Diritto Bancario e Finanziario
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22807 - pubb. 11/01/2019
Gli elementi patrimoniali attivi e passivi, ancorché ceduti in blocco, possono esser considerati dalle parti contraenti in senso atomistico
Cassazione civile, sez. IV, lavoro, 15 Settembre 1997, n. 9174. Pres. Trezza. Est. Prestipino.
Banca sottoposta a liquidazione coatta amministrativa - Cessione dell'intera azienda (o di un singolo ramo) - Ammissibilità - Accertamento dell'avvenuta cessione o del trasferimento di singoli beni - Competenza esclusiva del giudice di merito - Criteri generali in tema di cessione di azienda - Applicabilità - Cessione di tutte le attività e passività della banca - Indice di cessione dell'intera azienda - Esclusione
I commissari liquidatori di un'azienda bancaria hanno, in base a quanto previsto dall'art. 75 del R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375,(cosiddetta legge bancaria) cui corrisponde sostanzialmente l'art. 90, comma secondo, del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (contenente il nuovo testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) il potere di procedere alla cessione dell'intera azienda (o di un singolo ramo) della banca sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, e l'accertamento in concreto di tale evento, spettante esclusivamente al giudice di merito, non si sottrae ai criteri che presiedono alla individuazione della cessione di azienda in generale, dovendosi verificare, anche nella detta ipotesi, se vi sia stato trasferimento non già dei singoli beni ma di tutto il complesso dei beni che erano stati organizzati dall'imprenditore e che per le loro caratteristiche ed il loro collegamento funzionale rendono possibile lo svolgimento di quella specifica impresa. In particolare, con riguardo all'azienda bancaria deve escludersi che costituisca, di per se un indice di cessione dell'azienda nella sua interezza la cessione di tutte le attività e passività della banca posta in liquidazione coatta (ipotesi del resto specificamente distinta, nell'art. 54 del D.L. del 1936 e nell'art. 90 del T.U. del 1993, dalla cessione di azienda e dalla cessione di beni e rapporti giuridici individuabili in blocco) ben potendo gli elementi patrimoniali attivi e passivi, ancorché ceduti in blocco ad un unico soggetto (che acquista le attività e si accolla le passività) esser considerati dalle parti contraenti in senso atomistico in quanto riferibili ad un organismo ormai non più funzionante. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vincenzo Trezza - Presidente -
" Giovanni Prestipino Rel. - Consigliere. -
" Corrado Guglielmucci "
" Federico Roselli "
" Raffaele Foglia "
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
sul ricorso proposto da M. P. C., elett.te dom.to in Roma, *, presso lo studio dell'Avv. P. C. M., che unitamente al Prof. Avv. C. M. B. e all'Avv. G. S. lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale per atto Notaio A. D. di Potenza del 5.3.1997, Rep. n. 30812.
- Ricorrente -
contro
MONTE DEI PASCHI DI SIENA, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elett.te dom.to in Roma, *, presso lo studio del Prof. Avv. R. S., che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale per atto Notaio R. C. di Siena del 25.11.1994, Rep. n. 20820.
- Controricorrente -
e contro
BANCA POPOLARE S. MARIA ASSUNTA DI CASTELGRANDE.
- Intimata -
e contro
BANCA d'ITALIA.
- Intimata -
per l'annullamento della sentenza del Tribunale di Potenza n. 373 del 12.7.1994 (R.G. n. 2728/92). Udita nella pubblica udienza del 3.4.1997 la relazione della causa svolta dal Consigliere Relatore Dott. Giovanni Prestipino;
Sentiti gli Avv. C. M. B., P. C. M. e R. S.;
Sentito il P.M., nella persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Domenico Nardi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso del 31 maggio 1988 P. C. M. conveniva davanti al Pretore del lavoro di Potenza la Banca Popolare S. Maria Assunta di Castelgrande, il Monte dei Paschi di Siena e la Banca d'Italia ed esponeva:
- che nell'anno 1968 aveva iniziato un rapporto di lavoro subordinato, in qualità di impiegato, alle dipendenze della Banca Popolare S. Maria Assunta;
- che quest'ultima, dopo alterne vicende ed interventi vari della Banca d'Italia, la quale aveva pure disposto l'apertura della procedura dell'amministrazione straordinaria, con provvedimento del Ministro del Tesoro del 27 febbraio 1988 e previa revoca dell'autorizzazione all'esercizio del credito, era stata sottoposta a liquidazione coatta amministrativa;
- che con decreto del 28 febbraio 1988 la Banca d'Italia, al fine di salvaguardare il posto di lavoro dei dipendenti, aveva autorizzato il Monte dei Paschi dei Siena a subentrare alla Banca Popolare nell'attività creditizia e negli sportelli prima gestiti dalla medesima;
- che tutti i suddetti lavoratori erano stati assunti senza soluzione di continuità dal Monte dei Paschi, ad eccezione di esso ricorrente e di altri due impiegati, i quali avevano continuato a prestare attività lavorativa alle dipendenze dei Commissari della liquidazione coatta;
- che, peraltro, egli aveva interesse a proseguire il rapporto di lavoro con il Monte dei Paschi di Siena, anche perché, ai sensi dell'art. 2112 c.c., ricorreva una vera e propria ipotesi di trasferimento di azienda.
In base a queste premesse il ricorrente chiedeva che fosse dichiarato il suo diritto a proseguire il rapporto di lavoro alle dipendenze del Monte dei Paschi di Siena, con le stesse mansioni e con la medesima qualifica ricoperte presso la Banca Popolare S. Maria Assunta di Castelgrande o che fosse dichiarato l'obbligo del suddetto Monte dei Paschi di assumerlo ex novo, quanto meno a far tempo dal completamento delle operazioni di liquidazione della Banca Popolare.
Con successivo ricorso del 20 dicembre 1989 il M. conveniva nuovamente i suddetti convenuti davanti al medesimo Pretore e, richiamati i fatti sopra indicati, aggiungeva:
- che con atto notarile del 29 novembre 1989, su autorizzazione della Banca d'Italia del precedente 22 novembre, i Commissari liquidatori della Banca Popolare S. Maria Assunta, ai sensi dell'art. 54 della legge bancaria, avevano ceduto al Monte dei Paschi di Siena tutte le attività e le passività, ivi compresi gli immobili, i mobili, i crediti e le sopravvenienze attive e passive della banca in liquidazione coatta;
- che con lettera del 24 novembre 1989 i Commissari liquidatori gli avevano comunicato di non potersi più avvalere delle sue prestazioni lavorative, a causa della cessazione della gestione liquidatoria, e lo avevano licenziato;
- che tale atto di licenziamento ad nutum, illegittimo per essere i dipendenti in numero superiore a quindici unità, era carente di giusta causa o giustificato motivo e che, inoltre, era stata realizzata una cessione di azienda da parte della Banca Popolare nei confronti del Monte dei Paschi, con la conseguenza che doveva essere dichiarata, ai sensi degli artt. 2112 e 2932 c.c., la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, con le stesse precedenti caratteristiche, fra esso M. ed il cessionario Monte dei Paschi di Siena.
Il ricorrente, per quanto ancora interessa, chiedeva quindi che, previa dichiarazione di nullità o inefficacia o illegittimità ovvero previo annullamento del licenziamento, fosse ordinata la sua reintegrazione, che fosse dichiarata la costituzione del rapporto di lavoro con il cessionario Monte dei Paschi di Siena fin dal 29 febbraio 1988 o, in subordine, dal 29 novembre 1989, con riammissione nel posto di lavoro precedentemente ricoperto e con condanna "della resistente Banca" al risarcimento dei danni. Instauratosi il contraddittorio in entrambi i giudizi e riunite le cause, il Pretore con sentenza del 16 ottobre 1992, in primo luogo dichiarava la nullità del ricorso introduttivo nella parte concernente l'instaurazione del rapporto processuale con la Banca d'Italia e dichiarava improponibile la domanda di condanna al pagamento di somme di danaro proposta dal M. nei confronti della Banca Popolare S. Maria Assunta, essendo questa in liquidazione coatta amministrativa. Il medesimo Pretore, poi, rilevato che con l'atto di cessione delle attività e delle passività posto in essere il 29 novembre 1989 si era realizzata, ai sensi degli artt. 54 e 75 della legge bancaria, una cessione di azienda ed accertata, per conseguenza, la nullità del licenziamento intimato al lavoratore "perché manifestato senza il necessario anticipo", dichiarava che il rapporto di lavoro a suo tempo intercorso tra il M. e la Banca popolare S. Maria Assunta era proseguito ex lege con il Monte dei Paschi di Siena a far tempo dal 29 novembre 1989. Con la stessa sentenza, infine, il Monte dei Paschi veniva condannato a risarcire il danno al M. nell'ammontare di L. 87.341.397, oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria, il M. veniva condannato al pagamento delle spese processuali nei confronti della Banca d'Italia e veniva disposta l'integrale compensazione delle spese fra tutte le altre parti.
Questa pronuncia veniva impugnata sia dal Monte dei Paschi di Siena, che con un primo motivo contestava l'esistenza della cessione di azienda affermata dal Pretore (censurando con un secondo motivo la pronuncia sul quantum), sia dal M., che con due distinti motivi impugnava i capi relativi alla liquidazione del danno e al regolamento delle spese processuali.
Con sentenza del 12 luglio 1994 il Tribunale di Potenza emanava le seguenti pronuncie: accoglieva l'appello principale proposto dal Monte dei Paschi di Siena (rectius, accoglieva il primo motivo, dichiarando assorbito il secondo motivo) e, per l'effetto, respingeva la domanda proposta dal M. contro lo stesso Monte dei Paschi; rigettava l'appello incidentale del M. (rectius, dichiarava assorbito il primo motivo e rigettava il secondo motivo); compensava interamente fra tutte le parti le spese del giudizio di appello.
Il Tribunale, premesso che il M. aveva fondato la sua domanda di prosecuzione del rapporto di lavoro con il Monte dei Paschi di Siena alternativamente su due distinti eventi, quello risalente al mese di febbraio-marzo 1988 e quello risalente al mese di novembre 1989, rilevava che il primo giudice aveva escluso qualsiasi ipotesi di trasferimento d'azienda nel primo evento, mentre l'aveva riconosciuta nel secondo, con la conseguenza che, non essendo stata gravata di appello da parte del M. la prima pronuncia, l'indagine da parte del collegio era limitata alla verifica della configurabilità o meno di un atto di cessione di azienda in relazione alla "cessione delle attività e delle passività" realizzata nel mese di novembre 1989. E, sotto questo profilo, lo stesso Tribunale osservava che nell'atto stipulato il 29 novembre 1989 fra i Commissari liquidatori della Banca Popolare S. Maria Assunta e il Monte dei Paschi di Siena non era possibile ravvisare, agli effetti previsti dall'art. 2112 c.c., un negozio di cessione di azienda, trattandosi di beni, di attività e di passività atomisticamente considerati, tanto più che al momento della stipula dell'atto la Banca Popolare S. Maria Assunta già da un anno e mezzo aveva cessato di operare.
A parte queste considerazioni, poi, a detta del giudice di appello vi era un'ulteriore ragione che induceva ad escludere l'ipotesi della cessione di azienda, dal momento che la Banca Popolare aveva esercitato un'attività, quella bancaria, soggetta a concessione amministrativa e, quindi, intrasmissibile.
Il Tribunale, infine, affermava che corretta doveva ritenersi la statuizione con la quale il M. era stato condannato a pagare le spese processuali alla Banca d'Italia, perché tale pronuncia si basava sul principio di soccombenza posto dall'art. 91 del codice di rito.
Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione il M., che ha dedotto nove distinti e complessi motivi. Ha resistito con controricorso il Monte dei Paschi di Siena. La Banca Popolare S. Maria Assunta di Castelgrande e la Banca d'Italia non si sono costituite in giudizio.
Il M. ha depositato una memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con i motivi primo, secondo e terzo dell'impugnazione, che per ragioni di connessione debbono essere congiuntamente esaminati, il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2909 c.c., 112, 324, 346 e 347 c.p.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c., e deduce che il Tribunale avrebbe violato il principio del giudicato interno formatosi sulla pronuncia emanata dal primo giudice ed avente per oggetto l'annullamento del licenziamento intimato ad esso M. dai Commissari della liquidazione coatta amministrativa con atto del 28 novembre 1989. A dire del medesimo ricorrente, infatti, poiché nel giudizio di secondo grado la questione circa l'illegittimità del recesso non era stata rimessa in discussione in mancanza di una specifica impugnazione da parte dei suddetti Commissari, il Tribunale sarebbe incorso nel vizio denunciato, per avere, in base all'erroneo presupposto che il Monte dei Paschi fosse divenuto successore a titolo universale della Banca Popolare S. Maria Assunta, di nuovo esaminato la questione e per avere "annullato tout court la sentenza pretorile in ordine all'annullamento del licenziamento illegittimo comunicato in data 28 novembre 1989 dalla Banca SMA", decisione, quest'ultima, che per conseguenza deve essere ora cassata dalla Corte.
Questa censura è priva di fondamento.
Come è opportuno preliminarmente rilevare, il Pretore di Potenza, a conclusione del giudizio di primo grado, non aveva emesso alcuna statuizione nei confronti della Banca Popolare S. Maria Assunta, dal momento che lo stesso, a parte le pronuncie emesse nei confronti di tutte le altre parti, nella sentenza si era limitato a dichiarare "improponibile la domanda di condanna al pagamento di somme di denaro" proposta dal M. contro la suddetta Banca Popolare (punto 4 del dispositivo). Inoltre, come pure è necessario aggiungere, nella motivazione della medesima sentenza il licenziamento era stato considerato non già illegittimo, ma "nullo", in quanto "manifestato senza il necessario anticipo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2112 c.c." e da questa premessa era stata tratta la conseguenza secondo cui il rapporto di lavoro del M. era proseguito con il Monte dei Paschi di Siena (pag. 23 della sentenza). Come si vede, quindi, la statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza era coincidente con le argomentazioni svolte nella motivazione, nella quale, oltre tutto, era stato affermato che, avendo la Banca Popolare cessato ogni attività, il rapporto di lavoro "non deve continuare nei suoi confronti". A parte questi rilievi, poi, come risulta dalle pronuncie emesse e dalla relativa motivazione, con la sentenza di appello il Tribunale non ha affatto esaminato il rapporto che a suo tempo era intercorso fra il M. e la Banca Popolare (e non ha, quindi, riformato alcuna decisione al riguardo), ma si è limitato a prendere in considerazione la (diversa) questione relativa alla cessione dell'azienda e all'asserita prosecuzione del rapporto di lavoro nei confronti del Monte dei Paschi di Siena, fatta oggetto di rituale impugnazione da parte di quest'ultima Banca.
Sia per l'una che per l'altra ragione, quindi, non sussiste il vizio di ultrapetizione denunciato nel ricorso per cassazione, giacché - al contrario di quanto afferma il M. e come bene deduce la difesa del resistente - il giudice del gravame non ha affatto identificato il motivo di appello del Monte dei Paschi, relativo alla asserita cessione di azienda, con la questione inerente al licenziamento intimato dai Commissari liquidatori ne' ha mai affermato che il Monte dei Paschi era succeduto a titolo universale alla Banca Popolare.
Con il quarto motivo del ricorso il M. deduce la violazione degli artt. 1 e 5 l. 15 luglio 1966 n. 604 e 2697 c.c. (art. 360, primo comma n. 3, c.p.c.) e sostiene che il Tribunale avrebbe errato
nell'estendere la valutazione probatoria relativa alla cessione di azienda all'atto di recesso intimato dai Commissari liquidatori della Banca Popolare S. Maria Assunta, dal momento che "una cosa è l'onere della prova in ordine al giustificato motivo oggettivo del licenziamento, prevista a carico del datore di lavoro, con le naturali conseguenze processuali, altra cosa è l'onere della prova circa la cessione dell'azienda dopo l'avvenuto recesso". Anche questo motivo è infondato.
Richiamato quanto è stato sopra esposto circa l'oggetto e i limiti delle decisioni emesse nella fase di merito, per disattendere anche questa censura basta rilevare che la stessa e evidentemente il frutto di una non corretta lettura della sentenza impugnata e della relativa motivazione. Il Tribunale, infatti, al contrario di quanto si afferma nel ricorso, non ha effettuato alcun controllo sulla legittimità o meno del licenziamento intimato dai Commissari liquidatori, ma ha preso solamente in esame la questione relativa alla cessione di azienda, ritualmente dedotta dal Monte dei Paschi di Siena nell'atto di appello.
Con i motivi quinto, sesto e settimo, dei quali parimenti si impone l'esame congiunto per effetto della loro connessione, il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2112, 1362 e segg. c.c., 112, 115 e 116 c.p.c. nonché vizi di motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c.) ed afferma che il Tribunale avrebbe errato nell'escludere che tra i Commissari liquidatori e il Monte dei Paschi di Siena fosse stato posto in essere un contratto di cessione di azienda, non avendo considerato:
a) che la cessione non poteva essere scissa in due distinti episodi, ma doveva essere valutata unitariamente e nel suo complesso, evidente essendo che il frazionamento dei beni aziendali comporta frode alla legge; b) che la comune intenzione delle parti, in base anche alla valutazione del loro comportamento successivo alla conclusione del contratto, era quella di trasferire tutto il patrimonio della Banca Popolare S. Maria Assunta al Monte dei Paschi di Siena, con la sostituzione dell'acquirente in tutti i rapporti di credito e debito sia con la clientela che con il personale dipendente; c) che, anche a prescindere dalla cessione d'azienda, il risarcimento del danno, previsto dalla legge a favore di esso M. per effetto del licenziamento illegittimo e per tutto il tempo intercorrente tra la data del recesso e quella della decisione, era comunque compreso nella cessione dei debiti attuata dalla cedente Banca Popolare S. Maria Assunta; d) che, per conseguenza, una volta riconosciuto che era stata realizzata la cessione dell'azienda della Banca Popolare, poiché in capo al cessionario era avvenuto il passaggio di tutte le attività e le passività inerenti all'azienda medesima, tale passaggio aveva comportato anche il trasferimento del rapporto di lavoro relativo ad esso M., che non era cessato per effetto della pronuncia, passata in giudicato, emanata dal Pretore;
e) che il Tribunale avrebbe anche errato nell'escludere la cessione di azienda in base all'ulteriore profilo secondo cui l'attività bancaria sarebbe soggetta a concessione amministrativa, perché, al contrario, la suddetta attività forma oggetto di semplice autorizzazione.
Tutte queste censure - a parte l'ultima, indicata con la lettera e), sulla quale, come si dirà, non è necessario emettere alcuna pronuncia - sono prive di fondamento.
In linea di diritto, va in primo luogo rilevato che, fermo restando che, ai sensi del secondo comma dell'art. 2119 c.c., ne' il fallimento ne' la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa costituiscono giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro subordinato, tuttavia, come da parte di questa Corte è stato più volte affermato, deve considerarsi legittimo il recesso intimato dal curatore o dal commissario liquidatore in conseguenza della cessazione dell'attività produttiva, perché in tal caso ricorre l'ipotesi del giustificato motivo oggettivo (cfr., in materia di fallimento, Cass. 2 maggio 1996 n. 3961, in motivazione, Cass. 9 dicembre 1992 n. 12998, Cass. 26 gennaio 1988 n. 648 e Cass. 19 novembre 1986 n. 6828, pure in motivazione nonché, in materia di liquidazione coatta amministrativa, Cass. 3 ottobre 1996 n. 8670 e Cass. 9 novembre 1982 n. 5913). D'altra parte, pur potendo accadere che, dopo la dichiarazione di fallimento o la sottoposizione dell'impresa alla liquidazione coatta amministrativa e previe le necessarie autorizzazioni, il curatore o il commissario liquidatore continuino, in via diretta 0 indiretta e in forma piena o ridotta, l'esercizio dell'attività produttiva - allo scopo, ad esempio, di pervenire non tanto alla liquidazione atomistica degli elementi patrimoniali attivi e passivi facenti capo all'impresa insolvente, quanto alla cessione dell'intera azienda (con tutte le conseguenze che sul piano giuridico e pratico derivano da tale evenienza) o al fine di rendere in concreto attuabile l'adempimento di un auspicato concordato fallimentare o per qualsiasi altra ragione - tuttavia occorre che un tale evento sia in concreto realizzato, ad esempio, mediante "la continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa" (artt. 90 e 206, secondo comma, r.d. 16 marzo 1942 n. 267 in materia di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa; v. anche, con riferimento alle aziende di credito, gli artt. 75, p. comma, r.d.l. 12 marzo 1936 n.375 e 90, terzo comma, d. leg. 10 settembre 1993 n. 385), ovvero mediante l'affitto dell'azienda;
in blocco e in tutti suoi componenti, a norma degli artt. 2562 e 2561 del codice civile. Sia l'esercizio provvisorio, sia l'affitto, infatti, sono attività che di solito preludono, allo scopo di non disperderne l'avviamento, al trasferimento dell'azienda già appartenente all'impresa decotta mediante un apposito negozio concluso fra gli organi della procedura ed un soggetto, persona fisica o giuridica, che sia disposto a proseguire l'attività produttiva (senza ovviamente che si possa escludere che il negozio di cessione possa essere immediatamente attuato, subito dopo l'apertura del fallimento o della liquidazione coatta amministrativa e senza alcun passaggio intermedio, soprattutto in quei casi in cui lo stesso sia stato convenientemente predisposto all'interno di una di quelle procedure che sono denominate alternative al fallimento). Peraltro, trattandosi di cessione attuata ai sensi degli artt. 2556 e segg. c.c., occorre che un siffatto evento sia in concreto
accertato, nel senso che deve essere verificato se vi sia stato il trasferimento non già dei singoli beni, separatamente e atomisticamente individuati, ma, secondo la definizione datane dall'art. 2555 c.c., di tutto il complesso dei beni che erano stati organizzati dall'imprenditore e che, per le loro caratteristiche ed il loro collegamento funzionale, rendono possibile lo svolgimento di quella particolare impresa (Cass. 21 ottobre 1995 n. 10993). E tale accertamento, che deve essere compiuto dal giudice di merito, è insindacabile in sede di legittimità se è sorretto da motivazione congrua e priva di vizi logici.
Sempre in linea di diritto, poi, ai fini della decisione della presente controversia non è inutile precisare che la cessazione dell'attività produttiva v dell'impresa sottoposta a liquidazione coatta amministrativa (o a fallimento) non esclude (ed anzi impone) che da parte del commissario liquidatore (o del curatore) sia posta in essere, parallelamente a quella dell'accertamento del passivo, l'attività di custodia e di liquidazione dei beni, delle attrezzature e, in generale, di tutti gli elementi patrimoniali attivi, dal momento che l'esplicazione di questa attività, comunque attuata, non impedisce il licenziamento del personale dipendente per giustificato motivo oggettivo (Cass. 3 ottobre 1996 n. 8670, sopra indicata), anche se uno o più di tali dipendenti vengano mantenuti in servizio per essere utilizzati nelle operazioni di liquidazione (Cass. 16 luglio 1992 n. 8601). Infine, per rispondere ad alcuni rilievi critici espressi dalla difesa del M. nel ricorso per cassazione (e poi più compiutamente sviluppati nella memoria difensiva), con riferimento alla materia bancaria e creditizia va notato: 1) che l'art. 71 r.d.l. 12 marzo 1936 n. 375 (c.d. legge bancaria, vigente al tempo
in cui si sono verificati i fatti oggetto della presente controversia) disponeva che "i commissari liquidatori procedono a tutte le operazioni della liquidazione secondo le direttive dell'Ispettorato" (quest'ultimo poi sostituito dalla Banca d'Italia); 2) che il successivo art. 75, terzo comma, permetteva la cessione "in blocco delle attività col parere favorevole del Comitato di sorveglianza e con l'autorizzazione dell'Ispettorato" (poi della Banca d'Italia); 3) che il precedente art. 54 prevedeva la possibilità, previe le necessarie autorizzazioni e il compimento di particolari incombenze, sia della "sostituzione di un'azienda di credito ad un'altra per l'esercizio di una sede o di una filiale", sia "la cessione delle attività o delle passività di un'azienda di credito in liquidazione ad un'altra azienda"; 4) che tali disposizioni, come è opportuno sottolineare, sono state sostanzialmente trasfuse nel d.lgs. 1º settembre 1993 n. 385 (che contiene il nuovo Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia e che attualmente regola la materia), il cui art. 90, secondo comma, stabilisce che "i commissari, con il parere favorevole del comitato di sorveglianza e previa autorizzazione della Banca d'Italia, possono cedere le attività e le passività, l'azienda, rami d'azienda nonché beni e rapporti giuridici individuabili in blocco".
Ora, se è vero che dalle norme contenute nei suddetti art. 75 del d.l. n. 375 del 1936 e 90 del d.lgs. n. 385 del 1993 ben può
ricavarsi la tesi secondo cui i commissari liquidatori hanno il potere di procedere alla cessione dell'intera azienda (o di un singolo ramo) della banca sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, è altrettanto vero che questa fattispecie, se dedotta, deve essere oggetto di necessario accertamento secondo i principi sopra esposti riguardo alla cessione dell'azienda in generale. L'ipotesi relativa alla cessione di tutte le attività e le passività della banca posta in liquidazione coatta, infatti, non è, di per sè, indice della cessione dell'intera azienda, ben potendo gli elementi patrimoniali attivi e passivi, ancorché ceduti in blocco ad un unico soggetto (che acquista le attività e si accolla le passività), essere considerati in senso atomistico, in quanto riferibili ad un organismo ormai non più funzionante;
rilievo, codesto, che trova puntuale riscontro nella previsione del suddetto art. 54, ultimo comma, del medesimo d.l. n. 375 del 1936 e nell'art. 90, secondo comma, del d.lgs. 10 settembre 1993 n. 385, i quali, riguardo ai poteri assegnati ai liquidatori nell'attività di liquidazione del patrimonio della banca, fanno luogo a una precisa distinzione, come si è detto, fra la cessione delle attività e delle passività, la cessione dell'azienda o di un ramo d'azienda e la cessione di beni e rapporti giuridici individuabili in blocco. Come occorre ribadire, quindi, in presenza di un atto di cessione delle attività e delle passività della banca, spetta ancora una volta al giudice di merito verificare in concreto, in base all'interpretazione della volontà negoziale desumibile dalle clausole contrattuali e da ogni altra circostanza di fatto, secondo i criteri dettati dagli artt. 1362 e segg. c.c., se sia stata posta in essere la cessione dell'azienda, oggetto dell'attività produttiva dell'impresa di credito posta in liquidazione coatta amministrativa, oppure se sia stata attuata una semplice liquidazione finale degli elementi patrimoniali senza alcun legame funzionale fra i medesimi. Ciò posto, precisati i principi di diritto che regolano la materia in relazione all'oggetto della controversia, appare opportuno riassumere le ragioni che dal Tribunale di Lagonegro sono state esposte a sostegno della decisione finale.
Il giudice di appello ha premesso che il M. aveva fondato la sua domanda di prosecuzione del rapporto di lavoro nei confronti del Monte dei Paschi di Siena, alternativamente, su due distinti eventi:
quello risalente al mese di febbraio-marzo 1988, all'epoca in cui, subito dopo l'apertura della procedura di liquidazione coatta amministrativa a carico della Banca popolare S. Maria Assunta (previa revoca dell'esercizio del credito), tutti i dipendenti della medesima banca (tranne il M. ed altri due impiegati) erano passati alle dipendenze del medesimo Monte dei Paschi di Siena, il quale era stato autorizzato dalla Banca d'Italia all'esercizio dell'attività bancaria negli sportelli già di pertinenza della Banca popolare; e quello verificatosi nel mese di novembre 1989, quando l'attuale ricorrente era stato licenziato dai commissari liquidatori nel momento in cui i medesimi avevano ceduto tutte le attività e le passività della Banca Popolare al Monte dei Paschi di Siena. E, sotto questo aspetto, il Tribunale ha rilevato che il primo giudice aveva escluso qualsiasi ipotesi di trasferimento d'azienda nel primo evento, mentre l'aveva riconosciuta nel secondo evento, con la conseguenza che, non essendo stata gravata di appello dal M. la prima pronuncia, l'indagine da parte del collegio era limitata alla verifica della configurabilità o meno di un atto di cessione di azienda in relazione alla "cessione delle attività e delle passività realizzata nel mese di novembre 1989".
Il Tribunale, poi, nel prendere in considerazione l'atto negoziale di cessione delle attività e delle passività, stipulato il 29 novembre 1989 fra i commissari liquidatori della Banca Popolare S. Maria Assunta e il Monte dei Paschi di Siena, ha osservato, in primo luogo, che nell'azienda il requisito essenziale è costituito dall'organizzazione degli elementi patrimoniali, allo scopo della produzione o dello scambio di beni o di servizi, e che tale caratteristica importa il collegamento funzionale dei beni in un complesso unitariamente organizzato; e, in secondo luogo, che l'accertamento circa l'esistenza o meno di un atto di cessione di azienda presuppone una duplice indagine, la prima sulla comune volontà delle parti diretta alla instaurazione di quel determinato rapporto giuridico e la seconda sulla obiettiva consistenza dei beni oggetto del contratto, essendo necessario stabilire se si tratti di cose destinate all'esercizio dell'impresa o se ricorra una pluralità di beni materiali non coordinata in una individualità che li unisca nella sua struttura dinamica. Secondo il giudice di appello, quindi, non era possibile ravvisare nel suddetto atto del 29 novembre 1989, posto in essere ai sensi dell'art. 54, ultimo comma, della legge bancaria (a quel tempo vigente), un negozio di cessione di azienda, trattandosi di beni, di attività e di passività atomisticamente considerati e mancando la prova che tali beni, attività e passività integrassero un complesso idoneo a costituire un compiuto strumento di impresa, tanto più che, al momento della stipula dell'atto, già da un anno e mezzo la Banca Popolare S. Maria Assunta aveva cessato di operare in conseguenza sia della revoca dell'esercizio del credito, sia del licenziamento di quasi tutto il personale dipendente, sia del subentro del Monte dei Paschi di Siena nell'esercizio degli sportelli bancari e nei locali dove l'attività era stata svolta. Di tal che era piuttosto da ritenere - anche se non era necessario compiere una tale indagine a causa della mancata impugnazione da parte del M. della pronuncia emanata sul punto dal primo giudice - che una cessione di azienda si fosse semmai realizzata nel mese di febbraio-marzo 1988, quando si erano verificati i fatti da ultimo indicati.
Tutte queste argomentazioni, in quanto svolte nel rispetto dei principi di diritto che regolano la materia ed essendo basate sulla valutazione, del tutto congrua e priva di vizi logici, di tutti gli elementi di fatto acquisiti alla causa (dei quali era ancora possibile l'accertamento), si sottraggono alle censure formulate nel ricorso per cassazione. Valgono, al riguardo, i seguenti ulteriori rilievi.
I. Il Tribunale nella decisione emessa è stato condizionato dal giudicato interno formatosi sulla pronuncia del primo giudice, nella parte in cui quest'ultimo aveva escluso che integrasse un atto di cessione dell'azienda bancaria l'accordo del mese di febbraio-marzo 1988, quando, a seguito della revoca dell'esercizio del credito disposta nei confronti della Banca Popolare, (quasi) tutto il personale dipendente era passato alle dipendenze del Monte dei Paschi di Siena e quando da parte di tale Banca erano stati acquisiti gli sportelli bancari e i locali dove l'attività creditizia in precedenza era stata svolta. D'altra parte, l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata, circa la formazione del giudicato sulla decisione emessa dal primo giudice, non è stata dal ricorrente in questa sede censurata.
II. Per effetto di tale giudicato, non vi era più alcuna possibilità per il giudice di appello di indagare sul primo dei due eventi sopra indicati, con la conseguenza che del tutto inutilmente ora viene censurato il fatto che la valutazione dell'asserito atto di cessione sia stata scissa in due tronconi, in relazione ai due distinti episodi, e non sia stata compiuta unitariamente e nel suo complesso. III. Costituisce accertamento di fatto, insindacabile in questa sede di legittimità in quanto congruamente motivato, l'assunto espresso nella sentenza impugnata, a conclusione di tutte le argomentazioni svolte, secondo cui il contratto del 29 novembre 1989, con il quale il Monte dei Paschi di Siena aveva acquisito le attività della Banca Popolare e si era accollato le passività della medesima, non conteneva un atto di cessione dell'azienda di credito. IV. L'asserzione - formulata nella sentenza impugnata in via del tutto ipotetica e al di fuori di qualsiasi concreta valutazione, attesa l'impossibilità di pervenire al relativo accertamento - inerente al momento in cui si sarebbe perfezionata la cessione di azienda della banca posta in liquidazione coatta amministrativa (mese di febbraio-marzo 1988) non può riguardare il M., il quale a quell'epoca era rimasto alle dipendenze dei Commissari liquidatori.
V. Per la ragione anzi detta (il giudicato formatosi sulla pronuncia del Pretore), in questa sede di legittimità non può essere preso in esame quanto sostiene il ricorrente, e cioè che il contratto del mese di novembre 1989 non sarebbe altro che lo sviluppo o l'integrazione di quello stipulato circa un anno e mezzo prima. VI. Come è stato esposto nella trattazione dei precedenti motivi e al contrario di quanto continua ad affermare il ricorrente, il Pretore aveva dichiarato non già l'illegittimità, ma la nullità (rectius, l'inefficacia) nei confronti del Monte dei Paschi di Siena del licenziamento che era stato intimato dai Commissari liquidatori al M.. Il primo giudice, infatti, come giova ribadire, aveva ritenuto che fra i Commissari liquidatori e il Monte dei Paschi di Siena nel mese di novembre 1989 fosse stata posta in essere una vera e propria cessione di azienda e che, non essendo stato il recesso comunicato in tempo utile, ciò non avesse impedito la prosecuzione del rapporto con il nuovo datore di lavoro. Pertanto, poiché nei confronti della Banca Popolare in liquidazione coatta amministrativa non era stata emessa alcuna pronuncia, a nulla vale asserire, come ora fa il ricorrente, che nella cessione delle attività e delle passività della banca fosse compreso anche il suo rapporto con la precedente datrice di lavoro.
VII. Il M., proprio in base alle sentenze emesse dai due giudici di merito, attualmente non vanta alcun credito nei confronti di alcuna delle altre parti, atteso che il Pretore aveva liquidato il danno solamente nei confronti del Monte dei Paschi di Siena (e questa pronuncia è venuta meno a conclusione del giudizio di appello), e aveva dichiarato improponibile la domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti della Banca Popolare S. Maria Assunta (v. la sentenza di primo grado - su questo punto non impugnata dal M. - secondo cui la Banca Popolare "ha comunque cessato la sua attività a seguito della sua sottoposizione alla liquidazione coatta e nessuna statuizione può essere adottata nei confronti della medesima giacché i relativi crediti non possono essere fatti valere nelle forme contenziose, ma devono trovare soddisfazione tramite il procedimento amministrativo"). VIII. A nulla ora rileva che il M. invochi la disparità di trattamento fra lui e gli altri dipendenti della Banca Popolare, posto che il medesimo, prima, ha accettato la prosecuzione dell'attività lavorativa con i Commissari liquidatori e, poi, senza riproporre la domanda ai sensi dell'art. 346 c.p.c., ha fatto acquiescenza alla decisione del Pretore che aveva escluso qualsiasi ipotesi di cessione di azienda nei fatti risalenti al mese di febbraio 1988. E del tutto sterile è, quindi, la denuncia formulata nel ricorso per cassazione circa "la nullità del divieto di cessione del suo rapporto di lavoro".
Tutti questi rilievi dimostrano l'inconsistenza delle censure formulate dal ricorrente avverso la prima delle due ragioni poste dal Tribunale a sostegno della decisione emessa, che deve essere, quindi, tenuta ferma. E, poiché tale pronuncia è sorretta dalla ragione riconosciuta valida, non mette conto di esaminare la censura relativa alla seconda ragione (con la quale, come si è detto, dal giudice di appello è stata esclusa in radice la possibilità della cessione di un'azienda bancaria, in quanto collegata a una attività, quella creditizia, asseritamente assoggettata a concessione amministrativa).
Con l'ottavo motivo del ricorso il M., nel denunciare violazione degli artt. 91, 100, 112 c.p.c. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia (art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c.), censura la decisione con la quale è stata confermata la statuizione, emessa dal primo giudice nei confronti di esso M., di condanna alle spese processuali sostenute dalla Banca d'Italia. Tale decisione, a detta del ricorrente, sarebbe illegittima sotto un duplice profilo, in primo luogo perché contro la Banca d'Italia egli non aveva proposto alcuna domanda (e quindi la Banca non era parte del giudizio) e in secondo luogo perché non può essere condannata alle spese la parte totalmente vittoriosa.
Anche questo motivo è privo di fondamento.
Come è stato esposto in narrativa, il M. con l'atto introduttivo del giudizio di primo grado aveva convenuto davanti al Pretore di Potenza anche la Banca d'Italia. Per questa parte, peraltro, il ricorso in questione era stato dichiarato nullo dal medesimo Pretore, il quale, in base alla pronuncia emessa, aveva condannato il ricorrente a rimborsare alla convenuta le spese sostenute. E, come pure è stato esposto in narrativa, quest'ultima statuizione è stata confermata dal giudice di appello.
Ciò posto, per disattendere la censura ora formulata dal ricorrente, basta rilevare che la pronuncia di nullità emanata dal Pretore aveva determinato, per il principio posto dall'art. 91 c.p.c., la soccombenza di colui che aveva proposto il ricorso; e poiché la pronuncia in questione non era stata impugnata dal M. che ne aveva interesse, la situazione di soccombenza era ormai divenuta incontroversa, con la conseguenza che corretta deve essere considerata la decisione con la quale il giudice di appello ha confermato la suddetta statuizione sulle spese processuali. Con il nono ed ultimo motivo dell'impugnazione, con il quale vengono denunciati i vizi di violazione dell'art. 112 c.p.c. e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, primo comma, n. 3 e 5, c.p.c.), il M. deduce: a) che il Tribunale, senza fornire alcuna motivazione, avrebbe omesso di esaminare la censura relativa all'ammontare del risarcimento del danno da lui patito per effetto dell'illegittimo licenziamento che gli era stato intimato; b) che contraria alla legge sarebbe la decisione con la quale è stata disposta l'integrale compensazione delle spese processuali sia del giudizio di primo grado che del giudizio di appello, non avendo il Tribunale considerato che la Banca Popolare S. Maria Assunta era rimasta soccombente nei suoi confronti (per avere omesso di impugnare la pronuncia del primo giudice che aveva riconosciuto l'illegittimità del licenziamento) e perché anche il Monte dei Paschi era rimasto soccombente nella parte in cui, essendosi lo stesso reso cessionario dei debiti della Banca popolare, aveva assunto una posizione passiva nei confronti di esso M..
Anche queste censure sono infondate.
Riguardo a quella indicata con la lettera a), basta rilevare che la pronuncia di risarcimento del danno nei confronti del Monte dei Paschi di Siena, emanata dal primo giudice, è venuta meno per effetto dell'accoglimento dell'appello proposto dal medesimo Monte dei Paschi (sicché giustamente il Tribunale ha dichiarato assorbito il motivo di gravame proposto dal M. al fine di ottenere la liquidazione di una somma di maggiore ammontare), mentre, come si è detto, nessuna condanna di risarcimento del danno era stata emessa dal Pretore nei confronti della Banca Popolare.
Per quanto concerne l'altra censura, poi, a parte tutte le considerazioni svolte nella trattazione dei precedenti motivi, è sufficiente obiettare che la pronuncia con la quale sono state compensate le spese fra tutte le parti (diverse dalla Banca d'Italia) è stata motivata dal Tribunale in base al rilievo "della particolare complessità della controversia": e tale motivazione, essendo priva di qualsiasi vizio logico e di errori di diritto, si sottrae alla censura in questione.
Tenuto conto di tutte le argomentazioni che precedono, poiché la sentenza impugnata, in tutte le sue parti, è esente dai vizi denunciati nel ricorso proposto dal M., il ricorso stesso deve essere rigettato.
Per quanto riguarda le spese del presente giudizio, giusti motivi sussistono per compensare dette spese fra il M. e il Monte dei Paschi di Siena, mentre non deve essere emessa alcuna pronuncia nei confronti delle parti non costituite.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione fra il M. e il Monte dei Paschi di Siena; nulla per le spese nei confronti delle parti non costituite.
Così deciso in Roma il 3 aprile 1997 .