Diritto Bancario e Finanziario


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 605 - pubb. 26/07/2007

Commissione di massimo scoperto sull'intra-fido, illegittimità

Tribunale Mantova, 21 Aprile 2007. Est. Alessandra Venturini.


Anatocismo – Legittimità della clausola di capitalizzazione degli interessi – Deroga al divieto di anatocismo – Specialità della normativa

Commissione di massimo scoperto – Applicabilità agli importi utilizzati entro il limite del fido – Illegittimità



È legittima la clausola contrattuale che, in conformità della delibera CICR 9 febbraio 2000, prevede la capitalizzazione degli interessi debitori e creditori, atteso che la deroga alla norma imperativa di cui all’art. 1283 c.c. è prevista dall’art. 120 T.U.B. - come modificato dall’art. 25 D.Lgvo. n. 324/’99 - che delegando al CICR di stabilire modalità e criteri “di produzione degli interessi sugli interessi” prevede una diversa regolamentazione dell’anatocismo in materia di contratti bancari e, rispetto alla disciplina civilistica, costituisce norma speciale.

Non sussistendo, entro il limite del fido, per definizione, uno “scoperto” e potendo riconoscersi validità alle clausole contrattuali che prevedano “commissioni di massimo scoperto”, solo se costituenti corrispettivo per l’utilizzo, da parte del cliente, di importi superiori al credito a sua disposizione, deve concludersi per l’illegittimità della clausola contrattuale che ponga a carico del cliente il pagamento di una somma, a tale titolo, da calcolarsi anche su importi entro il limite del fido, in quanto priva di causa. (Mauro Bernardi) (riproduzione riservata)


 


omissis


Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 10.11.2004 M. A., in proprio e quale legale rappresentante della società semplice A. S. P. di G. P. & M. A., proponeva opposizione avverso il decreto emesso dal Tribunale di Mantova in data 8.10.2004, ad istanza di M. scarl, con cui era stato ingiunto alla società semplice A. S. P. e a G. P., quale socio illimitatamente responsabile, il pagamento della somma di € 29.954,51, oltre ad interessi “a far data dal 7.10.2004 al tasso medio tempo per tempo pubblicato ai sensi della legge n. 108/96 per operazioni del medesimo tipo attualmente del 13,50%” e spese, quale saldo del conto corrente n. 290454/36 (d.i. n. 1431/04).

Con altro atto di citazione, notificato in pari data, la stessa M. A. proponeva opposizione avverso il decreto (d.i. n. 1465/04) provvisoriamente esecutivo, emesso in data 15.10.2004 dal Tribunale di Mantova nei suoi confronti, quale socia illimitatamente responsabile della società semplice A. S. P., ottenuto sempre da M. scarl per il pagamento del medesimo credito capitale già oggetto del decreto ingiuntivo n. 1431/04, “oltre agli interessi maturati e maturandi a far tempo dal 7.10.2004 al tasso del 13,50% all’effettivo saldo” e spese come liquidate.

L’attrice contestava la sussistenza del credito ingiunto per gli stessi motivi in entrambe le opposizioni svolte, premesso di aver comunque provveduto in data 28.10.2004 ad estinguere ogni debito mediante pagamento della somma di € 36.180,91, pretesa dalla banca per concedere l’assenso alla cancellazione dell’ipoteca, iscritta in forza del decreto provvisoriamente esecutivo n. 1465/04.

In particolare l’opponente eccepiva: a) la falsità delle firme a lei riferite su tutti i documenti contrattuali in possesso della banca (contratto di apertura di conto corrente n. 290454 e delle relative domande di fido); b) la richiesta, nel decreto n. 1431/04, di interessi pari “al tasso medio tempo per tempo pubblicato ai sensi della l. 108/96 … attualmente del 13,50%”, mai pattuiti e quindi non dovuti; c) l’usurarietà degli interessi pattuiti per l’apertura di credito, determinati al tasso nominale del 14,375%, corrispondente ad un tasso effettivo del 15,16863% annuo, oltre ad altri oneri collegati all’erogazione del credito (anatocismo, commissione di massimo scoperto, spese di “affidato”), quando il D.M. 19 giugno 2002, in relazione al periodo luglio-settembre 2002, in cui il contratto era stato concluso, determinava una soglia dell’usura del 14,67%; in applicazione analogica dell’art. 1815 c.c., sosteneva l’attrice, nessun interesse era quindi dovuto; d) dagli estratti conto risultava che la banca aveva applicato la commissione trimestrale a tutte le partite debitorie del conto, in modo illegittimo; e) nel caso la cliente non aveva sottoscritto alcuna clausola relativa alla capitalizzazione degli interessi, come previsto dall’art. 2 della delibera CICR 9 febbraio 2000, e per tale motivo l’anatocismo degli interessi debitori applicato dalla banca doveva ritenersi illegittimo; in qualsiasi caso l’opponente contestava la possibilità, per un mero provvedimento amministrativo, quale la delibera del CICR in discussione, di derogare alla norma primaria ed imperativa di cui all’art. 1283 c.c.

Ciò premesso l’attrice concludeva in entrambe le cause chiedendo, previa riunione dei due giudizi, la revoca dei decreti opposti, la condanna della convenuta alla restituzione della somma pagata oltre il dovuto da M. A., nonché al risarcimento del danno patrimoniale cagionato alla società A. S. P., con la violazione dell’art. 644 c.p., mediante pagamento di somma pari agli interessi addebitati sul conto corrente dedotto in lite, nonché al danno morale da liquidarsi in via equitativa e proposto nella misura di € 7.000,00.

Nell’ambito dell’opposizione al decreto ingiuntivo n. 1465/04 l’opponente contestava altresì la illegittimità della clausola di provvisoria esecuzione del provvedimento, in forza della quale la banca opposta aveva potuto iscrivere ipoteca sui beni immobili dell’attrice, clausola ottenuta assumendo che M. A. era “stata recentemente assoggettata ad altra procedura monitoria … peraltro senza esito”, là dove la procedura monitoria citata era costituita dal decreto ingiuntivo non esecutivo, ottenuto l’8.10.2004 per il pagamento del medesimo credito e notificato in pari data alla società A. S. P. e al solo socio G. P.; contestava altresì la violazione, da parte della banca, del dovere di correttezza, per aver proceduto in modo da gravare ingiustificatamente l’esponente di spese doppie (atteso che invece l’istituto ben avrebbe potuto agire anche nei confronti di quest’ultima con il ricorso di cui al primo decreto n. 1431/04), e chiedeva, anche per tali motivi, la restituzione “della somma pagata oltre al dovuto”.

All’udienza dell’8.02.2005 in entrambi i giudizi si costituiva M. scarl, la quale allegava l’infondatezza di tutte le pretese di controparte, la piena validità del contratto di conto corrente e relativa concessione di apertura di credito, comunque sottoscritti dal legale rappresentante della società semplice G. P., e conformi alla normativa in materia.

Sostenendo la legittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, la specifica pattuizione in merito e il mai avvenuto superamento del tasso soglia ai fini dell’usura, la banca sottolineava infine di aver agito legittimamente, prima nei confronti della sola società semplice e del socio G. P. e poi, a fronte del protratto inadempimento di questi, anche nei confronti della socia M. A..

Sotto il profilo procedurale eccepiva, nell’ ambito dell’opposizione al di. n. 1431/04, la carenza di legittimazione attiva di M. A. in proprio, soggetto che, quale persona fisica, non era destinataria dell’ingiunzione.

Trasmessi gli atti al Presidente del Tribunale per i provvedimenti di competenza e da questi assegnate entrambe le cause al medesimo Giudice, all’udienza del 5.04.2005 veniva disposta la riunione del procedimento n. 4915/04 R.G. (di opposizione al d.i. n. 1465/04) al procedimento n. 4914/04 R.G. (di opposizione al d.i. n. 1431/04).

Esperiti gli adempimenti preliminari e concessi termini ex art. 183, V° c. c.p.c., nonché per formulazione dei rispettivi mezzi istruttori, il Giudice, con ordinanza 7.12.05, ritenuta superflua ai fini della decisione la CTU richiesta da parte opponente, rinviava la causa per precisazione delle conclusioni.

All’udienza del 5.12.2006, precisate dalle parti le rispettive conclusioni, come in epigrafe riportate, la causa veniva quindi trattenuta in decisione, previa concessione di termini per deposito di conclusionali e repliche.


Motivi

Preliminarmente deve essere accolta l’eccezione di carenza di legittimazione attiva, da parte di M. A. in proprio, quale persona fisica, sollevata dalla convenuta in ordine all’opposizione al decreto ingiuntivo n. 1431/04, proposta nel procedimento n. 4914/04 R.G., non essendo la stessa, in quanto tale, destinataria dell’ingiunzione, emessa nei confronti della società semplice A. S. P. e del socio G. P., con conseguente inammissibilità della domanda riconvenzionale proposta in tale sede dall’attrice, di restituzione della somma pagata oltre al dovuto, risultando per tabulas che l’importo ingiunto è stato corrisposto dalla stessa M. A. non come legale rappresentante della società (non avendo speso il nome di quest’ultima), ma in proprio (come socia illimitatamente responsabile); quale legale rappresentante della società, la stessa è invece legittimata all’opposizione ed alla domanda di revoca del decreto (non essendo stata eccepita l’acquiescenza della società al suddetto provvedimento e non potendo tale effetto riconoscersi a seguito del mero pagamento, corrisposto dalla M. come socia).

Poiché nessuna questione procedurale sussiste in ordine all’opposizione proposta avverso il decreto ingiuntivo n. 1465/04, oggetto del procedimento riunito n. 4915/06 R.G. ed emesso nei confronti di M. A. in proprio, quale socia illimitatamente responsabile, nell’ambito del quale sono state sollevate, in ordine all’esistenza del credito monitoriamente azionato, doglianze analoghe a quelle già proposte nel procedimento n. 4914/04 R.G., le domande tutte proposte dall’attrice devono essere comunque esaminate.

Ciò premesso in rito, sempre in via preliminare, deve essere valutata la contestazione svolta dall’attrice in relazione all’illegittimità della clausola di provvisoria esecuzione e della conseguente domanda di ottenere, anche per tali motivi, la restituzione della “somma versata oltre il dovuto”.

Parte opponente non ha specificato in atto di citazione per quali motivi la clausola relativa alla provvisoria esecuzione sarebbe stata illegittima (adducendo solo tardivamente, in memoria conclusionale, l’assenza, nel caso, del periculum in mora), né quali sarebbero le somme, che si assumono non dovute, corrisposte in virtù di detta clausola (indicate ancora una volta tardivamente in comparsa conclusionale nelle spese relative all’iscrizione e cancellazione dell’ipoteca); in qualsiasi caso il mancato pagamento, prima entro il termine assegnato con comunicazione di recesso da parte della banca dal contratto di conto corrente, e poi a seguito della notifica del decreto ingiuntivo notificato alla società semplice (di cui M. A. è socia e legale rappresentante) giustificano, come sostenuto dalla convenuta, la concessione della clausola impugnata, sulla base dei motivi esposti in ricorso ed accolti dal giudice del monitorio.

La domanda sul punto deve essere quindi rigettata, così come, sulla base delle allegazioni dell’attrice, la domanda di restituzione riferita alle spese del decreto ingiuntivo n. 1431/04, che si afferma essere state “pretese” (illegittimamente) dalla banca per prestare il consenso alla cancellazione dell’ipoteca iscritta in forza del secondo decreto n. 1465/04.

Nessuna prova è stata fornita in ordine ad un immotivato rifiuto da parte della banca di consentire la cancellazione a fronte del pagamento dell’importo portato dal solo decreto provvisoriamente esecutivo. Essendo diritto della creditrice agire separatamente nei confronti di più condebitori solidali e trovando quindi il pagamento delle spese di lite per il decreto n. 1431/04 (che parte attrice avrebbe potuto omettere di versare, all’epoca, non trattandosi di spese comprese nel credito garantito da ipoteca) titolo nel suddetto provvedimento, le stesse non possono ritenersi “somme non dovute”.

La restituzione di quanto pagato a tale titolo potrà quindi essere valutata solo a seguito della fondatezza o meno dei motivi di opposizione proposti.

Ancora una volta solo in memoria conclusionale parte attrice ha eccepito la nullità del contratto di apertura di conto corrente, così come della concessione degli affidamenti, per inosservanza dell’obbligo di forma ex art. 117 D. Lgs. N. 385/93, avendo l’opposta prodotto una mera dichiarazione unilaterale ricognitiva, sottoscritta dai soci G. e M., della conclusione per iscritto del contratto, priva di ogni manifestazione di volontà da parte della banca nonché della sottoscrizione da parte di un funzionario di quest’ultima.

Trattandosi di eccezione rilevabile d’ufficio, essendo l’accertamento della validità del contratto e delle successive pattuizioni presupposto della domanda svolta dalla convenuta, anche tale eccezione va esaminata in via preliminare.

La stessa, nel merito, è infondata e non può essere accolta.

In tema di contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam(nel caso prescritta dall’art. 117 t.u.l.b.), il contraente che non abbia materialmente sottoscritto il documento contrattuale può infatti validamente perfezionare il negozio, con efficacia ex tunc, producendolo nel giudizio, al fine di farne valere gli effetti nei confronti dell’altro contraente, a condizione che quest’ultimo, pur avendo sottoscritto validamente l’atto, non abbia revocato medio tempore il proprio consenso, prima della proposizione della domanda giudiziale (cfr. Cass. Civ. n. 27707/82, n. 460/83, n. 1414/99 e n. 4905/98).

Nel caso, l’istituto di credito ha prodotto in sede monitoria, unitamente al ricorso con cui è stata avanzata la domanda oggetto del presente procedimento, il documento, sottoscritto dai legali rappresentanti della società, che, anche se formulato in forma di “lettera” diretta alla banca, contiene tutti gli elementi essenziali ed accessori del contratto di apertura di conto corrente, così come in sede di costituzione nel presente giudizio ha provveduto al deposito dei documenti contrattuali relativi alla concessione di affidamenti sul predetto conto corrente; non essendo stato allegato né dimostrato che il legale rappresentante della società attrice, firmatario di tali documenti (qui G. P., avendo M. A. disconosciuto la propria firma), abbia manifestato una precedente revoca del proprio consenso, il contratto prodotto dalla banca in sede monitoria, così come i contratti di apertura di credito dimessi con comparsa di risposta, devono quindi ritenersi validi ed efficaci fra le parti, assumendo la domanda giudiziale da parte del contraente non sottoscrittore valore equipollente alla firma mancante.

Solo per completezza di motivazione deve rilevarsi che i precedenti contrari, citati da parte attrice, si riferiscono tutti a fattispecie diverse, ossia a cause in cui la nullità dei contratti era stata fatta valere dal contraente sottoscrittore prima della produzione in giudizio, da parte del contraente non firmatario, dei contratti nulli, o a cause in cui il contratto nullo era stato prodotto, sempre al fine di invocarne la validità, dal successore del contraente non firmatario.

Esclusa la fondatezza dell’eccezione di nullità del contratto, devono quindi esaminarsi le ulteriori censure svolte da parte attrice.

Come sostenuto dalla convenuta non assume alcuna rilevanza l’avvenuto disconoscimento, da parte di M. A., della firma alla stessa apparentemente riferibile, apposta sui contratti dedotti in lite.

Tutti i documenti contrattuali portano infatti anche la sottoscrizione di G. P., che, come risulta dalle visure camerali prodotte dall’opposta e come non è stato contestato dall’attrice, è del pari socio e legale rappresentante della società semplice A. S. P..

I contratti sono stati quindi validamente conclusi da quest’ultimo in nome e per conto della società.

In ordine alla sussistenza o meno del credito monitoriamente azionato deve quindi procedersi all’esame delle eccezioni sollevate da parte opponente in ordine alle singole clausole contrattuali.

Parte opponente ha contestato in primo luogo che nulla è dovuto alla convenuta per interessi, essendo stati questi ultimi pattuiti in misura superiore al tasso soglia all’epoca vigente.

In particolare, allega l’attrice, nel prospetto allegato al modulo di apertura di conto corrente n. 290454, è indicato quale “tasso per apertura di credito” il 14,375% nominale, corrispondente, come riportato nello stesso modulo, ad un tasso effettivo del 15,16863% annuo; poiché il D.M. 19 giugno 2002 determina, in relazione al periodo luglio-settembre 2002, nel quale il contratto è stato concluso, una soglia dell’usura per operazioni analoghe del 14,67%, ne consegue che il tasso effettivo pattuito, anche senza tener conto degli ulteriori oneri collegati all’erogazione del credito, quali l’anatocismo, la commissione per massimo scoperto e le spese di “affidato”, supera il suddetto tasso soglia.

L’eccezione è infondata.

Come rilevato dalla convenuta parte attrice allega riferimenti contrattuali e criteri di calcolo che non trovano riscontro nella legge n. 108/96, né nelle “Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura” emanate dalla Banca d’Italia.

Il valore del 15,16863% è stato indicato in contratto come “tasso effettivo annuo” in ottemperanza a quanto disposto dall’art. 6 della Delibera CICR del 9 febbraio 2000, rappresentando il valore assunto dal tasso di interesse per effetto della capitalizzazione infrannuale; la disposizione citata prevede infatti che “nei casi in cui è prevista una capitalizzazione infrannuale viene inoltre indicato il valore del tasso, rapportato su base annua, tenendo conto degli effetti della capitalizzazione”, effetti che, come correttamente sostenuto dalla convenuta, non vengono invece presi in considerazione ai fini della determinazione del tasso effettivo globale medio di cui alla legge n. 108 del 7 marzo 1996.

Nel calcolo del c.d. “tasso soglia” è esclusa infatti sia la capitalizzazione degli interessi debitori, sia la commissione di massimo scoperto, che viene rilevata a parte.

Nel caso il tasso d’interesse previsto nel contratto stipulato il 12.08.2002 era quindi quello indicato nella misura del 14,375% annuo, inferiore alla soglia del 14,67%, fissata dal D.M. 19 giugno 2002, con conseguente validità della relativa clausola.

Parte attrice ha quindi contestato la legittimità della clausola contrattuale che prevede la capitalizzazione degli interessi debitori e creditori, allegando la mancata sottoscrizione specifica della convenzione anatocistica, ai sensi dell’art. 3 della delibera CICR 9 febbraio 2000, e sostenendo comunque la nullità e/o illegittimità di tale delibera, non potendo un mero provvedimento amministrativo derogare alla norma imperativa di cui all’art. 1283 c.c.

La prima affermazione di parte attrice è smentita dai documenti contrattuali dimessi, sottoscritti anche per specifica approvazione di una serie di clausole, fra le quali è espressamente richiamata la clausola anatocistica (v. doc. 8 parte convenuta).

La tesi dalla stessa sostenuta in ordine alla (implicita) richiesta di disapplicazione della delibera CICR, sul presupposto che la stessa non avrebbe potuto derogare a quanto previsto dall’art. 1283 c.c. deve essere del pari disattesa.

La deroga alla norma imperativa è infatti prevista non dalla suddetta Circolare, ma direttamente dall’art. 120 T.U.B., come modificato dall’art. 25 D.Lgvo. n. 324/’99, che delegando al CICR di stabilire unicamente modalità e criteri “di produzione degli interessi sugli interessi” (e quindi rinviando alla norma regolamentare, in virtù della particolare tecnicità della materia, unicamente l’attuazione del dettato normativo) prevede con ciò stesso una diversa regolamentazione dell’anatocismo in materia di contratti bancari, derogando alla disciplina civilistica contenuta nell’art. 1283 c.c., rispetto al quale l’articolo citato costituisce norma speciale.

Deve essere invece accolta la contestazione di illegittimità, sollevata da parte attrice, in ordine all’applicazione, nel corso del rapporto, da parte della banca, di “commissione per massimo scoperto”, nei limiti in cui tale onere aggiuntivo è stato calcolato sugli importi “entro fido”.

Preliminarmente occorre rilevare che la “commissione di massimo scoperto” costituisce istituto che non trova, neppure nei manuali in materia bancaria, una chiara definizione ed una certa individuazione sotto il profilo causale.

Accedendo ad un contratto di apertura di credito, sul piano economico, secondo una prima interpretazione, tale commissione costituirebbe la remunerazione spettante alla banca per la messa a disposizione in favore del cliente di determinati fondi, per un certo lasso di tempo, a prescindere dalla loro concreta utilizzazione (con conseguente indisponibilità per la banca della somma concessa); in tale ipotesi la stessa dovrebbe quindi calcolarsi sull’importo del credito accordato, indipendentemente dall’importo utilizzato; secondo altra interpretazione, invece, la c.m.s. costituirebbe la controprestazione per il rischio crescente che la banca assume in proporzione all’ammontare dell’utilizzo concreto dei fondi messi a disposizione, da calcolarsi sul massimo importo utilizzato in un determinato periodo, secondo una terza interpretazione la commissione è un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi.

La Suprema Corte sembra aver ritenuto preferibile, nell’unica sentenza che risulta in argomento, la prima delle interpretazioni proposte: “o tale commissione è un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi - come potrebbe inferirsi anche dall’esser conteggiata, nella prassi bancaria, in una misura percentuale dell’esposizione debitoria massima raggiunta, e quindi sulle somme effettivamente utilizzate, nel periodo considerato - che solitamente è trimestrale - e dalla pattuizione della sua capitalizzazione trimestrale, come per gli interessi…, o ha una funzione remunerativa dell’obbligo della banca di tenere a disposizione dell’accreditato una determina somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dal suo utilizzo, come sembra preferibile ritenere anche alla luce della circolare della Banca d’Italia del primo ottobre 1996 e delle successive rilevazioni del c.d. tasso di soglia, in cui è stato puntualizzato che la commissione di massimo scoperto non deve esser computata ai fini della rilevazione dell’interesse globale di cui alla legge 7 marzo 1996 n. 108, ed allora dovrebbe esser conteggiata alla chiusura definitiva del conto.” (v. Cass. Civ.11772/2002).

Gli istituti di credito non ne fanno però una simile applicazione, calcolandola solitamente sull’importo utilizzato, e non su quello messo a disposizione del cliente, né può affermarsi che in tale calcolo venga seguita una prassi uniforme, tale da attribuire un significato univoco alla clausola; a volte il calcolo viene effettuato sul massimo saldo dare di un determinato periodo (normalmente un trimestre), oltre il fido concesso; a volte sia sull’importo affidato che, una seconda volta, sul massimo saldo dare extra fido; a volte sull’importo massimo che rientri in una ininterrotta situazione debitoria di durata superiore ad un periodo del pari variamente determinato.

Ad un attento esame le varie ipotesi sopra esemplificate non possono però ricondursi ad un’unica fattispecie giuridica.

Se si ritiene che l’obbligazione del cliente di corrispondere alla banca un ulteriore compenso, per l’apertura di credito, oltre alla misura degli interessi pattuiti, possa essere sorretta da causa lecita, in quanto, appunto, remunerazione correlata all’obbligo, a carico della banca, di tenere sempre a disposizione del cliente il massimo importo affidato, o in quanto correlata al rischio crescente che la banca assume, in proporzione all’ammontare dell’utilizzo concreto di detto credito da parte del cliente, nel contratto dovrà essere espressamente specificato che si tratta di una commissione applicata sul finanziamento concesso, o su quello utilizzato, e dovrà esserne indicata la misura, la modalità e la periodicità di calcolo; in tali casi appare evidente però che una simile “commissione” costituirebbe un costo ed un onere connesso al finanziamento, che si aggiunge agli interessi dovuti e che, nel caso di apertura di credito, dovrebbe calcolarsi entro il limite del fido; non potrebbe quindi rientrare nella dizione “commissione di massimo scoperto”.

Tale sintetica espressione implica infatti che si tratti di un costo applicato dalla banca in relazione ad importi utilizzati oltre l’affidamento concesso (ossia sullo “scoperto”); interpretazione che risulta sorretta dalla definizione che alla stessa viene data dalla Banca d’Italia proprio nelle “Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura”, aggiornate al dicembre 2002 (in cui, come già si è detto, la c.m.s. viene esclusa dal calcolo del c.d. “tasso soglia”, non essendo considerata quale onere relativo al credito concesso), così formulata: “Tale commissione nella tecnica bancaria viene definita come il corrispettivo pagato dal cliente per compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto. Tale compenso – che di norma viene applicato allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni – viene calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento”.

La “commissione di massimo scoperto” contenuta nei contratti bancari, così denominata e senza altra specificazione, può quindi ritenersi sorretta da causa lecita solo in relazione allo scoperto di conto.

Qualora la banca ritenga di dover richiedere una commissione anche per il credito affidato o per il credito utilizzato, la relativa pattuizione dovrà essere esplicita in tal senso, dimostrativa della causa giuridica che la sorregge, ed il relativo importo dovrà aggiungersi agli interessi pattuiti nel “costo” del finanziamento concesso.

Nel caso in esame la clausola contenuta nel contratto di apertura di conto corrente è così formulata “commissione trimestrale sul massimo scoperto: 0,75%”; la stessa può quindi unicamente interpretarsi, e ritenersi validamente pattuita, solo sugli importi utilizzati oltre il fido concesso, ossia sullo “scoperto” di conto.

In occasione delle pattuizioni intercorse fra le parti relative alla concessione, da parte della banca, di “apertura di credito” alla cliente, sul suddetto conto corrente, prima sino all’importo di € 25.000,00 e poi sino ad € 40.000,00 (v. doc. 6 e 7 parte convenuta), secondo quanto risulta dai fogli informativi analitici allegati (regolarmente sottoscritti), è stata prevista, alla voce “scoperti di conto corrente” una “commissione trimestrale sul massimo scoperto massimo 0,75% nel limite di fido e dello 0,75% oltre il limite di fido, con capitalizzazione trimestrale”, pattuizione che la banca ha invocato al fine di affermare la legittima applicazione di tale percentuale sia sugli importi rientranti nell’affidamento che sullo scoperto di conto.

Non sussistendo, entro il limite del fido, per definizione, uno “scoperto” e potendo riconoscere validità, per quanto sopra esposto, alle clausole contrattuali che prevedano “commissioni di massimo scoperto”, solo se costituenti corrispettivo per l’utilizzo, da parte del cliente, di importi superiori al credito a sua disposizione, deve concludersi per l’illegittimità della clausola contrattuale che ponga a carico del cliente il pagamento di una somma, a tale titolo, da calcolarsi anche su importi entro il limite del fido, in quanto priva di causa.

Nel caso va quindi rilevata la nullità della clausola sopra riportata, nella parte in cui la commissione è stata prevista anche “nel limite di fido”, con conseguente illegittimità degli addebiti relativi.

Tali somme dovranno essere decurtate dal credito vantato, (con conseguente revoca dei decreti ingiuntivi), unitamente agli interessi sulle stesse corrisposti in corso di rapporto, da calcolarsi nella misura media dell’8% (tenuto conto degli interessi via applicati dalla banca in misura diversa sugli importi entro il fido ed extra fido), dalle date dei singoli addebiti sino alla data della chiusura del conto.

Dall’esame degli estratti conto e riepiloghi trimestrali in particolare risultano addebitati, a titolo di c.m.s. entro il fido i seguenti importi: € 196,75 al 30/9/2002; € 31,25 al 31/12/2002; € 46,74 al 31/3/2003; € 300,00 al 30/06/2003; € 300 al 30/09/2003; € 295,52 al 31/12/2003; € 298,19 al 31/03/2004 ed € 300,00 al 30/6/04, per la somma complessiva di € 1.768,45, che dovrà quindi essere restituita all’attrice, unitamente agli interessi via via corrisposti sui singoli importi (anch’essi costituenti indebito oggettivo), dalla data di addebito dei singoli importi, sino alla chiusura del conto, come sopra esposto.

Su detta somma complessiva, ai sensi dell’art. 2033 c.c., saranno inoltre dovuti interessi legali, ex art. 2033 c.c., dalla data della domanda (non essendo stata allegata e dimostrata la mala fede della convenuta) sino al saldo effettivo.

L’ultimo motivo di opposizione proposto è relativo alla misura degli interessi moratori richiesti dalla banca nei due decreti ingiuntivi, in misura pari al 13,50% e, nel decreto ingiuntivo n. 1431/04 con ulteriore specificazione di riferimento al “tasso medio tempo per tempo pubblicato a sensi della l. 108/96”, in quanto tasso, secondo le allegazioni di parte opponente “mai pattuito”.

La doglianza è infondata; gli interessi moratori erano stati previsti e pattuiti dalle parti nella misura del 14,375%; nel caso la banca ha invece richiesto la corresponsione di interessi moratori in misura inferiore a quella inizialmente prevista in contratto, limitandola (correttamente) alla misura del c.d. “tasso soglia” (interessi che superino tale limite, anche se previsti validamente in contratto, per effetto della variazione nel tempo del “tasso soglia” non potrebbero infatti ritenersi comunque esigibili).

L’opposizione può quindi essere accolta solo per i motivi indicati.

I due decreti opposti, emessi per credito in parte insussistente, devono essere quindi revocati.

Essendo intervenuto l’integrale pagamento, da parte di M. A., della somma corrispondente al credito complessivo monitoriamente azionato, costituito dalla somma capitale, dagli interessi maturati e dalle spese legali relative ad entrambi i provvedimenti, alla prima spetta la ripetizione di quanto versato sine titulo, ossia, come sopra esposto, degli importi corrispondenti agli addebiti, risultanti dagli estratti conto in atti, per “commissione massimo scoperto” applicata entro i limiti del fido, con interessi nella misura dell’8%, da calcolarsi dalle singole date di addebito in conto sino alla chiusura dello stesso, oltre agli interessi legali su tale somma complessiva dalla domanda al saldo.

Stante la parziale soccombenza di entrambe le parti e in particolare la soccombenza dell’attrice sul maggior importo contestato e comunque dovuto alla convenuta, si ritiene sussistano giusti motivi per addebitare all’opponente le spese della fase monitoria, che non dovranno pertanto essere restituite, nonostante la revoca dei decreti ingiuntivi, e compensare fra le parti il 40% delle spese di lite relative alla presente fase della procedura, con condanna dell’attrice, soccombente sul maggior importo contestato, alla rifusione a parte convenuta del residuo 60% delle spese di lite da questa sostenute, che vengono liquidate come indicato in dispositivo, tenuto conto del valore della causa e dell’attività svolta.


P.Q.M.

Il Tribunale di Mantova, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, così giudica:

dichiara inammissibili le domande svolte da M. A. in proprio nell’ambito del procedimento n. 4914/04 R.G.

revoca i decreti ingiuntivi n. 1413/04 e n. 1465/04, per le causali di cui in motivazione;

dichiara tenuta e condanna la convenuta alla restituzione, in favore di M. A., della somma di € 1.768,65, oltre ad interessi al tasso dell’8% annuo da calcolarsi quanto ad € 196,75 dal 30/9/2002; quanto ad € 31,25 dal 31/12/2002; quanto ad € 46,74 al 31/3/2003; quanto ad € 300,00 dal 30/06/2003; quanto ad € 300 dal 30/09/2003; quanto ad € 295,52 al 31/12/2003; quanto ad € 298,19 dal 31/03/2004 e quanto ad € 300,00 dal 30/6/04, sino alla data di chiusura del conto (7.10.2004); sulla somma complessiva così ottenuta sono dovuti interessi legali dalla domanda (10.11.2004) al saldo;

rigetta tutte le ulteriori domande svolte da parte attrice;

pone a carico di parte attrice le spese di lite della fase monitoria;

dichiara compensate fra le parti le spese del presente giudizio di opposizione, nella misura del 40%;

dichiara tenuta e condanna parte attrice a rifondere alla convenuta opposta il residuo 60% delle spese di lite da questa sostenute, percentuale che liquida in complessivi € 4.270,74 (di cui € 156,54 per spese, € 1.324,20 per diritti, € 2.790,00 per onorari) oltre a rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge.

Mantova, lì 21/04/2007.

Il Giudice (dott.ssa Alessandra Venturini)