Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 10/12/2022 Scarica PDF
L'interesse del committente al "termine di completamento dei lavori", drafting del contratto di appalto e interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.)
Gioacchino La Rocca, Professore ordinario di diritto civile nell'Università di Milano BicoccaSommario: 1. Cass. n. 24314/22: dies a quo e dies ad quem del termine stabilito per il completamento dei lavori - 2. I precedenti “conformi” ex art. 118 disp. att. c.p.c.: Cass. n. 1905/2008 e Cass. n. 3801/1992 - 3. Contratto di appalto e interesse del committente - 4. “In claris non fit interpretatio” - 5. La qualità di imprenditore rivestita dal committente - 6. L’interpretazione del contratto secondo buona fede (art. 1366 c.c.)
1. Cass. n. 24314/22: dies a quo e dies ad quem del termine stabilito per il completamento dei lavori.
Con la recente ordinanza 5 agosto 2022, n. 24314, in www.ilcaso.it, la Corte di cassazione prende posizione su aspetti meritevoli di attenzione, quali la determinazione del dies a quo e del dies ad quem del “termine di completamento dei lavori” in ipotesi inserito nel contratto di appalto e la rilevanza probatoria a tal fine del “giornale lavori”.
La Corte suprema imposta il problema esaminato in termini molto concreti: occorre, infatti, stabilire se il dies a quo del termine di esecuzione dei lavori decorre dalla data di “presa in consegna del cantiere”, o dalla data di inizio delle c.d. “opere provvisionali” da parte dell’appaltatore ([1] ), oppure dalla data di effettivo inizio dell’esecuzione delle specifiche opere oggetto dell’appalto. Analoghi dubbi riguardano la determinazione del dies ad quem, ossia il momento nel quale i lavori possono ritenersi completati. Anche in questo caso si pone un dubbio: nei lavori dei quali occorre stabilire il “termine”, rientrano le attività accessorie di smontamento del cantiere, “ovvero” – prosegue la cassazione – “le attività prodromiche alle successive operazioni di verifica e collaudo, tra cui rientrano le attività occorrenti per ovviare ai vizi e ai difetti”?
La risposta di Cass. n. 24314/22 è concorde con quella dei giudici di merito: il termine di completamento dei lavori decorre dal momento in cui è effettivamente iniziata la realizzazione delle opere oggetto dell’appalto. Da tale computo è, dunque, escluso il tempo che va dalla presa in consegna del cantiere da parte dell’appaltatore al momento in cui questi inizia a dar corso all’opera a lui commissionata. Dal computo del tempo di “completamento dei lavori” deve essere parimenti escluso – aggiungono le corti – il periodo intercorrente tra l’ultimazione dell’opera e lo smontaggio del cantiere da parte dell’appaltatore con il successivo sgombero dell’area da parte di quest’ultimo.
Così determinato il “termine per il completamento dei lavori”, i giudici hanno respinto la domanda del committente volta ad ottenere la condanna dell’appaltatore al pagamento della penale contrattualmente prevista qualora i lavori non fossero stati “completati entro diciotto mesi dal loro inizio”.
2. I precedenti “conformi” ex art. 118 disp. att. c.p.c.: Cass. n. 1905/2008 e Cass. n. 3801/1992
In adempimento dell’art. 118 disp. Att. C.p.c., Cass. 24314/22 non manca di far riferimento a precedenti decisioni della Suprema Corte in argomento, alle quali è utile prestare attenzione per una migliore comprensione degli interessi e dei problemi effettivamente coinvolti nelle vicende in discorso.
Tra i precedenti viene richiamata Cass. 16 luglio 2008, n. 19501, in Foro it., Rep. 2008, voce Espropriazione per pubblica utilità, n. 119, secondo la quale “la dichiarazione di pubblica utilità di opere stradali di cui all'art. 2, 2º comma, d.leg. 26 febbraio 1994 n. 143, pur essendo prevista da una norma speciale, è soggetta alla regola generale dell'art. 1, 3º comma, l. 3 gennaio 1978 n. 1 e, quindi, perde efficacia nel caso di mancato inizio delle opere nel triennio successivo all'approvazione del progetto, dovendosi escludere che l'inizio di un'opera possa essere confuso o identificato con tutta l'attività preparatoria - burocratica e materiale - precedente tale momento, in quanto è necessario che, nel predetto termine, la realizzazione dell'opera sia iniziata nella sua consistenza strutturale (fattispecie relativa alla realizzazione di casello autostradale, in cui la suprema corte ha ritenuto che l'opera non fosse stata iniziata, risultando essere state svolte nel triennio le sole attività di consegna dei lavori all'impresa aggiudicataria, di avvio delle operazioni di bonifica e di installazione del cantiere)”.
Nella fattispecie, all’interesse della PA a realizzare un’opera dichiarata di pubblica utilità si contrappone l’interesse del privato a subire l’espropriazione solo qualora sussistano effettivamente i requisiti di attualità e concretezza dell’interesse pubblico.
Ciò premesso, è evidente l’interesse sostanziale tutelato dalla sentenza del 2008 quando stabilisce che, al fine di evitare la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità, l’inizio dei lavori delle “opere stradali” deve coincidere con l’inizio della realizzazione delle medesime nella loro “consistenza strutturale”, cosicché non hanno rilevanza a tal fine le “operazioni di bonifica e installazione” del cantiere, come possono essere le opere provvisionali cui prima si è accennato. In caso contrario, ossia nell’ipotesi di mancato inizio dell’“opera stradale” entro il triennio dalla consegna del cantiere all’appaltante, la legge presume il venir meno in fatto dei requisiti di indispensabilità, attualità e concretezza del sacrificio della proprietà privata, con conseguente diritto del proprietario espropriato alla reintegrazione nel possesso del fondo. A far presumere che l’opera sia ancora ritenuta di pubblico interesse, dunque, non è la mera attività preparatoria del cantiere, ma è necessario l’effettivo inizio della realizzazione dell’opera nella sua “consistenza strutturale”, dal momento che è quest’ultima, ossia l’opera nella sua consistenza fisica-strutturale, che soddisfa l’interesse pubblico.
Altra sentenza richiamata è Cass. 27 marzo 1992, n. 3801, nella motivazione della quale si legge che “nel contratto di appalto di opere pubbliche … l'inizio della esecuzione si identifica normalmente con la formale «consegna dei lavori», che, ai sensi dell'art. 338 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. F, dell'art. 10 del r.d. n. 350 del 1895 e dell'art. 10 del D.P.R. n. 1063 del 1962, si effettua mediante apposito verbale, contenente specifiche indicazioni sullo stato dei luoghi: ove non sorgano contestazioni e l'impresa firmi il verbale senza osservazioni, la consegna si intende accettata a tutti gli effetti e dalla relativa data decorre il termine utile per il compimento delle opere (v. art. 338 del t.u. sui lavori pubblici)”.
Queste affermazioni meritano qualche precisazione. In primo luogo, è utile rammentare che l’espressione “consegna dei lavori”, lungi dall’essere confinata nell’appalto pubblico, è utilizzata anche nell’appalto privato per designare “la consegna dei piani, terreni, cave, materiali e mezzi d’opera promessi, e in genere tutto ciò che è necessario per l’inizio dell’esecuzione dei lavori e che deve essere fornito dal committente” ([2]) in adempimento dell’obbligo di cooperazione gravante su di lui.
In secondo luogo, è necessario precisare che - ai fini della decisione a suo tempo assunta da Cass. 3801/92 ora in esame – l’affermazione prima riportata costituisce solo un “obiter dictum”, ossia un principio di diritto inserito nella motivazione, che però non svolge un ruolo effettivamente operativo ai fini della stessa ([3] ). Più precisamente, la sentenza del 1992 approva il procedimento seguito dalla corte d’appello, la quale aveva osservato che nella fattispecie la “consegna dei lavori” ed il connesso ingresso in cantiere dell’appaltatore non rappresentavano il necessario primo passo per l’esecuzione delle opere appaltate. Nel caso esaminato da Cass. 3801/92, queste ultime consistevano nell’approntamento di impianti di segnalazione luminosa per alcuni aeroporti. Tale approntamento, che necessariamente avrebbe dovuto aver luogo in stabilimenti diversi dagli aeroporti interessati, aveva carattere propedeutico rispetto all’ingresso dell’appaltatore in questi ultimi: l’ingresso in aeroporto, infatti, avrebbe avuto senso solo in un secondo momento, vale a dire quando gli impianti di segnalazione fossero stati costruiti e pronti per l’istallazione. In una situazione di questo tipo, la “consegna dei lavori”, ossia – come si ribadisce - l’ingresso dell’appaltatore nel sito in cui dovrebbe sorgere l’opera, atteneva ad una fase successiva rispetto all’inizio dell’esecuzione delle opere appaltate, il quale invece coincideva con l’inizio della realizzazione degli impianti. Per questo motivo i giudici hanno in concreto risolto il caso al loro esame distinguendo tra momento di inizio dei lavori e il momento di inizio delle c.d. “opere provvisionali”.
3. Contratto di appalto e interesse del committente
Come si vede, le sentenze sopra passate in rassegna hanno distinto tra inizio della realizzazione dell’opera appaltata nella sua “consistenza materiale” e attività preparatoria – che può essere di natura materiale (e quindi consiste nella realizzazione delle opere provvisionali) o burocratica, che consiste nell’acquisizione delle autorizzazioni amministrative eventualmente necessarie - di tale realizzazione. Quel che qui interessa sottolineare è che in entrambi i casi tale distinzione è stata effettuata sulla base delle concrete vicende esaminate e del conseguente conformarsi dei relativi interessi sostanziali delle parti.
Si profila così il rilievo di fondo di queste osservazioni a margine della recente Cass. 24314/22: in questa sentenza non è agevole cogliere analoga attenzione agli interessi sostanziali sottesi alla vicenda esaminata.
Non solo: la sentenza del 2022 presta il fianco ad un secondo ordine di perplessità: essa, infatti, offre un esempio del rischio insito nella utilizzazione degli obiter dicta all’interno della motivazione delle sentenze: essi possono essere richiamati dalle sentenze successive in modo non sempre funzionale (per non dire fuorviante) rispetto agli interessi in conflitto nei casi concreti di volta in volta decisi.
Occorre, tuttavia, andare per ordine e definire, innanzi tutto, quali fossero gli interessi, sui quali Cass. 24314/22 era chiamata a prendere posizione. A tal fine è necessario tener conto che nel caso deciso dalla sentenza del 2022 le parti avevano previsto il pagamento di una penale per l’ipotesi in cui l’appaltatore avesse sforato il “termine per il completamento dei lavori” contrattualmente previsto. Questa pattuizione attesta un preciso interesse del committente al rispetto di tale “termine per il completamento dei lavori”. In altre parole, il termine di cui stiamo parlando - e più concretamente il momento di decorrenza ed il momento finale di tale termine - costituiscono un aspetto dell’interesse che ha indotto il committente alla conclusione del contratto di appalto.
Ci troviamo, dunque, di fronte ad un non infrequente esempio di declinazione (anche) sul piano temporale dell’interesse del committente. Più chiaramente, la clausola con la quale nell’appalto le parti prevedono un “termine per il completamento dei lavori”, è meritevole di attenzione perché essa può impattare direttamente su un aspetto particolarmente importante del contratto di appalto, quale è l’interesse del committente. Ne segue che l’attenzione sulla clausola relativa al completamento dei lavori può costituire un’utile occasione per riflettere ancora una volta sull’interesse del committente, il quale non sempre pare vagliato in dottrina con la necessaria chiarezza perfino nella sua manifestazione più esplicita costituita dall’art. 1671 c.c. ([4]).
In via generale, mette conto rammentare che nel contratto di appalto la centralità dell’interesse del committente è radicata sul fatto che la modificazione della realtà fisica, l’incidenza sull’ambiente, pianificate nel contratto stesso, si giustificano socialmente solo in vista della piena soddisfazione dell’interesse riposto dal committente nell’opera realizzanda. È tale centralità che, ad esempio, rende ragione delle differenze riscontrabili nel confronto tra art. 1490 c.c. e artt. 1667 e 1668 c.c. relativamente alla garanzia per i vizi ([5]), oppure delle peculiari facoltà riconosciute al committente in termini di jus variandi e jus poenitendi (v. ad es., oltre al già richiamato art. 1671 c.c., artt. 1661, 1662, 1665 c.c.).
V’è, peraltro, da aggiungere che – ferma la particolare rilevanza assunta dall’interesse del committente nell’appalto - la corretta individuazione dell’interesse dedotto dalla parte in contratto risponde ad una generale esigenza sistematica. Infatti, gli interessi dedotti in contratto, non solo delimitano il perimetro del contratto stesso, marcando in modo decisivo la meritevolezza di tutela dell’operazione economica per esso conclusa (art. 1322 c.c.), ma definiscono anche la condotta della controparte idonea ad integrare l’“esatto adempimento” ai sensi degli artt. 1218 e 1453 c.c. Ciò perché l’interesse di ciascun contraente partecipa della rilevanza strutturale assegnata all’interesse del creditore dall’art. 1174 c.c., la cui realizzazione costituisce la ragion d’essere dell’intero diritto delle obbligazioni ([6]).
4. “In claris non fit interpretatio”
Questa cruciale tensione verso l’esatta individuazione dell’interesse perseguito dal committente si dirige innanzi tutto verso il testo contrattuale, atteso che “l’interesse che entra nel contenuto del rapporto è quello che risulta dal titolo” ([7]) e, di conseguenza, il problema dell’individuazione dell’interesse contrattualmente perseguito si risolve in un problema di interpretazione del “titolo” medesimo, ossia del contratto.
In proposito, due scenari si prospettano all’interprete. Il primo è quello di un testo contrattuale nel quale le parti hanno avuto cura di redigere una clausola “chiara”, ossia - tenuto anche conto delle incertezze che segnano l’operatività del brocardo in claris non fit interpretatio ([8]) – una clausola nella quale il dies a quo ed il dies ad quem del termine di completamento dei lavori sono individuati con la minore ambiguità possibile.
Non solo: se, come sembra ragionevole, il committente ha interesse ad un godimento e ad una disponibilità “pieni” (parola da intendersi più o meno nel senso in cui essa è utilizzata dall’art. 832 c.c.) dell’opera entro una certa data, è sicuramente auspicabile che tale interesse trovi riscontro in una clausola contrattuale che esplicitamente impegni l’appaltatore a porre l’opera nella disponibilità e nel pieno godimento del committente entro il giorno indicato, con l’espressa precisazione che a quella data l’area dove si trova l’opera, sia completamente sgombra, senza più alcuna traccia del cantiere.
È solo con queste precisazioni – e con le altre che potranno essere inserite in contratto nell’ambito di un cronoprogramma il più dettagliato possibile – che sarà possibile soddisfare l’interesse del committente ad un tempestivo godimento dell’opera oggetto dell’appalto.
Un ulteriore notazione non è forse inutile con riguardo alla “chiarezza” auspicabile (per ogni contratto, ma in particolare) per il contratto di appalto in forza della rilevanza non solo economica rivestita per le parti. Il “termine per il completamento dei lavori” è solo uno dei tanti aspetti sui quali dovrebbe essere prestata attenzione nella redazione del contratto di appalto e degli atti ad esso collegati: altri esempi – senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività – possono essere l’atto ex art. 1656 c.c., al fine di escludere ogni possibile confusione tra autorizzazione al subappalto e consenso alla cessione del contratto di appalto; la clausola “if and where” nel contratto di subappalto, onde rafforzarne l’interpretazione nel senso di stabilire un termine per l’adempimento del subcommittente, piuttosto che una condizione sospensiva avente ad oggetto l’adempimento del committente; la contrattualizzazione della facoltà di verifica da parte del committente ex art. 1662 c.c., onde governare la possibilità dell’appaltatore di opporsi, chiedere danni, rimborsi spese; le clausole relative alla ripartizione del rischio in eventuale deroga all’art. 1664 c.c. ([9]); grande attenzione, poi, dovrebbe essere riservata in sede di redazione del contratto alle vicende “do ut facias”, onde chiarirne il concreto atteggiarsi nella singola fattispecie; come pure, suggerisce cautela l’eventuale presenza di un terzo beneficiario dei lavori oggetto dell’appalto, con il correlato aspetto della rapporto e della responsabilità dell’appaltatore nei suoi confronti; ed ancora sarebbe utile specificare in contratto la provenienza della materia dal committente, la qualità di questa e la determinazione delle vicende connesse alla stessa, nonché le dimensioni dell’opera anche nell’appalto a misura ecc.
5. La qualità di imprenditore rivestita dal committente.
I numerosi esempi di dubbi potenzialmente emergenti durante il rapporto tra appaltatore e committente provengono dalla constatazione che nella pratica difficilmente è dato riscontrare una soddisfacente univocità delle clausole contrattuali. Sotto tale profilo, si rivelano insufficienti anche i formulari circolanti nella pratica, perché non sempre si rivelano adeguati alle singole fattispecie concrete. Il contratto esaminato da Cass. 24314/22 non è certamente un caso isolato. Nella specie, come si ricorderà, le parti avevano previsto a carico dell’appaltatore il pagamento di una penale nel caso in cui egli non avesse rispettato il “termine per il completamento dei lavori”. I giudici hanno ritenuto che tale termine non fosse stato superato perché nel termine predetto non hanno compreso, né il tempo intercorso tra la “consegna dei lavori” e l’effettivo inizio dell’edificazione dell’opera convenuta, né il tempo intercorso tra il completamento dell’opera stessa e lo sgombero del cantiere, dei materiali, nonché il ripristino dell’area da parte dell’appaltatore. Una tale conclusione è stata in concreto possibile a causa dell’imprecisione della clausola contrattuale.
Occorre peraltro chiedersi se una tale interpretazione colga effettivamente l’interesse dedotto in contratto dal committente. Al riguardo, nelle pagine precedenti si è segnalata sia la rilevanza di tale interesse, sia la sua possibile sensibilità alle tempistiche di consegna dell’opera. Qui mette conto proseguire nell’analisi dell’interesse del committente, esaminando la possibile incidenza su di esso della qualità di imprenditore in ipotesi rivestita dal committente.
Questa prospettiva non sempre è utilizzata nello studio del contratto di appalto, dove generalmente si presta attenzione alle ricadute della qualità di imprenditore rivestita dall’assuntore dell’opera. La giurisprudenza sull’appalto è ricca di sentenze in questo senso, le quali, ad esempio, muovono dalla natura più o meno complessa dell’opera e soprattutto dalla natura imprenditoriale del soggetto chiamato a compierla per risolvere le incertezze sulla qualificazione del contratto in concreto esaminato nel senso dell’appalto in luogo del contratto di opera ([10]), o del contratto di vendita di cosa futura ([11]); come pure dalla qualità imprenditoriale dell’appaltatore la giurisprudenza trae conseguenze circa l’ampiezza delle sue obbligazioni ([12]) e più in generale tale qualità incide in modo sensibile sulla ripartizione tra le parti del rischio per sopravvenienze negative, la cui delicatezza nel contratto di appalto è segnalato dalla quantità delle disposizioni dedicate al tema, spesso in deroga alla disciplina generale del contratto ([13]).
La fattispecie esaminata da Cass. 24314/22 costituisce un utile occasione per mutare prospettiva ed approfondire la possibile rilevanza della imprenditorialità del committente in rapporto alla clausola relativa al termine di completamento dei lavori. Orbene, la natura imprenditoriale del committente rafforza l’intuizione sopra avanzata che l’interesse tutelato da quella pattuizione sia l’individuazione di un tempo a partire dal quale il committente sia messo in condizione di poter pienamente utilizzare l’opera, la quale nella fattispecie consisteva in una serie di ville. Si trattava, dunque, dell’interesse dell’impresa committente a commercializzare l’opera appaltata nelle migliori condizioni possibili, senza dunque l’ingombro e il disordine del cantiere e dei materiali residui.
Su queste premesse si colgono i possibili motivi di perplessità destati dalla decisione in commento. Ci si chiede, infatti, fino a che punto si sia tenuto conto che, attraverso la clausola in discorso, l’impresa committente perseguiva l’interesse alla progettualità razionale, che è tipico dell’imprenditore, ossia l’interesse al “calcolo razionale del capitale come norma per tutte le imprese acquisitive che hanno a che fare con la copertura del fabbisogno quotidiano” ([14]), nel quale si è da tempo intravisto uno dei presupposti del capitalismo moderno e sul quale anche recentemente ha insistito la dottrina.
Su questa premessa, acquista credito l’ipotesi avanzata nei precedenti paragrafi, secondo cui la dimensione temporale configuri strutturalmente l’interesse dell’impresa committente, nel senso che tale interesse si articola non solo nelle caratteristiche intrinseche dell’opera, ma anche nei tempi di approntamento della stessa, i quali possono essere non secondari ai fini della completa ed effettiva realizzazione dell’operazione imprenditoriale disegnata dal committente, della quale il contratto di appalto può essere solo un segmento.
6. L’interpretazione del contratto secondo buona fede (art. 1366 c.c.)
Il problema che ora si pone è determinare gli strumenti idonei a verificare l’effettiva presenza di un tale interesse dell’impresa committente quando il testo contrattuale non esibisca quella “chiarezza” auspicata per ogni contratto, ma la cui esigenza si acuisce – come sottolineato nelle pagine precedenti – in un contratto quale l’appalto, che per le parti è spesso assai importante sul piano economico e che per la collettività può avere sensibili ricadute sotto il profilo ambientale e di consumo del territorio. Si delinea così un conflitto di interessi assai delicato, la cui soluzione certamente corre per larga parte sul delicato crinale della normativa urbanistica ([15]), ma non può prescindere da una determinazione quanto più possibile accurata dell’interesse dell’impresa committente, il quale non può, né ritenersi sempre e comunque prevalente su quello dell’appaltatore, né può essere presunto. Al contrario, esso deve essere ricavato dal contratto e più precisamente dalla sua interpretazione.
La regola per indagare il contratto sotto questa angolazione sembra potersi rinvenire nell’art. 1366 c.c., secondo il quale “il contratto deve essere interpretato secondo buona fede”. Questa disposizione ha impegnato dottrina e giurisprudenza, senza che, tuttavia, sia alle viste una conclusione definitiva sul significato da assegnare alla disposizione. Così, vi è chi ha richiamato l’art. 1366 c.c. per escludere interpretazioni, che, pur consentite dalla lettera del contratto, siano ritenute “cavillose, di parte o comunque non conformi allo spirito dell’intesa”, oppure per escludere la possibilità di attribuire alle parole presenti nel testo contrattuale “significati soggettivi non conosciuti” dalla controparte ([16]). Altri preferisce porre l’accento sul fatto che “l’interpretazione secondo buona fede attribuisce al contratto il significato su cui una parte aveva fatto legittimo affidamento” ([17]).
Entrambe queste dottrine sembrano rimanere nell’alveo tracciato dalla Relazione al Re, secondo la quale l’interpretazione secondo buona fede mira ad attribuire al contratto e alle dichiarazioni provenienti da ciascuna parte il significato “oggettivo”, nel quale la controparte o il destinatario “poteva e doveva ragionevolmente intenderle” ([18]). Sulla medesima linea sembra rimanere anche quella giurisprudenza, che stabilisce che “in tema di interpretazione del contratto, l'elemento letterale, sebbene centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, deve essere riguardato alla stregua di ulteriori criteri ermeneutici e, segnatamente, dell'interpretazione funzionale, che attribuisce rilievo alla causa concreta del contratto ed allo scopo pratico perseguito dalle parti, oltre che dell'interpretazione secondo buona fede, che si specifica nel significato di lealtà e si concreta nel non suscitare falsi affidamenti e nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte” (Cass. 19 marzo 2018, n. 6675). La significatività di questa giurisprudenza sta nel fatto che essa da concretezza a quei “ragionevoli affidamenti” presumibilmente riposti nelle clausole contrattuali e, lungi dal lasciare gli stessi nell’indefinito, li pone in relazione al possibile “scopo pratico” perseguito dalle parti con la clausola da interpretare. Il sintagma “buona fede” di cui all’art. 1366 c.c., in altre parole, deve indurre l’interprete a dar voce a quegli interessi sostanziali ragionevolmente tutelati con la clausola oggetto di interpretazione.
Ne segue che, quando la clausola relativa al “termine di completamento dei lavori” sia posta in relazione allo “scopo pratico” che il committente – specie se imprenditore – si riprometteva di realizzare con la clausola medesima, l’interpretazione di tale termine, dei suoi giorni di inizio e di fine, potrà e dovrà essere diversa da quella avvalorata da Cass. 24314/22 a condizione che il committente abbia fatto emergere nel processo il disegno imprenditoriale sotteso al contratto, all’interno del quale quella clausola poteva svolgere una funzione non secondaria. In altre parole, l’interpretazione del “termine completamento dei lavori” non può avvenire con un procedimento assolutamente astratto di ricerca di precedenti in materia, dal momento che – come si è avuta conferma in questa sede - con ogni probabilità quei precedenti saranno difficilmente adattabili al caso da decidere in quanto saranno tarati sugli interessi sostanziali propri delle fattispecie esaminate in passato dai giudici. Al contrario, preso atto della possibile dimensione (anche) temporale dell’interesse del committente, si dovrà determinare il termine di completamento dei lavori tenendo conto della sua possibile inerenza al “calcolo razionale” di weberiana memoria.
[1] ) Le “opere provvisionali” sono costituite da lavori che non rientrano nelle opere oggetto specifico dell’appalto, ma che sono comunque necessarie per la realizzazione di tale oggetto: ad es. spianamento dell’area per la formazione del cantiere, realizzazione delle stradelle di accesso dei mezzi di trasporto dei materiali, tracce per il deflusso dell’acqua in ipotesi utilizzata nella realizzazione dell’opera ecc.
[2] ) Rubino, Iudica, Appalto4, Bologna – Roma, 2007, 161.
[3] ) Più precisamente, “per obiter dicta si intendono tutte quelle proposizioni di diritto che non sono necessarie alla decisione del caso concreto. Talvolta sono anche dei trattatelli teorici su questioni diverse da quelle che formano oggetto della lite (se ne può vedere qualche esempio nelle sentenze riferite in appendice). Tal altra espongono regole o principi su casi ipotetici, più o meno occasionalmente suggeriti da quello sottoposto al giudice. Tal altra, ancora, obiter dictum si presenta come una proposizione generalizzante o concettualizzante al di là del necessario o, comunque, troppo generica e indefinita rispetto al caso deciso” (gorla, “Ratio decidendi, principio di diritto (e “obiter dictum”. A proposito di alcune sentenze in tema di revoca dell’offerta contrattuale, in Foro it., 1964, V, 89 ss.).
[4] ) V. ad es. Battelli, La disciplina del recesso, in Cuffaro (cur.), I contratti di appalto privato, Milanofiori, 2011, 245 ss., 263, dove si legge che “la ratio del recesso in esame … va probabilmente ricercata nel fatto che i contratti di locazione d’opera riflettono un’obbligazione potestativa ex parte creditoris”: questa affermazione pone innanzi tutto il dubbio di cosa debba intendersi per “obbligazione potestativa”, visto che la tradizione dottrinale ha tramandato piuttosto un “diritto potestativo”, mentre non si hanno notizie di una configurazione in senso “potestativo” di una situazione giuridica soggettiva passiva; a ciò si aggiunge il dubbio – di non poco conto – su una “obbligazione” – e dunque una situazione facente capo al debitore – situata, però, “ex parte creditoris”; infine, a tutto voler concedere, sembra irrisolto il nodo di fondo, vale a dire il perché di tale peculiare “obbligazione potestativa”.
[5] ) Proprio sul fronte della più efficace tutela dell’interesse del creditore si è cimentata la migliore dottrina, che ha intravisto nella garanzia per vizi predisposta per il committente un esempio da estendere in modo generalizzato (v. Giorgianni, L’inadempimento. Corso di diritto civile, Milano, 1975, 74 ss.): il tema è superato limitatamente ai contratti di vendita di beni di consumo dagli artt. 128 cod. cons.
[6] ) Di Majo, Delle obbligazioni in generale. Art. 1173-1176, Bologna-Roma, 1988, 250 ss., spec. 260 ss.; Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1993,41 ss.
[7] ) Bianca, op. cit.,41.
[8] ) La questione prende le mosse dal rapporto tra “testo” e “contesto” (vale a dire tra elementi emergenti dal testo della dichiarazione interpretanda ed elementi di diversa origine) al fine di ricavare ciò che l’art. 1362 c.c. designa “comune intenzione delle parti”. Dal “testo”, a ben vedere, non sembra potersi prescindere alla stregua dello stesso art. 1362 c.c., che esplicitamente indica nel significante “parole” l’irrinunciabile base di partenza del procedimento ermeneutico. Il problema posto da “in claris non fit interpretatio” consiste precisamente in questo:ci si chiede se, di fronte ad un testo “chiaro”, il giudice debba comunque procedere all’indagine su elementi extratestuali. In proposito, occorre guardarsi da un’eccessiva astrazione teorica: l’obiettivo del giudice è sempre solo quello di ricavare attraverso l’interpretazione un’operazione economica ragionevole. In questa prospettiva, la risposta maggiormente plausibile sembra essere quella che impone al giudice di non trascurare gli elementi extratestuali che in concreto emergano dal processo, quando essi siano tali da porre in dubbio il significato complessivo del testo.
È però necessaria grande cautela prima di ipotizzare un superamento del brocardo in claris non fit interpretatio, come talora prospetta anche dottrina autorevole. Non sono, pertanto, inutili talune precisazioni: il brocardo è certamente decettivo quando pretende che inpresenza di un testo “chiaro” non vi sia spazio per l’interpretazione: infatti, stabilire che un contratto è “chiaro” è comunque la conclusione di un processo di interpretazione; anche la nozione di “testo chiaro” deve essere precisata: è “chiaro” il testo composto da parole, il cui significato restituisce un’operazione economica ragionevole; di fronte ad una tale conclusione il ricorso a significanti extratestuali dovrà condurre ad una conclusione parimenti ragionevole, seppure diversa dalla prima, ma il ricorso a significanti diversi dalle “parole” dovrà essere espressamente giustificato in motivazione; ciò perché “dei segni con i quali comunichiamo tra noi i nostri sentimenti, alcuni riguardano la vista, i più l’udito, ben pochi gli altri sensi … tutti i sensi di tal genere, a confronto con le parole, sono molto pochi, perché gli uomini hanno assegnato in primo luogo alle parole il compito di significare tutto ciò che meditano in cuor loro, se hanno intenzione di comunicarlo” (Agostino D’Ippona, De doctrina christiana Libri Quatuor, II, I, I, II, 3, III, 4); il risultato dell’interpretazione, anche nell’ipotesi del testo “chiaro”, non è mai “la comune intenzione delle parti”, la quale tanto poco è configurabile, che le parti medesime propongono versioni diverse del testo da loro condiviso al momento della conclusione del contratto: l’interpretazione del giudice, pertanto, non può inseguire una impalpabile “volontà comune”, ma, come ammoniva Betti, è sempre frutto dello “spirito” dell’interprete, ossia di un’operazione intellettuale del giudice stesso.
[9] ) Infatti, “la disposizione di cui all'art. 1664 c.c.(relativa alla revisione del prezzo del contratto di appalto), senz'altro applicabile anche agli appalti pubblici, non ha carattere vincolante per le parti, le quali, pertanto, possono legittimamente derogarvi, con la conseguenza che, in caso di contrasto tra esse circa la reale portata delle clausole contrattuali sul punto della applicabilità o meno della norma de qua, è demandato al giudice di merito, al fine di accertare la reale volontà dei contraenti (se abbiano, cioè, voluto o meno escludere la revisione del prezzo del contratto di appalto), il compito di ricostruirne il comune intento negoziale avvalendosi dei comuni criteri di ermeneutica contrattuale, a partire da quello collegato all'elemento letterale delle clausole negoziali, considerando, all'uopo, che l'intento di derogare alla norma contenuta nell’art. 1664 c.c. non richiede l'uso di particolari espressioni formali, potendo per converso risultare, oltre che da una clausola espressa, anche dall'intero assetto negoziale nel suo complesso (nella specie, la suprema corte ha ritenuto che correttamente il giudice di merito avesse accertato la deroga convenzionale in esame, con riferimento ad un contratto di appalto avente ad oggetto la costruzione di una strada, per aver l'appaltatore assunto il c.d. rischio geologico, inerente la possibilità che fosse necessario estrarre un quantitativo di roccia da mina eccedente quello previsto nel progetto, e ciò in ragione della previsione contrattuale per la quale i prezzi sarebbero rimasti «fissi ed invariabili per qualsiasi eventualità” (Cass. 6 marzo 2018, n. 5267). Analoga efficacia è stata riconosciuta alle parole, secondo le quali il corrispettivo non sarebbe mutato “in nessun caso e per nessuna ragione” (Cass. 20 aprile 2020, n. 7946). Come si vede, non si tratta di clausole contenenti specifici riferimenti all’art. 1664 c.c. e alle ipotesi da esso disciplinate: con ciò si delinea un non perfetto allineamento tra la giurisprudenza e quella dottrina, secondo la quale la rinunzia dell’appaltatore alla disciplina ex art. 1664 c.c. non potrebbe desumersi da clausole generiche, ma solo da clausole in cui tale rinuncia sia ben precisa e specifica: ciò all’evidente fine di evitare che l’appaltatore resti vittima di una clausola “a sorpresa”, di cui non aveva ponderato le possibili conseguenze (Rubino, Iudica, op. cit., 325). Quest’ultima opinione potrebbe essere superata dalla considerazione per la natura professionale dell’appaltatore, che dovrebbe deporre nel senso dell’ardua configurabilità di una effettiva “sorpresa” di quest’ultimo di fronte a clausole del tipo preso in esame dalla giurisprudenza prima ricordata.
Non è inutile rammentare che l’eventuale esclusione pattizia della applicazione dell’art. 1664 c.c. non rende il contratto in concreto concluso un contratto aleatorio: v’è solo un incremento del rischio economico dell’appaltatore. V. infatti Cass. 21 febbraio 2014, n. 4198, secondo cui “la clausola con la quale si escluda, in deroga all'art. 1664 c.c., il diritto dell'appaltatore a ulteriore compenso per le difficoltà impreviste incontrate nell'esecuzione dell'opera (cosiddetto appalto a forfait) non comporta alcuna alterazione della struttura ovvero della funzione dell'appalto, nel senso di renderlo un contratto aleatorio, ma solo un ulteriore allargamento del rischio, senza che questo, pur così ulteriormente allargato, esorbiti dall'alea normale del tipo contrattuale”.
[10] ) Cass. 16 novembre 2017, n. 27258: “ove facciano difetto circostanze di fatto atte a dimostrare che il committente si sia riservato l'organizzazione e la divisione del lavoro e degli strumenti tecnici, assumendo, quindi, il rischio del conseguimento del risultato ripromessosi, la qualità di imprenditore del soggetto cui sia stata affidata l'esecuzione di un'opera o di un servizio fa presumere che le parti abbiano inteso stipulare un contratto d'appalto e non di opera(nella specie, la suprema corte ha confermato la sentenza impugnata, la quale, muovendo dall'importanza dell'opera commissionata– riguardante l'impermeabilizzazione dei lastrici solari di copertura di un fabbricato condominiale – e tenendo conto del fatto che questa era stata affidata ad una ditta specializzata, aveva ritenuto che la sua esecuzione presupponesse un'organizzazione di impresa tale da ricondurre il contratto alla figura dell'appalto)”.
[11] ) Rubino, Iudica, op. cit., 46, dove non si manca di sottolineare le rilevanti conseguenze dell’una o dell’altra qualificazione per quanto riguarda il rischio della distruzione della cosa, il recesso, la disciplina dei vizi e della “rovina” o dei “gravi difetti” ex art. 1669 c.c.
[12] ) v. ad es. Cass. 15 giugno 2018, n. 15732: “L'obbligo di diligenza qualificata gravante sull'appaltatore, ai sensi dell'art. 1176, 2° comma, c.c., si estrinseca nell'adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili in relazione alla natura dell'attività esercitata, comprese le competenze tecniche funzionali al controllo ed alla correzione degli eventuali errori del progetto fornitogli dal committente, e tale obbligo è ancora più rigoroso qualora l'appaltatore svolga anche i compiti di ingegnere progettista e di direttore dei lavori, essendo in tal caso tenuto, in presenza di situazioni rivelatrici di possibili fattori di rischio, ad eseguire anche gli opportuni interventi per accertarne la causa e ad apprestare i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera priva di difetti costruttivi”.
La qualità di soggetto professionale dell’appaltatore incide anche sull’ipotesi in cui la materia sia fornita dal committente: “L'appaltatore risponde dei difetti dell'opera quando accetti senza riserve i materiali fornitigli dal committente, sebbene questi presentino vizi o difformità riconoscibili da un tecnico dell'arte o non siano adatti all'opera da eseguire ed i difetti denunziati dal committente derivino da quei vizi o da quella inidoneità” (Cass. 14 gennaio 2010, n. 470). In questi casi le sue speranze sono affidate ad una non semplice causa verso i fornitori: “In tema di appalto, l'appaltatore si trova, rispetto ai materiali acquistati presso terzi e messi in opera in esecuzione del contratto, in una posizione analoga a quella dell'acquirente successivo nell'ipotesi della c.d. «vendita a catena», potendosi, conseguentemente, configurare, in suo favore, due distinte fattispecie di azioni risarcitorie: quella contrattuale relativa ai danni propriamente connessi all'inadempimento in ragione del vincolo negoziale, deducibili con l'azione contrattuale ex art. 1494, 2° comma, c.c. relativa alla compravendita (corrispondente, per l'appalto, a quella ex art. 1668 c.c.), e quella extracontrattuale per essere tenuto indenne di quanto versato al committente ex art. 1669 c.c. in ragione dei danni sofferti per i vizi dei materiali posti in opera” (Cass. 21 maggio 2020, n. 9374).
[13] ) In questa sede non è possibile dedicare al tema lo spazio che meriterebbe: parte della dottrina (v. ad es. Pennasilico, Il corrispettivo, in Cuffaro (cur.), I contratti di appalto privato, Milanofiori, 2011, 121 ss., 151, ivi cit. ulteriori)sembra perplessa di fronte alla propensione a porre a carico dell’appaltatore le sopravvenienze negative attraverso un’interpretazione restrittiva soprattutto degli artt. 1664 e 1660 c.c.; al contrario, potrebbe ritenersi che il rilievo assegnato alla qualità imprenditoriale dell’appaltatore (ricavabile dall’art. 1655 c.c.), e la connessa presunzione della maggiore competenza professionale di questo, pongano le premesse per una conferma del principio generale dell’intangibilità del corrispettivo, con le relative conseguenze in caso di sopravvenienze: v. ad es. in proposito Cass. 26 febbraio 2020, n. 5144, secondo cui “nell'appalto, sia pubblico che privato, rientra tra gli obblighi dell'appaltatore, senza necessità di una specifica pattuizione, il controllo della validità tecnica del progetto fornito dal committente, anche in relazione alle caratteristiche del suolo su cui l'opera deve sorgere, posto che dalla corretta progettazione, oltre che dall'esecuzione dell'opera, dipende il risultato promesso, sicché la scoperta in corso d'opera di peculiarità geologiche del terreno tali da impedire l'esecuzione dei lavori, non può essere invocata dall'appaltatore per esimersi dall'obbligo di accertare le caratteristiche idrogeologiche del terreno sul quale l'opera deve essere realizzata e per pretendere una dilazione o un indennizzo, essendo egli tenuto a sopportare i maggiori oneri derivanti dalla ulteriore durata dei lavori, restando la sua responsabilità esclusa solo se le condizioni geologiche non siano accertabili con l'ausilio di strumenti, conoscenze e procedure normali”.
[14] ) M. Weber, Storia economica. Linee di una storia universale dell’economia e della società, ed. it., Roma, 1993, 244.
[15] ) Ed infatti la soluzione del conflitto indicato nel testo, dalla evidente matrice politico-sociale, costituisce, a mio parere, la ratio di fondo di Cass. 27 novembre 2018, n. 30703, secondo cui “il contratto di appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia è nullo, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., avendo un oggetto illecito per violazione di norme imperative in materia urbanistica con la conseguenza che tale nullità, una volta verificatasi, impedisce sin dall'origine al contratto di produrre gli effetti suoi propri e ne impedisce anche la convalida ai sensi dell'art. 1423 cod. civ. (Cass. n. 4015 del 2007; cfr. anche Cass. n. 21475 del 2013; Cass. n. 21398 del 2013; Cass. n. 20301 del 2012)”. In quella occasione, la cassazione ha, altresì, stabilito che “in tema di contratti di appalto aventi ad oggetto la costruzione di immobili eseguiti in difformità rispetto alla concessione edilizia, occorre distinguere a seconda che tale difformità sia totale o parziale: nel primo caso (art. 7 della legge28 febbraio 1985, n. 47) - che si verifica quando è stato realizzato un edificio radicalmente diverso per caratteristiche tipologiche e volumetrie- l'opera è da equiparare a quella costruita in assenza di concessione, con la conseguenza che il relativo contratto di appalto è nullo per illiceità dell'oggetto e violazione delle norme imperative in materia urbanistica; detta nullità, invece, non sussiste nel secondo caso (art. 12 della legge n. 4 7 del 1985), che si verifica quando la modifica concerne parti non essenziali del progetto(Cass. n. 2187 del 2011)”.
In questi casi le conseguenze per l’appaltatore sono gravi (Cass. 20 aprile 2016, n. 7961:“Il contratto di appalto per la costruzione di un'opera senza la concessione edilizia è nullo, ai sensi degli art. 1346 e 1418 c.c., per illiceità dell'oggetto, sicché non è suscettibile di convalida stante il disposto di cui all'art. 1423 c.c., né tale nullità è sanabile retroattivamente in virtù di condono edilizio, onde l'appaltatore non può pretendere, in forza di quel contratto, il corrispettivo pattuito (nella specie, si trattava di un contratto di appalto per la realizzazione delle coperture gemelle di due piscine, preceduto dalla consegna e contestuale sospensione dei lavori, poi ripresi e definitivamente sospesi dopo la stipula, per assenza di concessione edilizia”), anche se può talora contare sulla tutela ex art. 2041 c.c. (Cass. 2 aprile 2009, n. 8040: “Poiché la funzione dell'azione di indebito arricchimento è l'eliminazione di uno squilibrio determinatosi senza giusta causa, a seguito del conseguimento di una utilità economica da parte di un soggetto con relativa diminuzione patrimoniale di un altro soggetto, l'esercizio della stessa non trova impedimento - bensì giustificazione - nell'accertamento della non proponibilità dell'azione contrattuale derivante dalla nullità del titolo che ne costituisce il fondamento; ne consegue che tale azione può essere proposta dall'appaltatore che non abbia ricevuto, in tutto o in parte, il corrispettivo pattuito a causa della nullità del contratto di appalto avente ad oggetto la realizzazione di un'opera senza la prescritta concessione edilizia, non potendosi escludere la locupletazione del committente in ragione della precarietà del suo diritto dominicale sull'immobile abusivamente costruito, cioè della possibilità di provvedimenti autoritativi di demolizione dello stesso, dovendosi comunque tener conto dell'impiego che egli ne abbia eventualmente fatto nonostante quella precarietà e delle utilità economiche che ne abbia ricavato”).
[16] ) Gallo, Il contratto2, Torino, 2022, 616 ss.
[17] ) Roppo, Il contratto2, Milano,2011, 441.
[18] ) Relazione al Re, Libro IV, n. 624, 136.
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