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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 19/09/2022 Scarica PDF
"Liberale", "progressista", "conservatore": alla ricerca di un senso (*)
Gioacchino La Rocca, Professore ordinario di diritto civile nell'Università di Milano BicoccaSommario: 1. Un’Ipotesi di lavoro: da Kant a Hegel- 2. “Una legge universale di libertà” - 3. Due miti del paradigma liberale: homo oeconomicus ed efficienza allocativa del mercato - 4. Postulato di razionalità e sviamenti cognitivi: il contributo delle neuroscienze - 5. Dal “progresso scientifico” al “progresso sociale” - 6. Una società liquida e distopica. - 7. La dissoluzione della società liquida - 8. “Natura”, “cultura” e comunità: artt. 9 e 101 Cost. – 9. Il “volksgeist” oggi – 10. Persona e comunità
1. Un’Ipotesi di lavoro: da Kant a Hegel
Il presente momento elettorale risuona di parole quali “liberale”, “progressista”, “conservatore”, le quali, tuttavia, sembrano avere un marcato sapore di etichette, buone al più per evocare una qualche suggestione di “destra” o di “sinistra”, pur con tutti i dubbi suscitati da tale bipolarizzazione [1].
Su queste premesse, non è inutile chiedersi se siamo di fronte a “giochi linguistici” soggetti a “manipolazione massmediale” [2], o se sia in qualche modo possibile evitare una conclusione così desolante.
La decifrazione dei possibili significati può prendere le mosse dall’individuazione di un comun denominatore, per quanto generico esso possa sembrare. In questa direzione è possibile osservare che quelle parole (“liberale”, “progressista”, “conservatore”) mirano in modo vago a riassumere un’idea di collettività, ossia un’idea di come – a quali valori – dovrebbero essere improntati, sia i rapporti tra il singolo individuo e gli altri componenti di una data organizzazione sociopolitica, sia i rapporti tra i singoli individui e l’organizzazione medesima.
Con uno schematismo evidente, ma non del tutto infondato, si può forse affermare che negli ultimi due secoli si sono contrapposte – con varianti non necessariamente decisive – due visioni: una riconducibile a Kant, ma saldamente ancorata ad una tradizione che si potrebbe far risalire – sempre con approssimazioni generose – da Aristotele al giusnaturalismo; l’altra, che per più versi trova in qualche modo la sua ispirazione in Hegel.
2. “Una legge universale di libertà”
Secondo il primo orientamento, ciascun individuo possiede delle prerogative, dei diritti, che può esercitare discrezionalmente (secondo il suo “arbitrio”: questa è la parola utilizzata da Kant: v. infra § 6), con il solo limite che “l’arbitrio dell’uno [possa] accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale di libertà” [3].
Su questo paradigma si sono innestate visioni antropologiche e, di conseguenza, economico-politiche, di cui non è difficile scorgere i profili di fondo.
Sul piano antropologico, vale a dire del modello di essere umano da esso presupposto, questo orientamento, che per comodità possiamo chiamare “liberale-kantiano”, postula un essere umano intrinsecamente razionale e, dunque, intrinsecamente libero. Il collegamento tra razionalità e libertà è di cruciale importanza: la razionalità può essere descritta – anche in questo caso semplifico molto - come capacità di ordinare la propria condotta in vista di un determinato fine in un quadro coerente di preferenze. Questa capacità di individuare i propri fini e di organizzare i propri comportamenti in funzione di essi è stata interpretata da filosofi e giuristi come conferma della libertà di ciascun individuo.
Alla libertà individuale è fissato un solo limite. Esso consiste nel rispetto della libertà e della dignità degli altri. La “legge universale di libertà”, predicata da Kant, è fondata su un dogma, che tuttora conserva una sua indiscutibile solidità: nessun essere umano può essere “strumento” per la realizzazione dei fini di altri esseri umani perché ciò equivarrebbe a violare la sua “dignità” [4].
3. Due miti del paradigma liberale: homo oeconomicus ed efficienza allocativa del mercato
“Libertà” e “razionalità”, si è detto. Da questo binomio trae fondamento il conseguente assunto dell’insindacabilità e dell’intrinseca “giustezza” delle scelte individuali: se gli individui sono liberi di scegliere, la loro razionalità li guiderà verso ciò che è “bene” e “giusto” per loro. Su questo presupposto è evidente che nessuno ha titolo per sindacare tali scelte: esse costituiscono un valore in sé in quanto – frutto della libertà/razionalità dell’individuo – ne esprimono l’intrinseco modo di essere. La sola eccezione ammissibile – ma che nella realtà concreta è talvolta disapplicata – è che la legge penale vieti specificamente le scelte medesime, le conseguenti condotte ed i fini perseguiti.
Su questi postulati, che costituiscono il momento fondativo del paradigma “liberale” della società, si sono costruite autentiche “stelle polari” di una parte del pensiero occidentale. Prima fra tutte la figura del “homo oeconomicus”, ossia di un essere umano in grado di organizzare le proprie preferenze in modo assolutamente coerente e razionale, onde ordinare i propri fini, ed i beni cui aspira, secondo una scala di priorità perfettamente chiara e definita, così da poter conseguire fini e beni con il minor dispendio possibile di risorse [5]. Tanta fiducia si è avuta (e si ha) in questo modello di assoluta razionalità, che da oltre un secolo gli economisti ritengono di poter descrivere e analizzare le condotte umane attraverso gelide formule matematiche, le quali ben poco spazio lasciano all’“umanità” del soggetto che pretendono di studiare [6].
Questo modello – così disumanizzato e disumanizzante - non ha influenzato solo gli studi degli economisti. Esso, più precisamente, non è rimasto confinato nel limbo delle teorie economiche c.d. “neoclassiche” e nel mito della “catallassi” del mercato, ossia nel mito, secondo il quale il mercato, in quanto luogo in cui si esprimono le scelte di individui razionali, sarebbe di regola in grado di raggiungere spontaneamente un equilibrio tale da rendere tutti (più o meno) soddisfatti, ognuno secondo le sue capacità. Consumatori razionali – argomenta chi sostiene questa tesi – indirizzeranno le proprie risorse su beni aventi un rapporto qualità/prezzo da essi ritenuto soddisfacente. Del pari, produttori razionali orienteranno la loro produzione sui beni che vedono premiati dalle scelte dei consumatori, ossia dal mercato, cercando di comprimere i prezzi per attrarre un maggior numero di compratori, con il risultato finale complessivo della maggiore soddisfazione dei più, se non di tutti. Di qui, la formula – nata con riferimento ai mercati finanziari [7], ma poi rilanciata in una prospettiva più generale - dei “mercati efficienti”.
Qui non interessa precisare che nella realtà odierna i produttori orientano le loro scelte produttive attraverso sofisticati algoritmi in grado in qualche modo di “anticipare” il mercato[8]. Qui interessa piuttosto soffermarsi su una importante conseguenza dell’idea dell’efficienza allocativa del mercato: se il mercato, che – si ripete – è il luogo in cui si esprimono e si confrontano scelte individuali presupposte come razionali, libere e consapevoli, è in grado di soddisfare le aspettative degli esseri umani, qualsiasi “interferenza” da parte del legislatore non può che essere controindicata nella misura in cui altera meccanismi intrinsecamente efficienti. In forma meno astratta, questa idea si riscontra già nelle affermazioni di filosofi ed economisti inglesi della metà del XIX secolo, i quali sostennero che nessun governo sarebbe stato in grado di conoscere meglio di un qualsiasi commerciante cosa fosse meglio per lui nel suo commercio e quali mezzi fossero maggiormente adatti per conseguire questo “meglio”, con il corollario che il governo si sarebbe dovuto ben guardare dall’intervenire sul commercio medesimo ed in genere tanto sulle questioni economiche, quanto sulle scelte individuali.
Queste teorie, che qui si è cercato di semplificare al massimo, hanno costituito il main stream del pensiero economico-politico, che ha dominato il mondo occidentale per almeno tre decadi, tra la fine del Novecento e i primi anni Duemila, sancendo, in definitiva, quello che viene chiamato il primato dell’economia sulla politica. In particolare, queste teorie hanno ispirato la concreta regolazione del mercato finanziario, il quale negli ultimi decenni ha assunto un ruolo cruciale anche grazie all’innesto dell’informatica, fino a svincolarsi dalla produzione manifatturiera della quale era storicamente servente. Per quanto riguarda l’Europa, il prodotto più importante del refrain “più mercato, meno Stato” è stato la direttiva 2004/39/CE, nota anche come MIFID I.
Le teoriche sopra accennate e le conseguenti applicazioni regolatorie hanno posto i presupposti per la crisi finanziaria del 2007-2008 [9]. La reazione, peraltro, è stata salutare e significativa. Almeno per quanto riguarda l’Europa, si è determinata una radicale inversione di tendenza: il ritorno ad una regolazione meno market friendly e per certi versi più incisiva di quella auspicata dal c.d. “paternalismo libertario” [10],è stato sancito dalla direttiva 2014/65/UE, dal regolamento UE n. 600/2014 e dalle numerose direttive di attuazione [11].
4. Postulato di razionalità e sviamenti cognitivi: il contributo delle neuroscienze
Al mutamento delle strategie di regolazione del mercato non è estraneo il decisivo apporto delle neuroscienze. Quando la tecnologia ha messo a disposizione della ricerca scientifica gli strumenti per indagare l’effettivo funzionamento del cervello umano, si è avuta conferma di quanto intuito fin dagli anni Sessanta dal Premio Nobel per l’economia 2002, David Kahneman, ossia che gli esseri umani sono di regola soggetti ad una serie di errori cognitivi, che inficiano sensibilmente l’assunto della razionalità delle loro scelte: infatti, “le prove sperimentali mettono radicalmente in discussione l’idea che gli uomini abbiano preferenze coerenti e sappiano massimizzarle, un’idea che rappresenta la base stessa del modello dell’agente razionale” [12].
Non si tratta, dunque, di una “razionalità limitata” a causa della difficoltà di raccogliere e processare le informazioni necessarie per una scelta effettivamente razionale in quanto consapevole, come per decenni è stato predicato dalla c.d. “economia dell’informazione” [13]. Il dato posto in luce dalle ricerche recenti è strutturale, non emendabile con un surplus di informazione circa il contesto nel quale la decisione deve essere presa: ciò perché i meccanismi mentali – ci dicono le neuroscienze cognitive [14] - inducono il decisore a falsare la rilevanza oggettiva delle informazioni e a dare un peso maggiore alle informazioni e agli elementi che avvalorano le sue personali e autoreferenziali preferenze [15].
Proprio la strutturalità del dato impone la necessità di ripensare la luce valoriale proiettata sulle scelte umane. Esse non sono espressione della “scintilla di Dio”, ossia di un essere che si distingue dagli altri organismi viventi in quanto in grado di apprezzare, sia pure in modo soggettivo, il senso profondo della “verità” riflessa nella “natura”, nell’esperienza, nella Storia. Le “prove sperimentali” hanno dimostrato che gli esseri umani, le loro preferenze, le loro scelte sono agevolmente manipolabili da quanti, in campo economico e politico, mirano ad orientare le scelte medesime in funzione dei loro privati interessi.
In questo scenario occorre chiedersi cosa rimane della legittimazione dell’uomo ad agire sulla realtà, che viene fondata dalla Seconda Scolastica in poi proprio sulla capacità – per secoli postulata come intrinsecamente immanente, autonoma, libera - dell’essere umano di apprezzare, comprendere e, di conseguenza, volere e agire [16], ponendosi così a motore della Storia.
5. Dal “progresso scientifico” al “progresso sociale”
Su un assunto non dissimile, vale a dire sulla capacità dell’uomo di dominare l’esperienza, è radicato il senso della parola “progressista”.
Alla base del nucleo semantico oggi percepito in questa parola vi è il suo collegamento con le ricadute sociali del progresso scientifico. A partire dal XVIII secolo si constatò che attraverso il progresso scientifico e tecnologico l’uomo non è solo in grado di comprendere la natura e controllarne i processi; egli è in grado di rivoluzionare – letteralmente – la propria condizione umana e sociale grazie ad una più efficace produzione e distribuzione della ricchezza. In altre parole, attraverso il progresso scientifico, attraverso le macchine, l’uomo è in grado di incidere sulle strutture socioeconomiche della collettività e, dunque, sulle condizioni di vita di quanti ne fanno parte: il progresso, ad un certo punto, sembrò essere lo strumento per svincolare la massa degli esseri umani da secolari rapporti di dominio: le parole “progresso” e “progressista” si gravano così di vaghe, ma sensibili, venature ideologiche, tanto da indurre le scienze sociali a preferire alla parola “progresso” i termini “sviluppo” o – per quanto riguarda l’economia – “crescita” [17].
Le conseguenze più laceranti della saldatura tra scoperte scientifiche e istanze ideologiche si possono verificare in tempi recenti, quando le biotecnologie si sono mostrate in grado di intervenire sulle stesse basi biologiche della specie umana, ossia sulla “natura”. In forza della saldatura predetta ciò ha determinato e determina il tentativo di rimodulare i rapporti tra “natura” e “cultura”, nel senso che – ridefinita artificialmente la prima – si pretende di condizionare nella stessa direzione la seconda, nel tentativo di riscrivere completamente la struttura antropologica della società in una prospettiva postumana o transumana [18], dove “i sessi sconfinano e mutano, le differenze scolorano e si uniformano, la natura è abolita, la realtà è revocata” [19]. Si prospetta così uno scenario vago ed indefinito [20], cui inevitabilmente corrisponde un “divenire compulsivo”, un “restare perennemente incompiuti e indefiniti” [21].
Sono esempi significativi, che rendono evidente la necessità di non rimanere prigionieri della “magia delle parole”. La parola “progressista” è solo un “bollino”, che viene applicato a progetti, i quali assai spesso, lungi dal recare un effettivo miglioramento della condizione umana, mirano ad una riscrittura artefatta (v. § 6) dei rapporti etici sociali e politici.
6. Una società liquida e distopica
I rilievi fin qui svolti sembrano univoci nel senso che, malgrado la loro apparente positività, le parole “liberale” e “progressista” si rivelano in concreto funzionali ad una società intrinsecamente alienante. La carica di positività che avvolge quelle parole è destinata a essere messa in discussione quando si presti attenzione a taluni loro riflessi nella società odierna: entrambe sono minate dalla accertata manipolabilità delle scelte individuali; entrambe pongono il problema delle coordinate biologiche della specie umana. Non è più solo questione di “morte delle ideologie” o delle idee; v’è ben altro: gli esseri umani sono completamente privati di termini di riferimento nel momento in cui in cui si mira a dissolvere la loro stessa fondazione biologica: non solo si degrada la diversità sessuale a “fattualità biologica”, deprimendone così il connotato valoriale; non solo si propone una ridefinizione antropologica della maternità ipotizzando una “maternità altra” rispetto a quella “tradizionale” [22], ma si progetta – in assoluta coerenza con il “progressismo” – un uomo non più tale perché radicalmente trasformato rispetto al passato grazie all’azione sinergica delle aree di punta della ricerca scientifica [23].
Nella stessa direzione si pone la c.d. cancel culture [24]: come noto, si tratta di un processo di censura/rimozione di quanto nel passato è ritenuto in contrasto con orientamenti del presente, i quali, benché per lo più assolutamente minoritari, trovano palcoscenici di primo piano tra i c.d. “progressisti”. Non è certamente un fenomeno nuovo. La damnatio memoriae, ossia la riscrittura e la cancellazione del passato, è stata sempre praticata dai vincitori al fine di avvalorare la loro superiorità anche morale verso i vinti. Gli esempi sono tanto facili da diventare stucchevoli; essi possono spaziare dalla luce negativa proiettata dalla repubblica romana sugli ultimi re etruschi alla recente storia italiana. Quanti provano a correggere l’analisi del passato vengono trattati con sufficienza, quali “revisionisti”, se non ridicolizzati: è sufficiente ricordare il trattamento riservato nel decennio tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta a Renzo De Felice solo per il fatto di aver provato ad arginare una “mutilazione della realtà storica” [25].
La cancel culture merita la massima attenzione, dal momento che costituisce l’insospettabile conferma di uno dei motivi di fondo di queste pagine. Essa, infatti, muove dal presupposto – qui condiviso - che le radici della generazione presente sono nella Storia, nella sua cultura. Eliminare Storia e cultura, costruirle come un insieme di errori ed aberrazioni, “mutilare la realtà storica” non è affatto espressione di “ignoranza” o “stupidità”, come talora si vorrebbe. Al contrario, la cancel culture è parte integrante di un tentativo sofisticato di riconversione della società, nella consapevolezza che ciò può essere possibile solo attraverso lo sradicamento della società stessa dal suo passato.
L’assenza di riferimenti, infatti, non è senza conseguenze: chi non ha una bussola che in qualche modo lo indirizzi, non ha rotta da seguire; va dovunque lo meni la pulsione del momento o delle suggestioni ricevute dagli imbonitori mediatici; smarrisce sé stesso; confonde la libertà con l’arbitrio. “Arbitrio” è parola assolutamente calzante ed appropriata, non tanto perché è quella fatta propria da Kant, quanto soprattutto perché essa rappresenta in modo assolutamente fedele, sia la situazione di incondizionata “libertà” auspicata dal più coerente ed importante teorico del liberismo della fine del Novecento [26], sia i ricordati progetti di rimodulazione sociobiologica degli esseri umani, con la differenza che in essi non vi è traccia della “legge morale”, che secondo Kant avrebbe dovuto guidare l’azione degli individui.
Come pure non v’è traccia di “legge morale” nella libertà che caratterizzerebbe – secondo una analisi recente – la società attuale, la cui cifra distintiva viene individuata nella “liquidità”: “sentirsi liberi significa non avere intralci, ostacoli, resistenze o altri impedimenti a movimenti presenti e futuri” [27].
Anche in questo caso il momento fondativo della società è l’individuo, con i suoi interessi e le sue scelte: alla base della “società liquida” vi è l’“autoaffermazione dell’individuo”, il quale ridefinisce su sé stesso “il discorso etico-politico”. Quest’ultimo, in particolare, è tradotto nei termini di “un diritto degli individui di restare diversi e di scegliere e adottare a loro piacimento i propri modelli di felicità e uno stile di vita loro consono” [28].
Senonché, per tale via la “società liquida” si espone allo stesso “baco” già riscontrato a proposito della prospettiva “progressista”, non diversamente da quella “liberale”. Anche la “società liquida”, infatti, lungi dall’essere spazio di realizzazione degli individui, si trasforma nell’arena della loro mistificazione ed alienazione, atteso che il “libero arbitrio”, di cui parla Bauman, assai spesso è tutt’altro che “libero”: “il libero arbitrio”, infatti, non è affatto il fedele riflesso dell’autenticità degli esseri umani. Al contrario, come ormai sappiamo (§ 4), l’essere umano ed il suo arbitrio possono essere manipolati, eterocondotti da gruppi di pressione del potere economico e massmediale, influencer di vario tipo, che alimentano un’industria culturale e non, ovviamente funzionale agli interessi di quanti la generano: in un contesto di questo tipo, oggettivamente di problematica confutazione, sembra del tutto estemporaneo qualsiasi riferimento ad una libera e consapevole autodeterminazione.
7. La dissoluzione della società liquida
Si ritorna così al tema di fondo della “società liquida”, vale a dire l’“autoaffermazione dell’individuo”, che si sostanzierebbe – come già ricordato - nel “diritto degli individui di restare diversi e di scegliere e adottare a loro piacimento i propri modelli di felicità e uno stile di vita loro consono”.
Non può sfuggire l’elemento dirompente presente in questo “diritto all’autoaffermazione”. Siamo di fronte ad un diritto insuscettibile di alcun condizionamento: ciascun individuo non ha solo diritto di essere “diverso”, ma sceglie “a suo piacimento”, ossia in modo evidentemente insindacabile e illimitato, “modelli di felicità ed uno stile di vita loro consono”. Occorre guardarsi dall’errore di ritenere che siamo di fronte ad un’iperbole del sociologo: il “d.d.l. Zan” configurava in questi termini il “diritto all’identità di genere” e pretendeva di elevarlo a parametro accolto dalla legge. Quel che qui interessa sottolineare è che un “diritto alla diversità” di questo tipo diventa di assai ardua composizione con la “diversità” degli altri “membri della polis” [29], con la conseguenza che, in questa prospettiva, diviene problematica la stessa sopravvivenza della polis medesima, tanto più che quest’ultima è condannata a conquistare l’unità ripartendo ogni giorno da zero a causa delle diversità – sovrane ed insindacabili – quotidianamente emergenti [30].
Si delinea, in altre parole, una società intrinsecamente destinata alla dissoluzione, dal momento che difetta l’indispensabile presupposto affinché le convinzioni, i valori, gli stili di vita dei suoi singoli componenti possano trovare quella continua composizione auspicata dal sociologo. Invero, una qualsiasi composizione delle “diversità”, al pari di qualsiasi “contratto sociale”, di qualsiasi convivenza organizzata [31], postula necessariamente un qualche senso di “comunità” condiviso tra i partecipanti. Senonché, Bauman esclude a priori un tale senso di comunità: a suo parere non vi sarebbe (più) spazio per un “sogno comunitario” [32].
8. “Natura”, “cultura” e comunità: artt. 9 e 101 Cost.
Occorre guardarsi dall’errore di sottovalutare le percezioni di Bauman. Egli coglie che il processo di privatizzazione e di individualizzazione della società ha condotto l’essere umano del mondo occidentale ad una solitudine, dalla quale Bauman non intravede vie d’uscite.
Questa condanna, questa situazione di perdita della stessa identità umana non sembra in realtà senza appello. Due secoli or sono Hegel, con i Lineamenti di filosofia del diritto,diede risposte ad un uomo che – al pari di quello odierno – era stato sradicato dalle sicurezze del passato ad opera della rivoluzione industriale. Non diversamente da quello di oggi, anche quell’uomo si sentiva “solo” perché aveva perso i riferimenti che ne costituivano il momento fondativo. A quell’uomo Hegel indicò che la via del riscatto passa attraverso le diverse comunità nelle quali, a ben vedere, la sua vita continuava a svolgersi: comunità di lavoro, comunità locali, associazioni, lo Stato. Tutte queste aggregazioni – osservò Hegel – sarebbero diverse da quelle che sono senza l’azione di ciascun singolo individuo, il quale, a sua volta, invera in esse la concretezza della sua esistenza e della sua libertà.
Il senso è evidente. Se l’“autoaffermazione dell’individuo” non vuole ridursi ad una mera esercitazione affabulatoria, non può che esprimersi in quella “socialità”, che è l’inevitabile condizione di ciascun essere umano [33]. In altre parole, l’“autoaffermazione dell’individuo” non può che aver luogo all’interno di “comunità”, alla cui qualità egli contribuisce proprio con la sua “autoaffermazione”. Vi è, però, una condizione necessaria affinché questa simbiosi “individuo-comunità” possa effettivamente realizzarsi: essa consiste nel fatto che una “comunità” effettivamente vi sia.
Può sembrare non semplice pensare la “comunità” nella terza decade del XXI secolo, quando il “giro del mondo” non si fa più in ottanta giorni, ma in poche ore, e la tecnologia ci consente di relazionarci direttamente ed immediatamente con persone lontane. Peraltro, queste constatazioni non inficiano il fatto che anche in un mondo “globale” i rapporti umani si costruiscono sulla prossimità: prossimità familiari, prossimità di lavoro, prossimità di interessi, prossimità di costumi, prossimità di cultura, prossimità di valori.
Di qui la necessità di interrogare e recuperare il tessuto connettivo delle comunità in cui si dipana la vita di ciascuno. Nella recentissima riforma costituzionale dell’art. 9 vi sono indicazioni preziose in questa direzione [34]. Più precisamente, nel riformato art. 9 Cost. sono accostati tre “concetti”, sul cui collegamento non sembra esservi stata completa attenzione: “cultura”, “Nazione”, rapporto tra le generazioni [35]. Immaginare con Bauman una società che “inventa” sé stessa ogni giorno è solo un esercizio intellettualistico vago e sterile. Le comunità di oggi sono, infatti, il frutto di quelle passate, della loro Storia, con le sue luci e le sue ombre: l’art. 9 Cost. non fa che prenderne atto. Le comunità esprimono valori costumi cultura, e a loro volta sono espressione di valori costumi cultura.
Questa consapevolezza rinviene un preciso riscontro negli ordinamenti giuridici. Sia pure con modalità diverse tra loro, tutti gli ordinamenti giuridici, infatti, pretendono che nell’amministrazione della giustizia, ossia nella determinazione delle regole volte in concreto a disciplinare i rapporti tra i membri della comunità, si presti attenzione al “precedente”, alle precedenti decisioni assunte da altri giudici sulla medesima materia. Ciò significa che i giudici, nel decidere i conflitti che inevitabilmente attraversano la vita degli esseri umani e delle comunità, debbono tener conto dei criteri che nel passato hanno ispirato la soluzione di quei conflitti.
A volte si cade nell’equivoco di ritenere che l’attenzione al “precedente” sia una caratteristica degli ordinamenti di common law e sia, dunque, estranea all’ordinamento italiano, che con l’art. 101, comma 2, Cost. vincola il giudice “soltanto alla legge” e con ciò sembra esonerarlo dal prestare attenzione ai “precedenti”: in questo modo – si osserva non senza ragione – è preservata l’indipendenza del giudice e la sua completa attenzione al caso concreto a lui sottoposto. In realtà, proprio “la legge” interviene con un reticolo di disposizioni ad orientare autonomia e libertà di giudizio del giudice: ad esempio, l’art. 118 disp. Att. C.p.c. stabilisce che il giudice, nel motivare la sentenza, deve fare “riferimento a precedenti conformi”. Questa disposizione - al pari delle altre analoghe susseguitesi negli ultimi anni [36] - mira in definitiva a preservare, attraverso “l’uniforme interpretazione della legge”, “l’unità del diritto nazionale” (art. 65, r.d. sull’ordinamento giudiziario).
9. Il “volksgeist” oggi
“Unità del diritto nazionale”, “uniforme interpretazione della legge”: sullo sfondo di queste locuzioni non v’è solo l’esigenza di “certezza del diritto”, con le sue molteplici sfumature; non v’è neppure solo quella esigenza di “calcolabilità” necessaria al capitalismo anche sul piano giuridico [37]. Perspicuamente si è osservato che la continuità degli orientamenti giurisprudenziali, l’attenzione al “precedente” costituiscono una risposta al “sentimento di perdita e di spaesamento” oggi avvertito sul piano sociale e culturale [38]: l’attenzione alle regole e ai criteri che nel passato hanno guidato le condotte dei membri della comunità, rappresentano un elemento di coesione e di sopravvivenza della comunità stessa. Di qui, l’innata attenzione a ciò che si è fatto in passato; di qui, l’innata attenzione all’esperienza.
Non si può non cogliere l’importanza dello spunto offerto a proposito del significato della rilevanza del “precedente”: esso indica come la reazione alla “società liquida”, di cui si diceva prima, non può risolversi in petizioni di principio, ma si attua anche nei concreti meccanismi giuridici diretti a garantire la stabilità della comunità attraverso la stabilità del suo ordinamento. In altre parole, una accorta salvaguardia dell’“unità del diritto nazionale” rappresenta un argine allo sfaldamento incombente sui rapporti sociali quando questi siano lasciati in balia di quella incontrollata “autoffermazione degli individui”, che costituisce la nota di fondo della “società liquida”. Questa conclusione non è casuale: il “diritto nazionale”, la cui custodia è consegnata al giudice dall’art. 101 Cost., non è frutto del caso e non è neppure solo una “tecnica di organizzazione sociale” fondata sulla coercizione [39]. A proposito del “diritto”, del senso della legge, vengono alla mente le parole di un giurista che ha largamente contribuito alla fondazione della cultura giuridica contemporanea: “la legge è l’organo del diritto del popolo. Per dubitarne, sarebbe necessario figurarsi che il legislatore stesse fuori della nazione”. Al contrario, il legislatore “ne concentra in sé lo spirito, i sentimenti, i bisogni e noi possiamo considerarlo come il vero rappresentante dello spirito popolare” [40].
Malgrado i due secolo trascorsi, queste parole conservano un loro nucleo di verità ed infatti hanno un immediato riscontro nel pensiero del Primo Presidente della Corte di Cassazione prima riportato: la comunità è latrice di valori che non si formano nel breve svolgersi di una generazione, ma si tramandano nell’esperienza storica della comunità medesima di generazione in generazione; questi valori si riflettono nelle regole che disciplinano le condotte concrete degli appartenenti alla comunità nella costruzione di uno spazio comune di vita; la conservazione di tali valori è un argine al “sentimento di perdita e di spaesamento”, che oggi lamentiamo.
Emerge ancora una volta la linea di continuità tra il novellato art. 9 Cost e l’art. 101. Essa si muove sulla consapevolezza che le comunità sopravvivono grazie ai valori, ai costumi, alla Storia che ne animano le leggi [41], così garantendone la continuità. Di qui la necessità – sancita, come si è visto, dalla Costituzione e dalla legge ordinaria – di prestare attenzione ai valori, ai costumi espressi dalla comunità e da quel “popolo”, che – apparente ed improbabile titolare della “sovranità” [42]- si invera nella successione delle generazioni.
L’importanza di questo aspetto non può sfuggire; solo comunità, Nazioni, Stati confidenti nei propri valori possono acquisire dignità e consapevolezza di sé e su questa base possono efficacemente collaborare con le altre Nazioni che storicamente ne condividono valori e cultura: solo a queste condizioni, infatti, è possibile per ciascuna comunità nazionale una collaborazione con le altre Nazioni che sia effettivamente paritaria, secondo il disposto dell’art. 11 Cost.; solo a queste condizioni, infatti, sarà possibile porre in essere il filtro necessario ad evitare sacrifici unilaterali a vantaggio di partner non sempre parimenti solidali. Non diversamente, solo nazioni consapevoli di sé stesse possono misurarsi con le sfide di un mondo globale e le conseguenti aperture – anche umanitarie - che solo una matura coscienza di sé rende equilibrate.
10. Persona e comunità
Nelle direzioni sopra indicate l’art. 9 pone le basi di un nuovo ambientalismo, fondato su “cultura” e “natura”: di entrambe è elemento costitutivo il susseguirsi delle generazioni e delle persone che ne fanno parte. Per tale via l’art. 9 deve essere collegato con gli artt. 2 e 3 Cost., i quali si segnalano per la centralità assegnata al singolo individuo (art. 2), visto nella sua caratterizzazione biologica di “persona umana” (art. 3).
Il collegamento non sembra privo di interesse. Innanzi tutto, gli artt. 2 e 3 intervengono sull’art. 9, disinnescando la possibilità che il suo riferimento alla “biodiversità” e agli “ecosistemi” possa essere ritenuto un cedimento al c.d. “antispecismo” [43]. L’art. 9 Cost., infatti, non solo non contiene alcun elemento idoneo ad infirmare la centralità della “persona umana” fissata dagli artt. 2 e 3 Cost., ma al contrario rafforza tale centralità, in primo luogo, allorché esplicitamente asservisce “biodiversità” ed “ecosistemi” all’“interesse delle future generazioni”, nelle quali la persona umana perpetua sé stessa; in secondo luogo, l’art. 9, con il suo accento sull’ambiente, sulle biodiversità ecc. conferma che le declinazioni biologiche, naturali, della “persona umana” devono necessariamente partecipare dell’intangibilità riservata alla biodiversità e all’ambiente: infatti, sembra arduo sostenere che le caratteristiche biologiche umane non siano intrinsecamente parte delle “biodiversità”, con la conseguenza che anche i fondamenti biologici degli esseri umani, al pari delle biodiversità, non possono essere alterati dalla tecnologia, ossia dalla artificialità dell’intervento umano sulla natura e sulle sue cadenze, anche ovviamente per quanto riguarda le modalità riproduttive.
Gli artt. 2 e 3 pongono il delicato rapporto tra la persona e le comunità, le quali altro non sono che le “formazioni sociali” menzionate nello stesso art. 2. In tali formazioni sociali, in tali comunità, l’art. 2 riconosce la condizione per lo “svolgersi”, vale a dire per l’effettivo concretizzarsi, della personalità individuale. Non diversamente, l’art. 32 cost. traccia un evidente parallelo tra lo “sviluppo della persona umana” e l’“effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
In entrambi i casi il pensiero va al motivo hegeliano dell’inveramento dell’individuo nelle formazioni sociali, nelle quali egli vive ed opera. Queste assonanze sono certamente temperate dal rilievo assegnato a taluni diritti dell’individuo: più precisamente, l’art. 2 Cost. impone allo Stato di riconoscere e garantire i “diritti inviolabili dell’uomo”, senza peraltro specificare quali essi possano essere. Certamente tali “diritti inviolabili” non possono confondersi con l’egotico – quanto evanescente - “diritto all’autoaffermazione” di Bauman. Ciò, non solo perché essi debbono necessariamente misurarsi con i “diritti inviolabili” altrui, ma – soprattutto – perché essi non possono scindersi dai “doveri inderogabili”, che pure sono parte dell’art. 2. Emerge, così, un principio etico-politico dal valore costitutivo: i diritti “inviolabili” degli individui sono intimamente collegati con i loro “doveri inderogabili”, con i quali non possono non conciliarsi. Questa connessione definisce la trama fondamentale della comunità nazionale in quella prospettiva di “solidarietà politica, economica e sociale”, nella quale la Costituzione individua uno dei compiti primari della Repubblica.
In conclusione, non più solo l’etica sostanzialmente unilaterale dei “diritti” predicata da “liberali” e “progressisti”. Per entrambi sono emerse perplessità non di secondo piano: per quanto riguarda i primi, la fiducia nelle scelte individuali deve confrontarsi con il reale funzionamento del cervello umano, che in parte spiega e certamente aggrava le diseguaglianze sostanziali determinate dal mercato tra i membri della comunità; per quanto riguarda i secondi, l’astratta visione intellettualistica, nel pretendere di correggere la natura, la tradisce e contribuisce allo straniamento dell’essere umano. A questa etica dei diritti, gli artt. 2 e 3 Cost. – non diversamente dagli artt. 9 e 101 e da altre disposizioni costituzionali che qui non è possibile passare in rassegna – sembrano contrapporre un’etica e una politica che coniugano diritti e doveri all’interno della comunità in cui si svolge la vita delle persone: non può darsi benessere privato al di fuori della comunità, della quale il primo è funzione costitutiva [44]. Nella inevitabile genericità di poche pagine ci si chiede se questo possa essere un primo passo per dare un senso della parola “conservatore” nel XXI secolo.
* Una versione ridotta di queste riflessioni è presente anche sul portale del Centro Studi Machiavelli (www.centromachiavelli.com).
[1] V. ad es. – oltre a Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma, 1994 –le differenti prospettive di Fava, La destra e la sinistra nell’era dei populismi. Uno studio di caso, in Polis, 2022, 2, 219 ss.; Becchi, in L’ircocervo, 19 (2020), n. 1, 16; Tarchi, Destra e sinistra. Due concetti sospesi tra essenze, tipi ideali e convenzioni, in Passigli (cur.), La politica come scienza. Scritti in onore di Giovanni Sartori, Firenze, 2015, 471 ss.; Donnarumma, Destra e sinistra: una diade ancora attuale”, in Diritto penale e uomo, disponibile in https://dirittopenaleuomo.org/contributi_dpu/destra-e-sinistra-una-diade-ancora-attuale/.
[2] Così Tarchi, op. cit., 480.
[3] Kant, La metafisica dei costumi, trad. it. Di Vidari, Roma-Bari, 1998, 34.
[4] V. ad es. a proposito di maternità surrogata La Rocca, La genitorialità omoaffettiva tra artt. 2 e 29 Cost., in www.ilcaso.it, 7 ss. Un’ampia indagine sul tema della “dignità” in BECCHI, Il principio della dignità umana2, Brescia, 2013.
[5] “La teoria economica tradizionale postula un “uomo economico” che, nell’essere “economico”, è anche “razionale”. Si assume che quest’uomo abbia una conoscenza degli aspetti rilevanti del suo ambiente che, se non è competa in assoluta, è almeno eccezionalmente chiara e voluminosa. Si assume anche che abbia un sistema di preferenze ben organizzato e stabile, ed una abilità di calcolo che lo metta in grado di stabilire, tra i corsi di azione alternativi che gli sono disponibili, quale gli permetta di raggiungere il punto più alto ottenibile sulla sua scala di preferenza”: così H. A. Simon, premio Nobel per l’economia 1978, descrive in senso critico il modello cui si fa riferimento nel testo in Un modello comportamentale di scelta razionale (A Behavioural Model of Rational Choice, 1955), ora in Causalità, razionalità, organizzazione, Bologna, 1985, 119 ss.
[6] Ne sono ovviamente consapevoli gli stessi economisti: il Premio Nobel per l’economia del 1991 ha sarcasticamente osservato, tra l’altro, che «il razionale massimizzatore di utilità della teoria economica non ha punto di contatto con l’uomo sul bus per Clapham, o veramente con alcun uomo o donna e su un qualsiasi bus» (Coase, Impresa mercati diritto, ed. it., Bologna, 1995, 41 ss.).
[7] Fama, Efficient Capital Markets: a review of theory and empirical work, in The Journal of Finance, 1970, vol. 25, n. 2, 383 ss.
[8] V. almeno Mayer-Schönberger, Cukier, Big Data. Una rivoluzione che trasformerà il nostro modo di vivere, Milano, 2013.
[9] In proposito v. almeno Onado, I nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole mai scritte, Roma-Bari, 2009;R. Posner, La crisi della democrazia capitalista, con pref. di Guido Rossi, Milano, 2010; Partnoy, Financial systems, crises and regulation, in Moloney, Ferran, Payne (curr.), The Oxford Handbook of financial regulation, Oxford University, 2017, 68 ss.
[10] Sunstein, Effetto nudge. La politica del paternalismo libertario, ed. it., Milano, 2015.
[11] Per indicazioni v. La Rocca, Introduzione alla product governance. Premesse sistematiche; obblighi e responsabilità dei «produttori», in Banca, borsa, tit. credito, 2021, I, 566 ss.
[12] Kahneman, Pensieri lenti e veloci, ed. it. Milano, 2013, 425.
[13] Sulla letteratura in materia v. almeno Saltari (cur.), Informazione e teoria economica, Bologna, 1990; Löfgren, Persson, Weibull Markets with asymmetric information: the contribution of George Akerlof, Michael Spence and Joseph Stiglitz, in Scand. J. Of Economics 104 (2), 195-211, (2002).
[14] Oliverio, Neuroscienze cognitive, voce dell’Enciclopedia Italiana, appendice VII, Roma, 2007.
[15] Kahneman, op. cit., 91 ss.; Elster, Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e sull’irrazionalità, ed. it., Bologna, 1983, 219 ss.
[16] Si è affermato infatti che l’uomo ha potere sulla natura “per intellectum et voluntatem, quia per haec immediate habet potestatem in suos actus et per suos actus in res externas” (Lessio, De Iustitia et Iure ceterisque virtutibus cardinalibus libri quatuor. Ad secundam secundae, D. Thoma, a quaest. 47 usque ad 171., Ed. Tertia, Milano, 1613, Liber Secundus, Caput Quartum, Quibus et in quae Dominium competat, Dub. I, 1, pag. 23.
[17] Pie. Rossi, Progresso, voce dell’Enc. Delle scienze sociali, Roma, VII, 1997.
[18] V. Erario, Transfemminismo istituzionalizzato, Dossier del Machiavelli n. 32, 2022, disponibile in https://www.centromachiavelli.com/2022/02/16/transfemminismo-ddl-zan-identita-genere/
[19] Veneziani, La Cappa. Per una critica del presente, Venezia, 2022, 11. Esempi possibili di richieste di questo tipo, puntualmente accolte da quanti si dichiarano “progressisti”, sono la rincorsa alle “identità di genere” nel c.d. “d.d.l. Zan” (v. La Rocca, Tecnica legislativa e conflitti culturali nel d.d.l. Zan, in www.ilcaso.it) e l’aspirazione a ricorrere alla maternità surrogata da parte di coppie omosessuali.
[20] Ne accenna Malaguti, La Destra affermatrice, in https://www.centromachiavelli.com/2022/08/10/destra-affermatrice-conservatrice/
[21] Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, 2011, VI.
[22] Zatti, Di là dal velo della persona fisica. Realtà del corpo e diritti “dell’uomo”, in Maschere del diritto. Volti della vita, Milano, 2009, 205 ss, 221.
[23] Tra molti Reichlin, Oltre l’uomo? L’ideologia scientista del transumanesimo, in Aggiornamenti sociali, 2012, 753 ss.; Rossetti, Il transumanesimo, in Rassegna di teologia, 59 (2018), 373 ss.
[24] Veneziani, op. cit., 67 ss.; Greppi, Contrastare la cancel culture. Inquadramento e proposte pratiche, in https://www.centromachiavelli.com/2021/11/22/cosa-e-cancel-culture-come-contrastare/.
[25] E. Gentile, Introduzione a Modernità totalitaria. Il fascismo italiano, a cura di E. Gentile, Roma-Bari, 2008.
[26] Friedman, Liberi di scegliere, ed. it., Milano, 1981, spec. 67 ss.
[27] Bauman, op. cit., 4.
[28] Bauman, op. cit., 20.
[29] Bauman, op. cit., 208.
[30] Così ancora Bauman, op. cit., 208.
[31] Per le necessarie precisazioni sul concetto v. almeno Gough, Il contratto sociale. Storia critica di una teoria, ed. it., Bologna, 1986.
[32] Bauman, op. cit., 196 ss.
[33] Forse non è ultroneo richiamare Aristotele, Politica, Roma-Bari, 1993, 1253 a, 1-5, dove – detto incidentalmente – non mancano osservazioni che oggi sembrano “sconvolgenti”: “se si studiassero le cose svolgersi dall’origine … se ne avrebbe una visione quanto mai chiara. È necessario, in primo luogo, che si uniscano gli esseri che non sono in grado di esistere separati … per esempio la femmina ed il maschio in vista della riproduzione” (1252 a, 25-30).
[34] Sul nuovo art. 9 v. Agnoli, L’ambiente nella Costituzione, in https://www.centrostudilivatino.it/lambiente-nella-costituzione/;
[35] Il collegamento tra questi aspetti non nasce oggi: v. ad es. Al. Rocco, Scritti e discorsi politici, Milano, 1938; per il collegamento tra Patria, pietas e cultura v. recentemente Ronco, Essere “patriota”, ossia la verità della Patria, in L-JUS, 2-2021, in https://l-jus.it/essere-patriota-ossia-la-verita-della-patria/.
[36] Sulle quali v. l’efficace sintesi di Curzio, Il giudice e il precedente, in Questione Giustizia, 4/2018, 37 ss.
[37] Riassuntivamente Irti, Un diritto incalcolabile, in Riv. Dir. civ., 2015, I, 11 ss.
[38] Curzio, op. cit., 41.
[39] Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, sesta ediz. It., Milano, 1994.
[40] Savigny, Sistema del diritto romano attuale, traduzione dall’originale tedesco di Vittorio Scialoja, Torino, 1891, Lib. I, cap. II, § 13, 39.
[41] È l’idea di Ascarelli, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962, 85: «il diritto, opera degli uomini e frutto delle loro lotte e dei loro contrasti, delle loro speranze e delle loro tradizioni, è nella storia, né può essere compreso o inteso fuori del suo fluire nella storia e fuori dall’unità di questa».
[42] È sufficiente rinviare a Mortati, Commento all’art. 1 cost, in Commentario alla costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma, 1975, 21 ss.
[43] Come temuto da Milano, Con la riforma degli artt. 9 e 41 Cost. l’ecologicamente corretto entra in costituzione, in https://www.centrostudilivatino.it/con-la-riforma-degli-art-9-e-41-lecologicamente-corretto-entra-in-costituzione/.
[44] Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 261.
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