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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 24/01/2009 Scarica PDF
Il contratto di intermediazione mobiliare tra teoria economica e categorie civilistiche (prime riflessioni)
Gioacchino La Rocca, Professore ordinario di diritto civile nell'Università di Milano Bicocca1. - Come noto
le sentenze della Corte di Cassazione a sezioni unite n. 26724 e n. 26725 del
19 dicembre 2007 (il cui testo può leggersi anche in questo sito), - quelle che
un'autorevole dottrina ha designato le "sentenze Rordorf" con
riferimento al loro estensore - hanno stabilito che la violazione, da parte
dell'intermediario finanziario, degli obblighi di informazione e di corretta
esecuzione delle operazioni posti a suo carico, può dar luogo a responsabilità
precontrattuale o contrattuale a seconda delle circostanze e non si traduce
nella nullità del contratto, con la conseguenza che il risparmiatore, che non
ha di fatto fruito del servizio garantitogli dalla legge per il tramite
dell'intermediario, può ottenere il risarcimento del danno e non direttamente
la restituzione delle somme investite.
L'importanza delle sentenze sopra richiamate, peraltro, trascende il loro - pur
pesante: v. infra n. 14 - riflesso concreto appena posto in luce. Le sezioni
unite, infatti, non si limitano a ribadire la tradizionale dicotomia del
diritto contrattuale tra regole di condotta e regole di validità (secondo il
noto assunto per il quale "i doveri di comportamento in generale sono
troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter
assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei
rapporti impone di verificare secondo regole predefinite": cfr. D'AMICO,
Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in
Riv. dir. civ., 2002, I, 37 SS.; e v. ulteriori riferimenti in SCODITTI, Regole
di condotta e regole di validità nei contratti su strumenti finanziari: la
questione alle sezioni unite, Foro it., 2007, I, 2094; MAFFEIS, Discipline
preventive nei servizi di investimento: le sezioni unite e la notte (degli
investitori) in cui tutte le vacche sono nere, in I contratti, 2008, 403 ss.,
406), ma compiono un'operazione ulteriore meritevole della massima attenzione,
dal momento che iscrivono queste loro scelte all'interno di un'indicazione di
natura sistematica ben precisa.
Con la loro decisione, invero, le sezioni unite stabiliscono che ai contratti
conclusi nel mercato finanziario si applica "il sistema del codice
civile" (v. letteralmente par. 1.6 delle sentenze gemelle).
Per cogliere l'importanza di questa scelta di indirizzo è sufficiente
rammentare che il dubbio in ordine all'utile esperibilità nel mercato
finanziario di principi e regole del diritto contrattuale fissato nel codice
civile emerse già all'indomani dell'entrata in vigore dei primissimi
provvedimenti legislativi aventi ad oggetto il mercato mobiliare (e
precisamente dopo le modifiche apportate nel 1985 alla l. 7 giugno 1974, n.
216). Più precisamente, sul cadere degli anni ottanta il dubbio fu posto da chi
fece osservare come la novità delle operazioni condotte sul mercato mobiliare,
la continua creazione di nuovi "prodotti" e di nuove "forme di
intermediazione finanziaria" imponesse a dottrina e giurisprudenza di
"verificare la compatibilità dei principi di diritto comune con la
disciplina speciale e la possibilità tecnica di colmare le lacune di una
legislazione frammentaria con il ricorso a principi di diritto comune"
(ALPA, Una nozione pericolosa: il c.d. "contratto di investimento",
in I valori mobiliari, a cura di Alpa, Padova, 1991, 393 s., da cui sono tratte
le parole tra virgolette nel testo; INZITARI, Vigilanza e correttezza nelle
attività di intermediazione mobiliare, in L'intermediazione mobiliare, a cura
di Mazzamuto e Terranova, Napoli, 1993, 131 ss.; e v. anche MERUSI, Interessi e
fini nei controlli sugli intermediari finanziari, in Banca, borsa, tit.
credito, 1989, I, 169 ss., 181).
Ai dubbi manifestati da alcuni si contrapposero le sicurezze di altri, che
negarono decisamente che i contratti conclusi nei mercati finanziari
costituissero un "microsettore" a sé dell'ordinamento, con la
conseguenza che, secondo questo orientamento, ben si sarebbero potute estendere
a tali contratti gli schemi, le regole e i principi ricevuti dalla tradizione
civilistica e fissati nel codice civile (CARBONETTI, I contratti di
intermediazione mobiliare, Milano, 1992, 18). In questa direzione, anzi, si è ritenuto
di poter assegnare un ruolo di primaria importanza al "diritto privato
comune". Quest'ultimo, quale insieme di tecniche e regole sperimentate,
sarebbe in grado di guidare il giudizio critico dell'interprete in ordine alla
disciplina speciale del mercato mobiliare. Il "diritto privato
comune" potrebbe operare in tal senso, secondo la dottrina ora riferita,
in virtù del fatto di essere "vecchio dell'esperienza di secoli"
(IRTI, Notazioni esegetiche sulla vendita a domicilio di valori mobiliari, in
AA. VV. Il sistema finanziario ed i controlli: dall'impresa al mercato, Milano,
1986, 103 ss., 114).
È inutile dire che posizioni parimenti contrastanti si riscontrano nelle
analisi più recenti tra chi ha osservato come "il complesso delle norme
che disciplina le operazioni finanziarie ... appaiono suscettibili di una
considerazione distinta rispetto a quelle integranti lo statuto normativo di
operazioni di scambio di beni diversi dai prodotti finanziari, ovvero dalla
prestazione di servizi diversi da quelli di investimento" (GUIZZI, Mercato
finanziario, voce dell'Enc. dir., Aggiornamento, V, Milano, 2001, 744 ss., 747)
e chi, invece, - al pari delle stesse sezioni unite - ha ricondotto la
prestazione dei servizi di investimento (e più precisamente l'esecuzione di
ordini, la negoziazione) all'interno di una figura codicistica ben precisa
quale è il mandato (GALGANO, I contratti di investimento e gli ordini
dell'investitore all'intermediario, in Contratto e impresa, 2005, 889 ss.).
2. - A fronte di opinioni tanto diverse la scelta di cercare nel codice civile
le regole utili a risolvere i problemi posti dai contratti conclusi tra
risparmiatori ed intermediari finanziari non sembra poter prescindere da una
analisi del contesto di mercato nel quale tali contratti hanno luogo. A tal
fine è, innanzi tutto, opportuno rammentare alcuni capisaldi essenziali del diritto
contrattuale fissato nel codice.
È rilievo ormai ripetuto da decenni quello secondo il quale il codice civile
muove dal presupposto della parità delle parti, la quale, a sua volta, è
intrinsecamente connessa con la nozione di "soggetto di diritto",
ossia con un preciso assunto politico ideologico tendente ad escludere la
rilevanza giuridica delle condizioni personali di ciascuna parte contrattuale
(cfr. BARCELLONA, Diritto privato e società moderna, con la collaborazione di
CAMARDI, Napoli, 1996; GALGANO, Fonti e sistema, in Scienza e insegnamento del
diritto civile in Italia, a cura di SCALISI, Milano, 2004, 61 ss.; VETTORI,
Libertà di contratto e disparità di potere, in Riv. Dir. priv., 2005, 743 ss.,
cui si rinvia anche per citt.). In questa prospettiva, ciascun "soggetto
di diritto" è dotato di capacità di agire pressoché illimitata, ossia
ciascun "soggetto di diritto", formalmente dotato di capacità di
agire, è postulato come perfettamente in grado di valutare e gestire i suoi
interessi, con la conseguenza che le sue scelte sono sostanzialmente
insindacabili sia dai terzi, sia dall'ordinamento.
Questi presupposti di fondo da cui muove il codice civile nel disciplinare gli
"atti", le condotte dei soggetti nel mercato, acquistano una
particolare coloritura quando si tenga conto di un'ulteriore circostanza
connessa alla unificazione dei codici avvenuta nel 1942. Si è a lungo disputato
in dottrina se l'intervenuta fusione di codice civile e codice di commercio
abbia travolto o meno la distinzione tra contratti commerciali e contratti
civili: non è questo il punto che precisamente qui interessa. Quel che di
quegli approfondimenti qui rileva è che tutti gli studiosi intervenuti dal 1940
(Asquini) agli anni 2000 (Oppo, G. Cian) sono concordi nell'affermare che il
"soggetto", la "parte contrattuale" tenuta a modello dal
legislatore del 1942 fu l'imprenditore, ossia un soggetto che per l'attività
professionale svolta non può che essere particolarmente avvertito, sotto ogni
profilo e nel senso più ampio del termine, in ordine al contratto concluso o da
concludere (cfr. OPPO, Principi, in Trattato di diritto commerciale, diretto da
Buonocore, Torino, 2001, I, 1, 60 ss).
Su queste premesse ben si comprende come l'impianto codicistico riservi
all'ordinamento il compito di salvaguardare nel modo più ampio possibile i
contratti ed il loro contenuto in quanto espressione della libertà personale ed
economica del "soggetto di diritto". In questo quadro, i casi di
nullità del contratto sono limitati alle ipotesi in cui la determinazione del
soggetto - la sua condotta nel mercato - non abbia i requisiti espressamente richiesti
dalla legge per assumere rilevanza giuridica, ovvero il contratto sia
espressamente vietato. I casi di annullabilità, dal canto loro, sono chiamati a
comporre il delicato equilibrio tra salvaguardia del processo di formazione
della volontà ed affidamento della controparte.
Il ricordato schema di base del diritto contrattuale fissato nel codice civile
si riflette in modo sensibile sulla dimensione degli obblighi di correttezza e
buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.
Nel quadro del codice civile, infatti, correttezza e buona fede sono intese
come strumenti di salvaguardia dell'interesse della controparte. Già in questa
(pacifica) declinazione degli obblighi codicistici di correttezza e buona fede
si intravede un primo loro limite: ciascuna parte non è tenuta a individuare e
perseguire gli interessi della controparte; essa può e deve solo salvaguardare
(ossia non compromettere) gli interessi della controparte così come
quest'ultima li ha individuati e palesati.
Questo primo limite - occorre aggiungere - è una diretta conseguenza del
ricordato postulato della piena capacità di agire riconosciuta di regola a
ciascun soggetto: l'apprezzamento ed il perseguimento degli interessi è
lasciato alla discrezionalità sostanzialmente insindacabile del titolare degli
stessi. La controparte di quest'ultimo soggetto può e deve solo salvaguardare
gli interessi stessi nei limiti in cui ne ha consapevolezza.
L'obbligo nascente dagli artt. 1175 e 1375 c.c. soffre, poi, di un secondo
limite: ciascuna parte, infatti, è tenuta a salvaguardare gli interessi della
controparte non oltre il limite segnato dal sacrificio dell'interesse proprio:
circostanza, questa, che affiora già nel momento in cui una parte, al fine di
conservare l'interesse della controparte, debba affrontare costi che non può
ribaltare sulla controparte stessa.
In altre parole, proprio perché si postula che ciascuna parte sia in grado di
valutare, proteggere e perseguire i propri interessi in modo assolutamente
autonomo ed insindacabile, gli obblighi di protezione posti a carico della
controparte non possono che essere limitati e residuali.
La conferma del carattere sostanzialmente negativo degli obblighi riportabili
alla clausola di correttezza e buona fede, di "rispetto", di
"protezione" dell'interesse della controparte, può intravedersi nelle
ricorrenti indicazioni dottrinarie tendenti ad individuare la buona fede
contrattuale come terreno di frontiera con la responsabilità civile (v. ad es.
già RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, rist. 2004, 158
ss., 203 s. e ivi citt.; MONATERI, Ripensare il contratto: verso una visione
antagonista del contratto, in Riv. Dir. Civ., 2003, I, 409 ss.).
La matrice di fondo degli stringenti limiti imposti agli obblighi di
salvaguardia dell'interessi altrui ex artt. 1175 e 1375 c.c. è politico
ideologica ed economica.
Invero, per quanto riguarda l'aspetto politico ideologico, consentire, anzi,
obbligare un qualsiasi soggetto a curare e perseguire gli interessi altrui
invito domino, equivarrebbe ad assegnare a tale soggetto un potere di ingerenza
negli affari del soggetto "protetto". Sennonché, tale potere di
ingerenza è in diretto contrasto con gli assunti dell'eguaglianza delle parti,
della piena capacità di agire, della soggettività pleno jure di ogni soggetto
di diritto e, dunque, anche del soggetto che si vorrebbe proteggere.
Per altro verso, porre a carico di un soggetto l'obbligo di perseguire gli
interessi di un secondo soggetto significa, nell'ottica del codice, porre a
carico del primo costi che il secondo soggetto rifiuta di assumersi pur essendo
perfettamente in grado di farlo. Anche questa è una diretta conseguenza del
postulato della parità delle parti: se le parti di ogni contratto sono eguali,
non v'è nessun motivo di far gravare su una di loro costi per la protezione
degli interessi della controparte, quando quest'ultima non ha ritenuto di
affrontare quegli stessi costi per meglio presiedere ai propri interessi.
3. - Proprio il suddetto postulato teorico di piena idoneità del "soggetto
di diritto" alla cura dei propri interessi, è infranto nel diritto privato
del mercato finanziario.
Il diritto privato del mercato finanziario, infatti, è chiamato a regolare
rapporti in un mercato caratterizzato dalla pacifica inoperatività del
principio della parità delle parti, tanto che l'inadeguatezza del "diritto
privato generale" - per l'appunto in quanto improntato al principio di
parità delle parti - a disciplinare i contratti conclusi nel mercato
finanziario è avvertita anche in altri ordinamenti: v. ad es. MACNEIL, An
introduction to the law on financial investment, Oxford - Portland, 2005, 20;
H-Y CHIU, The nature of a financial investment intermediary's duty to his
client, in Legal Studies, vol. 28, n. 2, 2008, 254 ss.; e v. le indicazioni
ulteriori riportate da ALPA, Gli obblighi informativi precontrattuali nei
contratti di investimento finanziario. Per l'armonizzazione dei modelli
regolatori e per la unificazione delle regole di comune, in Contratto e
Impresa, 2008, 889 ss., spec. 903 ss.
Anzi, la peculiare asimmetria di informazioni e di situazione giuridica
riveniente dal contratto concluso dal risparmiatore è tale che in essa ormai è
comunemente radicata l'esistenza degli intermediari finanziari. Questi ultimi -
si afferma - in tanto rispondono ad una logica economica, così giustificando la
riserva ad essi di determinate attività economiche di intermediazione, in
quanto essi "assistano" i risparmiatori, vale a dire
"assistano" i soggetti meno informati (e quindi maggiormente esposti
a forme di opportunismo contrattuale ad opera dei prenditori dei fondi) a
scegliere e monitorare i loro investimenti (v. ad esempio FORESTIERI, MOTTURA,
Il sistema finanziario. Istituzioni, mercati e modelli di intermediazione3,
Milano, 2002, 227 ss.; BAGLIONI, Il ruolo del risparmio gestito: teoria ed
evidenza empirica, in BANFI, DI BATTISTA (cur.), Tendenze e prospettive del
risparmio gestito, Bologna, 1998, 17 ss.; LANDI, ONADO, La funzione del sistema
finanziario e delle banche, in ONADO (cur.), La banca come impresa. Manuale di
gestione bancaria, Bologna, 1996, 17 ss., spec. 35).
La teoria economica degli ultimi decenni è assolutamente univoca
nell'individuare la principale ragion d'essere degli intermediari finanziari
nel mercato mobiliare nel fatto di rendere possibile un momento cruciale del
sistema economico contemporaneo, vale a dire il trasferimento delle risorse
finanziarie dai risparmiatori al sistema delle imprese o al sistema pubblico.
In particolare, il ruolo primario degli intermediari è individuato nella
fornitura alla clientela di servizi di informazioni e di "assistenza"
nella allocazione del risparmio verso gli investimenti migliori o più adatti al
singolo cliente.
4. - La traduzione normativa di questi (assolutamente pacifici) postulati si
rinveniva già nell'art. 61, lett. a, l. sim, laddove imponeva agli intermediari
finanziari "di comportarsi con diligenza, correttezza e professionalità
nella cura dell'interesse del cliente". Quegli stessi postulati hanno poi
orientato in modo decisivo la formulazione delle disposizioni che si sono
susseguite nel tempo fino ai giorni nostri ad ogni livello: v. art. 11, dir.
93/22/CE; art. 17, lett. a, d. lgs. 23 luglio 1996, n. 415; art. 21, lett. a,
tuf; art. 39, dir. 2004/39/CE (nel senso che la disciplina introdotta in Gran
Bretagna dal FSMA del 2000 miri a limitare il rischio sistemico e l'asimmetria
informativa a danno degli investitori v. MACNEIL, op. cit., 20).
Quanto si è appena detto rende ragione del perché la locuzione storicamente
presente in tutte le disposizioni sopra richiamate ("cura dell'interesse
del cliente", "servire al meglio gli interessi dei clienti")
doveva e deve essere interpretata nel senso che nello svolgimento dei servizi
di investimento ed accessori gli intermediari sono tenuti, non già ad un
generico "dovere di protezione", ma a perseguire gli interessi del
cliente ponendo al suo servizio tutta la loro professionalità.
Sul punto la Mifid è intervenuta ad evidenziare un aspetto che già si deduceva
con chiarezza anche nel testo preesistente: gli intermediari finanziari non
possono limitarsi a "proteggere" il risparmiatore, ma devono
"servire al meglio gli interessi" di quest'ultimo (v. testualmente
l'art. 21 lett. a t.u. della finanza novellato).
La specificità di questa disposizione - si diceva - prende le mosse dalla
constatazione che nel mercato finanziario la parità delle parti non sussiste,
con la conseguenza che inevitabili ombre si proiettano su quei corollari che
sono radicati proprio nella parità delle parti: tra tali corollari vi è anche
la doppia equazione "violazione regole di condotta = risarcimento del
danno", "violazione regole di validità = nullità".
5. - Si apre a questo punto per il giurista un dilemma assai grave e delicato:
confermare insegnamenti ripetuti (quale, per l'appunto, quello appena ricordato
relativo alla dicotomia tra regole di condotta e regole di validità), oppure no
?
Da un lato, si avverte la necessità di garantire la continuità - e dunque la
saldezza - del sistema. È un'esigenza essenziale, che lambisce lo stesso valore
della certezza del diritto. Queste preoccupazioni si intravedono chiaramente
nei richiami alla salvaguardia delle categorie civilistiche che anche in tempi
recenti la dottrina non ha fatto mancare (v. ad es. COTTINO, Una giurisprudenza
in bilico: i casi Cirio, Parmalat, bonds argentini, in Giur. It., 2006, 536
ss.; LUCCHINI GUASTALLA, Violazione degli obblighi di condotta e responsabilità
degli intermediari, in Resp. Civ. prev., 2008, 741 ss.).
Dall'altro lato, vi è chi rammenta la storicità dei concetti giuridici e degli
schemi argomentativi utilizzati dai giuristi. Non si tratta di verità astoriche
consegnate dalla scienza all'eternità una volta per tutte. Al contrario - si
aggiunge - i concetti giuridici sono storicamente determinati, sintesi di
determinati assetti di interessi, i quali, a loro volta, sono ordinati secondo
le valutazioni sociopolitiche prevalenti in un determinato contesto storico
(cfr., ad es., TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e
codificazione del diritto, Bologna, 1976 (rist. 1993), 15 ss.; ORESTANO,
Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna, 1987, 270 ss.; già nel
1934, lo stesso KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, ed. it.
Torino, 1970, passim, ma spec. 80 ss., aveva ben chiare la storicità e la
valenza politica di concetti quali quelli di "diritto soggettivo" e
di "soggetto di diritto"; e v. ancor recentemente BUONOCORE,
Principio di uguaglianza e diritto commerciale, in Giur. Comm., 2008, I, 551
ss., 576). Oltre venticinque anni fa si scriveva che "rubando un modo
idiomatico ai tedeschi, si può dire che ormai anche i passeri fischiano dai
tetti contro il postulato positivistico della neutralità assiologia della
scienza" (MENGONI, Ancora sul metodo giuridico (1983), ora in Diritto e
valori, Bologna, 1985, 79 ss., 80).
La consapevolezza della storicità delle dottrine giuridiche e dei loro assiomi
affiorò nella giurisprudenza nordamericana almeno fin dalla ormai remota
Henningsen v. Bloomfields Motors Inc., Supreme Court of New Jersey, 161 A2d 69
(NJ 1960). In quella occasione i giudici del New Jersey tennero ben presente
che le "legal doctrines" si dimostrano spesso inadeguate alla stregua
dell'esperienza storica successiva alla loro formazione.
Rileggere Henningsen è utile per misurare sia la distanza che separa la giurisprudenza
americana del 1960 dalla giurisprudenza italiana del 2007, sia la necessità di
una giurisprudenza non dogmatica. In questa prospettiva sembrano doversi
leggere gli inviti ad evitare posizioni "ontologiche" (DOLMETTA, La
violazione di "obblighi di fattispecie" da parte di intermediari
finanziari", in I contratti, 2008, 80 ss.), della cui utilità al fine
della soluzione dei singoli casi concreti si dubita (ROPPO, La nullità virtuale
del contratto dopo la sentenza "Rordorf", in Danno e responsabilità,
2008, 536). Infatti - si sottolinea - "il problema non è tanto quello di
salvaguardare la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità,
quanto di offrire al risparmiatore i rimedi - uniformi - più convenienti"
(ALPA, op. ult. cit., 913).
6. - I contributi appena ricordati ci restituiscono il problema nelle sue
effettive dimensioni: fino a che punto le categorie ordinanti del codice
civile, gli assetti di interessi sottesi nelle concettualizzazioni giuridiche
tradizionali sono utili alla tutela degli interessi fondamentali del sistema
economico, ossia gli interessi dei risparmiatori, che sono, poi, i finanziatori
ultimi del sistema?
L'interesse alla tutela dei risparmiatori - quello che l'art. 21 lett. tuf
denomina "interesse dei clienti" e l'art. 47 cost. "tutela del
risparmio" - è strettamente collegato ad altri aspetti parimenti apicali,
vale a dire l'efficienza complessiva del sistema e la "integrità" del
mercato.
Quanto al primo spetto (l'efficienza del sistema) occorre tener conto che da
tempo sono stati redatti studi volti a misurare il grado di protezione legale
degli investitori nei singoli ordinamenti nazionali, comparandolo con lo
sviluppo dei mercati e la valorizzazione delle imprese (alludo ai noti studi di
LA PORTA, LOPEZ.-DE-SILANES, SHLEIFER, VISHNY (1997), Legal Determinants of
External Finance, in Journal of Finance, LII, 3, pp. 1131- 1150; LA PORTA,
LOPEZ.-DE-SILANES, SHLEIFER, VISHNY (1998), Law and Finance, in Journal of
Political Economy, 106, pp. 1113-55; LA PORTA, LOPEZ.-DE-SILANES, SHLEIFER
(1999), Corporate ownership around the world, in Journal of Finance, 54, pp.
471-517; LA PORTA, LOPEZ.-DESILANES, SHLEIFER, VISHNY (2000), Investor
protection and corporate governance, in Journal of Financial Economics, 58, pp.
3-27; LA PORTA, LOPEZ.-DE-SILANES, SHLEIFER, VISHNY (2002), Investor protection
and corporate valuation, in Journal of Finance, 57, pp. 1147-1170).
Qui non interessa entrare nel merito di queste classificazioni, che comprendono
ben 49 paesi e che comunque sono discusse e discutibili, quanto piuttosto
segnalare che il rapporto tra intensità della protezione legale
dell'investitore e sviluppo degli investimenti non è un dato da sottovalutare,
in quanto è ormai monitorato e suscettibile di assumere in futuro un rilievo
pratico non di secondo momento.
Per di più si tratta di un tema che interessa gli stessi stati europei soggetti
all'applicazione della Mifid. In proposito, si è rilevato che l'armonizzazione
massima imposta dalla Mifid riguarda i precetti, le regole, non le conseguenze
per la violazione di questi ultimi (MAFFEIS, Sostanza e rigore nella disciplina
Mifid del conflitto di interessi, in www.ilcaso.it), di guisa
che sembra meritevole di attenzione il rilievo secondo il quale una tutela
maggiormente attenta ai risparmiatori possa configurarsi come motivo di
efficienza concorrenziale tra gli ordinamenti in modo da attrarre gli
investitori verso gli ordinamenti nazionali dove sono predisposte per loro
maggiori tutele (v. SARTORI, La (ri)vincita dei rimedi risarcitori: note
critiche a Cassazione, (S.u.) 19 dicembre 2007, n. 26725, in Dir. Fallim.,
2008, I, 1 ss.).
7. - Nel precedente paragrafo si è ricordato che il profilo della tutela degli
investitori non è collegato solo al tema dell'efficienza e della concorrenza
tra ordinamenti. Tale profilo, infatti, è anche strettamente connesso a quello
della "integrità" e del buon funzionamento del mercato.
Il rapporto tra interessi dei clienti ed integrità del mercato è problema
delicato, dal momento che la legge testualmente individua questi due valori
quali obiettivi di fondo della regolazione e dell'azione degli intermediari. È,
dunque, merito della dottrina (COTTINO, La responsabilità degli intermediari
finanziari e il verdetto delle sezioni unite: chiose, considerazioni e un
elogio dei giudici, in Giur. It., 2008, 352 ss., 354, nota 7) e delle stesse
sezioni unite aver attratto l'attenzione sul difficile coordinamento tra
sanzioni riservate ai contratti sul piano civilistico e buon funzionamento,
"integrità" del mercato.
Generalmente l'intersezione tra "interesse dei clienti" ed
"integrità del mercato" è intravista solo indirettamente.
Tuttavia, è opinione di chi scrive che "interesse dei clienti" a
rimedi contrattuali particolarmente efficaci nei loro confronti e
"integrità del mercato" siano meno distanti di quanto comunemente si
pensa.
A favore della loro contiguità sta la nozione di "mercato", quale è
ormai messa a fuoco dalla dottrina: il mercato nasce storicamente quale
strumento per la soddisfazione dei bisogni umani alternativo all'autoproduzione
(SYLOS LABINI, Mercato, voce dell'Enc. Del Novecento, Roma, 1979, IV, 103 ss.)
e si connota per lunghi secoli come luogo fisico nel quale avvengono gli scambi
di una determinata comunità (v. già DAVANZATI, Lezione delle monete e notizia
de' cambi (1588), Torino, 1988, 73; e per esempi meno remoti LIBERTINI, Il
mercato: i modelli di organizzazione, in AA.VV., L'azienda e il mercato, in
Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, diretto da
GALGANO, Padova, 1979, III, 337; FERRARESE, Immagini del mercato, in Stato e
mercato, 1992, 291 ss.). Il mercato, peraltro, conserva tale sua stretta inerenza
all'insieme degli scambi a prescindere dall'evoluzione strutturale subita nel
tempo in virtù del progresso tecnologico: anche il mercato virtuale, realizzato
per il tramite del web, resta comunque luogo preordinato alla conclusione di
contratti.
Si confermano in questa prospettiva rilievi comunemente condivisi non solo
nella dottrina italiana (IRTI, L'ordine giuridico del mercato3, Roma-Bari,
2004; AA.VV., Il dibattito sull'ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1999),
ma anche in quella nordamericana (v. ad es. WILLIAMSON, Le istituzioni
economiche del capitalismo. Imprese, mercati, rapporti contrattuali2 (1986),
trad. it. di N. Negro, Milano, 1992, 109): il mercato è reiterazione di scambi
aventi ad oggetto un determinato bene; le regole che disciplinano questi
scambi, assurgono a regole del mercato; la qualità di tali regole segna la
qualità del mercato.
Si delinea, a questo punto, una conclusione meritevole di attenzione: le regole
di diritto civile applicate dalle corti ai contratti conclusi in un determinato
mercato configurano in modo assolutamente determinante quel mercato ed il grado
di correttezza di quanti vi operano, dal momento che quelle regole segnano il
grado di diligenza richiesto agli operatori e le conseguenze della loro violazione.
Di guisa che tanto maggiore è la severità delle corti nel sanzionare sul piano
civilistico i contratti, quanto maggiore è il presidio esercitato sul
"buon funzionamento" e sulla "integrità" del mercato
medesimo.
Questo è un punto nevralgico, fondamentale per il buon funzionamento del
mercato, tanto che su di esso la dottrina converge inevitabilmente, anche
muovendo da prospettive (solo a prima lettura) diverse. Così, ad esempio, vi è
chi osserva che "trasparenza" - come pure, può aggiungersi,
"integrità del mercato" e "tutela degli investitori" - sono
temi che rischiano di risolversi in "generi letterari" se il relativo
apparato normativo non viene applicato in sede giudiziale nel modo più rigoroso
(CAVAZZUTI, La trasparenza dei mercati finanziari, in Banca Impresa Società,
2004, 419 ss.). Alla medesima conclusione - ossia alla corrispondenza tra
sanzioni civilistiche applicate dai giudici e qualità del mercato - si perviene
ragionando in termini di "segnali" e di "incentivi", che vengono
trasmessi dalle corti al mercato verso pratiche più o meno "virtuose"
(cfr. PARDOLESI, Analisi economica del diritto, voce del Digesto delle
discipline civilistiche, sez. privatistica, I, Torino, 1987, 309 ss., 315).
Il legislatore comunitario non si muove su linee diverse da quelle appena
segnalate. La corrispondenza biunivoca tra "integrità del mercato",
suo sviluppo, e sanzioni civilistiche dei contratti conclusi nel mercato stesso
è confermata dall'art. 11, dir. 2002/65/CE del 23 settembre 2002, sulla commercializzazione
a distanza dei servizi finanziari. Al fine di "consolidare" il
mercato interno, il mercato finanziario e la commercializzazione a distanza dei
servizi ai consumatori/risparmiatori, il legislatore comunitario richiede che
gli stati membri applichino "sanzioni effettive, proporzionate e
dissuasive" ai contratti conclusi dagli intermediari e dai fornitori dei
servizi senza il rispetto degli obblighi informativi previsti dalla direttiva
stessa (v. in proposito anche infra § ).
8. - "Integrità del mercato", "interesse dei clienti", e
disciplina del contratto sono dunque concetti che si implicano e si rafforzano
a vicenda . La loro stretta connessione non sfugge né al legislatore
comunitario, né al legislatore interno. In particolare quest'ultimo con l'art. 21,
lett. a, tuf, dispone che "nella prestazione dei servizi e delle attività
di investimento e accessori i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con
diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l'interesse dei
clienti e per l'integrità dei mercati; ...". La riportata disposizione
conferma che le modalità di conclusione e di esecuzione dei contratti - le
condotte a tal fine rilevanti - attraverso i quali si prestano i servizi di
investimento ed accessori debbono essere preordinati, ad un tempo, alla massima
soddisfazione dei clienti e alla integrità del mercato. Merita particolare
attenzione l'unicità dello strumento (la disciplina del contratto)
espressamente individuato dallo stesso legislatore per la contemporanea
soddisfazione dei due valori apicali dell'interesse del cliente e
dell'integrità del mercato.
Si profila, pertanto, la necessità di piegarsi sulla specificità delle
disposizioni recenti ed in particolare sulla clausola generale dell'art. 21,
lett. a, tuf, onde approfondirne il senso.
Si è già detto che questa disposizione - al pari delle altre che l'hanno
preceduta nel diritto interno e nel diritto comunitario - è diretta espressione
della attuale percezione che degli intermediari finanziari ha la teoria
economica, la quale, a sua volta, muove da un postulato assai diverso da quello
della parità tra "soggetti di diritto", tra parti del contratto. Ed
effettivamente l'obbligo di perseguire al meglio gli interessi del
risparmiatore - sancito nella disposizione citata - sembra adattarsi a fatica
con la configurazione dell'obbligazione comunemente offerta nel diritto privato
generale.
Più precisamente, l'obbligo posto dall'art. 21 lett. a tuf non si esaurisce in
una condotta volta ad eseguire il contenuto di un precedente contratto secondo
la funzione assegnata alla buona fede dall'art. 1375 c.c. Nel caso dell'art. 21
lett. a tuf la condotta dell'intermediario finanziario consiste nel valutare o
nel determinare il contenuto di un contratto futuro, il quale intercorrerà tra
il risparmiatore ed il destinatario finale dell'investimento. L'esito di tale
condotta dell'intermediario sarà, a ben vedere, riflesso nel contenuto dello
"ordine di borsa" che il cliente sottoscriverà (su questo aspetto v.
DOLMETTA, op. cit., 81; LA ROCCA, Autonomia privata e mercato dei capitali. La
nozione civilistica di "strumento finanziario", Torino, 2008, 10).
Di questo futuro contratto tra risparmiatore e destinatario finale
dell'investimento l'intermediario è chiamato a monitorare la rispondenza agli
interessi del risparmiatore: questo è il senso fondamentale da assegnare alla
locuzione secondo la quale gli intermediari debbono "servire al meglio gli
interessi dei clienti" (art. 19, dir. 2004/39/CE; art. 21, lett. a, tuf).
Il contenuto di questo peculiare obbligo non coincide con l'obbligo del
mandatario (si sofferma su questo aspetto MAFFEIS, op. ult. cit., 407).
Precisamente, tra le due situazioni corre la seguente, sensibile differenza:
nel mandato la determinazione degli interessi del mandante e degli atti idonei
a perseguire detti interessi spetta al mandante stesso ed il mandatario è
tenuto a rispettarne le istruzioni con il solo limite rappresentato dalle
eventuali sopravvenienze (artt. 17102 e 1711 c.c.): v. proprio in tema di
ordini di borsa, ma con riferimento a vicende risalenti nel tempo, Cass., 20
dicembre 2005, n. 28260, Foro it., Rep., 2005, voce Borsa, n. 12; Trib. Napoli,
15 ottobre 1996, Banca, borsa,tit. credito, 1998, II, 203.
Al contrario, nell'obbligazione di cui all'art. 21 lett. a t.u. della finanza,
la scelta del tipo di investimento, effettuata dal risparmiatore, non vincola
affatto l'intermediario finanziario, che può e deve astenersi dal dar corso
all'operazione - e, dunque, non concludere il contratto nel quale consiste
l'ordine di borsa (v. infra sub massima n. 7) - se non la ritiene
"adeguata" agli interessi del cliente.
9. - L'ampiezza nella quale deve essere declinata la clausola generale di cui
all'art. 21, lett. a, tuf dopo il recepimento della Mifid, è stata analizzata
nello studio dal titolo Appunti sul contratto relativo alla prestazione del
servizio di "consulenza in materia di investimenti" (art. 1, comma 5,
lett. j d. lgs. n. 58/98), in questo sito ed in uscita su Contratto e impresa,
e ad esso rinvio.
Qui è utile, peraltro, rammentare che la valutazione di "adeguatezza"
deve essere effettuata dall'intermediario anche nelle ipotesi
"raccomandazioni" effettuate dall'intermediario finanziario su sua
iniziativa: condivide un'interpretazione incisiva della locuzione contenuta
nell'art. 21 lett. a tuf, RORDORF, La tutela del risparmiatore: norme nuove,
problemi vecchi, in Le Società, 2008, 269 ss.
Conferma non di secondo piano dell'interpretazione prospettata è il
considerando n. 81 della Dir. 2006/73/CE, dove si legge che "se l'impresa
di investimento fornisce una consulenza generica ad un cliente in merito ad un
tipo di strumento finanziario che essa presenta come adatto per tale cliente,
considerate le sue particolari caratteristiche, e tale consulenza non è in
realtà adeguata per tale cliente o non è basata sulla considerazione delle sue
caratteristiche, in funzione delle circostanze di ciascun caso, è probabile che
tale impresa violi l'articolo 19, paragrafo 1 o 2, della direttiva 2004/39/CE.
In particolare, è probabile che l'impresa che fornisce ad un cliente tale
consulenza violi l'obbligo di cui all'articolo 19, paragrafo 1, di agire in
modo onesto, equo e professionale per servire al meglio gli interessi dei suoi
clienti".
Da questo considerando si trae la conferma di quanto più volte accennato, vale
a dire che la clausola generale di cui al primo comma dell'art. 19 dir. 2004/39
si specifica nella necessità che l'impresa di investimento presenti al
risparmiatore strumenti finanziari adatti alle particolari caratteristiche del
risparmiatore stesso e che tale necessità sussiste non solo nei servizi di
investimento della consulenza e della gestione, ma in ogni caso in cui
l'intermediario assuma l'iniziativa di prospettare al cliente un'opportunità di
investimento. Sul piano sostanziale detta interpretazione equipara la
"raccomandazione" di uno strumento/prodotto finanziario effettuata
dall'intermediario finanziario di sua iniziativa - ad esempio durante
l'espletamento del servizio di collocamento - alla "raccomandazione
personalizzata" effettuata nell'ambito del servizio di consulenza e del
servizio di gestione.
In proposito mette conto precisare che detta equiparazione non è sorretta solo
dalle considerazioni esposte nei paragrafi precedenti e nello studio prima
citato, ma anche da quanto emerge dall'analisi delle dinamiche di mercato, le
quali hanno evidenziato come l'intermediario finanziario svolga sempre un ruolo
decisivo nell'individuazione degli investimenti del cliente (cfr. HAYWARD,
Professional influence: the effects of investment banks on clients' acquisition
financing and performance, in Strat. Mgmt. J., 24, 783-801 (2003); il dato è
confermato da recenti indagini italiane: si vende soprattutto ciò che le reti
di vendita degli intermediari "spingono"): non si può, dunque, porre
a carico del risparmiatore gli oneri ed i rischi connessi ad investimenti, che
non sono stati individuati dallo stesso risparmiatore, ma a quest'ultimo sono
stati proposti da un intermediario finanziario.
In conclusione, la "adeguatezza" dell'operazione di investimento
rispetto al singolo risparmiatore interessato si configura come l'obiettivo che
l'intermediario finanziario doveva e deve proporsi nei seguenti casi: per le
operazioni poste in essere prima del recepimento della Mifid, l'intermediario
doveva valutare l'adeguatezza delle operazioni richieste dal cliente o comunque
effettuate per suo conto in occasione dello svolgimento di un servizio di
investimento o accessorio; per le operazioni poste in essere successivamente al
recepimento della Mifid , l'intermediario deve effettuare il test di
adeguatezza dell'operazione al cliente ogni qualvolta assuma l'iniziativa di
proporre uno strumento finanziario ad un determinato cliente.
Per l'appunto nella evidenziata differenza di disciplina ratione temporis si
misura il concreto arretramento di tutela del risparmiatore determinato
dall'introduzione dalla Mifid in Italia e la fondatezza della denuncie che
finalmente vengono avanzate in proposito: cfr. VITALE, in Ilsole24ore, del 2
novembre 2008, pag. 19.
10. - A questo punto vi è spazio per un'osservazione che, a mio avviso, riveste
un'importanza cruciale: il sistema legislativo è configurato in modo che al
normale risparmiatore, al "cliente non professionale" è inibito
l'accesso ai mercati finanziari regolamentati senza l'ausilio di un
intermediario finanziario.
Il necessitato intervento di quest'ultimo deve assumere - anche questo dato si
ricava dall'osservazione del sistema - i contenuti intravisti nel § 3, dove si
è preso atto che l'intervento che l'intermediario finanziario deve
necessariamente porre in essere a seguito del contratto di intermediazione
mobiliare, è preordinato all'abbattimento dei costi di agenzia, del rischio
sistemico, delle asimmetrie informative che altrimenti graverebbero sui
risparmiatori con intensità tali da inaridirne gli incentivi al risparmio.
L'elemento centrale di questi rilievi - sui quali, a questo punto, non dovrebbe
esservi contestazione - può agevolmente ravvisarsi nella circostanza che
l'intervento degli intermediari finanziari e la "condotta" loro
richiesta dall'ordinamento comunitario e nazionale in esecuzione del contratto
di intermediazione mobiliare, come pure quest'ultimo contratto, sono tutti
configurati in funzione dell'accesso del risparmiatore nel mercato finanziario.
Tutto ciò, peraltro, significa anche che, qualora gli intermediari omettano di
porre in essere la "condotta" loro necessariamente richiesta dalla
legge, tanto gli intermediari medesimi, quanto il contratto di intermediazione
finanziaria stipulato nel singolo caso concreto, hanno mancato di svolgere la
funzione loro assegnata dalla legge e dalla teoria economica accolta
dall'ordinamento comunitario e nazionale. In queste condizioni l'accesso del
risparmiatore al mercato finanziario non avrebbe mai dovuto aver luogo: questo
rilievo - si ripete - è suggerito dalla stessa configurazione legislativa del
contratto di intermediazione finanziaria quale passaggio necessario affinché i
risparmiatori possano accedere ai mercati finanziari.
11. - Le osservazioni formulate nei precedenti paragrafi hanno accennato per
grandissime linee al contesto economico-istituzionale nel quale devono essere
cercate le soluzioni giuridiche più soddisfacenti.
Le osservazioni predette traggono origine dall'osservazione secondo la quale,
nel caso di violazione della clausola generale ex art. 21 lett. a tuf,
l'accesso del risparmiatore al mercato finanziario avviene senza il rispetto
delle condizioni pregiudiziali ed imprescindibili richieste dall'ordinamento a
tal fine: tali condizioni - non è inutile ricordarlo ancora - consistono
nell'intervento dell'intermediario finanziario che informi il risparmiatore e
valuti l'adeguatezza (ossia la qualità) del suo investimento. In altre parole,
alla stregua delle regole che disciplinano il mercato mobiliare l'atto di
risparmio posto in essere senza tale condizione essenziale, volta ad abbattere
costi di agenzia, asimmetrie informative e rischi sistemici, non potrebbe e
dovrebbe mai aver luogo.
Il contratto di intermediazione mobiliare, vale a dire il contratto concluso
dal risparmiatore con l'intermediario per lo svolgimento dei servizi di
investimento, è istituito quale passaggio necessario proprio per conseguire
tali scopi (ossia, ancora una volta, l'abbattimento dei costi di agenzia,
asimmetrie informative e rischi sistemici).
Le osservazioni fin qui svolte costituiscono le premesse assolutamente
necessarie per accostarsi al tema delle conseguenze dell'inadempimento
dell'intermediario in modo non dogmatico ed aderente alla realtà del mercato
mobiliare e delle regole che lo strutturano in quanto istituzione sociale,
economica e giuridica al tempo steso (v. sul punto per tutti FERRARESE, op.
cit.).
Le "filastrocche" escogitate nel tempo dalla dottrina per descrivere
situazioni nelle quali il contratto ha mancato di conseguire gli scopi ad esso
assegnati dalla legge sono molte e note: potrebbe dirsi, ad esempio, che il
contratto di intermediazione - o quel particolare contratto nel quale oggi
consiste l'ordine di borsa - hanno fallito la "funzione
economico-sociale" ad essi assegnata dall'ordinamento; oppure potrebbe
dirsi che, in assenza della particolare "condotta" richiesta
all'intermediario, l'attività negoziale delle parti deve essere considerata inutiliter
data e, pertanto, insuscettibile di produrre effetti giuridici, ecc.
Qui non interessa approfondire questo aspetto dal sapore ideologico-dogmatico.
Qui preme piuttosto mostrare come l'assunto di fondo delle considerazioni
appena esposte rinvenga singolare conferma nella disciplina comunitaria del
mercato finanziario.
Si è sopra sostenuto che, senza la necessaria "condotta"
dell'intermediario, si è in presenza di un atto di risparmio che non avrebbe
mai potuto e dovuto aver luogo. Orbene, il collegamento tra
"condotta" dell'intermediario ed esistenza di una valido atto di
risparmio si rinviene nell'art. 19, dir. 2004/39/CE.
L'art. 193, Dir. 2004/39/CE, attesta per tabulas il collegamento tra fallimento
del contratto concluso tra cliente ed intermediario, e inesistenza di un valido
atto di risparmio. Questa disposizione, invero, stabilisce che "ai clienti
o potenziali clienti vengono fornite in una forma comprensibile informazioni
appropriate: ... sugli strumenti finanziari e sulle strategie di investimento
proposte; ciò dovrebbe comprendere opportuni orientamenti e avvertenze sui
rischi associati agli investimenti relativi a tali strumenti o a determinate
strategie di investimento, ... cosicché essi possano ragionevolmente
comprendere la natura del servizio di investimento e del tipo specifico di
strumenti finanziari che vengono loro proposti nonché i rischi ad essi connessi
e, di conseguenza, possano prendere le decisioni in materia di investimenti con
cognizione di causa".
Nella sua ottica volontaristica, il legislatore comunitario collega la
prestazione dell'attività tipica dell'intermediario finanziario alla esistenza
di "decisioni in materia di investimenti con cognizione di causa" da
parte del risparmiatore. In altre parole, l'art. 19 cit. afferma che, in
assenza di un'attività dell'intermediario finanziario coerente con la
configurazione della stessa operata dalla norma, il risparmiatore non è in
grado di prendere una decisione in materia di investimenti con cognizione di
causa.
Sennonché, se non vi è una decisione in materia di investimenti con cognizione
di causa, non vi può neppure essere un impegno vincolante del risparmiatore in
materia di investimenti. In altre e conclusive parole, non v'è un contratto.
12. - La conclusione sopra attinta può essere completata con un'osservazione
ulteriore.
Essa riguarda il concreto contenuto di quella che si è convenuto di designare
come l'attività tipicamente richiesta all'intermediario finanziario dalla
disciplina comunitaria. L'art. 191, dir. cit., nella sua parte finale precisa
che "i principi di cui ai par. 2 a 8" dello stesso art. 19 sono solo
una specificazione della clausola generale enunciata nel primo comma, secondo
la quale gli intermediari debbono "servire al meglio gli interessi dei
clienti", ossia debbono agire - secondo l'analisi economica - in modo da
contenere le asimmetrie informative ed i costi di agenzia fino al punto di
consentire ai loro clienti di assumere decisioni in materia di investimenti con
cognizione di causa.
Il che significa che le considerazioni sopra esposte circa le condizioni di
esistenza di un contratto effettivamente impegnativo per il cliente valgono in
ogni caso in cui, nell'ambito di un qualsiasi servizio di investimento o
accessorio, non possa dirsi rispettato il paradigma di condotta
dell'intermediario delineato dalla predetta clausola generale.
13. - Il diritto interno (di derivazione comunitaria) conferma le
considerazioni sopra svolte e proietta ulteriori ombre sulla persistente
configurabilità della doppia equazione ("violazione regole di validità =
nullità", "violazione regole di condotta = risarcimento del
danno") sopra ricordata.
In particolare, a proposito dei contratti aventi ad oggetto i servizi di
investimento forniti a distanza ai consumatori, l'art. 154, d. lgs n. 190/05 -
oggi divenuto l'art. 67-septies decies, quarto comma, del codice del consumo,
per effetto del d.lgs. 23 ottobre 2007, n. 221 - dispone che "il contratto
è nullo nel caso il fornitore ... viola gli obblighi di informativa
precontrattuale in modo da alterare in modo significativo la rappresentazione
delle sue caratteristiche", non consentendo, così, al consumatore di
"scegliere con cognizione di causa" (così il considerando, n. 21
della dir. 2002/65/CE, alla quale la normativa interna ora in esame da
attuazione).
Il significato della disposizione è inequivoco: le informazioni relative ai
"rischi dovuti a specifiche caratteristiche" degli
"strumenti" inerenti al servizio finanziario offerto a distanza sono
funzionali alla "rappresentazione delle caratteristiche del
contratto" e, dunque, alla rappresentazione delle caratteristiche degli
strumenti oggetto del medesimo.
La mancata prestazione di tali informazioni e la conseguente inesatta
conoscenza del contenuto del contratto da parte del consumatore non integra un
vizio della volontà tale da determinare l'annullabilità del contratto, ma
esclude la stessa sussistenza del contratto. La disciplina prima richiamata,
infatti, sanziona con la nullità il contratto concluso dal risparmiatore che
ignori le caratteristiche del contratto stesso a causa dell'inadempimento degli
obblighi di condotta a carico del fornitore del servizio.
Tuttavia, a questa disposizione non si può far riferimento in modo acritico.
Occorre, piuttosto, indagarne la rilevanza sistematica e la effettiva
possibilità di trarre da essa indicazioni di carattere generale.
A tal fine è utile rammentare che da tempo si è preso atto che nelle società
contemporanee "alle solenni architetture dei codici" si sono
affiancati "altri diritti". Al disegno sistematico ed unitario del
codice civile si sono sostituiti una pluralità di "micro-sistemi"
retti ciascuno da proprie regole, da "logiche autonome e principi
organici" loro propri (IRTI, L'età della decodificazione4, Milano, 1999),
i quali fanno sì che anche fattispecie astrattamente simili siano assoggettate
a discipline differenziate (cfr. LUMINOSO, Il conflitto di interessi nel
rapporto di gestione, in Riv. Dir. civ., 2006, I, 739 ss.).
Qui non interessa mostrare come la denunciata pluralità di sistemi rinviene
conferma e giustificazione - per quanto riguarda il settore finanziario - nei
rilievi prima formulati nei §§ 3, 4 e 8, a proposito del venir meno nel settore
predetto del postulato di parità delle parti che, invece, informa la disciplina
del contratto dettata nel codice civile. E la cosa non può sorprendere:
"l'unità del diritto civile è anzitutto unità del soggetto di diritto (v.
GALGANO, op. ult. cit., 61), il venir meno dell'una è strettamente connesso al
tramonto dell'altra.
Qui interessa piuttosto osservare che nel "micro-sistema", che si è
convenuto di chiamare "diritto privato del mercato finanziario",
l'art. 67- septes decies4 del codice del consumo sembra poter offrire qualche
indicazione.
La disposizione stabilisce la nullità del contratto di prestazione dei servizi
di investimento qualora l'intermediario finanziario non fornisca informazioni
sufficienti a far sì che il risparmiatore abbia chiare le caratteristiche degli
strumenti finanziari inerenti il servizio offerto. La disposizione in esame -
aggiunge l'art. 67-bis del codice del consumo - si applica "alla
commercializzazione a distanza dei servizi finanziari".
Questa conclusione non può non essere confrontata con il grand arrêt offerto
dalle sezioni unite con le sentenze nn. 26724 e 26725 del 2007.
Da tale confronto, però, risulta che nel "micro-sistema" del mercato
finanziario sembrano profilarsi due regole distinte e non coincidenti a fronte
della medesima fattispecie. Detta fattispecie è costituita dalla ipotesi di
violazione, ad opera dell'intermediario, degli obblighi di condotta su lui
tipicamente gravanti: in questo caso, il contratto concluso dal risparmiatore
allo sportello sarebbe disciplinato in un modo (risoluzione + risarcimento del
danno: così le sezioni unite), mentre lo stesso contratto concluso dallo stesso
risparmiatore via internet segue una disciplina completamente diversa (nullità
+ restituzioni: art. 67-septes decies del codice del consumo).
Si fa fatica a cogliere come la diversa modalità della conclusione del contratto
possa determinare un rimedio tanto diverso rispetto ad una medesima violazione.
Non vorrei essere vittima di un abbaglio, ma sul punto sembra esservi materia
per una sentenza interpretativa della Corte costituzionale.
14. - Il rimedio risarcitorio è volto a ristabilire l'equilibrio patrimoniale
del danneggiato, ossia a porre quest'ultimo nella situazione economica
equivalente a quella nella quale si sarebbe trovato qualora il debitore avesse
tenuto la "condotta" cui era tenuto in forza dell'obbligazione
inadempiuta.
Per quantificare il danno dovuto dall'intermediario finanziario al cliente cui
abbia fatto mancare la dovuta "assistenza" in termini di dazione di
informazioni o di valutazione di adeguatezza o di presentazione di prodotti
finanziari non adatti al cliente medesimo, occorre, pertanto, comparare due
situazioni: la situazione economica nella quale il creditore risparmiatore
versa a seguito del lamentato inadempimento dell'intermediario debitore e la
situazione nella quale il primo si sarebbe trovato se il secondo avesse
correttamente tenuto la "condotta" a lui richiesta per legge.
In particolare, la suddetta comparazione andrebbe fatta tra le due situazioni
di fatto seguenti: A) la situazione nella quale il risparmiatore versa nel
tempo (vale a dire il tempo nel quale ha luogo il processo) dopo aver
investito denaro nel prodotto finanziario x, che si assume essere stato per lui
"inadeguato" al tempo in cui ha avuto luogo l'investimento; B) la
situazione economica nella quale il risparmiatore si sarebbe trovato se,
invece, al predetto tempo (tempo dell'investimento), l'investimento avesse
avuto ad oggetto un prodotto finanziario da ritenersi, invece,
"adeguato" per l'investitore del nostro esempio.
Sennonché (prima complicazione), non esiste un singolo prodotto finanziario che
al tempo dell'investimento avrebbe potuto ritenersi "adeguato" per
il nostro investitore: infatti, quale che sia il profilo di rischio
dell'investitore, è assolutamente ragionevole, plausibile e fisiologico che al
predetto tempo vi fosse una pluralità indefinita di prodotti
"adeguati" per l'investitore del nostro esempio.
Ciò introduce la seconda e più grave complicazione. È ragionevole ritenere che
al tempo in cui ha luogo il giudizio e si procede alla quantificazione del
danno - tempo spesso di molto successivo al tempo dell'investimento - i
prodotti che al tempo sarebbero stati in astratto adeguati, ben possono avere
avuto un rendimento effettivo diversificato tra loro: ad es. il prodotto y ha
reso mediamente + 2%, il prodotto z il 4% annuo, mentre il prodotto w ha fatto
inopinatamente registrare una perdita dello 0,5%.
In altre parole, è assolutamente plausibile e fisiologico che, malgrado i
prodotti y, z e w al tempo dell'investimento fossero tutti potenzialmente
"adeguati" per il nostro investitore, essi alla prova dei fatti si
siano rivelati di non uniforme riuscita. Non ci si deve meravigliare di ciò: è
il frutto della intrinseca rischiosità di ciascun investimento finanziario.
Ogni investimento finanziario - come diceva SAMUELSON - è una
"scommessa" (il giurista potrebbe dire che lo strumento finanziario è
una promessa sospensivamente condizionata), la cui riuscita può essere
assolutamente casuale e, dunque, variare sensibilmente da un prodotto
all'altro, malgrado che su di essi, al momento dell'emissione, si sarebbero
potute formulare previsioni di segno analogo.
Orbene, questo esempio, che nella sua struttura dovrebbe essere ritenuto
assolutamente fisiologico per il mercato finanziario, dimostra l'assoluta
incongruenza pratica del rimedio risarcitorio. Non vi è, infatti, un parametro
certo per quantificare il danno subito dal cliente a seguito dell'inadempimento
dell'intermediario: non si saprebbe mai quale sarebbe stato l'investimento
alternativo sul quale il risparmiatore si sarebbe orientato qualora
l'intermediario finanziario gli avesse dato le dovute informazioni, le dovute
avvertenze ecc.
A meno di non optare per la tesi del danno in re ipsa, fatta propria da Trib.
Venezia 28 febbraio 2008, I Contratti, 2008, 555, con nota di MAFFEIS, Dopo le
Sezioni Unite: l'intermediario che non si astiene restituisce al cliente il
denaro investito, secondo la quale "in generale grava specificamente
sull'investitore l'onere di dimostrare il nesso di causalità tra
l'inadempimento degli obblighi comportamentali dell'intermediario ed il danno;
tuttavia, il nesso di causalità in questione deve ritenersi in re ipsa allorché
l'intermediario abbia violato l'obbligo di astensione, come nello conflitto di interessi
e nelle operazioni inadeguate".
In altre parole, l'ostacolo della imponderabilità del danno - in qualche modo
già intravisto dai commentatori più attenti: v. ad es. AFFERNI, in ROPPO,
AFFERNI, Dai contratti finanziari al contratto in genere: punti fermi della
Cassazione su nullità virtuale e responsabilità precontrattuale, in Danno e
responsabilità, 2006, 29 ss.; RORDORF, op. cit., 274 s.; MAFFEIS, Discipline
preventive, cit., 409 s. - viene superato postulando di fatto la restituzione
delle somme al cliente, vale a dire un rimedio che, al di là della magia delle
parole, è restitutorio e non risarcitorio.
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