tentativo di riconsiderare “l’intero settore degli accordi e delle intese che le parti possono concludere anteriormente alla conclusione del contratto definitivo” ([7]). Entrambi gli autori appena ricordati – al pari di altri che si ricorderanno e che hanno studiato il contratto preliminare negli anni cinquanta - più che di “contratto preliminare”, preferiscono parlare al plurale di “contratti preliminari”, negando, dunque, l’esistenza di una figura unitaria ed ipotizzando, invece, l’esistenza di una molteplicità di accordi diversi cui le parti possono pervenire prima della conclusione del contratto destinato a regolare in via definitiva i loro rapporti.

Questa convergenza di dottrine tanto lontane nel tempo e nelle rispettive premesse culturali non è circostanza, né isolata, né casuale: non è una circostanza isolata, perché – come si vedrà nel corso di questo resoconto – il medesimo dato si riscontra a proposito di tutte le teorie che sono state formulate sul contratto preliminare: tutte sono state proposte e riproposte nel corso degli anni a far tempo dai primi dello scorso secolo.

Per altro verso, non può davvero ritenersi casuale l’esistenza di dottrine concordi nel collocare il contratto preliminare tra le intese cui le parti possono addivenire durante le trattative relative al contratto destinato a disciplinare in modo duraturo i loro rapporti. Una tale collocazione del contratto preliminare non fa che cogliere una caratteristica essenziale della figura in esame, vale a dire la sua natura “preparatoria”, per così dire ancillare rispetto al contratto finale.

Su questa caratteristica, apparentemente banale, del contratto preliminare e sulle sue implicazioni si è soffermata la dottrina fin dai primi studi in materia. All’inizio del secolo scorso, infatti, il contratto preliminare si impose all’attenzione degli studiosi esplicitamente quale momento peculiare della “indagine del valore giuridico di quelle manifestazioni del volere che precedono la conchiusione del contratto” ([8]). Ognuno vede come fosse coerente con questa impostazione la configurazione del preliminare quale “semplice tappa” nella formazione del contratto definitivo: il contratto preliminare, infatti, è collocato tra le “manifestazioni del volere” che possono precedere precedono la conclusione di un qualsiasi contratto.

Peraltro, pur concordando sull’inserimento del contratto preliminare in tale contesto, la dottrina si è immediatamente divisa quando si è trattato di stabilire i tratti distintivi di quella “semplice tappa” verso il definitivo, nella quale si riassumeva il contratto preliminare.

In altre parole, fin dai primi studi la nozione di contratto preliminare è stata men che univoca: quella destinata a raccogliere, almeno sul piano formale, i più numerosi consensi ritiene che “per contratto preliminare … deve intendersi un contratto che ha per oggetto un futuro contratto”, sulla cui sostanza le parti sono già d’accordo ([9]). In questa prospettiva, l’oggetto dell’obbligazione nascente dal contratto preliminare, il comportamento dovuto dal promittente, consiste nella “prestazione del consenso necessario per formare il contratto definitivo” ([10]) ed i suoi presupposti - giuridici ed ideologici al tempo stesso –, con le conseguenti difficoltà, sono immediatamente e chiaramente percepiti in tutta la loro delicatezza: fin nei primi studi dedicati alla figura in esame è proposto con cruda perentorietà il seguente interrogativo, la cui risposta costituirà lo spartiacque sul quale si dividerà tutta la dottrina sul contratto preliminare: “è il contrahere per logica necessità un prodotto del volere libero da ogni vinculum juris? se si risponde di sì, il contratto preliminare sarà una pura velleità delle parti, non un negozio giuridico” ([11]).

Questa affermazione si raccomanda per la significativa pregnanza che la contrassegna a proposito del valore politico ideologico da riconoscere tanto alla polemica sul contratto preliminare, quanto – a ben vedere - alla stessa figura del negozio giuridico. A proposito di quest’ultimo si ricorderà come nel corso del XIX secolo si era consolidata l’idea che il negozio giuridico rappresentasse l’espressione della forza creatrice di effetti e di vincoli giuridici da riconoscersi alla volontà umana ([12]). La dottrina recente ha adeguatamente posto in luce come, dietro questa immagine, fosse evidente l’intento politico ideologico di assegnare al privato la competenza esclusiva a decidere della destinazione dei propri beni in contrapposizione al potere pubblico, allo Stato: la configurazione assegnata al negozio giuridico sottintende che solo in presenza di una volontà espressa ed attuale del privato è possibile sottrarre al medesimo il controllo dei suoi beni ([13]).

Ai primi del novecento, quando il primo capitalismo industriale stava giungendo a maturazione e quando istanze di maggiore equità sociale provenienti dal basso si aggiungevano alle prime politiche di matrice “interventista” poste in essere dal Bismark in Germania e dal Crispi in Italia, il dogma sotteso al negozio giuridico era avvertito in tale pericolo che non apparve possibile tollerare neppure che esso fosse messo in discussione attraverso la teorica del contratto preliminare. Quest’ultima, infatti, non era affatto neutra, dal momento che recava con sé la possibilità che si potesse dar luogo ad un trasferimento coattivo del diritto pur in assenza di una volontà attuale del titolare del diritto stesso. Vero è che, nel caso del preliminare, tale trasferimento invito domino rinveniva la propria radice in una precedente decisione del titolare del diritto, ma era ben evidente che il meccanismo, una volta entrato nel circuito delle idee correnti ed affinato, avrebbe potuto essere nel tempo impiegato per realizzare trasferimenti radicati, non più sulla volontà dell’interessato, ma sulla volontà della legge sia pure sotto il controllo della decisione di un giudice.

Sull’esistenza di questi timori in settori accreditati della cultura giuridica italiana non possono darsi dubbi. In nota 3 si sono già riportate le parole del Faggella (che, va ricordato, un secolo fa era magistrato di punta della Corte di Cassazione di Roma), secondo il quale un trasferimento della proprietà, posto in essere dallo Stato attraverso il giudice, senza una volontà espressa, attuale ed eventualmente reiterata dell’interessato, sarebbe equivalsa ad una “espropriazione … senza un concreto, speciale interesse pubblico”, ad una “violazione della libertà … umana”, ad una “sopraffazione operata dall’alta sovranità dello stato nella sfera dei … privati” ([14]). Sono, dunque, evidenti i timori che sorreggono la “logica necessità” – per tornare alle parole del Coviello sopra riportate – intravista nella libertà del contrahere dalla dottrina che un secolo fa si opponeva alle aperture operate dallo stesso Coviello e dal Chiovenda alle riflessioni che la dottrina tedesca aveva dedicato al contratto preliminare e alla teoria dell’azione negli anni immediatamente precedenti alla fine del XIX secolo.

È inutile sottolineare qui come, ovviamente, non sussista alcuna “logica necessità” tale da escludere la possibilità di introdurre vincoli alla libertà di contrarre, alla autonomia privata. Motivi di opportunità politica, e – se si vuole – di efficienza economica ([15]), graduano l’intervento del legislatore sul “come”, sul “quando” e sulla scelta del soggetto con cui contrarre. Quel che qui, invece, interessa è rimarcare come valga anche per il contratto preliminare, e per i concetti e gli istituti giuridici di volta in volta evocati nel corso delle accese polemiche divampate a proposito del contratto preliminare stesso, ciò che ormai è stato ampiamente osservato ed acquisito a proposito dei concetti giuridici in genere, come pure a proposito dello stesso lavoro dell’interprete, ossia che essi costituiscono fattori storicamente ed ideologicamente orientati ([16]): un secolo fa dietro il problema del contratto preliminare, del suo contenuto, della sua ammissibilità e delle conseguenze del suo inadempimento, si celava (anche) il tema – allora delicatissimo – dell’ampiezza dell’intervento dello Stato nell’economia, tema che la guerra e la storia si sarebbero incaricate di lì a poco di risolvere, ma che allora metteva in allarme quanti ritenevano che, una volta ammesso un obbligo enforceable di contrarre di matrice pattizia, il passo sarebbe stato breve verso l’introduzione di un obbligo di contrarre di fonte legislativa con conseguente venir meno della struttura (vetero) liberista dello stato.

 

2. Il contratto preliminare nella dottrina italiana del primo novecento: il contratto preliminare come fonte di un’obbligazione di dare 

Come si vede, fin dalle prime battute dedicate dalla dottrina al preliminare affiora un tema che certamente non è circoscritto alla teoria giuridica. Al contrario, come sempre accade, anche il problema del preliminare e della sua esecuzione in forma specifica ha un preciso riflesso politico. Parimenti sensibile a questa preoccupazione è un’altra nozione di contratto preliminare, risalente anch’essa a quasi un secolo fa: il contratto preliminare, secondo questa diversa versione, sarebbe un “istituto giuridico che pur vincolando [le parti], lascia loro una certa libertà … per perfezionare d’accordo il contenuto e la forma del contratto” ([17]).

L’elemento centrale, di maggiore interesse, di questa seconda definizione del contratto preliminare è rappresentato da quella “certa libertà”, che residuerebbe alle parti dopo la conclusione del contratto preliminare. Sull’ampiezza di tale “libertà” doveva di necessità concentrarsi l’indagine, che di fatto si traduceva nell’indagine sugli effetti del contratto preliminare, soprattutto ad iniziativa di quanti non erano persuasi dalla dottrina impersonata dal Coviello e prima riportata, che teorizzava un’obbligazione avente ad oggetto la prestazione di un consenso dai contorni già definiti.

Più precisamente, quanti non concordavano con il Coviello, perché muovevano dal presupposto – di importanza centrale per la comprensione di larghissima parte della dottrina sul contratto preliminare e di cui si sono già segnalati i risvolti propriamente politici – della oggettiva ed assoluta incoercibilità del consenso, formulavano varie ipotesi intorno alla misura della “libertà”, che il preliminare avrebbe, a loro avviso, lasciato alle parti nel momento in cui le stesse si sarebbero accinte alla conclusione del contratto definitivo: vi era chi riduceva la questione ad un fatto meramente quantitativo, per cui il preliminare conteneva il raggiunto accordo su un limitato numero di clausole ([18]), e v’era chi, invece, ne faceva una questione esclusivamente qualitativa, nel senso che, posto l’accento sulla “libertà del volere nelle sue molteplici manifestazioni” ([19]), invitava ad indagare se con l’atto in concreto concluso il promittente avesse “voluto spogliarsi del suo diritto di proprietà o di trasferirlo all’altro contraente” immediatamente, o solo in un momento futuro.

Quest’ultimo orientamento merita attenzione perché se ne troveranno gli echi sia tra gli autori italiani, che di lingua tedesca ([20]), nei decenni successivi, per tutto il novecento.

Il primo aspetto da segnalare, è che in questa dottrina il contratto preliminare perde di fatto la sua identità strutturale di figura negoziale a sé stante, che, invece, l’orientamento prima accennato mira a preservare. Protagonista di questa diversa analisi, infatti, è, non già la “promessa”, o il “contratto preliminare”, ma direttamente il contratto definitivo, cui si guarda nell’esclusiva dimensione di “contratto di alienazione”. È di quest’ultimo, infatti, che si approfondiscono i possibili contenuti, nell’ambito dei quali trova posto il contratto preliminare.

E valga il vero: “il contratto di alienazione” – si scrive con riferimento al contratto che in qualche modo programma un effetto reale – “può contenere un attuale e immediato trasferimento della proprietà … può contenere un trasferimento condizionale e futuro, e … un trasferimento che debba avvenire nel momento in cui le parti hanno voluto che si debbano riunire gli elementi essenziali del contratto ed essere operativi” ([21]).

È evidente che il primo caso formulato dalla dottrina appena ricordata, ossia quello in cui le parti abbiano immediatamente disposto l’effetto traslativo, presenta un interesse ridotto per lo studio del contratto preliminare: costituisce, infatti, un dato acquisito fin dai tempi di Doumulin che una “promessa de presenti”, ossia un atto formulato in termini futuri, ma già contenente “omnia substantialia venditionis” ([22]), equivale ad un contratto di vendita vera e propria.

Diverso è il discorso nell’altro caso prima ipotizzato: esso propone una tesi che, al pari di tutte le altre, non mancherà di essere ripresa anche in tempi recenti ([23]). Tale tesi ipotizza che le parti abbiano progettato e disposto l’effetto traslativo, ma abbiano inteso rinviarlo ad un momento successivo con un’espressa dichiarazione in tal senso.

È importante analizzare questo secondo caso: le parti – si osservava in dottrina ([24]) – “possono volere e disporre che la volizione di alienare intervenga o sia operativa in un dato momento, nel momento della traditio o nel momento del concorso degli altri elementi essenziali o in altro momento prestabilito”.

Questa formulazione del possibile contenuto delle “intese preliminari” si differenzia sensibilmente dalla descrizione del preliminare tratteggiata dal Coviello, imperniata sulla prestazione del consenso ad un futuro contratto. In particolare, sono tre le caratteristiche della teoria ora in esame che devono essere sottolineate: innanzi tutto, il fatto che l’effetto traslativo (o comunque finale) è già stato “voluto” fin dal primo contratto dalle parti, le quali non possono più sottrarsi a tale effetto, non possono più disvolere; in secondo luogo, il fatto che le parti intendono procrastinare in qualche modo questo effetto finale, sul quale sono già d’accordo; infine, vi è un terzo aspetto di questa teoria, che deve essere segnalato perché sarà presente in numerosi autori degli inizi e della metà del novecento, fino a quando, alla fine del secolo, su di esso si concentrerà l’attenzione di un importante orientamento: questo aspetto consiste precisamente in ciò che, secondo la teoria in esame, il contratto preliminare può essere uno strumento mediante il quale le parti possono rinviare la produzione dell’effetto traslativo al momento della traditio del bene compravenduto, ossia al momento della consegna del bene stesso dal venditore al compratore.

Quest’ultimo profilo, concernente la affermata possibilità per le parti di incidere tramite il contratto preliminare sulla produzione dell’effetto traslativo, venne immediatamente colto, all’inizio del secolo scorso, da chi non mancò di riprendere osservazioni già espresse nella dottrina tedesca ([25]), formulando l’ipotesi che il preliminare di vendita – designato per lo più “promessa di vendita”, secondo la più risalente tradizione dell’“antico diritto” (come avrebbero detto i Maestri di un secolo fa) – rappresentasse una figura a sé stante, simile, nei suoi effetti obbligatori, al contratto definitivo di vendita quale ce lo consegnavano il diritto romano ed il diritto intermedio ([26]). In questa prospettiva, la promessa di vendita era esplicitamente configurata quale vendita obbligatoria, quale promessa di dare, ossia quale promessa di porre in essere l’effetto traslativo o costitutivo di un diritto reale per mezzo di un’ulteriore dichiarazione di volontà, che il promittente rinviava ad un momento successivo a quello della promessa medesima.

Si delinea, così, un ulteriore orientamento della dottrina italiana sul contratto preliminare nei primi anni del novecento, il quale, dunque, si contrapponeva alla configurazione del contratto in esame offerta dal Coviello, che non distingueva tra il preliminare di vendita ed il preliminare di contratti diversi dalla vendita, obbligatori o traslativi che fossero.

Il conflitto, tuttavia, non si esauriva nella contrapposizione tra queste due tesi. Infatti, a loro volta, entrambe queste tesi – ciascuna dalla sua angolazione – miravano a contrastare l’insegnamento prevalso nella dottrina italiana fino alla seconda metà dell’ottocento ([27]), quando, sul modello offerto dal Code Napoleòn, la dottrina maggioritaria aderiva all’equiparazione tra la promissio de vendendo ed il corrispondente contratto definitivo elaborata in Francia da una tradizione di pensiero e di esperienza pratica risalente al diritto comune ([28]), alla quale si è già accennato e sulla quale occorrerà tornare.

Questa contrapposizione con la dottrina ottocentesca di più stretta derivazione francese vale, si ripete, sia per l’orientamento che faceva capo al Coviello, che intravedeva nel preliminare il contratto diretto a determinare l’obbligo di prestare il consenso ad un contratto successivo, sia per l’altro orientamento volto a configurare il preliminare come fonte dell’obbligazione di dare.

 

3. La dottrina all’indomani dell’entrata in vigore del codice del 1942 

Il quadro che si è venuto delineando nei precedenti paragrafi pone in evidenza come già all’inizio del ventesimo secolo il contratto preliminare fosse una figura poliedrica, suscettibile di assumere significati diversi a seconda che lo si inquadrasse tra i meccanismi per il trasferimento della proprietà, oppure nell’ambito delle trattative precontrattuali, all’interno delle quali gli veniva riconosciuto un ruolo peculiare in quanto nessuno contestava che fosse un vero e proprio contratto, ma, al tempo stesso, non erano univoci i possibili effetti di tale contratto. Se, dunque, quelli passati in rapida rassegna nei precedenti paragrafi sono gli orientamenti di maggiore rilevanza nella dottrina sul contratto preliminare agli inizi del novecento, va ribadito con chiarezza che caratteri non dissimili sono presenti e vivi nella dottrina posteriore, per tutto il secolo fino ai nostri giorni.

Certamente negli anni successivi e soprattutto alla fine del novecento muta il linguaggio ed invano si cercherebbero nella dottrina soprattutto degli anni ottanta o novanta quei riferimenti alla psicologia e ai processi psichici, che sono frequenti, invece, negli autori dei primi del novecento. La dottrina di un secolo fa, d’altra parte, non poteva rimanere indifferente alle suggestioni della psicologia che proprio negli anni tra la fine del XIX ed i primi del XX secolo veniva acquisendo dignità di scienza e che sembrava rafforzare le categorie, gli argomenti, i principi utilizzati dai giuristi dell’epoca, dominati dal dogma della volontà non solo in campo civilistico.

Al di là del linguaggio, però, occorre prendere atto che nella seconda metà del novecento le notevoli modificazioni introdotte dal codice civile vigente in tema di preliminare e di obbligo di contrarre non sono riuscite a modificare in modo apprezzabile il quadro dottrinale.

In linea puramente teorica l’introduzione degli artt. 1351 e 2932 c.c., come pure dell’art. 2652 n. 2 c.c., avrebbero dovuto celebrare la definitiva vittoria della scuola che rinveniva i propri riferimenti negli insegnamenti, per l’appunto, del Coviello e del Chiovenda e che, solo per la comune matrice culturale dei due Maestri, può definirsi di impronta pandettistica.

E così, infatti, è stato per molti aspetti: ad esempio, l’art. 1351 c.c., con il suo espresso riferimento al “contratto preliminare”, ha definitivamente privato di interesse le dispute, fiorite fino ad allora in Italia come in Germania, intorno all’esatta terminologia da usare a proposito del contratto in esame. A lungo, infatti, la dottrina si era interrogata su quale fosse la designazione maggiormente adeguata per questo contratto prepotentemente balzato alla sua attenzione: promessa di vendita, patto preparatorio, contratto preliminare, promessa bilaterale di contratto, accordo di contrattare, precontratto, compromesso ([29]).

La stessa disposizione ha, poi, risolto il problema, di grande rilevanza pratica ed assai controverso in giurisprudenza prima del codice del 1942, relativo alla forma del preliminare medesimo.

Infine, l’art. 1351 c.c. è importante non solo per aver recato chiarezza sulla designazione della figura in esame e sulla sua forma: vi è, infatti, un terzo aspetto che deve essere segnalato. Infatti, il riferimento espresso al “contratto preliminare”, contenuto nell’art. 1351 c.c. del nuovo codice, ha una oggettiva rilevanza sul piano propriamente dogmatico, che meglio si percepisce quando si rammenti che prima di allora la figura contrattuale in esame era priva di riferimenti normativi, con la conseguenza che i dubbi sulla sua stessa operatività potevano trarre alimento non trascurabile dal silenzio del legislatore.

Più precisamente, nell’assenza di riferimenti al contratto preliminare che caratterizzava il codice civile del 1865, non solo ben potevano trovare ragione e giustificazione le diverse e spesso configgenti dottrine che sopra si sono riportate, ma – con pari ragione – si poteva dubitare della stessa utilità del negozio e della sua capacità di realizzare interessi peculiari e precisi, ossia interessi che non fosse possibile soddisfare altrimenti. Per quanti nutrissero dubbi di questo genere, non era in fondo difficile, nel silenzio della legge, trattare il contratto preliminare alla stregua di un inutile orpello dottrinale, o di “una infelice espressione della volontà delle parti”, le quali col preliminare avrebbero dato luogo ad un contratto in sé sostanzialmente inutile e, dunque, nullo, tale da poter trovare soccorso solo nel “mezzo benigno” della conversione e, più precisamente, nella conversione nel corrispondente definitivo ([30]). In questa prospettiva il contratto preliminare non era ritenuto meritevole di protezione da parte dell’ordinamento causa circuitus vitandi, vale a dire per ovvi motivi di economicità, che venivano espressi con la formula medioevale secondo la quale entia non sunt moltiplicanda sine necessitate.

Tutte queste argomentazioni sono oggettivamente poste in crisi dalla codificazione del 1942. L’art. 1351 c.c. contrappone, e dunque distingue nettamente, il contratto preliminare dal contratto definitivo. E l’art. 2932 c.c., per parte sua, risolvendo un problema ancora più grave e delicato, quello delle conseguenze dell’inadempimento del contratto preliminare, ha individuato nell’“obbligo di concludere un contratto” ([31]) l’effetto del preliminare medesimo, precisando, per di più, espressamente che gli “effetti del contratto [definitivo] non concluso” si sarebbero potuti produrre per “sentenza”.

Tuttavia, pur a fronte di un panorama normativo profondamente mutato, l’entrata in vigore del nuovo codice civile non sembra aver avuto un impatto particolarmente significativo sulla dottrina, nel senso che le novità legislative non sono riuscite, neppure temporaneamente, a mettere d’accordo gli studiosi sulle caratteristiche essenziali del contratto preliminare. Anche immediatamente dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di fatto si riscontrano le posizioni già evidenziate nella rassegna della dottrina sul contratto preliminare effettuata nel precedente paragrafo.

Certamente, alla fine degli anni quaranta e nel decennio successivo si è consolidata la descrizione dei rapporti tra preliminare ed definitivo a suo tempo offerta dal Coviello, ancorataalla definizione del contratto preliminare come contratto volto a produrre l’obbligo di prestare il consenso per la costituzione di un ulteriore contratto, destinato ad introdurre quegli effetti definitivi che le parti avevano rinviato a questo secondo contratto ([32]).

Su tale premessa, si è confermato l’inquadramento del contratto preliminare nell’ambito di un più ampio ventaglio di “intese precontrattuali”, già delineato dalla dottrina dei primi del secolo e che – secondo quanto anticipato nel primo paragrafo – sarà ribadito dalla dottrina dell’ultimo decennio del novecento ([33]).

Peraltro, le posizioni - anche tra quanti aderiscono alla nozione di contratto preliminare quale contratto in sé completo, caratterizzato dal fatto di dar luogo ad un obbligo per le parti di emettere il consenso necessario per introdurre gli effetti giuridici definitivi – sono variegate.

Così, una analisi ancora ferma su un piano meramente descrittivo individua la scriminante tra definitivo e preliminare nella attualità o meno della volontà in ordine al verificarsi dell’effetto traslativo ([34]).

Sotto tale profilo, la dottrina in esame non fa che riportarsi alla giurisprudenza preesistente al 1942, ma essa è pur sempre significativa perché conferma per più versi quanto è stato sottolineato fin dalle battute iniziali di questo lavoro, vale a dire che gli studi susseguitisi nel corso del secolo hanno continuamente rielaborato le intuizioni cui sono pervenute le prime analisi dedicate alla materia. Infatti, non è difficile scorgere come la dottrina in esame sia – al pari delle altre che si segnaleranno - largamente tributaria di quell’orientamento dei primi del novecento che, in definitiva, guardava al preliminare come ad uno dei possibili contenuti del “contratto di alienazione”, con il risultato che anche nella formulazione adottata ai primi del secolo la differenza tra preliminare e definitivo sembra esaurirsi – come nella tesi ora in esame - nella volontà manifestata dalle parti circa i tempi della produzione dell’effetto traslativo.

Questo connotato – ed è quel che qui merita sottolineare - si riscontrerà successivamente, e precisamente  nella seconda metà degli anni ottanta, nella teoria che sarà sviluppata a proposito del c.d. “preliminare ad effetti anticipati”, nel senso che tale teoria assegnerà analoga importanza alla dichiarazione delle parti di voler procrastinare l’effetto traslativo, così da ritenere non verificato l’effetto traslativo medesimo neppure in presenza di uno scambio della cosa e del prezzo integralmente realizzato tra le parti ([35]).

A metà del secolo, peraltro, si rivela assai più incisiva un’altra dottrina, la quale, dopo aver preso atto che “oggi, la cosiddetta esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre è consacrata da una norma di legge”, ha proposto di risistemare la materia, muovendo, peraltro, da un approccio dogmatico tuttora condivisibile in tema di determinazione dell’oggetto delle obbligazioni ([36]): “non si tratta più” – si è osservato – “di stabilire la natura ed il contenuto del contratto preliminare per decidere se esso ammette l’esecuzione specifica, bensì di stabilire quali conseguenze l’ammissione dell’esecuzione specifica abbia sulla natura a sul contenuto del contratto preliminare” ([37]).

In tale direzione si è ritenuto che, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2932 c.c., dal contratto preliminare sorgerebbe ormai il titolo per la costituzione di una situazione giuridica c.d. “finale”, ossia una situazione giuridica che lo stesso autore in esame descrive come tale da soddisfare immediatamente l’interesse del titolare del relativo diritto in quanto il soggetto viene posto in relazione diretta col bene perseguito ([38]).

Questi sommari rilievi sono sufficienti per porre tutte le premesse per un’equiparazione tra contratto preliminare e contratto definitivo: nella prospettazione in esame, infatti, entrambi i contratti sarebbero in grado di determinare situazioni giuridiche “finali”, idonee, cioè, ad assegnare al titolare un diritto ad ottenere la proprietà o comunque il godimento del bene inizialmente perseguito ([39]). Nel preliminare, nell’obbligo di contrarre vi sarebbe – sempre secondo la dottrina in esame - “piena ed intera la volontà dell’effetto”, che, peraltro, si produrrà in futuro, “quando si saranno verificate le condizioni del trasferimento”, anche “se il promittente non vuole più produrlo” ([40]).

Questa dottrina si presta ad una molteplicità di osservazioni anche in considerazione dell’importanza dell’autore e della sua influenza sulla dottrina successiva. Non possono, in particolare, tacersi, né l’interpretazione, per così dire, “ortopedica”, cui viene sottoposto l’art. 2932 c.c., né le ragioni politico-ideologiche che ancora una volta sono alla base della descrizione del preliminare e della sua esecuzione. Sotto questo secondo profilo non può non cogliersi la finezza “politica” della tesi: essa, infatti, malgrado l’art. 2932 c.c., fa salvo il principio per il quale autore dell’effetto traslativo è sempre il titolare del diritto e mai il giudice, il quale – nella prospettiva adottata dall’orientamento in esame - si limita a prendere atto di una volontà privata postulata come definitiva.

Il primo motivo di insoddisfazione risiede, come si è detto, nella lettura restrittiva offerta dalla dottrina in esame all’art. 2932 c.c.: l’ambito di applicazione viene, infatti, circoscritto ai contratti ad effetti reali o al più a “qualunque contratto dal quale derivi una situazione che non sia meramente obbligatoria” ([41]).

Questo difetto della dottrina in discorso è stato riscontrato anche dagli autori che hanno seguito il solco tracciato dal Satta: è stato, infatti, rilevato che la conclusione cui quest’ultimo perviene, “è coerente con le premesse [dal quale l’autore prende le mosse], ma appare manifestamente in contrasto con la dizione del secondo comma dell’articolo in esame, dalla quale si deduce l’applicabilità della cosiddetta esecuzione in forma specifica a preliminari relativi a contratti diversi da quelli previsti dall’art. 1376 c.c., cioè a contratti ad effetto obbligatorio” ([42]).

Del pari, la teoria sul contratto preliminare fatta propria dal Satta e da quanti nel dopoguerra hanno ricondotto l’effetto traslativo direttamente al contratto preliminare stesso, è un tentativo di negare alla radice che la proprietà e l’iniziativa economica – delle quali il contratto è rispettivamente strumento di alienazione e di esercizio – potessero essere manipolati da forze diverse dalla volontà “effettiva” del privato. Sennonché, tale tentativo di pensare il quadro economico ancora in termini di liberismo classico si sarebbe presto infranto sugli artt. 41 ss. Cost. e sulla constatazione che nel quadro costituzionale l’esercizio della proprietà si muove necessariamente lungo le linee fissate dalla legge e l’iniziativa economica privata è circoscritta attraverso le clausole generali del “contrasto con l’utilità sociale” e del “danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana” ([43]).

Dunque, la teoria del Satta non costituisce altro se non un ulteriore capitolo di quel vasto e assai risalente orientamento che di fatto diffida del contratto preliminare e soprattutto dell’obbligo di contrarre in quanto vi rinviene uno strumento attraverso il quale i privati possono essere vincolati ad un rapporto giuridico pur in assenza di una volontà definitiva circa l’accettazione di tale vincolo. Concetto, quest’ultimo, che meglio e più chiaramente si esprime se si pone l’accento sul vero timore che animava tanta diffidenza, vale a dire che il proprietario potesse subire la perdita del suo diritto ad opera del giudice e pur in mancanza di una volontà espressa, autonoma ed attuale in tal senso, nonché, soprattutto, in assenza del presidio della proprietà privata posto dall’art. 834 c.c.

In questo senso – potrebbe aggiungersi - la teoria in esame si pone in contraddizione con il suo tempo, con la consapevolezza acquisita in quegli anni che la struttura economico-sociale non è un “dato”, ma un “costruito” cui concorrono il diritto ed il giurista ([44]), e ripropone, sia pure in forma più velata, gli stessi timori di natura schiettamente politica rappresentati dal Faggella ai primi del novecento.

La teoria in esame, peraltro, si collega agli studi della prima metà del novecento anche sotto altro profilo. Essa, infatti, riprende un’intuizione già formulata all’inizio del secolo da altra autorevole dottrina, la quale aveva sostenuto che, ove l’obbligazione nascente da contratto preliminare fosse stata coercibile, si sarebbe abolita “ogni differenza o almeno la differenza precipua tra contratto preliminare e definitivo” ([45]). Il Satta esprime un’idea analoga con l’affermazione secondo la quale – una volta ammessa la surrogabilità del consenso al definitivo attraverso la sentenza ex art. 2932 c.c. – nel preliminare vi è già “piena ed intera la volontà dell’effetto”. Il ché, per l’appunto, equivale a dire che dopo l’introduzione dell’art. 2932 c.c. sarebbe caduta la differenza tra preliminare e definitivo giacché nel primo si sarebbe manifestata “piena ed intera” e, dunque, giuridicamente efficace e vincolante, “la volontà dell’effetto” traslativo.

La dedotta equiparazione del preliminare al definitivo in conseguenza dell’intervenuta eseguibilità in forma specifica del primo, ha avuto un seguito dal peso non trascurabile. Infatti, è stata, innanzi tutto, condivisa da chi si pose in una posizione di netta contrapposizione con la teoria introdotta dal Coviello ed intravidenel contratto preliminare “un negozio già creato”, ossia un contratto già definitivo nei suoi effetti, ma condizionato “ad una nuova obbligatoria documentazione del negozio stesso” ([46]).

Vale, poi, notare che la tesi che nel preliminare potesse scorgersi un contratto ormai definitivo riscosse altre – e per certi aspetti, forse, più significative – adesioni anche tra quanti, pur formalmente aderendo alla definizione del preliminare come contratto avente ad oggetto un secondo contratto, aggiungevano che “l’atto di disposizione è stato già sostanzialmente posto in essere con la stipulazione del contratto preliminare e la conclusione del contratto definitivo è semplicemente un atto esecutivo” ([47]).

Quel che va sottolineato è la particolare configurazione assegnata al contratto definitivo: secondo Nicolò, non ci troviamo di fronte ad un autonomo negozio giuridico, ma più semplicemente di fronte ad un atto esecutivo di una decisione negoziale già assunta dalle parti. È una configurazione del contratto definitivo sostanzialmente non dissimile né da quella del Satta sopra esposta, né da quella degli autori, che in ogni tempo, dalla seconda metà dell’ottocento alla fine del novecento, tendono in vario modo e con formulazioni mutevoli a svalutare il contratto definitivo fino a privarlo di qualsiasi reale contenuto, di qualsiasi efficienza  in ordine alla decisione di dare luogo agli effetti definitivi, riducendolo, così, da “negozio”, da momento per la valutazione e la regolazione di interessi ad “atto esecutivo” di una decisione già presa in modo irrevocabile.

Il quadro delle opinioni formulate sul contratto preliminare all’indomani dell’entrata in vigore del codice civile deve essere completato con l’orientamento che intravedeva nel contratto definitivo la conferma che anche con il nuovo codice potesse ammettersi l’autonoma configurabilità di un’obbligazione di dare avente ad oggetto la trasmissione della proprietà o del possesso. Questa obbligazione di dare – proseguiva la tesi ora in esame - di sua natura si sarebbe potuta eseguire solo con un negozio giuridico, rappresentato, per l’appunto, dal menzionato contratto definitivo ([48]).

In un prospettiva assai vicina a quella appena rammentata, si collocò chi sostenne che “la distinzione, tra compravendita e relativo preliminare, diventa netta, utile ed efficace quando venga impostata esclusivamente sulla diversa natura dei due negozi: l’uno preminentemente reale, negozio tipico traslativo (la vendita); l’altro, meramente obbligatorio, negozio tipico producente solo un vincolo personale (la promessa di vendita)”, la quale, conclude l’autore, equivale ad “una vendita meramente obbligatoria” ([49]).

Una notazione finale deve essere riservata all’orientamento inteso a collegare il preliminare alle sopravvenienze contrattuali: si è visto nel precedente paragrafo (e v. anche infra nel prossimo paragrafo) come questo collegamento fosse ben presente presso i primi studiosi della materia. Con l’entrata in vigore del nuovo codice si assiste ad un singolare fenomeno: sembra che questa possibile spiegazione della sequenza preliminare-definitivo venga accantonata. Essa, infatti, non appare più coltivata dalla dottrina negli anni che vanno dal 1954 al 1970. La sola eccezione è costituita da alcuni rilievi, formulati da un giurista insigne, il quale, nel segnalare che, attraverso le sequenza in esame, le parti potevano rinviare nel tempo della produzione degli effetti definitivi osserva, con incisivo intuito, ma senza alcun approfondimento ulteriore, che “quindi l’incertezza di futuri eventi non ha peso, in quanto è al più quantitativamente ridotta, così da assicurarsene sin d’ora il rischio” ([50]).

 

4. Le insoddisfazioni della dottrina di fine secolo

Lo sguardo volto in chiusura del precedente paragrafo agli studi immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice civile mostra una dottrina che inevitabilmente ancora discute i temi che erano stati al centro del dibattito prima dell’entrata in vigore del codice civile. Il resoconto fin qui posto in essere è utile anche per mettere meglio a fuoco l'effettivo contributo recato all'indagine sul contratto preliminare dalla dottrina successiva, allorché a partire dagli anni settanta la ratio del contratto fu collegata al controllo delle sopravvenienze ([51]): questa tesi, infatti, si contraddistingue non tanto per un'intrinseca novità di contenuti, quanto piuttosto perché razionalizza in un'efficace sintesi le intuizioni che in qualche modo circolavano (e circolano tuttora) nelle descrizioni del contratto de quo offerte dai giuristi italiani fin dai primi approcci al preliminare stesso.

La formula del controllo delle sopravvenienze sembra cogliere una radice comune di quelle descrizioni, ponendosi al tempo stesso sia quale momento di sintesi idoneo a conferire un minimo di spessore sistematico a descrizioni altrimenti dal sapore frammentario ed episodico, sia quale strumento concettuale utile per analisi ed approfondimenti ulteriori.

Malgrado l’importanza assunta dal contributo del Gabrielli  nell’ambito del dibattito sviluppatosi in Italia sul contratto preliminare, non deve perdersi di vista la circostanza che il collegamento tra questo contratto e le sopravvenienze non rappresenta affatto una novità assoluta degli anni settanta dello scorso secolo, dal momento che tale collegamento fu intravisto fin dalla seconda metà del seicento, così da indurre i giuristi tedeschi del tardo ottocento a definire il vorvertrag,ilcontratto preliminare, un “negozio di sicurtà” (ein sicherungsgeshäft) ([52]).

In proposito, è sufficiente ricordare quanto avvenne ai primi del novecento. All’epoca una dottrina aveva notato come nel diritto intermedio le ansie connesse alla sopravvenienza contrattuale fossero ben presenti nelle riflessioni dei giuristi e nelle elaborazioni degli operatori sulla clausola rebus sic stantibus  ([53]). Quel che ora interessa evidenziare è che, un secolo fa, chi dubitava sia della possibilità di ritenere tutti i contratti subordinati ad un’implicita clausola rebus sic stantibus, sia della fondatezza della allora nascente teoria della presupposizione, esplicitamente riteneva che “nei contratti preliminari, obbligandosi a concludere un certo contratto in avvenire, le parti vogliano normalmente che le circostanze rimangano tali quali erano nel momento in cui si sono impegnate, fino al momento in cui il contratto definitivo deve essere concluso” ([54]).

Deve aggiungersi come un tale collegamento tra “contratti preliminari” e un determinato stato non può ritenersi solo una acuta intuizione dottrinale, dal momento che trovava un addentellato di diritto positivo nel § 936 ABGB, il quale esplicitamente accostava “il patto di fare un contratto” con il fatto che “non siano nel frattempo cambiate le circostanze” ([55]). In altre parole, già un secolo fa si era posto nel mondo del diritto il problema delle conseguenze che sul contratto preliminare e sulla sua esecuzione avrebbe potuto esercitare il mutamento delle circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto preliminare stesso.

Questo problema – ossia il problema delle conseguenze della sopravvenienza negativa su un contratto che si assume specificamente preordinato e concluso per “controllare” le sopravvenienze – non può essere sottovalutato, dal momento che la sua mancata soluzione è suscettibile di determinare – come in effetti ha determinato – il tramonto della tesi in discorso.

Più precisamente, la soluzione di tale problema è necessaria per poter efficacemente replicare ad un’obiezione sempre mossa alla tesi che intravede nel controllo delle sopravvenienze l’ubi consistam del contratto preliminare. Invero, quanti hanno posto il contratto in stretta relazione con la sopravvenienza contrattuale non sono riusciti a replicare adeguatamente all'obiezione che veniva mossa già dai primi del novecento all'orientamento che – al pari della dottrina in esame - in qualche modo si rifaceva alle tesi del Coviello. Ancora recentemente, infatti, un autorevole studioso ha rilevato, con la forza e l'obiettività di chi ha ragione, che “le teorie contrattualiste [ossia quelle che, in definitiva, costruiscono il definitivo come contratto vero e proprio, in quanto relegano il preliminare ad una fase ancora non compiuta della decisione delle parti di obbligarsi] devono spiegare quale senso abbia la negozialità riferita ad un atto (il c.d. contratto definitivo) che, da un lato, sul piano del contenuto è già prefissato e, dall’altro, sul piano della libertà del volere, è dovuto alla stregua di un atto di adempimento” ([56]).

E questo non è l'unico - anche se grave - nodo irrisolto della dottrina in discorso. Infatti – potrebbe aggiungersi - l'equilibrio raggiunto tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni novanta dello scorso secolo intorno all'idea del controllo delle sopravvenienze era estremamente debole per almeno due motivi. In primo luogo, perché i suoi sostenitori non riuscivano a replicare adeguatamente alla sottolineata incompatibilità delle due funzioni di “atto dovuto” e di “contratto” contemporaneamente assegnate al definitivo.

Affianco a questo, vi è poi un secondo motivo che, collegato col precedente, di questo è probabilmente anche più grave. Mi riferisco all'insoddisfacente approfondimento compiuto proprio a proposito del tema cruciale, caratterizzante, della tesi del controllo delle sopravvenienze, vale a dire il mancato approfondimento delle implicazioni insite nell'accostamento del contratto preliminare al tema della sopravvenienza contrattuale. Invero, un contratto che – in tesi - esiste e riceve tutela dall'ordinamento in funzione del controllo delle sopravvenienze, non può rimanere inerte quando le temute sopravvenienze effettivamente si verificano: si profila, così, l’interrogativo avente ad oggetto le modalità concrete con le quali le sopravvenienze incidono sui due contratti nei quali si scompone il binomio “preliminare-definitivo”. Non solo: in questa prospettiva si delinea un ulteriore interrogativo di importanza almeno pari al precedente: questa volta, il dubbio ha ad oggetto l'individuazione delle sopravvenienze in ipotesi rilevanti.

Non è sicuramente possibile in questa sede conferire maggiore spessore ai rilievi critici appena enunciati e alle risposte in qualche modo suggerite dalla dottrina de qua sui punti appena evidenziati, mentre di maggiore interesse in questo momento è aggiungere che non si è ancora esaurito il novero delle perplessità suscitate da quella stessa dottrina. Mi riferisco al fatto che la mancata chiarezza in ordine al reale significato implicito nella correlazione del preliminare al tema della sopravvenienza contrattuale non ha consentito, ad opinione di chi scrive, di adeguare a tale profilo l’indagine sull’art.2932 c.c.

In altre parole, l’orientamento incline ad individuare nel controllo delle sopravvenienze l’ubi consistam del contratto preliminare, ha di fatto omesso di radicare la propria opinione nel diritto positivo. Infatti, non risulta che l’art. 2932 c.c. sia mai stato sottoposto ad una analisi finalizzata a decifrare se e quanto la prevista esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre sia effettivamente compatibile con un contratto funzionalmente preordinato al controllo delle sopravvenienze, vale a dire un contratto che - secondo quanto si è accennato sopra - quanto meno, deve avere le seguenti caratteristiche: I) deve essere, innanzi tutto, sensibile alla circostanza di fatto sopravvenuta dopo la sua conclusione, nel senso che tale circostanza deve manifestare la sua rilevanza incidendo in qualche modo sul rapporto costituto col preliminare; II) detta “sensibilità” del preliminare alla sopravvenienza deve essere tale  da tradursi in un reale beneficio per le parti (o per almeno una di esse), le quali, altrimenti, non avrebbero alcun interesse a vincolarsi solo in via preliminare e non immediatamente in modo definitivo.

Non è chi non veda come, a questo punto, si profili un ulteriore problema, che, stavolta, è di stretto diritto positivo: esso è stato avvertito in particolare da quella dottrina che ha posto a confronto l'art. 2932 c.c. con il controllo delle sopravvenienze cui sarebbe funzionale il contratto preliminare ([57]). In questa prospettiva è necessario indagare se effettivamente l’art. 2932 c.c. presenti margini sufficienti a supportare in qualche modo la configurazione di un contratto avente le suddette caratteristiche sopra indicate sub I) e II).

Questi interrogativi non sembrano essere stati compiutamente risolti neppure da chi ha dato atto che la preferenza per un contratto preliminare esprime l’esigenza delle parti per una “pausa di riflessione” prima di dar luogo all’assetto definitivo di interessi ([58]). In particolare, non sembra agevolmente conciliabile con la concezione del preliminare come “pausa di riflessione” delle parti, quanto questa dottrina aggiunge a proposito della attività che il giudice può svolgere in sede di giudizio ex art. 2932 c.c. Infatti, la dottrina ora in esame prende atto del fatto che la giurisprudenza ormai prevalente ammette che il giudice, in sede di giudizio ex art. 2932 c.c., non è vincolato strettamente al contenuto del preliminare, ma al contrario può integrare l’assetto di interessi ivi previsto. Su questa premessa, la dottrina in esame conclude che in tal modo la giurisprudenza conseguirebbe un duplice obiettivo, in quanto, da un lato “potenzia il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c., dall’altro valorizza sempre più l’aspetto programmatico obbligatorio del contratto preliminare, rendendo quest’ultimo non molto dissimile da un qualsiasi programma di realizzazione di un assetto di interessi in termini obbligatori” ([59]).

Sennonché, di fronte a questa interessante prospettazione si ha come la sensazione di un ché di incompiuto. Resta, infatti, nell’ombra il coordinamento tra i tre termini del problema sopra emersi, vale a dire la “pausa di riflessione” perseguita dalle parti col preliminare, il carattere “programmatico obbligatorio” del preliminare stesso e – aspetto non ultimo - il tenore letterale dell’art. 2932 c.c. Più precisamente, sembra rimanere senza risposta la domanda su come possa conciliarsi la “pausa di riflessione”, cercata dalle parti col preliminare, con l’obbligatorietà dell’assetto di interessi programmato dalle parti con il preliminare stesso. Insomma: che senso ha concedere alle parti una “pausa di riflessione”, se esse sono, poi, comunque obbligate a realizzare in via definitiva il divisato assetto di interessi? A queste condizioni, su che riflettono le parti?

 

5. La rivalutazione dell’obbligazione di dare

L’insoddisfazione per il complessivo quadro delle tesi sul preliminare ha determinato, sul calare del secolo scorso, il rifluire di larga parte della dottrina sulle opinioni di chi ha visto, nella scansione tra preliminare e definitivo, il riproporsi nell’ordinamento italiano della struttura c.d. romanistica del trasferimento della proprietà ([60]).

Un orientamento importante ha, infatti, dato nuova linfa ad idee ed argomenti che – come si è visto nei paragrafi precedenti – erano già affiorati in passato (il libro di Adler risale al 1892, il saggio di Chironi è del 1911), allorché si sostenne che effetto del preliminare sarebbe stato propriamente il sorgere di un’obbligazione di dare, da adempiersi attraverso una semplice traditio.

In questa prospettiva, l’innovazione introdotta dal codice civile del 1942 – ossia una forma di esecuzione coattiva potenzialmente aperta all’applicazione anche nei confronti di contratti preliminari non collegati al trasferimento della proprietà su beni immobili - è stata in parte neutralizzata dalla dottrina più recente riprendendo l’idea del Satta, secondoil quale la fattispecie disciplinata dagli artt. 1351 e 2932 c.c. si sarebbe dovuta riferire esclusivamente ai contratti traslativi. Più precisamente, si è recentemente sostenuto che la fattispecie predetta deve collocarsi all’interno del processo di formazione del contratto di vendita di beni immobili ([61]), nell’ambito del quale il contratto preliminare non farebbe altro che riprodurre la scansione tra titulus e modus adquirendi della tradizione romanistica ([62]).

Alla fine del secolo è stata, così, riproposta l’idea - già avanzata nei primi studi sul preliminare sopra ricordati – secondo la quale il contratto preliminare “è un contratto produttivo dell’obbligo di far acquistare la proprietà mediante la conclusione di un successivo contratto ad effetti reali” ([63]).

In questa prospettiva, è evidente anche una seconda analogia, precisamente con quella dottrina dei primi del secolo, secondo la quale con la scansione preliminare-definitivo “il potere della volontà” dei privati si sarebbe manifestato procrastinando l’effetto traslativo al momento della traditio ([64]). Non diversamente, la dottrina recente assegna alle parti la scelta del meccanismo traslativo del diritto: esse “grazie al preliminare di vendita, … dispongono di due vie per giungere all’alienazione, verso corrispettivo di denaro, di un diritto: … possono stipulare una vendita, qualificata come traslativa, il cui adempimento non consiste in un successivo negozio, oppure possono stipulare un preliminare di vendita, fonte di un’obbligazione di dare, ma il cui adempimento consiste in un ulteriore atto traslativo” ([65]).

Sono tutti temi di grande momento, che meriterebbero un approfondimento non possibile in questa sede. Qui è solo possibile osservare che neppure la dottrina più recente si fa carico delle obiezioni proposte fin dall’entrata in vigore del codice civile all’orientamento ora accennato. Invero, senza risposta è rimasta l’obiezione imperniata sul tenore letterale del secondo comma dell’art. 2932 c.c., che sembra escludere la possibilità di appiattire il preliminare alla sola fattispecie del contratto traslativo ([66]). Come pure è rimasto privo di riscontro il rilievo, che, a ben vedere, è strettamente connesso a questa indicazione offerta dall’art. 2932 c.c., secondo il quale la prassi offre esempi di preliminari di contratti diversi dalla vendita ([67]). Ed ancora non sembra adeguatamente approfondito il fatto che la scansione romanistica tra titulus e modus adquirendi è una modalità strutturale della circolazione giuridica volta ad escludere l’applicazione della regola resoluto jure dantis resolvitur et jus accipientis,e non l’espressione di una preferenza delle parti affinché trascorra un lasso di tempo tra il consenso ed il trasferimento della proprietà ([68]).

Ciò malgrado, le teorie da ultimo richiamate occupano ampiamente la scena degli studi più recenti sul contratto preliminare. È così possibile rilevare un dato che non si esita a definire sconcertante: nello scorrere l’ormai copiosa dottrina formatasi a proposito del contratto preliminare, si ha assai spesso la sensazione che i problemi, le soluzioni di volta in volta proposte, gli argomenti addotti a loro sostegno ricorrano periodicamente nelle analisi dei giuristi senza sostanziali variazioni malgrado il trascorrere dei decenni e degli studi. Da un secolo all’altro la dottrina continua a dividersi tra chi intravede nel preliminare una particolare figura all’interno del meccanismo del trasferimento volontario della proprietà, e chi, invece, tende a non vincolare più di tanto il preliminare alla compravendita e preferisce inquadrarlo nel procedimento di formazione del contratto in genere.

All’interno di ciascuna di queste tendenze si distinguono orientamenti diversi: la promessa di vendita è da alcuni identificata con la vendita ad effetti obbligatori, da altri con la vendita ad effetti reali. Tra quanti, invece, ritengono che la promessa di vendita sia solo una delle possibili manifestazioni del contratto preliminare, del quale individuano la collocazione più congrua nell’ambito del procedimento di formazione del contratto, solo alcuni assegnano al contratto in esame un connotato più specifico, descrivendolo come il negozio deputato al controllo delle sopravvenienze.

Il tutto con l’avvertenza che gli orientamenti ora delineati non sono sempre così netti come sono stati rappresentati sopra per evidenti motivi di sintesi e di efficacia espositiva. In realtà, non mancano attualmente, né sono mancate in passato, posizioni intermedie e finanche trasversali, per cui la scomposizione del trasferimento della proprietà in titulus e modus adquirendi sarebbe anch’essa finalizzata al controllo delle sopravvenienze ([69]).

 

6. Il “problema del preliminare” come problema della “causa” del preliminare

L’utilità che può riconoscersi ai paragrafi precedenti non è certamente quella di aver proposto un completo quadro riassuntivo della dottrina susseguitasi sul contratto preliminare nei cento e più anni che esso ha costituito oggetto di studio da parte dei giuristi italiani.

Le pagine precedenti, d’altra parte, non ambiscono a tanto. Piuttosto, si propongono il più modesto obiettivo di mostrare come le tesi sul contratto preliminare si siano costantemente riproposte nel tempo, ordinandosi fondamentalmente su tre linee di pensiero: una è quella che inserisce la sequenza preliminare-definitivo all’interno del processo di trasferimento della proprietà, assegnando al contratto preliminare, quale effetto specifico, la creazione di un’autonoma obbligazione di dare. Un secondo orientamento ruota intorno all’idea che, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2932 c.c., non possa tracciarsi una netta distinzione tra gli effetti di un contratto solo preliminare ed un contratto immediatamente introdotto in via definitiva, nel senso che, al più, il contratto preliminare diviene di fatto un mezzo con il quale le parti possono rinviare nel tempo l’effetto definitivo, condizionandone la produzione al compimento di un ulteriore atto, la cui precisa natura e consistenza mutano da autore ad autore. Un terzo orientamento rifiuta i compromessi in qualche modo accettati dalle precedenti teorie e continua, sulla scia del Coviello, a descrivere la sequenza preliminare-definitivo come costituita da due contratti veri e propri: il primo di tali contratti ha ad oggetto il compimento del contratto successivo e questo secondo contratto ha contenuto e caratteri perfettamente identici ai contratti propri del tipo conclusi immediatamente in via definitiva.

Ne segue che, malgrado quanto talvolta si legge presso qualche autore, il trascorrere di molti decenni non ha recato sostanziali novità nel dibattito sul contratto preliminare.

Anzi, a ben vedere, neppure questa constatazione è essa stessa una novità. È stato, infatti, argutamente rilevato ([70]) come “al tema del contratto preliminare si addice il celebre motto di Goethe, secondo cui ‘tutti i pensieri intelligenti sono stati già pensati: occorre solo tentare di ripensarli’”.

Vi è, però, un aspetto che suscita perplessità, se non sgomento.

Non si può, infatti, negare che il riproporsi nel tempo, a distanza di decenni, se non di secoli, di spunti, di dubbi, di soluzioni, di polemiche, sia sintomo e causa, al tempo stesso, della difficoltà della materia. Il continuo riemergere di suggestioni ritenute in un primo tempo superate e poi di nuovo riproposte può essere interpretato alla stregua di un oggettivo sintomo della potenziale debolezza degli argomenti di volta in volta addotti a confutazione delle opposte tesi, le quali continuano in realtà ad esercitare il loro fascino sugli studiosi. Le cause di questa incertezza della dottrina sono, in realtà assai semplici. Esse, in parole molto povere, dipendono dal fatto che nessuna delle tesi proposte e riproposte per oltre un secolo sembra essere riuscita ad offrire una risposta persuasiva ad una domanda formulata dal Coviello  a sé stesso e a quanti nel tempo avrebbero affrontato il tema del contratto preliminare: per quale motivo le parti, pur avendo raggiunto l’accordo sul contenuto del loro affare, rinviano la definitiva introduzione del medesimo ad un secondo contratto?

Si tratta di una domanda che, a dispetto della sua apparente semplicità, è in realtà insidiosa e delicata.

La domanda è insidiosa perché è vaga: essa infatti impone di dare una valutazione di tipo giuridico su un dato in sé estremamente generico. In altre parole, il solo elemento oggettivo sul quale può contare lo studioso del contratto preliminare, è costituito, a ben vedere, da una sequenza di due contratti preordinata all’introduzione di un determinato regolamento di interessi. Questa povertà del dato oggettivo, del fatto sul quale l’interprete è chiamato ad esprimersi, ha consentito alla dottrina un’ampia libertà, per non dire una grande ed incontrollata arbitrarietà. Invero, storicamente la dottrina ha potuto di fatto rispondere – e tuttora risponde – nelle forme più disparate ([71]). Una parte non esigua della letteratura sul contratto preliminare è lì a dimostrare che nei due contratti in successione si è intravisto tanto un contratto preparatorio nel senso in cui questo aggettivo era utilizzato dai giuristi tedeschi del tardo seicento fino a Coviello; quanto un patto per la riproduzione di un contratto già definitivo, ossia nel quale le parti hanno versato una volontà degli effetti finali ormai compiuta ed irrevocabile.

La seconda insidia esibita dalla domanda posta dal Coviello è costituita dal fatto che quella domanda pretende una risposta in grado di soddisfare il comune buon senso, obiettivo che non sempre è stato conseguito con successo dalla dottrina a proposito del contratto preliminare.

Più precisamente, la risposta alla domanda sopra formulata deve essere in grado di spiegare, sul piano della ragionevolezza, l’azione di persone, le quali - a dispetto dei rituali che storicamente possono accompagnare, oggi come in passato, l’attività giuridica - sono comunque in ogni tempo determinate a perseguire i loro scopi in modo tendenzialmente razionale e, dunque, operano riducendo – per quanto possibile anche in base alle condizioni storiche – i costi ed i tempi necessari al perfezionamento dell’affare che sostanzia il loro contratto. La duplicazione dei mezzi giuridici insita nella sequenza “preliminare–definitivo” – che, tanto per fare un esempio, è assente, invece, nella soluzione imposta dall’art. 1589 del codice civile francese - deve dunque trovare giustificazioni solide e convincenti.

Non si deve incorrere nell’ingenuità di credere che l’evidenziata esigenza di ragionevolezza e di risparmio di attività (che qui possiamo limitarci a definire genericamente come) “giuridica”, sia nata solo quando l’analisi economica del diritto ha consentito di percepire con chiarezza il problema dei “costi transattivi”, ossia dei costi affrontati dai privati in occasione delle contrattazioni ([72]), i quali, seppur limitati, sono comunque presenti in sede di conclusione del definitivo. In realtà, esigenze assolutamente analoghe hanno sempre contrassegnato il dibattito sul contratto preliminare: nel diritto intermedio si indicava nella causa circuitus vitandi la ragione per la quale ci si rifiutava di ammettere la necessità di un secondo contratto dopo che le parti avessero già espresso il loro accordo sui termini del loro scambio; non diversamente, tra la fine dell’ottocento ed i primi del novecento, quando ha preso vigore in Italia il dibattito sul preliminare, il dubbio si è di nuovo affacciato immediatamente e con estrema chiarezza: “ci deve essere un motivo ragionevole per interporre un contratto preliminare prima di stringere il definitivo” ([73]).

Altro motivo di delicatezza della domanda sul “perché” le parti, pur avendo raggiunto l’accordo sul contenuto del loro affare, non lo chiudono in modo definitivo, ma si impegnano solo in via “preliminare”, sta nel fatto stesso che per tutto il XX secolo i civilisti non hanno potuto sottrarsene a causa della novità del contratto preliminare.

In proposito, si è già accennato come il Coviello, seguito dalla dottrina italiana dominante per larga parte del novecento, costruisse il preliminare quale contratto in sé perfetto, completamente autonomo rispetto al definitivo. Questa configurazione esibiva due particolarità, l’una strettamente collegata all’altra: la prima di queste particolarità consiste nella discontinuità segnata dalla costruzione seguita dal Coviello rispetto al modello tramandato dal diritto comune a proposito della “promessa di vendita”, il quale, secondo il già ricordato insegnamento del più importante storico italiano del diritto, consisteva, in buona sostanza, in un patto di riproduzione del negozio in forma solenne.

È un tema che sicuramente merita un’attenzione maggiore di quanta è possibile riservargliene in questa sede, dove, però, è comunque utile almeno accennare alla differente prospettiva nella quale si pose il Coviello e la tradizione di pensiero che a lui è possibile collegare, rispetto alla nozione di “promessa di vendita” invalsa nel diritto comune. Una volta che si consolidò la tradizione di pensiero successivamente fissata nell’art. 1589 c.c. fr., venne meno qualsiasi incentivo ad approfondire i requisiti di una “promessa di vendita” ormai ritenuta in realtà una vendita: al riguardo era più che sufficiente la differenza tra promissio de presenti e promissio de futuro elaborata da Doumulin.

Una situazione diametralmente opposta si presentava, invece, ai tedeschi e soprattutto – per quanto qui interessa – al Coviello e alla dottrina che in Italia ne ha seguito le tracce. Per costoro, infatti, anche sulla spinta delle critiche mosse dalla dottrina avversa, si poneva con urgenza il problema di descrivere compiutamente gli aspetti caratterizzanti del contratto preliminare, che essi configuravano con evidenti accenti di novità nel momento stesso in cui si ponevano in contrasto con gli insegnamenti invalsi a seguito dell’influenza francese. In altre parole, di fronte ad un contratto, giustamente descritto come “nuovo” da quanti ne promuovevano l’approfondimento ([74]), era inevitabile che si ponesse il problema di chiarirne i contorni essenziali: “poiché il contratto preliminare è un contratto, ha bisogno per la sua esistenza e validità di tutti i requisiti dei contratti in genere”([75]).

Ma – come si è anticipato - ancora più urgente era determinare e descrivere “il vivo interesse pratico che possono avere le persone a non essere costrette a contrattare momentaneamente, e nel tempo stesso a star sicuri che il vantaggio ripromessosi da un determinato negozio si otterrà in tempo più lontano e forse più opportuno, giacché a quel tempo si ha diritto ad esigere la conchiusione del contratto” ([76]). Altrimenti, in passato come oggi, sono giustificate le perplessità di chi esclude il senso di un contratto preliminare quando gli elementi dell’affare finale siano già certi e definiti ([77]).

Ed ecco, dunque, riemergere i temi impliciti nella domanda sopra formulata: perchè le parti preferiscono un impegno solo preliminare rispetto ad uno definitivo, pur avendo già definito i termini del loro accordo? Quali interessi perseguono? E di questi interessi, dello strumento utilizzato per soddisfarli, che valutazione da l’ordinamento giuridico? ([78])

Si delinea, così, un percorso che dagli interessi perseguiti dalle parti con un determinato contratto perviene alla valutazione data dall’ordinamento a quel medesimo contratto.

Ad un esame anche non approfondito non sfugge che – se considerati da tale prospettiva - gli interrogativi sopra enunciati introducono, in realtà, il tema della “causa” del contratto e nella specie il tema della causa del contratto preliminare. Più precisamente, all’interno del variegato panorama di teorie formulate nel tempo a proposito del requisito di cui all’art. 1325 n. 2 c.c., gli interrogativi predetti indirizzano verso un orientamento autorevole della dottrina italiana, secondo il quale può pervenirsi ad una nozione operativamente utile di causa attraverso un iter logico le cui tappe fondamentali sono rappresentate proprio dai temi che di volta in volta costituiscono l’oggetto di ciascuno degli interrogativi sopra enunciati: l’interesse tipico, ossia usualmente perseguito dalle parti col preliminare, gli interessi concreti perseguiti con lo specifico contratto, lo strumento utilizzato a tal fine, le potenzialità dello strumento, la valutazione dell’ordinamento circa l’operazione.

Assume, pertanto, rilievo pregiudiziale approfondire quali possono essere gli interessi perseguiti da quanti preferiscono impegnarsi solo in via preliminare piuttosto che con un contratto immediatamente definitivo. Una volta stabiliti quali siano questi interessi, si può procedere a valutare se ed in quali termini detti interessi siano meritevoli di tutela alla stregua dell’ordinamento giuridico. Su questa via, quanti hanno simpatia per una concezione della “causa” come funzione economico-sociale possono proseguire fissando quale sia tale funzione nel contratto in esame avuto riguardo agli interessi socialmente perseguiti col contratto preliminare, vale a dire avuto riguardo agli interessi che una determinata organizzazione sociale, in un determinato contesto storico, denuncia come solitamente perseguiti dai suoi membri quando concludono un contratto preliminare.

Non solo: una volta stabilito che con il contratto preliminare vengono tipicamente perseguiti determinati interessi, si avrà automaticamente un controllo maggiore sull’uso della terminologia, nel senso che si potrà o rinunciare a definire come contratto preliminare quei contratti che producono effetti diversi da quelli solitamente – o meglio: tipicamente – connessi al contratto preliminare stesso, ovvero si potrà concordare con quella dottrina secondo quale con la locuzione “contratto preliminare” si designano contratti aventi effetti non omogenei tra loro.

Non è un caso, a questo punto, se le monografie di rilievo che si sono susseguite sul contratto preliminare ruotano sul problema della sua “causa”.

Anzi, quando si abbia finalmente chiaro che il problema del preliminare si traduce nel problema della individuazione della sua causa, si può apprezzare appieno l’importanza della dottrina che ha intravisto nel controllo delle sopravvenienze contrattuali la chiave per poter rispondere alla domanda sugli “interessi pratici” che possono tipicamente giustificare il ricorso al preliminare.

Ancora una volta è necessario sfogliare la “storia” delle idee sul preliminare.

Infatti, la tesi del controllo delle sopravvenienze è riemersa negli anni settanta del secolo scorso all’esito di un lento processo di affinamento condotto negli anni precedenti: l’individuazione della “causa” del contratto preliminare nel controllo delle sopravvenienze, infatti, pur probabilmente non distinguendosi, come accennato, per la ricchezza e la precisione dei contenuti, veniva a sostituire formule ancor più vaghe, affermatesi nei primi decenni di vigenza dell’attuale codice civile, quando – sulla scia di illustri esempi precedenti - si cercava di spiegare la preferenza per un contratto preliminare in luogo di uno immediatamente definitivo attraverso il riferimento ad un non meglio definito "interesse" delle parti a differire nel tempo gli effetti del secondo.

In base a questa seconda e più risalente prospettazione, i privati concluderebbero un contratto preliminare perché “non possono o non vogliono” produrre gli effetti finali ([79]), o per la loro "impreparazione", ovvero, più semplicemente, a causa della mancata conoscenza dei dati catastali dell'immobile da trasferire, o a causa del mancato raggiungimento dell'accordo su alcune clausole contrattuali ([80]).

L’evidente genericità di questi contributi – che sono immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice civile, ma che ripropongono teoriche già avanzate cinquanta anni prima ([81]) -  non è casuale. Tale genericità, infatti, costituiva ad un tempo causa ed effetto dell’obiettiva incertezza in cui all’epoca versava la dottrina allorché si trovava di fronte all’onere di assegnare alla sequenza “contratto preliminare – contratto definitivo” una connotazione causale persuasiva.

Sotto questo aspetto, si è già accennato alle gravi difficoltà incontrate dalla dottrina in qualche modo fedele all’insegnamento del Coviello allorché le fu acutamente obiettato che, nella sua prospettazione, il contratto definitivo risultava una specie di monstrum giuridico, in quanto dotato di due “cause” inconciliabili tra loro, atteso che veniva ad essere configurato come atto dovuto, in quanto adempimento dell’obbligazione di contrarre, e al tempo stesso atto di libertà, di autonomia, in quanto negozio giuridico ([82]).

Il risultato concreto di tanta incertezza era che di fatto si stentava perfino a distinguere la “funzione pratica” del preliminare da quella di un normale contratto immediatamente vincolante in via definitiva, ma sottoposto a termine iniziale di efficacia ([83]), con una conclusione singolarmente analoga a quella cui si perveniva nella seconda metà dell’ottocento in presenza di un quadro di riferimento normativo e dottrinario assolutamente diverso ([84]), al seguito, per di più, di una dottrina tedesca che utilizzava il riferimento al contratto assoggettato a termine iniziale di efficacia per contestare alla radice qualsiasi utilità pratica del contratto preliminare ([85]).

È bene chiarire immediatamente che in questa convergenza, in questa sorta di “ritorno al passato” non vi sarebbe stato nulla di disdicevole qualora ve ne fosse stata adeguata consapevolezza, ossia qualora si fosse in qualche modo addotta la ragione per la quale si riteneva di poter delineare i contorni del contratto preliminare senza tener conto né dei contributi dottrinari – puntuali nel tracciare le differenze tra preliminare e definitivo assoggettato a termine o a condizione ([86]) - dei precedenti cento anni (o quasi), né del nuovo codice, che aveva riconosciuto per tabulas il contratto preliminare quale figura distinta dal corrispondente contratto definitivo. È inutile dire che questa seconda “dimenticanza” è assai più grave della prima: infatti, il legislatore ha conferito rilevanza autonoma al contratto preliminare e con ciò ha dimostrato di ritenerlo di per sé meritevole di tutela al pari del contratto definitivo e indipendentemente da questo.

Diversamente, l’assenza di riferimenti, l’assenza di qualsiasi precisazione in ordine al percorso seguito per arrivare a riproporre tesi già presenti in dottrina molti anni prima, spesso senza neppure avere (almeno in apparenza) contezza di tale “ritorno al passato”, rappresenta la miglior riprova che, nei decenni successivi all’entrata in vigore del codice vigente, la dottrina prevalente non era in grado di individuare con precisione le “esigenze pratiche”, gli specifici “interessi meritevoli di tutela”  in ipotesi perseguiti con il contratto preliminare e tutelati dall’ordinamento ([87]).

Il problema si pone anche rispetto all’orientamento secondo il quale il binomio preliminare-definitivo sarebbe una sorta di rivolta delle parti avverso il principio consensualistico che limiterebbe la libertà dei privati di graduare a piacimento nel tempo l’effetto traslativo. Anche questa teorica non si sottrae alla necessità di superare il sindacato di meritevolezza di questa asserita aspirazione privata, soprattutto quando la fattispecie evidenzi che l’assetto finale di interessi è già realizzato con il compimento del primo contratto. Il tema è presente evidentemente anche nell’ipotesi del contratto preliminare ad effetti anticipati, come pure nel già accennato caso del preliminare di preliminare: alle tre ipotesi appena elencate, ma altre se ne potrebbero aggiungere, ben si attaglia lo strumento di analisi offerto dalla c.d. “causa in concreto”, che per l’appunto si declina nella direzione di valutare la meritevolezza degli interessi perseguiti col singolo contratto o con le singole clausole ([88]).

Può inoltre aggiungersi che questi aspetti meriterebbero una rimeditazione anche con riguardo alla modifica dell’art. 72 l. fall. intervenuta nel 2007, quando il legislatore ha reso di (ulteriore) attualità la distinzione tra il contratto “ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti” ed il contratto con cui “sia già avvenuto il trasferimento del diritto”: è evidente che questa disposizione impone di individuare gli interessi specifici che nel caso concreto giustificano e rendono meritevole di tutela la clausola con cui si procrastina nel tempo il trasferimento del diritto, quando il prezzo sia stato pagato e la cosa consegnata ed utilizzata dall’acquirente.

 

7. Il preliminare di vendita e la novella del 1997

Qui non è il caso di procedere ad un analitico approfondimento delle modifiche apportate al codice civile, con la legge 28 febbraio1997, n. 30, la quale ha introdotto gli artt. 2645-bis, 2775-bis e 2825-bis, ha convertito con modifiche il d.l. 31 dicembre 1996, n. 669. Il dato maggiormente significativo è che con l’art. 2645 bis c.c. si è riconosciuta la trascrivibilità del contratto preliminare, anzi dei "contratti preliminari aventi ad oggetto la conclusione di taluno dei contratti di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) dell'art.2643 c.c.", con la particolarità, peraltro, che l'utilità di detta trascrizione è stata subordinata alla successiva trascrizione, al più tardi entro tre anni dalla prima, di uno degli atti elencati dal terzo comma dell'art. 2645 bis ([89]). Nel caso in cui detta trascrizione successiva non intervenga, come pure nel caso in cui il preliminare non sia trascritto, non è posta in discussione né la validità del preliminare medesimo, né la sua disciplina.

Di fatto, ogni interprete ha voluto vedere nella novella del 1997 la conferma delle proprie convinzioni sulla natura del contratto preliminare.

Tuttavia, già ad una prima lettura essa non sembra implicare notevoli mutamenti sul piano dell'inquadramento teorico del contratto de quo: è stato immediatamente osservato come il risultato complessivo ottenuto dal legislatore del 1997 non apparisse ontologicamente estraneo a quanto aveva già realizzato il legislatore del 1942, quando si era ammessa la trascrizione della domanda diretta all'esecuzione dell'obbligo di concludere un contratto: allora, nel 1942, come successivamente, nel 1997, si è predisposto un meccanismo di prenotazione degli effetti definitivi ([90]).

Questa osservazione è in sé indubbiamente esatta e condivisibile.

Può essere, peraltro, approfondita con due ulteriori osservazioni. La prima prende le mosse dal rilievo che l'effettiva incidenza di una legge su un contratto, la sua idoneità a modificare il medesimo sul piano tipologico va misurata sulla idoneità della legge stessa a modificare la distribuzione tra le parti dei rischi e degli oneri in ordine all'assetto di interessi risultante dal contratto medesimo ([91].

Su questa premessa è possibile confermare che l'art. 2645 bis non sembra aver direttamente innovato sulla natura sostanziale del diritto nascente da contratto preliminare. Invero, la neointrodotta trascrivibilità di tale contratto modifica solo molto parzialmente l'assetto di interessi realizzato dal contratto medesimo, nel senso che per il promittente acquirente sembra essere venuto meno il solo rischio di inadempimento colpevole da parte del promittente venditore. Non solo, a conferma della parzialità, e dunque della scarsa incisività, della modifica dei rapporti sostanziali risultanti dal contratto, deve aggiungersi che tale rischio di inadempimento del promissario non è stato rimosso in via definitiva, ma solo temporaneamente. In altre parole, il promittente acquirente non risente dell'inadempimento del promittente alienante solo se il trasferimento a terzi del diritto promesso ha luogo (o meglio, è trascritto) entro tre anni dalla trascrizione del preliminare.

Quel che più importa, poi, è porre in luce come le nuove disposizioni siano assolutamente neutre rispetto a quello che si è già detto essere il problema cruciale del preliminare (come, d'altra parte, di qualsiasi altro contratto), vale a dire le ipotesi in cui sia giustificato il mancato adempimento dell'obbligazione di contrarre.

In altre parole, l’ulteriore chiosa che si può fare a margine della novella del 1997 è che, quale che sia il significato dogmatico da attribuirle – vuoi che se ne circoscriva la portata ad un mero effetto di prenotazione; vuoi che, invece, la si ritenga un decisivo contributo a favore dell’opinione  che intravede nel contratto preliminare una fattispecie di vendita obbligatoria ([92]) (e, lo noto in forma assolutamente sommessa ed incidentale, in questo secondo caso saremmo di fronte ad una modificazione quanto mai pesante, in quanto trasformerebbe il preliminare in definitivo) - resta insuperato il rilievo che le nuove disposizioni nulla dicono circa le ipotesi che abilitano le parti di un preliminare (o, se si vuole di quella «vendita obbligatoria»  così configurata) a non concludere il contratto definitivo.  Il che vale quanto dire che quelle disposizioni nulla dicono in ordine alla funzione economico sociale del contratto preliminare, la quale resta impregiudicata, con il risultato di avvalorare l’autorevole dubbio che quell’intervento legislativo abbia rappresentato solo un capitolo della “storia infinita” del contratto preliminare e delle tensioni in esso sottintese ([93]).

Ciò malgrado, la descritta novella è stata sufficiente a riacutizzare dubbi ed incertezze, sfilacciando il delicato, quanto evidentemente effimero, equilibrio raggiunto in precedenza dalla dottrina intorno alla tesi del preliminare come contratto volto al controllo delle sopravvenienze: così, all’alba degli anni duemila, dopo oltre un secolo di studi sul preliminare, a fianco a chi ne ripropone la consolidata configurazione secondo la quale esso darebbe luogo ad un'obbligazione di facere ([94]), v'è, ormai, sia chi ritiene che "ora possono essere stipulati due tipi di preliminari con effetti sensibilmente diversi a seconda della forma adottata"([95]), sia chi sembra andare oltre ([96]), rappresentando che la trascrivibilità del preliminare avrebbe in qualche modo rafforzato l'opinione di quanti - muovendo da presupposti assai diversi tra loro - hanno avvalorato l'idea di un contratto preliminare che tale sarebbe solo di nome, o perché esso in realtà produrrebbe effetti già definitivi anche se subordinati dalle parti al compimento di un successivo atto di natura ricognitiva, o perché il preteso preliminare (di vendita immobiliare) avrebbe natura di contratto definitivo ad effetti obbligatori di una sequenza contrattuale diretta a riprodurre nel diritto italiano vigente la scissione romanistica tra titulus e modus  adquirendi ([97]).

A complicare lo scenario va tenuto presente che esponenti importanti di quest'ultima tesi recuperano in qualche modo l'idea del controllo delle sopravvenienze, collegando alla soddisfazione di questa esigenza la scelta dei privati di dar luogo al trasferimento della proprietà attraverso il contratto obbligatorio ([98]).

Riaffiora, così, una nota più volte emersa nelle pagine precedenti, fino a costituirne una sorta di leit motiv: un diffuso senso di inappagamento, una perdurante, latente insoddisfazione nei confronti delle tesi avanzate intorno alla figura del contratto in esame. Inappagamento, insoddisfazione chiaramente colti da chi non ha mancato di avvertire più volte nell’arco di un ventennio che, malgrado i contributi della dottrina e del legislatore, in materia permangono “problemi ancora aperti” ([99]), riproducendo, così, nella seconda decade del XXI secolo il medesimo atteggiamento cauto e perplesso di fronte al contratto preliminare tenuto oltre cento anni prima da un altro studioso illustre, il quale, dopo aver scritto che “la cosa è tanto semplice e l’utilità delle promesse de contrahendo è tanto chiara”, aggiunse immediatamente: “ma … tutti i dubbi non sono ancora spariti interamente” ([100]). Ed infatti le pagine che precedono, confermano che i dubbi sono tutti ancora lì!



(*) Questo studio è destinato al Liber amicorum dedicato al Prof. Giorgio De Nova.

[1] ) Rilievo ovviamente condiviso: v. ad es. Poletti, in Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, Dei contratti in generale a cura di Navarretta, Orestano, II, (art. 1350-1486), Padova, 21011, 129 ss. V. per un primo orientamento la bibliografia riportata da Sacco, in Sacco, De Nova, Il contratto3, in Trattato di diritto civile diretto da Sacco, Torino, 2004, II, 265 ss.; da Serrao, Il contratto preliminare, Padova, 2011.

[2] ) Non si deve credere che le affermazioni formulate nel testo siano frutto di una forzatura volta ad enfatizzare l’ampiezza del dibattito sorto sul contratto preliminare. Il punto sarà ripreso nel corso dell’analisi successiva. Peraltro, per dare la misura degli interessi, delle ideologie che – insieme ad altre - si sono celate in passato dietro le polemiche sul contratto preliminare, è utile riportare immediatamente alcune repliche mosse alla tesi del Chiovenda  circa la possibilità di eseguire in forma specifica il contratto preliminare inadempiuto attraverso una sentenza costitutiva, così da determinare l’effetto traslativo anche in mancanza di una volontà in tal senso del promittente inadempiente (v. Dell’azione nascente da contratto preliminare, ora in Saggi di diritto processuale civile, Roma, 1930, I, 113 ss.): un rimedio siffatto – scrisse Faggella, Il potere della volontà nella formazione di un futuro negozio giuridico, in Riv. Dir. Comm. 1912, I, 1012 ss., 1021 – “sorpassa il contenuto degli atti di disposizione delle parti e quello delle libere determinazioni della loro volontà, invade il campo dei loro privati interessi fino a compiere una espropriazione forzata dei loro beni patrimoniali senza un concreto, speciale, interesse di diritto pubblico. Esso rappresenta una violenza alla libertà dell’attività umana nella costituzione nel regolamento dei rapporti giuridici di diritto privato, e propriamente nella disposizione dei beni patrimoniali; una sopraffazione operata dall’alta sovranità dello stato nella sfera dei diritti patrimoniali privati e una sovrapposizione del diritto pubblico al diritto privato. Questo indirizzo … è … una diramazione di un indirizzo più generale delle dottrine pubblicistiche … che oggidì si manifesta nella statizzazione e nelle municipalizzazioni dei servizi pubblici … e nella monopolizzazione delle aziende industriali e commerciali di maggiore importanza”.

[3] ) Tale compatibilità è stata negata da chi ha affermato che l’inserimento dell’art. 2932 c.c. in questo contesto rappresenta “una aberrazione” del legislatore (Satta, L’esecuzione forzata2, Torino, 1952, 251, dove, peraltro, vengono trasfuse osservazioni già formulate in Foro it., 1950, IV, 73 ss.).

[4] ) Cfr. Andrioli, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, 345 ss.

[5] ) V. anche per riferimenti Perego, I vincoli preliminari e il contratto, Milano, 1974, 46 ss.

[6] ) Cfr. Carrara, La formazione del contratto, Milano, 1915.

[7] ) Cfr. Speciale, Contratti preliminari e intese precontrattuale, Milano, 1990.

[8] ) Sono parole tratte dal bellissimo incipit del libro di L. Coviello, Dei contratti preliminari nel diritto moderno italiano, Milano, 1896, 1: “la volontà umana prima di giungere ad una formale determinazione percorre vari stadi. I quali spesso sono inosservati, ma spesso ancora assumono esternamente una forma corrispondente allo stato interno dell’animo, e pur mantenendo il carattere di mezzi preordinati alla deliberazione finale, non perdono con ciò la lor propria natura di atti volitivi, che hanno anch’essi un valore psicologico a sé … Questi momenti psicologici anteriori alla stipula del contratto sovente non prendono una forma esteriore, talvolta però la prendono spiccata … sorge così l’indagine del valore giuridico di quelle manifestazioni del volere che precedono la conchiusione del contratto” (il corsivo è mio). Lo studio del Coviello, che per molti anni è stato indicato come il testo fondamentale degli studi sul contratto preliminare e che, ad avviso di chi scrive, conserva in larga parte ancora integro il suo interesse, si può leggere anche nella veste di voce enciclopedica: v. Contratto preliminare, in Enc. Giur. It., III, III, II, Milano, 1902, 68 ss.

[9] ) Coviello, op. cit., 4 e 11, dove si precisa che il futuro contratto – ossia “un nuovo vincolo giuridico, pel quale si richiede il concorso di tutti i requisiti voluti dalla legge per la sua validità” (op. cit., 235) e che, continua Coviello, op. cit., 11, “chiameremo principale o definitivo” – è un contratto “obbligatorio” (il corsivo è mio), ossia non necessariamente traslativo del diritto oggetto del preliminare: è una precisazione di grande importanza in relazione alle polemiche, anche recenti, intorno alla configurazione del binomio contratto preliminare-contratto definitivo, quale strumento per il superamento del principio consensualistico nell’ordinamento italiano; riprende questa definizione di contratto preliminare Gabba, Contributo alla dottrina della promessa bilaterale di contratto, in Giur. It., 1903, IV, 29 ss., 40.

[10] ) Coviello, op. cit., 208.

[11] ) Coviello, op. cit., 206.

[12] ) Il riferimento è evidentemente a Windscheid, Diritto delle Pandette, trad. it. di Fadda e Bensa, Torino, rist. 1925, I, 202 ss.

[13] ) V. Galgano, Teorie e ideologie del negozio giuridico, in Salvi (cur.), Categorie giuridiche e rapporti sociali, Milano, 1978, 59 ss.; Irti, Letture bettiane sul negozio giuridico, Milano, 1991; Barcellona, Diritto privato e società moderna, (con la collaborazione di Camardi), Napoli, 1996, 421 ss.

[14] ) Faggella, op. cit., 1021.

[15] ) Sul punto v. per tutti McMillan, Reinventing the bazar. A natural history of markets, New Jork, 2002, spec. 147 ss.

[16] ) “Rubando un modo idiomatico ai tedeschi, si può dire che ormai anche i passeri fischiano dai tetti contro il postulato positivistico della neutralità assiologia della scienza”: così Mengoni, Ancora sul metodo giuridico (1983), ora in Diritto e valori, Bologna, 1985, 79 ss., 80. D’altra parte, di “funzione ideologica” dei concetti giuridici (ad esempio a proposito dei “concetti del diritto soggettivo e del soggetto del diritto”, come pure a proposito della differenza tra diritti reali e diritti di credito) parlava già nel 1934 Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, ed. it. Torino, 1970, passim, ma spec. 80 ss. Nella dottrina italiana restano comunque fermi i riferimenti a Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, 1976 (rist. 1993), 15 ss.; e a Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna, 1987, 270 ss.

[17] ) Carrara, op. cit., 43.

[18]) Carnelutti, Formazione progressiva del contratto, in Riv. Dir. comm., 1916, II, 308 ss., spec. 316 s.

[19] ) Faggella, op. cit., 1012.

[20] ) Tra questi v. in particolare Roth, Der vorvertrag, Bern, 1928.

[21] ) Faggella, op. cit., 1017.

[22] ) V. Laurenti, La promessa di vendita sinallagmatica nel nostro diritto, in Ant. Giur., 1892, 473 ss.

[23] ) V. infatti Montesano, Contenuti e sanzioni delle obbligazioni da contratto preliminare, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 2001, 33 ss.

[24] ) Faggella, op. cit., 1017; Id., L’autonomia della volontà nei negozi giuridici bilaterali e la coazione giuridica, in Riv. Dir. Comm., 1910, II, 851 ss., 860. Deve segnalarsi che è fuori dalla tipologia di contratti evidenziata nel testo il caso in cui il trasferimento della proprietà sia stato subordinato ad un’ulteriore volizione, ad “un puro movimento della volontà del promittente, la quale non è coercibile” (così ancora Faggella, Il potere della volontà, cit., 1019).

[25] ) Cfr. Adler, Realcontract und vorvertrag, Jena, 1892, 22 s.

[26] ) Cfr. Chironi, L’obbligazione di dare, in Riv. Dir. Comm., 1911, II, 633 ss.; Bonfante, La data della lesione enorme,in Riv. Dir. Comm., 1921, II, 101 ss.; Id., Istituzioni di diritto romano, Milano, 1925, 466.

[27] ) Cfr. Pacifici-Mazzoni, Istituzioni di diritto civile italiano, Firenze, 1873, V, 445; Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano7, III, Fonti delle obbligazioni – contratti, Milano, s.d., 159; Borsari, Commento al cod. civ., § 3476; Tartufari, Promessa di vendita, in Annuario crit. Giurispr. Prat., 1890, 407 ss..

[28] ) Laurenti, op. cit., 473 ss.; Troplong, Il diritto civile spiegato secondo l’ordine del codice. Della vendita, Prima traduzione italiana, Palermo, 1853, 90 ss.

[29] ) Cfr. Moschella, Contratti preliminari, voce del Nuovo digesto italiano, Torino, 1938, 22 ss.

[30] ) Viterbo, Intorno al concetto di contratto preliminare, in Arch. giur., 1931, v. XXI, 32 ss.: l’idea della inutilità del preliminare era già stata proposta dalla dottrina precedente e sarà riproposta dalla dottrina successiva (v. ad es. Guhl, Scweizerisches Obligationenrecht, Zürich, 1956, 94).

Non è inopportuno precisare che le posizioni del Viterbo non erano assolutamente condivise dalla giurisprudenza del tempo, secondo la quale, invece, la promessa di vendita era valida e la sua differenza con la vendita “dipende dalla volontà dei contraenti la quale, mentre nel caso di vendita è diretta al trasferimento attuale della proprietà, nel caso della promessa è diretta invece a porre in essere a carico del promittente l’obbligazione di stipulare la vendita in un tempo successivo” (Cass. 25 novembre 1931, in Foro it., 1931, I, 663;Cass. 17 gennaio 1933, in Foro it., Rep. 1933,  Vendita, n. 29; Cass. 14 febbraio 1938, in Foro it., Rep. 1938, voce cit., nn. 71 e 72). Ciò era confermato anche nel caso in cui l’esecuzione della vendita fosse rimandata ad epoca successiva, giacché – si riteneva - quel che valeva a contraddistinguere la promessa di vendita era, non già il rinvio nel tempo dell’effetto traslativo, ma “l’impegno di prestare un’ulteriore manifestazione di volontà per attuare il trasferimento” (Cass. 26 aprile 1933, Foro it., Rep. 1933, voce cit., n. 36;Cass. 7 giugno 1938, ibidem, n.75; Cass. 31 luglio 1939, in Foro it., Rep. 1939, voce cit., n. 46), mentre “la pattuizione di un’ulteriore stipulazione di atto pubblico, avendo per scopo la trascrizione della vendita, non vale a d’escludere la sussistenza di un immediato trapasso della proprietà” (Cass. 28 aprile 1933, in Foro it., Rep. 1933, voce cit., n. 31;Cass. 14 febbraio 1938, cit., n. 74), senza che il corrispondente differimento anche del versamento del prezzo fosse ritenuto decisivo per qualificare l’atto quale promessa di vendita (Cass. 8 marzo 1939, in Foro it., Rep. 1939, Vendita, n. 40).

[31] ) L’art. 191 del Progetto del Libro delle Obbligazioni prevedeva inizialmente la “esecuzione specifica del contratto preliminare”, mentre la norma successiva estendeva il rimedio all’obbligo legale di contrarre. La commissione successivamente propose la soppressione dell’art.192 e la modifica dell’art. 191 (cfr. Atti della commissione dell’Assemblea legislativa, Libro delle obbligazioni, Roma, 1940, pag. 126 e 522 s.).

[32] ) Cfr. Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1944, 180; Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, II, Le fonti, Milano, 1946, 406; Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1948, 283; De Martini, Profili della vendita commerciale e del contratto estimatorio, Milano, 1950, 77;Nicolo’, Surrogatoria – revocatoria, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Tutela dei diritti. Artt. 2900 – 2969, Bologna – Roma, 1953, 130; Micheli, Dell’esecuzione forzata, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Tutela dei diritti. Artt. 2900 – 2969, Bologna – Roma, 1953, 531 s.

[33] ) Cfr. Barassi, op. cit., 405, il quale, tuttavia, preferisce utilizzare una terminologia diversa da quella codificata dal legislatore: la “categoria più ampia, in cui rientrano tutti gli accordi preparatori al contratto definitivo” – ossia quella categoria che, tanto per intenderci, Speciale chiamerà “intese precontrattuali” – fu designata da Barassi con la locuzione “contratti preliminari”, all’interno della quale l’A. ult. cit. pose la “promessa di contratto” (vale a dire quel contratto che comunemente è designato “contratto preliminare”), affiancata dal contratto normativo, dalla promessa unilaterale di contratto e dal patto di prelazione. Nello stesso senso v. Montesano, Contratto preliminare e sentenza costitutiva, Napoli, 1953, 87 ss., il quale comprende nella nozione di “contratto preliminare” sia il negozio che abbia ad oggetto le trattative per la conclusione di un futuro contratto, sia quello avente ad oggetto “la documentazione condizionante gli effetti di un comando contrattuale già prodotto”: è di tutta evidenza come con queste parole l’A. riecheggi la dottrina e la giurisprudenza francesi che sono alla base dell’art. 1589 c.c. fr. (v. infra).

[34] ) De Martini, op. cit., 125.

[35] ) V. in tal senso negli anni cinquanta De Martini, op. cit., 125. Sulla figura del preliminare ad esecuzione anticipata sono intervenute le S.U. con sentenza 27 marzo 2008 n. 7930, in Foro it., 2009, I, 3156, le quali hanno confermato che l’integrale pagamento del prezzo e la consegna del bene possono essere frutto di clausole aggiunte al contratto preliminare. Il difetto più grave della sentenza sta nel fatto che pretende di fissare i lineamenti di un rapporto destinato a modellarsi in modo assai variabile nella realtà. In altre parole, la sentenza generalizza un assetto di interessi che, invece, è particolare della fattispecie su cui la Corte è chiamata a pronunciarsi. Tale fattispecie era caratterizzata dal fatto che il promittente acquirente aveva versato solo una parte (presumibilmente non elevata) del prezzo: in questo contesto la Corte costruisce il preliminare ad effetti anticipati come una serie di contratti collegati, costituiti da un preliminare (che la Corte desume dalla volontà delle parti di escludere un immediato effetto traslativo), da un contratto di mutuo gratuito (integrato, secondo la Corte, dal pagamento in tutto o in parte del prezzo), da un comodato, che sarebbe realizzato dalla concessione in uso della cosa a favore del promittente acquirente. Come si ripete, questa qualificazione può trovare una sua qualche giustificazione nel caso concreto sottoposto alla Corte. Maggiori perplessità possono sorgere quando il prezzo sia stato pagato in tutto o in larga parte. In questo caso le due prestazioni del pagamento del prezzo e della consegna del bene, lungi dal poter essere pensate come isolate ed indipendenti tra loro, sono invece causalmente connesse: la consegna del bene ha luogo in quanto il prezzo sia stato in tutto, o comunque largamente, versato, così da dar luogo ad un unico rapporto a prestazioni corrispettive, piuttosto che a due contratti gratuiti speculari. Come si vede, in materia non perde attualità il rilievo di De Matteis, La contrattazione preliminare ad effetti anticipati. Promesse di vendita, preliminare per persona da nominare e in favore di terzo, Padova, 1991, 67, nota 19, secondo la quale, a fronte delle diverse configurazioni assunte dell’operazione economica in concreto posta in essere dalle parti, si pone il problema “di stabilire se in conseguenza di ciò lo strumento contrattuale, dai contraenti adottato, sia sempre qualificabile come preliminare di vendita”; in questa stessa prospettiva La Rocca, Contratto preliminare di vendita e giurisprudenza: riflessioni critiche, in Foro it., 1993, I, 2457 ss.

[36] ) Si allude all’osservazione secondo la quale il bene effettivamente garantito al creditore - e sul quale egli dunque egli può fondare le sue aspettative di soddisfazione – è quello che egli può in concreto conseguire attraverso l’esecuzione forzata e che, pertanto, risulta essere oggetto della responsabilità del debitore ed è definito come “oggetto ultimo dell’azione di condanna, oggetto immediato dell’esecuzione forzata” (v. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, II, Struttura dei rapporti di obbligazione, Milano, 1953; Carnelutti, Diritto e processo nella teoria delle obbligazioni, ora anche in Diritto sostanziale e processo, Milano, 2006).

[37] ) Satta, op. cit., 253

[38] ) Satta, op. cit., 254.

[39] ) “La forza ed il valore di tale contratto [cioè del contratto preliminare] sta … proprio in ciò: che per esso sorge il titolo per la costituzione di una situazione giuridica (finale), e precisamente della situazione giuridica determinabile in forza del contratto definitivo” (Satta, op. cit., 254).  A ben vedere, il  Satta ribalta in modo assolutamente coerente il ragionamento seguito dalla giurisprudenza prima del 1942 per escludere che l’inadempimento della promessa di vendita avesse conseguenze diverse dal risarcimento del danno: nella promessa bilaterale di vendita – si legge in App. Genova 14 gennaio 1938, in Foro it., Rep. 1938, Vendita, n. 89 - oggetto è la futura stipulazione di un contratto di compravendita e l’effetto non può perciò coincidere con quello della vendita; da essa, infatti, non sorge né trasferimento della proprietà né per conseguenza un obbligo del venditore a consegnare la cosa e del compratore a pagare il prezzo; l’uno e l’altro, invece, sono tenuti ad un facere, la cui inadempienza non ha altra sanzione che il risarcimento dei danni”. Questa conclusione è giustificabile sul rilievo che “una promessa di vendita (che integra obbligazione di fare) non può trasformarsi in vendita (obbligazione di dare) per virtù di sentenza, dato che il giudice dichiara, non crea il diritto delle parti” (Cass. 27 luglio 1939, in Foro it., Rep. 1939, Vendita, n. 58).

[40] ) Satta, op. cit., 254 s.

[41] ) Satta, op. cit., 255.

[42] ) Montesano, op. ult.  cit., 28 s.

[43] ) Galgano, Rodotà, Rapporti economici, t. II, in Commentario alla Costituzione a cura di G. Branca, Roma-Bologna, 1982, 1 ss.

[44] ) Ascarelli, Ordinamento giuridico e processo economico, in Studi per Mossa, Padova, 1961, I, 51 ss.

[45] ) Carnelutti, Ancora sulla forma della promessa bilaterale di compravendere immobili, in Riv. Dir. Comm., 1911, II, 615 ss., 622.

[46] ) Montesano, op.ult. cit., 79 ss. Non è inutile rilevare che l’idea che dal preliminare potesse sortire un effetto già definitivo, ma assoggettato a condizione, era in qualche modo stata suggerita anche da Faggella, L’autonomia della volontà, cit., 860. Un’idea non lontana da quella esposta nel testo sembra seguire Rescigno, Incapacità naturale e adempimento, Napoli 1950, 118, in nota, quando chiedeva e si chiedeva: “non è preferibile sfruttare fino in fondo la parifica, esattamente rilevata agli effetti pratici, del contratto preliminare al contratto obbligatorio, considerando subordinata l’efficacia del negozio già perfetto (il contratto preliminare) al compimento dell’atto dovuto?”.

[47] ) Nicolo’, op. loc. cit., (il corsivo è mio). Su questa posizione del Nicolo’ occorre soffermarsi perché in essa è possibile intravedere quelle contraddizioni che saranno decisive per alimentare l’opposizione alle tesi del Coviello. Come anticipatoneltesto, il Nicolo’ ammette l’esercizio dell’azione surrogatoria ad opera del creditore del promittente che ometta di agire giudizialmente per l’adempimento del contratto preliminare. Egli giustifica tale opinione sul rilievo che il contratto definitivo – sotto il profilo funzionale - sarebbe solo un atto di esecuzione di una decisione già assunta in sede di conclusione del contratto preliminare. Si tratta di una posizione, a ben vedere, coerente con la regola generale in tema di atti surrogabili esposta dallo stesso Nicolo’ con nitida chiarezza: “gli atti che costituiscono una esemplificazione della facoltà di disposizione del diritto, tra i quali di particolare importanza gli atti aventi natura negoziale, sono fuori dall’ambito della surrogatoria” (op. cit., 42, il corsivo è mio). Da queste premesse consegue che, solo ritenendo il contratto definitivo un atto esecutivo, nel quale è assente una qualsiasi decisione circa la produzione o meno di un effetto traslativo,si può ammettere che esso sia esercitatile in via surrogatoria dal creditore del titolare.

Sennonché Nicolò sembra contraddirsi quando esclude che il diritto nascente dal contratto preliminare possa essere esercitato in via stragiudiziale dal creditore del promittente inerte: in altre parole, il creditore del promittente potrebbe esercitare in via surrogatoria l’azione ex art. 2932 c.c, ma non potrebbe surrogare il proprio debitore nel caso di esecuzione stragiudiziale del preliminare.

In questa sede non interessa entrare nel merito di questa opinione, o più in generale prendere posizione a proposito della possibilità di applicare l’art. 2900 c.c. al diritto nascente da contratto preliminare (sul punto si rinvia a La Rocca, L’esercizio in via surrogatoria del diritto nascente da contratto preliminare: profili problematici, in Foro it., 1996, I, 880 ss.). Quel che qui interessa sottolineare è il fatto che, per sostenere la complessa tesi sopra riferita, il Nicolo’ abbia offerto due configurazioni diverse del contratto definitivo: infatti, l’illustre giurista in esame esclude che il creditore del promittente possa procedere alla conclusione del contratto definitivo sul rilievo che la dichiarazione necessaria a dar luogo al contratto definitivo “è sempre una dichiarazione negoziale” (v. ancora Surrogatoria, cit.,130), mentre lo stesso contratto definitivo è descritto come privo di efficacia dispositiva, e dunque privo di efficacia negoziale, laddove si tratta di argomentare la legittimazione del creditore ad agire ex art. 2900 c.c per ottenere l’esecuzione del preliminare rimasto inadempiuto. È evidente a questo punto la duplice e configgente descrizione che viene data del contratto definitivo, che è delineato, al tempo stesso, come atto esecutivo non negoziale, alla conclusione del quale, però, si ritiene necessaria una dichiarazione negoziale.

[48] ) Dalmartello, La prestazione nell’obbligazione di dare, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ. 1947, 214 ss., spec. 233 s., secondo il quale il definitivo vale “come semplice riproduzione o ripetizione della promessa contenuta nel preliminare”.

[49] ) Gazzara, La vendita obbligatoria, Milano, 1957, 89.

[50] ) Barassi, op. cit., 405.

[51] ) Cfr. Gabrielli, Il contratto preliminare, Milano, 1970.

[52] ) Degenkolb, Zur Lehre vom Vorvertrag, Freiburg, 1887.

[53] ) V. in particolare Osti, La così detta clausola “rebus sic stantibus” nel suo sviluppo storico, in Riv. Dir. Civ., 1912, I, 1 ss.

[54] ) V. ancora Carrara, op. cit., 55. In senso contrario Coviello, op. cit., 237 ss., spec. 245.

[55] ) Il § 936 ABGB recita: “il patto di fare un contratto obbliga soltanto allorché siasi stabilito tanto il tempo di conchiuderlo, quanto i punti essenziali di esso ed inoltre non siano nel frattempo cambiate le circostanze in guisa che venga a mancare il fine o espressamente determinato o apparente dalle circostanze, oppure sia cessata la confidenza dell’una o dell’altra delle parti” (il testo è tratto dalla “versione ufficiale” del Codice Civile Universale Austriaco, Venezia, 1816).

[56] ) Gazzoni, Il contratto preliminare, Torino, 1998, 7. Il serrato argomentare riportato nel testo ha oggettivamente buon gioco rispetto ad affermazioni la cui scarsa persuasività è fatta palese dall’utilizzazione di oscure metafore: “non è esclusa l’ipotesi dell’atto dovuto-dichiarazione; tale è … la dichiarazione contrattuale di chi si sia obbligato a farla con un contratto preliminare: in quest’ultimo caso la figura intransitiva dell’atto dovuto si combina la figura transitiva del negozio giuridico, la qual combinazione corrisponde, sotto il profilo meccanico, alla combinazione, nel campo cinematico, tra l’obbligo ed il diritto soggettivo” (Carnelutti, Teoria generale del diritto3, Roma, 1951, 227).

[57] ) Perego, op. cit., 88.

[58] ) Di Majo, Obbligo a contrarre, voce dell’Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 6.

[59] ) ibid., 5.

[60] ) Ricostruisce su questa chiave l’intera storia del preliminare in Italia Mustari, Il lungo viaggio verso la realità. Dalla promessa di vendita al preliminare trascrivibile, Milano, 2007, secondo la quale, tra l’altro, l’attenzione verso il contratto preliminare da parte della dottrina italiana dei primi del novecento sarebbe stata ispirata “alla tutela di una specifica categoria, quella … dei costruttori-venditori di immobili abitativi” (v. ad es. p. 197 s.). Non è, tuttavia, su quest’ultimo aspetto che qui intendo soffermarmi, benché non possa fare a meno di prendere atto che l’A. non riporti alcuna espressione di Coviello, Gabba o Carrara (cui ella fa riferimento) a supporto di tale tesi e neppure citi elementi tratti dalla giurisprudenza dell’epoca in grado di evidenziare come la “realtà socio-economica dell’Italia di fine secolo” (ad illustrazione della quale non v’è nell’opera in esame, né nelle altre richiamate a sostegno a pag. 169, alcun riferimento a ricerche di storia economica o sociologica) ponesse l’esigenza di uno strumento giuridico come quello analizzato da Coviello. Qui piuttosto, premesso che la storia del diritto non è la mia materia, mi limito a prendere atto della conclusione dell’A., secondo la quale il senso dell’art. 1589 c.c. fr., andrebbe rinvenuto nel principio consensualistico, in quanto “l’affermazione della configurabilità della promessa di vendita come autonoma dalla vendita definitiva avrebbe significato consentire il permanere della proprietà fondiaria nelle mani di quella aristocrazia terriera che con la rivoluzione si era inteso eliminare”. Non posso però esimermi dall’osservare che ragionevolmente non si comprende come una figura giuridica, cui – al di là delle parole usate per designarla – era pacificamente riconosciuta l’efficacia di un patto sulla forma (Astuti, “Promesse de vente vaut vente”, in Riv. St. dir. It., 1953-1954, 247 ss.; Id., La documentazione dei negozi giuridici come forma convenzionale o volontaria nella dottrina del diritto comune, in Arch. Giur., 1945, 5 ss.) potesse incidere in un senso o nell’altro sulle prerogative politico-economiche della “aristocrazia terriera”. Senza contare che il principio sancito dall’art. 1589 c.fr. si era affermato assai prima della Rivoluzione francese , quando l’ “aristocrazia terriera” era ben salda.

Altro aspetto di perplessità - che in questa sede è possibile solo accennare - è posto dal § 936 ABGB, qui riportato in nota 54. In particolare, sarebbe stato interessante un approfondimento del rapporto tra questa disposizione e la tesi dell’Autrice, secondo la quale “la storia … del contratto preliminare deve essere letta come la fuga dal consensualismo … per superare i limiti posti alla libertà dei privati dal consenso traslativo”. Tale approfondimento avrebbe potuto articolarsi almeno sotto i due profili seguenti: in primo luogo sarebbe stato interessante un confronto tra il “patto di fare un contratto” ex § 936 ABGB con il vorvetrag di Degenkolb; in secondo luogo non si può non scorgere una singolare assonanza del “patto di fare un contratto” dell’ABGB con il tema delle sopravvenienze: infatti, quel “patto … obbliga soltanto allorché … non siano nel frattempo cambiate le circostanze …”. Dai commenti a suo tempo redatti a margine di questa disposizione apprendiamo che patti di questo tipo avevano luogo “non di rado” ed erano “preparatori” tanto di contratti reali (si leggono gli esempi del mutuo, deposito, ecc.), quanto di “contratti consensuali”, mentre è netta la distinzione tra il “patto” oggetto del par. 936 ed il contratto obbligatorio di vendita (v. ad es. von Zeiller, Commentario sopra il codice civile generale  austriaco, tr.it., Venezia, 1815, III, 1, 120 ss.; Nippel, Comento del codice civile generale austriaco, VI, Pavia, 1841, 203 ss.). Di qui – a sommesso avviso di chi scrive - l’opportunità di riservare attenzione a questa disposizione in una ricerca storica sulla promessa di contratto.

[61] ) V. ancora Speciale, op. cit.,

[62] ) Chianale, Il preliminare di vendita immobiliare, in Giur. It., 1987, I, 1, 673 ss., passim,  ma spec. 299; Id., Obbligazione di dare e trasferimento della proprietà, Milano, 1990, 96; Gazzoni, op. cit., 13 ss., 23 ss.

[63] ) Chianale, Il preliminare di vendita, cit., 692.

[64] ) L’allusione contenuta nel testo al titolo di una delle opere del Faggella non è, ovviamente, casuale: secondo questo A., infatti, “i contraenti … possono volere un trasferimento immediato di proprietà … o possono volere e disporre che la volizione di alienare … sia operativa … nel momento della traditio” (op. ult. cit., 1017).

[65] ) Chianale, Obbligazione di dare e trasferimento della proprietà, cit.,97.

[66] ) V. però De Matteis, op. cit., 35 ss., secondo la quale l’art. 2932 c.c. esprime “l’esigenza di sanzionare in via generale … l’inadempimento dell’obbligo di contrarre”, il quale inadempimento sarebbe poi specificamente regolato nel capoverso “con riferimento al contratto preliminare, in relazione a quell’ipotesi di sua più diffusa applicazione, che è il preliminare di vendita”.

[67] ) Per limitarci qui alle indicazioni di dottrina v. in proposito – anche in questo caso a distanza di anni tra loro - ad es. Messineo, Contratto preliminare, contratto preparatorio e contratto di coordinamento, voce dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1962, X, par. 2; Adilardi, Contratto preliminare, Padova, 2008, 123 ss.; Serrao, op. cit., 184 ss.; nella manualistica v. Iorio, Corso di diritto privato, Torino, 2014, 373.Per l’analisi di una interessante fattispecie di preliminare di trasformazione societaria v. Bolognesi, Contratto preliminare di trasformazione societaria e esecuzione in forma specifica: incompatibilità ontologica?, in Contr. Impresa, 2013, 1253 ss.

[68] ) Senza considerare che, se tutto fosse rimesso alle preferenze delle parti, e precisamente alla loro volontà di differire l’effetto traslativo scandendo il tempo delle trattative con negozi ad effetti obbligatori prima dell’effetto reale finale, non si porrebbe il problema della “meritevolezza” di tutela del preliminare di preliminare: v. sul tema la recente ricognizione di Mazzariol, Il contratto preliminare di preliminare: la parola passa ora alle sezioni unite, in Nuova giurispr. Civ., 2014, 735 ss.

[69] ) V. ad esempio De Matteis, op. cit., 52 s, note 1 e 4; Chianale, Il preliminare di vendita immobiliare, cit., 697; Roppo, Il contratto2, in Trattato di diritto privato a cura di Iudica e Zatti, Milano, 2011, 612 s.

[70] ) Da Speciale.

[71] ) Lo rileva recentemente Sicchiero, Il contratto preliminare, in Roppo (cur.), Trattato sul contratto, III, Effetti   a cura di M. Costanza, Milano, 2007, 376.

[72] ) In questa sede il riferimento può essere limitato a Coase, Il problema del costo sociale (1959), ora in Id., Impresa mercato e diritto, trad.it., Bologna, 1995, 199 ss., spec. 218 ss.

[73]) Cfr. Coviello, op. cit., 140.

[74] ) V. ancora Coviello, op. cit., 9 s.

[75] ) Coviello, op. cit., 83.

[76] ) Coviello, op. cit., 4 s.

[77] ) Medicus, Schuldrecht, I, München, 1995, § 75, 40.

[78] ) V. infatti ancora Coviello, op. cit., 7 ss.

[79] ) V. ad es. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, Torino, 19554, I, 354; Messineo, op. cit., 533.

[80] ) Cfr. ad es. Forchielli, Contratto preliminare, voce del Novissimo digesto italiano, IV, Torino, 1959, 683 ss.; Torrente, Manuale di diritto privato, Milano, 19687, 448 s.; Messineo, op. cit., 533 s.

[81] ) Quindi non si erano conseguiti significativi passi avanti rispetto agli inizi del secolo, quando Giorgi, op. cit., 143, scriveva che le parti, non potendo concludere il contratto definitivo, “senza certe autorizzazioni, che esigono tempo, né volendo rimanere, come suol dirsi con le mosche in mano, obbligano frattanto l’offerente senza obbligare” la controparte. Deve, peraltro, ricordarsi che il Giorgi nella fattispecie si riferiva al preliminare  unilaterale, unica conformazione di preliminare che egli ammetteva come figura autonoma, ma che descriveva – secondo un orientamento diffuso all’epoca e di gran tradizione (v. ad es. Pothier, Trattato del contratto di vendita, in Opere2, 1, Livorno, 1844, 571, § 2) – con i caratteri e gli effetti che saranno in seguito attribuiti all’opzione (sulle modalità di emersione di quest’ultima figura da una “costola” del preliminare unilaterale v. Cesaro, Opzione nel contratto, voce dell’Enciclopedia del diritto, XXX, Milano, 1980, 561 ss.).

[82] ) Cfr. Montesano, Contratto preliminare e sentenza costitutiva, cit. Come già accennato nel testo occorrerà tornare sul problema della duplice funzione del definitivo, dal momento che – come evidenziato di recente (Gazzoni)  - esso rappresenta uno (anzi lo) snodo chiave della materia. In questa sede, sembra non privo di interesse ricordare che la peculiarità della sequenza preliminare-definitivo sotto tale profilo non era sfuggita ai primi studiosi tedeschi del Vorvertrag, sia per contestare l’ammissibilità di un contratto preliminare a contratto consensuale e, così, porre le premesse concettuali di quello che in Italia, nel novecento, sarà l’orientamento anticovelliano, vuoi nella appena accennata versione del Montesano, vuoi nell’altra versione – di cui pure si è fatto cenno - di quanti vedono nel binomio preliminare-definitivo la riproduzione della coppia titulus-modus adquirendi (v. infatti Geller, Vorvertrag und Punktation, in Österreichisches Centralblatt, 1883, 141 ss.);  sia per rilevare la “doppia direzione” del contratto definitivo in quanto “opera contemporaneamente come estintivo [della precedente obbligazione di contrarre] e come costitutivo [di una nuova obbligazione]” (Coviello, op. cit., 13).

[83] ) Cfr. Messineo, Il contratto in genere, Milano, 1973, I, 534 e 555 s.; Perego, op. cit., 89 ss.

[84] ) Cfr. Giorgi, op. cit.,III, § 151; Laurenti, op. cit., 511;

[85] ) Schlossmann, Über den Vorvertrag und die recht, in Jherings Iahrb, Bd. 45, 1 ss.

[86] ) V. già Coviello, op. cit., 71 ss.; Gabrielli, op. cit., 146 ss.

[87] ) A rafforzare la conclusione attinta nel testo vale un’ulteriore considerazione, che prende le mosse dagli esempi generalmente addotti dalla dottrina tra gli anni cinquanta e sessanta a proposito delle “esigenze pratiche” soddisfatte dal preliminare. Questi esempi sono stati riportati nel testo: si parla generalmente di una mancata conoscenza dei dati catastali, ovvero della necessità di integrare il regolamento contrattuale con nuove pattuizioni. Al riguardo è agevole osservare la profonda eterogeneità di questi due esempi, ciascuno dei quali sottintende uno stadio delle trattative (e dunque del patto che le fotografa) profondamente diverso: nel primo caso, ossia quando si rinvia il definitivo a causa della mancata conoscenza dei dati catastali, le parti hanno di fatto compiutamente regolato la trama, il contenuto del contratto definitivo. In questo caso – come si esprimevano i dottori del diritto comune - esiste una volontà attuale, compiutamente espressa, sugli elementi essenziali del contratto, che, a ben vedere, le parti non chiudono immediatamente solo perché deve essere integrato con un elemento – si può dire – di puro fatto, tale da non incidere in modo concreto sui loro rapporti sostanziali, di guisa che il secondo contratto si riduce in definitiva alla ripetizione del precedente innanzi al notaio. Il secondo esempio, invece, allude ad una situazione assai diversa perchè, a differenza del precedente, postula che il contenuto del contratto, l’assetto finale di interessi, non sia stato ancora completamente individuato e condiviso tra le parti. In altre parole, quando si rinvia la conclusione del definitivo a causa della incompletezza delle clausole contrattuali, le trattative non sono ancora concluse ed il consenso di entrambe le parti si è coagulato solo su una parte dell’assetto finale di interessi, tanto che le parti si ripromettono di integrare quest’ultimo col successivo contratto. Ne segue che – come assai spesso è avvenuto nella storia dell’istituto e come avviene tuttora – con la formula “contratto preliminare” la prevalente dottrina degli anni cinquanta e sessanta designava due situazioni contrattuali assai diverse tra loro: in una, secondo quanto si è detto, sussisteva il consenso delle parti sul contenuto del contratto ed il rinvio al contratto successivo era funzionale solo al reperimento e all’inserimento dei dati catastali; nell’altra le trattative non erano concluse ed il secondo contratto appariva un passaggio essenziale per la determinazione dell’integrale contenuto del contratto. Di qui la conferma di quanto si sostiene nel testo a proposito della scarsa consapevolezza che all’epoca (solo all’epoca?) vi era intorno alla natura stessa del contratto.  

[88] ) V. recentemente sul tema Roppo, Causa concreta. Una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. Dir. Civ., 2013, I, 957 ss., spec. § 12 in fine.

[89]) Gabrielli, La pubblicità immobiliare nel contratto preliminare, in Riv. Dir. Civ. 1997, I, 529 ss.

[90]) V. ancora in fase di proposta Mariconda, La trascrivibilità del contratto preliminare, Notariato, 1995, 337 ss.;e poi Gabrielli, op. ult. cit., 534, il quale rammenta che, anche a proposito dell'art.2652 n.2 c.c., non era mancato chi aveva colto la possibilità per il promissario acquirente di "afferrare la cosa in contesa con la stessa forza con cui potrebbe farlo il titolare di un vero e proprio diritto reale sulla medesima"; Di Majo, La trascrizione del contratto preliminare e regole di conflitto, in Corriere Giur., 1997, 512 ss.;Zaccaria, Troiano, La pubblicità del contratto preliminare, in Diritto civile, diretto da Lipari e Rescigno, coordinato da Zoppini, IV, Attuazione e tutela dei diritti, II, L’attuazione dei diritti, Milano, 2009, 60 ss.; Ritiene ora “del tutto inutile o quasi” la trascrizione della citazione ex art.2652 n.2 c.c. Lembo, La trascrizione del contratto preliminare, in Dir. fallim., 2004, I, 261 ss.

[91] ) Alpa, Rischio contrattuale (dir. Vig.), in Enc. Dir., IX, 1999, 1144 ss., 1145: “ogni tipo contrattuale reca in sé criteri specifici di ripartizione [del rischio] che obbediscono a ragioni di giustizia distributiva”.

[92]) Cfr., ad esempio, rispettivamente Gabrielli, op. ult. Cit.,529 ss.; e  Gazzoni, Trascrizione del preliminare di vendita ed obbligo di dare, in Riv. Not., 1997 I, 19 ss.

[93] ) Di Majo, La “normalizzazione” del preliminare, in Corriere giur., 1997, 131 ss.

[94] ) Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 200140, 678 s.; Galgano, Istituzioni di diritto privato, Padova, 2000, 195; P. Perlingieri, Istituzioni di diritto civile, Napoli, 2001, 233 s.; G. Grisi, Gli istituti del diritto privato, 1, Napoli, 2003, 326; P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Milano, 200214, 280, il quale accenna esplicitamente al controllo delle sopravvenienze; V. Roppo, Istituzioni di diritto privato, Napoli, 19983, 404 ss.

[95]) Torrente, Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 199916, 474 ss.

[96] ) Rescigno, Manualedi diritto privato, ediz. A cura di G.P. Cirillo, Milano, 2000, 559

[97] ) Nella manualistica di fine novecento-primi duemila accoglie decisamente questa opinione P. Gallo, Istituzioni di diritto privato, Torino, 1999, 404. Assai più sfumate sono altre posizioni: così a P. Zatti, V. Colussi, Lineamenti di diritto privato, Padova, 20018, 401, "sembra di dover concludere che il preliminare che ha per oggetto un futuro trasferimento o costituzione di diritti reali su beni immobili produce non solo un obbligo a contrarre, ma anche un vincolo reale sul bene, nel senso che il promittente alienante … non può produrre a favore di altri acquirenti l'effetto traslativo … opponibile alla parte che ha trascritto a suo favore il preliminare"; secondo V. Franceschelli, Introduzione al diritto privato, Milano2, 678, nell'ipotesi del preliminare la trascrizione "assume una coloritura reale" malgrado la natura dichiarativa di solito sua propria. Sul tema ha inciso anche il d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122, su cui v. la nota seguente: cfr. Sicchiero, op. cit., 384 s.

[98] ) Un analogo dibattito non ha suscitato il d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122 “disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti degli immobili da costruire, a norma della l. 2 agosto 2004”. E se ne comprende il motivo: la disciplina ha ad oggetto “ogni contratto, compreso quello di leasing, che abbia o possa avere per effetto l’acquisizione o comunque il trasferimento non immediato … della proprietà o della titolarità di un diritto reale di godimento su di un immobile da costruire” (su tale nozione v. Trib. Monza 10 maggio 2014, in Contratti, 2014, 696; Cass. 10 marzo 2011, n. 5749, in Foro it., 2012, I, 3482). La legge prevede la nullità relativa del contratto che abbia come finalità il “trasferimento non immediato della proprietà” quando il costruttore non rilasci allo “acquirente” una fideiussione di importo corrispondente alla somma e al valore di ogni altro corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel contratto, deve ancora riscuotere prima del trasferimento della proprietà” (art. 2). Il plesso legislativo, all’interno del quale l’art. 5 si preoccupa di stabilire il contenuto del contratto preliminare, è versato su problematico estranee a quelle qui analizzate, tutte protese alla definizione del contratto preliminare e a stabilire quali siano gli interessi in concreto soddisfatti dal contratto preliminare (v. Sicchiero, op. cit., 435 ss.;Di marzio, Crisi di impresa e contratto. Note sulla tutela dell’acquirente dell’immobile da costruire, in Dir. Fallim. 2006, 31 ss.; Rizzi, La nuova disciplina della tutela dell’acquirente dell’immobile da costruire, in Notariato, 2005, 427 ss.).

[99] ) Alpa, Istituzioni di diritto privato, Torino, 1994, 889; Id., Manuale di diritto privato8, Padova, 2013, 505.

[100] ) Cfr. Giorgi, op. cit., 144.



Scarica Articolo PDF