Deontologia
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22899 - pubb. 18/12/2019
Il divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega riguarda tutte le comunicazioni, anche quelle non dichiarate riservate
Consiglio Nazionale Forense, 23 Aprile 2019, n. 17. Pres. Mascherin.
Avvocato - Divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega - Perimetro di applicazione
Il divieto di produrre corrispondenza fra avvocati si estende non solo alle comunicazioni espressamente dichiarate riservate, ma anche a quelle scambiate tra avvocati nel corso del giudizio, e a quelle anteriori allo stesso, quando contengano espressioni di fatti, illustrazioni di ragioni e proposte a carattere transattivo, ancorché non dichiarate espressamente "riservate". (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)
Fatto
Con esposto presentato il 30 aprile 2009 l’Avv. [*] denunciava che l’Avv. [*] aveva prodotto, nel corso di un giudizio, con la memoria ex art. 183 2° co. c.p.c., un fax proveniente dall’*, del 28 ottobre 2005, espressamente dichiarato come “riservata personale non producibile in giudizio”, contenente proposta transattiva. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di *, pertanto, apriva un procedimento disciplinare, il n. 57/09, con il seguente capo d'incolpazione: "per aver violato l'art. 38 L.P. e gli artt. 6 e 28 Cdf per aver riferito nella comparsa 14.01.09 e prodotto nella memoria 0804.09 ex art 183 VI co 11. 2 cpc al n. 10 dei documenti, la lettera 28.10.2005 dell'avv. [*] contenente proposte transattive e dichiarata riservata personale, senza autorizzazione esplicita o implicita dell'*. *, tra il 14.01 e l’08.04.09".
Successivamente, con esposto presentato il 14 luglio 2009, l’Avv. [*] contestava all’Avv. [*] di aver avuto contatti diretti con il proprio cliente, sig. [*], in sua assenza e di aver, in tale occasione, predisposto e formalizzato un nuovo accordo tra le parti, modificativo delle condizioni predisposte dal provvedimento adottato nell’udienza presidenziale e concernente il diritto di visita dello stesso [*] nei confronti del figlio minore [*].
Veniva quindi aperto un ulteriore procedimento disciplinare nei confronti dell’Avv. [*], il n.36/11, con il seguente capo di incolpazione: “per aver violato l'art. 38 LP e gli articoli 6 2 7 Cdf per essersi messo in contatto diretto con la controparte, pur assistito dall’avv. [*], partecipando consapevolmente ad un incontro con il sig. [*] il 13.05.09, senza averne dato informazione alla collega né, tanto meno, con il suo consenso”.
L’Avv. [*] produceva una registrazione sonora del colloquio avvenuto tra l’Avv. [*] e il suo cliente, in occasione del loro incontro, dalla quale emergeva che l’Avv. [*] aveva discusso, in sua assenza, della materia del contendere con il sig. [*].
In sede di udienza dibattimentale, l’Avv. [*] non solo non si era opposto all’acquisizione della suddetta registrazione ma si era occupato egli stesso della relativa trascrizione, dalla quale risultavano elementi tali da rendere necessaria un’integrazione del capo d’incolpazione originariamente fissato che, in data 21 maggio 2012, veniva dunque stabilito nei termini seguenti: “per aver violato l'art. 38 LP e gli articoli 6 2 7 Cdf per essersi messo in contatto diretto con la controparte, pur assistito dall’avv. [*], partecipando consapevolmente ad un incontro con il sig. [*] il 13.05.09, senza averne dato informazione alla collega né, tanto meno, con il suo consenso, e per aver in tale circostanza, in assenza di quest’ultima discusso della materia del contendere direttamente con la controparte, aver proposto soluzioni (in particolare in ordine alle condizioni per il pernottamento presso l’abitazione di [*] e per il ritiro all'uscita di scuola del figlio minorenne) e aver partecipato alla redazione di un accordo scritto che veniva, nell'occasione, sottoscritto dai coniugi'.
Successivamente, i due procedimenti disciplinari pendenti nei confronti dell’Avv. [*] erano stati riuniti, incorporando il secondo nel procedimento n. 57/09.
Veniva dunque espletata l’istruttoria, nel corso della quale venivano ascoltati: gli esponenti, Avv. [*] e Avv. [*], nonché i testi indotti dall’incolpato, il dott. [*], l’Avv. [*], il praticante avvocato [* -3] e la signora [*].
All’esito del dibattimento, il Consiglio dell’Ordine di * riteneva l'odierno ricorrente responsabile degli addebiti disciplinari contestatigli e gli infliggeva la sanzione dell'avvertimento, con provvedimento del 15 giugno 2013, notificato il 4 luglio 2013.
Avverso tale provvedimento, l’Avv. [*] proponeva ricorso, depositato il 20 luglio 2013.
Il ricorrente si duole dell’illegittimità della misura sanzionatoria adottata nei suoi confronti con un unico motivo di ricorso nel quale solleva censure circa l’errata valutazione dei fatti e circa l’assenza di elementi che integrino l’illecito disciplinare. Inoltre, sia pure incidentalmente, lamenta l’errata valutazione delle prove e il difetto di motivazione.
In particolare, in riferimento all’esposto dell’Avv. [*], l’Avv. [*] sottolinea che la decisione impugnata sia ingiusta poiché: l'Avv. [*] aveva riferito in atti giudiziari una circostanza che sapeva essere falsa; era documentata la richiesta di autorizzazione alla produzione del fax che si assumeva “riservato”; l'Avv. [*] aveva utilizzato strumenti giudiziari non per tutelare un diritto ma per sottrarre le prove dell'infedeltà del suo assistito “occulto”.
In relazione all’esposto dell’Avv. [*], il ricorrente ritiene errata la ricostruzione dei fatti, atteso che egli si era recato a casa non del [*] (cliente dell'*) ma della sua assistita, la quale aveva richiesto la sua presenza per timore di subire aggressioni da parte del [*]. Inoltre, prima di ciò, il ricorrente sostiene che aveva provato a contattare varie volte l’Avv. [*], senza successo Quanto alla circostanza contestata di aver fatto firmare un nuovo accordo tra le parti, il ricorrente evidenzia che l’oggetto di tale accordo era già stato convenuto dalle parti dinanzi al giudice, ma che non era stato adeguatamente verbalizzato, per essere l’organo giudicante adito, il giudice ordinario, incompetente a trattare il caso.
Alla luce di quanto esposto, il ricorrente sostiene che la sua condotta sia stata legittima o comunque giustificata dalla legittima difesa, ex art. 52 c.p.
Pertanto, il ricorrente conclude per l’accoglimento del ricorso con la conseguente revoca del provvedimento impugnato e della sanzione comminata.
Il 29 giugno 2018, il ricorrente depositava una memoria con cui ribadiva che i fatti erano stati travisati e che, pertanto, le valutazioni del Consiglio dell’Ordine di * dovevano intendersi errate ed ingiuste.
All’udienza del 12 luglio 2018, le parti presenti rassegnavano le conclusioni come da separato verbale.
Diritto
Il Collegio osserva preliminarmente che le censure sollevate dal ricorrente circa l’errata valutazione dei fatti e delle prove devono essere analizzate alla luce del principio del libero convincimento nella valutazione delle prove che vige nella materia deontologica, come sottolineato, in modo costante, dai precedenti giurisprudenziali di questo Consiglio: “Il Giudice della deontologia ha ampio potere discrezionale nel valutare la conferenza e la rilevanza delle prove dedotte in virtù del principio del libero convincimento, con la conseguenza che la decisione assunta in base alle testimonianze ed agli atti acquisiti in conseguenza degli esposti deve ritenersi legittima, allorquando risulti coerente con le risultanze documentali acquisite al procedimento, né determina nullità del provvedimento la mancata audizione di testimonianze ininfluenti ai fini del giudizio, per essere il collegio già pervenuto all’accertamento completo dei fatti da giudicare attraverso la valutazione delle risultanze acquisite in sede di istruttoria” (CNF, sentenza del 10 maggio 2017, n. 57; in senso analogo cf. CNF, sentenza del 25 maggio 2018, n. 60).
L’attività istruttoria svolta innanzi al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di * è stata completa ed articolata. Nel corso della stessa, non solo gli esponenti e i testi ascoltati, ma lo stesso ricorrente hanno confermato i fatti.
In relazione al primo esposto, presentato dall’Avv. [*], il ricorrente ha invocato a propria discolpa l’esigenza di perseguire la verità e ha affermato che era stato autorizzato alla produzione del documento riservato. In riferimento a tale ultimo aspetto, esso è stato sconfessato non solo dall’* che ha negato di aver dato la succitata autorizzazione, ma anche dalla considerazione che nessuna autorizzazione “implicita” poteva ricollegarsi alla produzione in giudizio, da parte dell’Avv. [*], di un fax dell’incolpato, poiché questo non era dichiarato riservato e non conteneva proposte transattive.
Quanto poi alla necessità di perseguire la verità, come messo in evidenza nel provvedimento impugnato, tale obiettivo avrebbe potuto essere perseguito ordinariamente, nell’ambito della dialettica processuale, senza rendere necessaria la violazione di una norma deontologica.
Sul punto, occorre sottolineare che la ratio del divieto fissato dall’art. 28 del Codice deontologico si rinviene nella necessità di assicurare la libertà di corrispondenza tra colleghi e lo scambio di scritti tra loro senza riserve mentali o timori che possano essere oggetto di produzione o divulgazione in giudizio. Sulla base di ciò la giurisprudenza di questo Consiglio ha evidenziato che il divieto opera in via assoluta e, quindi, in primo luogo, senza distinguere tra il mittente o il destinatario; in secondo luogo, si estende non solo alle comunicazioni espressamente dichiarate riservate, ma anche a quelle scambiate tra avvocati nel corso del giudizio, e quelle anteriori allo stesso, quando contengano espressioni di fatti, illustrazioni di ragioni e proposte a carattere transattivo, ancorché non dichiarate espressamente "riservate"; inoltre, opera anche a discapito del diritto di difesa. In particolare, si è sottolineato che la “norma deontologica di cui all'art. 48 ncdf (già 28 4) è stata dettata a salvaguardia del corretto svolgimento dell’attività professionale, con il fine di non consentire che leali rapporti tra colleghi potessero dar luogo a conseguenze negative nello svolgimento della funzione defensionale, specie allorché le comunicazioni ovvero le missive contengano ammissioni o consapevolezze di torti ovvero proposte transattive. Ciò al fine di evitare la mortificazione dei principi di collaborazione che per contro sono alla base dell'attività legale. Di tal chè il divieto di produrre in giudizio la corrispondenza tra i professionisti contenente proposte transattive assume la valenza di un principio invalicabile dl affidabilità e lealtà nei rapporti interprofessionali, quali che siano gli effetti processuali della produzione vietata, in quanto la norma mira a tutelare la riservatezza del mittente e la credibilità del destinatario, nel senso che il primo, quando scrive ad un collega di un proposito transattivo, non deve essere condizionato dal timore che il contenuto del documento possa essere valutato in giudizio contro le ragioni del suo cliente; mentre, il secondo, deve essere portatore di un indispensabile bagaglio di credibilità e lealtà che rappresenta la base del patrimonio di ogni avvocato. La norma, peraltro, non è posta ad esclusiva tutela del legale emittente, ma anche all'attuazione della sostanziale difesa dei clienti che, attraverso la leale coltivazione di ipotesi transattive, possono realizzare una rapida e serena composizione della controversia” (CNF, sentenza del 17 febbraio 2016, n. 15).
Risulta pertanto evidente, alla luce dei principi esposti, che le ragioni evidenziate dal ricorrente per giustificare la palese violazione della norma deontologica succitata non possano valere ad eliminare i profili di illiceità del fatto, né la sua colpevolezza. Le motivazioni invocate dal ricorrente sono pertanto infondate.
In relazione poi al secondo esposto, presentato dall’Avv. [*], dall’istruttoria svolta, i fatti denunciati, documentati anche da una registrazione trascritta, sono stati sostanzialmente confermati.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte ribadito che l’obbligo di corrispondere con il collega, oggi sancito dall’art. 41 del Codice Deontologico, opera in via assoluta comportando il divieto di avere contatti diretti con la controparte che si sa essere assistita da un avvocato: “Costituisce comportamento deontologicamente scorretto prendere accordi diretti con la controparte, quando sia noto che la stessa è assistita da altro collega (art. 27 cdf, ora art. 41 ncdf). Tale obbligo sussiste anche nell'ipotesi in cui la controparte si impegni ad avvertire il proprio difensore o, addirittura, affermi di averlo già avvertito” (CNF, sentenza del 9 marzo 2017, n. 12).
Pertanto, la motivazione sollevata dal ricorrente, di aver dovuto tutelare la sicurezza della sua assistita dal pericolo di un’aggressione ai suoi danni, non può valere, come sottolineato giustamente nel provvedimento impugnato, a giustificare la condotta dell’Avv, [*] volta a definire nuovi accordi tra le parti, in assenza del difensore del [*].
Pertanto, il ricorso anche in relazione alle motivazioni suesposte, si palesa infondato.
Inoltre, si sottolinea che il Consiglio dell’Ordine di *, diversamente da quanto lamentato dal ricorrente, ha preso in considerazione, senza peraltro accoglierli, tutti gli argomenti difensivi dedotti dall’Avv. [*], come si desume anche dalla parte motiva del provvedimento impugnato. Nel caso di specie, il provvedimento reso dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di *, fondato su un’articolata istruttoria, dalla quale i fatti sono emersi in modo lineare, risulta adeguatamente motivato, avendo precisato puntualmente le ragioni per cui le giustificazioni del ricorrente non potevano valere ad escludere la sussistenza dell’illecito disciplinare e la sua colpevolezza.
Pertanto, i motivi di doglianza sottolineati dal ricorrente sono infondati.
In relazione alla sanzione irrogata, si deve sottolineare che la Corte di Cassazione, da ultimo con sentenza n. 3023/2015, ha chiarito che l'art. 65, comma 5, della Legge n. 247/12 deve essere pacificamente interpretato nel senso che “in tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, le norme del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014 si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l'incolpato”. Pertanto, al fine di verificare se la sanzione irrogata è adeguata alla responsabilità disciplinare dell’incolpato, è necessario procedere al raffronto tra le disposizioni del Codice deontologico precedentemente vigente con le corrispondenti previsioni del nuovo Codice, al fine di verificare se siano mutati, in melius, l'inquadramento della fattispecie ed il regime sanzionatorio.
L’art. 48 del Codice deontologico, che stabilisce il divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega e che corrisponde all’ art. 28 del Codice deontologico previgente, prevede come sanzione edittale la censura; mentre l’art. 41 del Codice deontologico vigente, che stabilisce l’obbligo di corrispondere con il collega, e che corrisponde all’art. 27 del Codice deontologico previgente, prevede come sanzione edittale la censura.
Ora, come evidenziato dalla giurisprudenza di questo Consiglio, la determinazione della sanzione disciplinare costituisce il risultato di una valutazione dei fatti mirata a valutare la condotta complessiva dell’incolpato: “In ossequio al principio enunciato dall’art. 3 del codice deontologico forense, nei procedimenti disciplinari ciò che forma oggetto di valutazione è il comportamento complessivo dell’incolpato, sia al fine di valutare la condotta in generale sia al fine di infliggere la sanzione più adeguata” (CNF, sentenza 25 febbraio 2013, n. 12).
Nel caso di specie, la condotta dell’Avv. [*] è risultata contraria a diversi doveri deontologici, rispetto ai quali la normativa vigente, raffrontata con le corrispondenti norme del Codice previgente, non prevede un trattamento sanzionatorio più lieve per l’incolpato. Pertanto, alla luce delle considerazioni svolte, si ritiene adeguata la sanzione disciplinare dell’avvertimento inflitta dal Consiglio dell’Ordine di *.
P.Q.M.
visti gli artt. 36 e 37 L. n. 247/2012 e gli artt. 59 e segg. del R.D. 22.1.1934, n. 37; il Consiglio Nazionale Forense rigetta il ricorso.
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