Bancario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 23/09/2009 Scarica PDF
Gli "operatori qualificati" in cassazione (commento a Cass. 12138/09)
Gioacchino La Rocca, Professore ordinario di diritto civile nell'Università di Milano BicoccaI. - La
sentenza interviene su una delle "pietre angolari" di ogni sistema di
regolazione dei servizi di investimento: il c.d. "principio di
graduazione" (HUGHES, KATZ, Investment firms - Wholesale sector, in BLAIR,
WALKER (Cur.), Financial Service Law, Oxford, 2006, 397). In Europa esso è
stato inizialmente formalizzato nel Financial Services Act inglese del 1986,
ossia il testo legislativo che ha rappresentato una sorta di "bibbia"
della disciplina del mercato finanziario in Europa, dalla quale hanno attinto
sia il legislatore italiano all'epoca della c.d. "legge Sim", sia il
legislatore comunitario con la dir. 93/22/CE. Il legislatore inglese esprimeva il principio di "graduazione"
avvertendo che "provisions that are appropriate for regulating the conduct
of business in relation to some classes of investors may not (by reason of
their Knowledge, experience or otherwise) be appropriate in relation to
others". La conseguenza comunemente tratta dal principio stesso è che la disciplina
c.d. "di protezione" del cliente, che nei servizi di investimento
rappresenta la regola, non deve essere applicata quando non è necessaria in
rapporto alla qualità del fruitore dei servizi medesimi.
La centralità del "principio di graduazione" è dimostrata dal fatto
che, negli ordinamenti nei quali il legislatore ordinario non ha esplicitamente
preso posizione su di esso, la lacuna è stata colmata o dalla giurisprudenza e
dalla dottrina, come è avvenuto in Francia e negli Stati Uniti (cfr.
ANNUNZIATA, Regole di comportamento degli intermediari e riforme dei mercati
mobiliari, Milano, 1993, 106; HAZEN, The law of securities regulation5, St.
Paul, 2006, 670); oppure dalla normativa di secondo livello. Quest'ultimo è
stato il caso dell'Italia: la legge n. 1 del 1991, la già menzionata
"legge Sim", prescriveva che i principi generali per lo svolgimento
dei servizi di investimento ivi previsti si applicassero a tutti i "clienti"
senza distinzioni (art. 6). Ad introdurre il "principio di
graduazione" in Italia ha, quindi, provveduto d'iniziativa la Consob con
l'art. 13, reg. 2 luglio 1991, n. 5387, il quale ha escluso i clienti c.d.
"esperti", denominati dalla Consob "operatori qualificati",
dall'applicazione delle disposizioni di tutela dei normali clienti, emanate
dalla stessa Consob.
Proprio sull'interpretazione di tale disposizione è intervenuta la sentenza in
epigrafe, la quale, peraltro, è dotata di grande attualità perché la norma
contenuta nel cit. art. 13 è stata reiterata (seppure con variazioni testuali
di dettaglio) più volte dalla Consob e - incorporata tra il 1998 ed il 2007
nell'art. 31, reg. Consob, 1° luglio 1998, n. 11522 - è al centro di un
contenzioso vivacissimo e delicato tra le piccole e medie imprese, da un lato,
e le banche (anzi, sostanzialmente un gruppo bancario) dall'altro lato.
II. - Per comprendere la portata della sentenza ed i problemi sui quali essa
interviene, è utile rammentare brevemente la struttura della norma che dal 1991
(con l'art. 13, reg. Consob 5387) al novembre 2007 (con l'art. 31, reg. Consob
n. 11522/98) ha disciplinato in Italia la prestazione dei servizi di
investimento agli "operatori qualificati".
La norma
a) configurava due sole categorie di possibili "operatori
qualificati": a1) i soggetti che operano professionalmente nel mercato
finanziario (es. banche, SGR, SIM ecc e persone fisiche munite dei particolari
requisiti di professionalità richiesti per svolgere funzioni di amministrazione
e controllo o funzioni di promotore finanziario presso detti enti); a2)
soggetti che operano in mercati diversi dal quello finanziario ("ogni
società o persona giuridica");
b) per questa seconda categoria di soggetti richiedeva il "possesso di una
specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti
finanziari";
c) affidava la determinazione di detto requisito della "specifica
competenza ed esperienza" ad una dichiarazione del rappresentante legale
della "società o persona giuridica".
Per un corretto apprezzamento della norma è utile confrontarla con la coeva
disciplina inglese. Nel 1991 (data alla quale, come si ricorderà, risale la
norma oggetto della decisione qui commentata) l'ordinamento inglese conosceva
almeno sei tipi diversi di clienti ed affidava la loro classificazione, non già
agli stessi interessati, ma alle investment firms, ossia alle imprese di
investimento, agli intermediari finanziari (v. per tutti ASHE, Conduct of
investment business, in The Company Lawyer, 1987, 154 ss.; R. LENER, Forma
contrattuale e tutela del contraente "non qualificato" nel mercato
finanziario, Milano, 1996, 196).
Il confronto con gli inglesi è utile per due motivi. Innanzi tutto, evidenzia
quanto la norma Consob vigente fino al mese di novembre 2007 fosse poco
flessibile e, dunque, sostanzialmente inadeguata proprio a dar corso al
"principio di graduazione", che, invece, rinviene proprio nella
flessibilità la propria ragion d'essere. Il principio in discorso, infatti,
rifugge da secche alternative: o cliente "qualificato" e, quindi, in
ipotesi zero protezione, ovvero "cliente retail" e quindi massima
protezione. Al contrario, esso di sua natura postula che la protezione vari a
seconda dell'effettiva asimmetria informativa che divide le parti del
contratto.
In secondo luogo, il confronto con le norme inglesi è utile per comprendere
come, sul piano letterale, la norma italiana fosse particolarmente favorevole
agli intermediari finanziari in quanto assegnava oneri, costi e rischi connessi
alla determinazione della qualità del cliente esclusivamente al cliente stesso,
così di fatto trasformando la normativa di primo livello, che per definizione
era inderogabile, in una normativa derogabile per effetto di una dichiarazione
dell'interessato senza alcun controllo sul contenuto della dichiarazione
stessa.
Se, poi, si estende il confronto a Francia e Belgio, si rafforza la sensazione
che la norma italiana si distinguesse rispetto alle esperienze straniere per
essere squilibrata a favore degli intermediari finanziari: in questi due paesi
potevano essere "operatori qualificati" solo soggetti
professionalmente operanti sul mercato finanziario e non, come in Italia,
"ogni società o persona giuridica". Solo in Francia erano ammesse
eccezioni, ma riguardavano esclusivamente imprese non finanziarie di dimensioni
rilevanti (cfr. CHIONNA, L'accertamento della natura di"operatore
qualificato" del mercato finanziario rispetto ad una società, in Banca,
borsa, tit. credito, 2005, II, 38 ss., 43 s.).
III. - L'inadeguatezza della norma è stata percepita dalla giurisprudenza di
merito che ha, infatti, denunciato "l'indubbio limite" della norma
stessa (Trib. Milano, 3 aprile 2004 (ord.), in Giur. comm., 2004, II, 530, con
nota di E. RIMINI).
A seguito di questo "indubbio limite" la giurisprudenza di merito si
è fortemente divisa sull'interpretazione della norma ed in particolare sui
criteri attraverso i quali determinare se la "società o persona
giuridica" di volta in volta interessata è in "possesso" di
quella "specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in
strumenti finanziari" necessaria affinché, secondo la norma stessa,
possano disapplicarsi le disposizioni Consob sulla tutela dell'investitore.
Più precisamente, nella giurisprudenza di merito più recente possono
individuarsi almeno tre orientamenti diversi:
A) Secondo un primo orientamento - di matrice, è stato detto,
"ambrosiana" perché inaugurato da decisioni assunte dalle corti
milanesi - la dichiarazione richiesta dalla norma della Consob per poter
inserire una "società o persona giuridica" tra gli operatori
qualificati, deve essere valutata in termini di "autoresponsabilità"
del dichiarante e possiede un intrinseco valore esaustivo, con la duplice
conseguenza che I) la dichiarazione di "competenza" resa dal legale
rappresentante della società è sufficiente a riconoscere alla società stessa la
qualità di "operatore qualificato" e II) che, correlativamente, si
deve escludere che "gli intermediari finanziari [avessero] l'obbligo di verificare
l'effettiva sussistenza del possesso della specifica competenza ed esperienza
in materia di operazioni e servizi finanziari dichiarata dal legale
rappresentante di una società" (v. App. Milano 12 ottobre 2007, Giur. it.,
2008, 1165, con nota di MOTTI; Trib. Milano 20 luglio 2006, in Nuova giur.
civile, 2007, I, 809, con nota di TOMMASINI; Trib. Forlì, 11 agosto 2008, in www.ilcaso.it;
Trib. Venezia, 25 ottobre 2007, in www.ilcaso.it, la quale,
peraltro, sia pure "solo per completezza" adduce a supporto della
dichiarazione del cliente "risultanze processuali" che la avvicinano
ad orientamenti giurisprudenziali riportati infra nel testo sub B); Trib. Cuneo
8 febbraio 2009, in "il caso.it"; Trib. Rimini (ord.), 25 marzo 2005,
in "www.ilcaso.it"; Trib. Mantova, 9 giugno 2005, in
"www.ilcaso.it").
B) A questa interpretazione della norma si è contrapposto un secondo
orientamento, il quale ha concluso nel senso che la dichiarazione del cliente
di essere "esperto" di per sé è inefficace. Infatti, per poter
escludere il dichiarante dall'applicazione della ordinaria normativa di tutela
degli investitori "era necessario che la parte dichiarasse non la propria
competenza (che costituisce il risultato finale del giudizio), ma le proprie
esperienze in misura idonea a ritenere di essere in grado di comprendere la
complessità dei contratti che si venivano a proporre in ragione della propria
esperienza dichiarata" (App. Trento, 5 marzo 2009, in questo sito, pag. 30
della motivazione; Trib. Vicenza (ord.), 12 febbraio 2008, in Banca, borsa,
tit. credito, 2009, II, 203, con nota di TATOZZI; Trib. Torino, 18 settembre
2007, in Nuova giurispr. Civ. commentata, 2008, I, 337 ss., con nota di
BONTEMPI).
All'interno di questo secondo orientamento sembrano individuabili diverse linee
di pensiero in ordine alla condotta che l'intermediario finanziario avrebbe
dovuto tenere di fronte alla dichiarazione del cliente di essere
"esperto" in materia finanziaria: secondo alcuni giudici "la
banca non [avrebbe dovuto] accertare la veridicità del curriculum esposto dal
cliente, né [si sarebbe dovuta preoccupare] di acquisire la documentazione
comprovante le dichiarazioni della parte; [avrebbe dovuto] però accertarsi che
il cliente dichiarasse delle esperienze che la banca stessa avesse potuto
assumere (con un giudizio di ragionevolezza) come sufficienti per comprendere
la straordinaria complessità dei contratti che proponeva" (App. Trento, 5
marzo 2009, cit.; Trib. Vicenza (ord.), 12 febbraio 2008, id., Rep. 2008, voce
cit., n. 184; Trib. Torino, 18 settembre 2007, cit., n. 263).
Altri giudici hanno preferito una soluzione diversa. Secondo costoro, la banca,
di fronte ad una dichiarazione priva dell'indicazione dei fatti, delle
esperienze che avrebbero determinato la qualità di cliente "esperto"
del dichiarante, avrebbe avuto l'obbligo di "acquisire ... element[i]
idone[i] a corroborare la proclamata specifica competenza ed esperienza"
(Trib. Novara, 18 gennaio 2007, disponibile su questo sito).
Infine, secondo altre decisioni - che pure, per le premesse dalle quali
muovono, sono riconducibili all'orientamento ora in esame - l'intermediario
finanziario, "in un'ottica di maggiore responsabilizzazione della sua
funzione", avrebbe avuto l'obbligo di verificare "la concreta
rispondenza tra il dato reale e quanto dichiarato dal legale
rappresentante" della persona giuridica cliente (Trib. Vicenza, 29 gennaio
2009, leggibile su questo sito).
Non è inopportuno soffermarsi su questi due ultimi esiti giurisprudenziali per
sottolinearne le differenze: per il Tribunale di Novara, l'obbligo dell'intermediario
di "acquisire ... element[i] idone[i] a corroborare la proclamata
specifica competenza ed esperienza" scatta solo in presenza di una
dichiarazione della parte priva di fatti specifici idonei a supportare
l'assunto secondo cui il cliente sarebbe "qualificato". Al contrario,
secondo la sentenza del 29 gennaio 2009 del Tribunale di Vicenza, per
l'intermediario l'obbligo di verificare "la concreta rispondenza tra il
dato reale e quanto dichiarato dal legale rappresentante" della persona
giuridica cliente sussisterebbe in ogni caso.
C) Nella giurisprudenza di merito, è configurabile, infine, un terzo
orientamento, che si caratterizza perché pone a carico dell'intermediario un
diverso specifico obbligo. Più precisamente, secondo questo terzo orientamento,
nella vigenza dell'art. 31 cit., l'impresa di investimento "prima di
raccogliere la dichiarazione di cui all'art. 31 co 2 ultima parte Reg. Consob,
[avrebbe dovuto] avvertire la cliente persona giuridica o società del
significato della dichiarazione e delle conseguenze che da essa ne derivavano
in termini di minore protezione quanto agli obblighi di informazione. E'
evidente poi che l'intermediario, in quel primo contatto con la cliente,
[avrebbe dovuto] avere la ragionevole certezza che la sua controparte avesse
compreso l'avvertimento e la comunicazione data". Adempiuto a
quest'obbligo "in termini di assoluta trasparenza e correttezza"
l'intermediario "non era tenuto a verificare l'effettiva sussistenza della
conoscenza ed esperienza dichiarata, sempre che non fosse del tutto evidente
che la società o persona giuridica ignorava completamente il settore
finanziario e quindi salvo sempre il dovere dell'intermediario di tenere conto
della conoscenza effettiva che aveva della controparte" (così Trib.
Milano, 15 ottobre 2008; Trib. Catania, 13 febbraio 2009: entrambe su questo
sito; sulla sentenza ult. cit. del tribunale di Milano merita attenzione il
commento di BENASSI, Operatore qualificato e obbligo di informazione:
interpretazione integrativa dell'art. 31 del regolamento e dubbi di
costituzionalità, in questo sito).
IV. - Il quadro della giurisprudenza di merito sopra riportato è utile per più
versi. In primo luogo smentisce la ricorrente affermazione secondo la quale
sarebbe maggioritario l'orientamento più favorevole agli intermediari
finanziari sopra indicato sub A (così, ad es., BOCHICCHIO, Gli strumenti
derivati: i controlli sulle patologie del capitalismo finanziario, in Contratto
e impresa, 2009, 305 ss., 310, nota 10; TATOZZI, La nozione di "operatore
qualificato" tra vecchie incertezze interpretative e nuovi assetti
normativi, in Banca, borsa, tit. credito, 2009, II, 205 ss.; SALATINO,
Contratti di swap. Dall'"operatore qualificato" al "cliente
professionale": il tramonto delle dichiarazioni
"autoreferenziali", in Banca, borsa, tit. credito, 2009, I, 201 ss.,
208.). Al contrario, ad un esame attento la giurisprudenza di merito si rivela
sostanzialmente incapace di esprimere un orientamento che possa realmente dirsi
maggioritario.
In secondo luogo, la giurisprudenza di merito passata in rassegna nel
precedente paragrafo consente di apprezzare meglio la portata di Cass.
12138/09. Invero, la Cassazione interviene proprio sull'aspetto che divide la
giurisprudenza di merito nell'interpretazione della norma a suo tempo emanata
dalla Consob, vale a dire il valore da assegnare alla dichiarazione con la
quale il legale rappresentante della "società o persona giuridica"
afferma che l'ente da lui rappresentato possiede "una specifica competenza
ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari". In
particolare, la cassazione smentisce l'orientamento riportato sopra sub A),
vale a dire la giurisprudenza che ha nel tribunale e nella corte d'appello di
Milano i suoi più noti esponenti. Afferma, infatti, la cassazione che la
dichiarazione de qua - lungi dall'essere dotata di un qualsiasi valore
esaustivo - costituisce solo un "argomento di prova che il giudice -
nell'esercizio del suo discrezionale potere di valutazione del materiale
probatorio a sua disposizione e di apprezzamento del complessivo comportamento
processuale ed extra processuale delle parti (art 116 c.p.c.) - può porre a
base della propria decisione in difetto di ulteriori riscontri".
In altre parole, contrariamente a quanto preteso dalla giurisprudenza di merito
più favorevole agli intermediari, secondo la cassazione la dichiarazione de qua
è assolutamente priva di alcuna efficacia vincolante - vuoi sul piano
negoziale, vuoi su quello confessorio (in questi termini sembrerebbe in dottrina
SESTA, La dichiarazione di operatore qualificato ex art. 31, reg. Consob n.
11522/1998 tra obblighi dell'intermediario finanziario e autoresponsabilità del
dichiarante, in Corr. Giuridico, 2008, 1751 ss.) - sia nei confronti del
dichiarante, sia nei confronti del giudice. Nella prospettiva della cassazione,
la dichiarazione del legale rappresentante del cliente è solo un
"argomento di prova" da valutarsi in comparazione con altri elementi
di prova, che dovranno essere introdotti nel processo dalla parte interessata.
Per tale via la cassazione valorizza risultati già attinti da una parte della
giurisprudenza di merito, vuoi allorché quest'ultima ha confrontato la
dichiarazione rilasciata dal cliente della banca con le "risultanze
processuali" eventualmente in grado di fornire indicazioni di segno
opposto a quello proveniente dalla dichiarazione stessa (Trib. Torino, 18
settembre 2007, cit.), vuoi allorché ha utilizzato alcuni aspetti della
specifica situazione concreta per avvalorare la dichiarazione del cliente di
possedere "competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti
finanziari" (Trib. Milano (ord.), 3 aprile 2004, cit.).
V. - Tutto ciò non significa che Cass. n. 12138/09 non sia priva di ombre. In
apertura di questa nota si è ricordato come, all'epoca dell'emanazione
dell'art. 13, reg. Consob n. 5387/91, la norma di primo livello non prevedesse
alcuna distinzione tra i "clienti" quanto a trattamento giuridico. Le
distinzioni furono, invece, introdotte dalla Consob, senza, peraltro,
un'esplicita "delega" in tal senso da parte della legge. La Consob,
infatti, fu autorizzata dal legislatore ad introdurre una disciplina
diversificata a seconda delle "differenti esigenze di tutela degli
investitori connesse con la qualità e l'esperienza professionale" della
clientela solo con l'art. 25, d. lgs. n. 415/96.
In relazione al caso di specie deciso dalla cassazione si è determinato un
problema di antinomia tra norma secondaria e norma legislativa. La cassazione
supera detto problema attraverso il sapiente uso della distinzione tra norma
contra legem e norma preter legem.
Proprio su questo aspetto va soffermata l'attenzione. Nel tentativo di salvare
la legittimità della norma secondaria la Cassazione omette di indagare se nel
quadro delineato dalla "legge Sim" effettivamente sussisteva quel
varco in cui si sarebbe insinuata la Consob. In altre parole, la cassazione
omette di indagare se all'epoca della loro vigenza fossero effettivamente
conciliabili l'art. 13, reg. Consob n. 5387/91, e l'art. 6, l.n. 1/91. Più
precisamente, la Cassazione omette di valutare se la ripartizione di attività -
e, dunque, di rischi e costi - operata dalla prima norma tra clienti e banche
fosse effettivamente conciliabile con quella ricavabile dalla norma legislativa.
Sul punto occorre tener conto che la dichiarazione di "competenza ed
esperienza", richiesta dall'art. 13 cit., come pure dall'art. 31, reg.
Consob n. 11522/98, presupponeva costi rilevanti per l'acquisizione di una
vasta gamma di sofisticate informazioni, nonché costi ulteriori per verificare
l'idoneità delle informazioni acquisite a fondare una oggettiva
"competenza ed esperienza" in materia di operazioni su strumenti
finanziari. Si tratta di costi così elevati da risultare poco ragionevoli per
imprese non finanziare soprattutto se piccole e medie (per maggiori
approfondimenti sul punto v. LA ROCCA, Il "giusto equilibrio". La
prestazione dei servizi investimento a favore degli "operatori
qualificati", §§ 11 ss., in corso di stampa; e v. in proposito anche
BENASSI, op. cit., 17 s.). Orbene, alla stregua del tenore letterale delle
disposizioni Consob citate sembrerebbe che questi costi dovrebbero gravare
sulla società dichiarante; mentre, nessun costo al riguardo graverebbe
sull'intermediario finanziario.
Occorre, peraltro, valutare le conseguenze di una tale conclusione. La
dichiarazione de qua era un atto destinato ad essere reiterato sul mercato,
cosicché le norme Consob che la disciplinavano nel modo che si è detto,
assumevano una rilevanza di primo piano in quanto erano idonee ad improntare
sotto il profilo considerato la cifra del mercato stesso, vale a dire se esso
poteva considerarsi investor oriented o meno. A questa domanda le norme Consob
in discorso - vale a dire l'art. 13, reg. Consob n. 5387/91, come pure l'art.
31, reg. Consob n. 11522/98 - sembrerebbero dare risposta negativa: il mercato
riflesso dalle disposizioni predette è un mercato caratterizzato da una
posizione di oggettivo favore per gli intermediari finanziari e in questo senso
è un mercato che differenzierebbe la situazione italiana da quella europea,
dove, come si è visto, non si riscontravano, né si riscontrano caratteri
analoghi.
In questa prospettiva si comprende come le norme Consob sopra citate
acquistassero una valenza politica che non competeva loro, dal momento che per
Costituzione la valutazione della "utilità sociale" che funge da
parametro per la disciplina dell'impresa e del mercato (OPPO, Principi, in
Trattato di diritto commerciale diretto da Buonocore, sez. I, tomo I, Torino,
2001, 78 ss.), è rimessa al legislatore. Il che equivale a dire che la
gerarchia delle fonti, lungi dall'essere un residuato fuori moda, riveste uno
spessore politico e giuridico non superabile.
Ne segue che le norme emanate dalla Consob in materia debbono essere
interpretate alla stregua delle norme dettate dal legislatore sulla prestazione
dei servizi di investimento, perché sono queste ultime le sole legittimate a
dettare all'interprete la scala dei valori sui quali è articolato il mercato
finanziario. Ed in questo senso le norme costituzionali, le norme comunitarie e
le norme legislative sono univoche nell'assegnare un valore preminente
all'interesse dell'investitore, del cliente, rispetto a quello
dell'intermediario: questo, ad esempio, è il senso da assegnare alle norme
comunitarie (ivi compresa la Mifid: v. considerando n. 2) quando predicano un
"elevato livello di tutela dell'investitore" (cfr. ALPA, La c.d.
giuridificazione delle logiche dell'economia di mercato, in Riv. Trim. dir.
Proc. Civ., 1999, 725 ss.). Né questa preminenza della posizione del cliente
può stupire: in primo luogo, infatti, si tratta di un connotato che ha sempre
caratterizzato il diritto del mercato finanziario (v. le indicazioni riguardo
al diritto francese, al diritto inglese e alla giurisprudenza nordamericana
rispettivamente offerte da ANNUNZIATA, Regole di comportamento e deontologia
degli intermediari, in GERVASONI (cur.), Verso una borsa europea, Milano, 1992,
spec. 83 e 103; SARTORI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari.
Disciplina e forme di tutela, Milano, 2004, 143 ss.). In secondo luogo, contro
la posizione di preminenza dell'interesse del cliente - e contro il conseguente
adeguamento ad essa degli strumenti civilistici di tutela - non possono essere
invocati né la tradizione dogmatica, né pretesi postulati del libero mercato
(così PERRONE, La responsabilità degli intermediari: tutela del risparmiatore
incolpevole o "copertura assicurativa" per investimento sfortunato?,
in Banca, impresa, società, 2008, 389 ss.). Invero, sia la tradizione dogmatica
civilistica, sia i teoremi del "libero mercato" presuppongono una
assoluta parità tra le parti del contratto e, dunque, tra gli attori del
mercato, che assolutamente non esiste nel mercato finanziario, il quale, al
contrario, penalizza pesantemente il risparmiatore malgrado esso sia il
finanziatore ultimo del sistema. Inoltre, una regolamentazione market driven
non è né neutra, né può avere pretese di maggiore efficienza (come la recente
crisi finanziaria conferma: cfr. ONADO, I nodi al pettine. La crisi finanziaria
e le regole non scritte, Bari-Roma, 2009); l'unico dato sicuro a proposito di
una regolazione caratterizzata da light touch è che per sua natura
inevitabilmente privilegia i soggetti "forti" del mercato.
In relazione al tema specifico degli "operatori qualificati", la
rilevata preminenza dell'interesse del cliente fa sì che un'interpretazione
dell'art. 13 cit., come pure dell'art. 31 reg. Consob n. 11522/98, che ponga a
totale carico del cliente costi, oneri e rischi connessi alla dichiarazione
stessa, è contraria sia all'art. 62 tuf (che collega la "graduazione"
nella tutela all'effettiva "competenza" ed "esperienza"),
sia soprattutto all'art. 21, lett. A, tuf, che impone all'intermediario la
tutela dell'interesse del cliente e con ciò esclude che l'intermediario stesso
possa essere esonerato da qualsiasi attività ed onere in ordine
all'accertamento della "competenza" ed "esperienza" del
cliente stesso (nel senso qui sostenuto si è espressa la dottrina assolutamente
prevalente: v. ad es. ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare2, Torino,
2003, 116; E. RIMINI, Contratti di swap e "operatori qualificati", in
Giur. comm., 2004, II, 532 ss., 539; CHIONNA, op. cit., 50; SARTORI, Gli swap,
i clienti corporate e la nozione di operatore qualificato, in www.ilcaso.it;
SALATINO, op. cit., 210).
VI. - Risultano, a questo punto, evidenti i limiti della sentenza in epigrafe.
Il loro approfondimento analitico prenderebbe troppo spazio e deve
necessariamente essere rinviato ad altra sede (v. ancora Il "giusto
equilibrio", cit.). Qui però mette conto porre in luce almeno un aspetto:
secondo la cassazione l'intermediario, di fronte alla dichiarazione del cliente
ex art. 31, non ha un preciso obbligo di indagare sull'effettiva sussistenza
dei requisiti oggettivi presupposti dalla dichiarazione medesima: se, per
avventura, l'intermediario è (o dovrebbe essere) a conoscenza di elementi
discordanti dal contenuto della dichiarazione, deve valutarli; altrimenti, può
anche tener per buona la dichiarazione a suo tempo rilasciata dal cliente.
Sennonché, questa ripartizione tra le parti di attività, oneri, costi non è
conforme né all'art. 21, lett. A, tuf, né al canone codicistico di buona fede
ex art. 1375 c.c. (sulla differenza tra le due disposizioni v. LA ROCCA,
Sezione prima vs. sezioni unite: differenti visioni del diritto dei contratti
del mercato finanziario in Cassazione, su questo sito e in Foro it., 2009, I,
1851).
Delle due norme, l'art. 21 non ammette inerzia di nessun tipo da parte
dell'intermediario nei confronti del cliente; l'art. 1375 impone
all'intermediario finanziario di adeguare la sua condotta quanto meno agli
standard di mercato (FRANZONI, L'illecito, in Trattato della responsabilità
civile, diretto da Franzoni, I, Milano, 2004, 802 s.; CAMARDI, Le istituzioni
del diritto privato contemporaneo2, Napoli, 2007, 210; D'ANGELO, La buona fede,
Torino, 2004, 13 s.; e v. già RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto,
Milano, 2004, 195, il quale sottolinea la necessità di collegare la
"correttezza" con gli "usi del traffico"). E lo standard di
mercato nella vicenda è stato enunciato dalla ABI nella relazione dal titolo
"La gestione del rischio nelle piccole e medie imprese e negli enti
locali", resa il 18 gennaio 2005 alla VI Commissione Finanze della camera
dei Deputati, allorché si precisò che - nell'ambito della vendita di derivati
alla clientela - "le banche adottano di regola con riguardo agli
acquirenti in esame comportamenti contrassegnati da particolare cura e
diligenza. Esse, infatti, conducono di norma indagini volte a verificare, caso
per caso, la sussistenza in concreto della 'specifica competenza ed esperienza'
richiesta dall'Art. 31 Reg. Consob per gli operatori qualificati. A compimento
di tale indagine e conclusione del relativo accertamento, le banche chiedono
alla PMI od ente locale di sottoscrivere l'autocertificazione richiesta dalla
predetta norma" (Cap. 4, par. 3).
Questo, dunque, è il benchmark che le stesse imprese finanziarie hanno dettato
alla loro condotta in materia: esso prevede un preciso obbligo di attivazione
da parte degli intermediari, di cui la Corte non sembra aver tenuto conto nella
sua sentenza.
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