Crisi d'Impresa e Insolvenza
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 22224 - pubb. 26/08/2019
Liquidazione coatta amministrativa di un istituto bancario e interruzione automatica dei processi
Tribunale Vicenza, 17 Ottobre 2017. Est. Rago.
Liquidazione coatta amministrativa di un istituto bancario – Applicabilità dell’art. 43 L.F. – Esclusione
L'art. 43 comma 3 l. fall. è norma speciale, produttiva di effetti particolarmente gravi sul piano processuale, e come tale non può esserne ammessa né l'applicazione analogica né l'applicazione sulla scorta del rinvio alla legge fallimentare contenuto nell’art. 80 TUB; ne consegue che il citato art. 43 non è applicabile alla liquidazione coatta amministrativa di un istituto bancario. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)
Massimario Ragionato
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI VICENZA
SECONDA SEZIONE CIVILE
Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:
dott. Marina CAPARELLI Presidente
dott. Giovanni GENOVESE Giudice
dott. Stefano RAGO Giudice rel.
ha pronunciato la seguente
Sentenza
Svolgimento del processo
1. Con atto di citazione, ritualmente notificato, Ko. Al. e la di lui madre, Be.-Co. Lo., evocavano in giudizio Be. Br. e la Banca Popolare di Vicenza soc. coop. (in seguito anche solo BPV) per sentire accertare e dichiarare la nullità ex art. 647 comma 3 c.c. e/o annullabilità e/o inefficacia e/o inesistenza e/o risoluzione ex art. 648 comma 2 c.c. della disposizione testamentaria del de cuius Be. Et. contenuta nell'olografo in data 03.07.2008 con cui la Be. era stata istituita esecutrice testamentaria oppure legataria con modus, con condanna di quest'ultima alla restituzione all'erede Ko. oppure, subordinatamente ed alternativamente, all'erede Be.-Co. di tutto quanto da essa liquidato e corrisposto a terzi, ad eccezione delle spese inerenti la successione, ed altresì condanna solidale dei convenuti al risarcimento dei danni subiti dall'attore quantificati in importo pari a quanto liquidato a terzi.
2. La Be., costituitasi con comparsa depositata in Cancelleria in data 09.10.2012, – esponendo che, in seguito alla morte del Be., aveva utilizzato quasi integralmente le somme depositate nel conto cointestato con lo stesso per realizzare le opere di beneficenza progettate ed iniziate dal de cuius, detratte le spese per l'ultimazione dei lavori nell'immobile in Vicenza e quelle connesse alla successione – eccepiva il difetto di legittimazione attiva dell'attore ad impugnare il testamento del 03.07.2008 per difetto di interesse in quanto legatario e non erede del Be., nonché l'improcedibilità e/o inammissibilità della domanda, alternativa e subordinata, svolta dall'attrice, la quale, avendo manifestato acquiescenza all'accettazione dell'eredità da parte del figlio, aveva escluso essa stessa la propria qualità di erede, con conseguente difetto di legittimazione attiva. Nel merito, la convenuta, qualificatasi come erede testamentaria ed esclusa la sussistenza di alcun onere imposto dal de cuius, concludeva per l'integrale rigetto delle domande attoree.
3. All'udienza del 30.10.2012, dichiarata la contumacia della BPV, venivano concessi i chiesti termini ex art. 183 comma 6 c.p.c. All'esito del deposito delle memorie, la causa, ritenuta matura per la decisione, veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni. All'udienza del 13.06.2017 sulle conclusioni precisate dalle parti come in epigrafe, la causa veniva rimessa in decisione assegnando i termini massimi di cui all'art. 190 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Le domande di parte attrice sono infondate e vanno, pertanto, respinte.
1.1. Deve, preliminarmente, essere respinta l'istanza di parte attrice, contenuta nella memoria di replica ex art. 190 c.p.c., intesa, ai sensi degli artt. 279 comma 2 n. 5, 103 comma 2 e 277 comma 2 c.p.c. alla separazione delle domande rivolte nei confronti delle due convenute: ciò al fine di evitare che, in seguito alla messa in liquidazione coatta amministrativa della BPV, venga dichiarata l'interruzione del processo. Il decreto ministeriale di apertura della procedura di l.c.a. della BPV, già contumace, è stato infatti emesso dopo l'udienza di precisazione delle conclusioni, in pendenza dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. La questione che si pone è allora se, in seguito alla messa in liquidazione coatta amministrativa di un istituto bancario, l'interruzione del processo vada dichiarata d'ufficio oppure se debbano trovare applicazione gli artt. 299 ss. c.p.c. La l.c.a. di istituti bancari trova specifica disciplina nel T.U.B. (d.lgs. 385/1993). Con riguardo alla questione in esame, le norme che vengono in rilievo sono gli artt. 80 comma 6 T.U.B. e 83 comma 2 T.U.B. L'art. 80 comma 6 T.U.B. prevede che «per quanto non espressamente previsto si applicano, se compatibili, le disposizioni della legge fallimentare». L'art. 83 comma 2 T.U.B. prevede invece che «Dal termine indicato nel comma 1 si producono gli effetti previsti dagli articoli 42, 44, 45 e 66, nonché dalle disposizioni del titolo II, capo III, sezione II e sezione IV della legge fallimentare». Secondo una prima tesi, l'interruzione sarebbe automatica ed andrebbe dichiarata d'ufficio non appena il giudice sia venuto a conoscenza dall'evento, dovendo trovare applicazione l'art. 43 comma 3 c.p.c. (come novellato dal d.lgs. 5/2006), e non già l'ordinario regime dettato in materia dall'art. 300 c.p.c. (ex plurimis, in tema di interruzione in seguito ad intervenuto fallimento, Cass. 5288/2017 rv. 643975). Questa è la tesi sostenuta dal Tribunale di Verona (ordinanza 07.07.2017, secondo cui «l'art. 83, comma 3 T.U.B. prevede che dalla data di insediamento dei commissari non può essere 'proseguita nessuna azione' e tale espressione deve ritenersi di significato analogo a quella dell'ultimo comma dell'art 43 1. fall.») nonché dalla Corte d'appello di Venezia (ordinanza 18.07.2017). Tale tesi, sebbene riconosca che l'art. 43 l. fall. è disposizione esclusa dall'elencazione contenuta nell'art. 83 comma 2 T.U.B., muove, essenzialmente, dall'assunto secondo cui la norma ex art. 80 comma 6 T.U.B., rimasto sempre invariato nella sua formulazione dal 1993, operi un rinvio c.d. 'mobile' all'intera disciplina fallimentare, e dunque anche all'art. 43 comma 3 l. fall., che è stato invece introdotto dal legislatore soltanto nel 2006. In via astratta, non sembra infatti esservi alcuna incompatibilità tra l'automatica interruzione processuale (e dunque la ratio acceleratoria sottesa all'introduzione del comma 3 dell'art. 43 l. fall.) e la disciplina della l.c.a. degli istituti bancari. Può tuttavia apparire un'incongruenza logica, prima, ammettere che l'art. 43 l. fall. non è effettivamente richiamato dall'art. 83 comma 2 T.U.B., attribuendo pertanto all'omesso richiamo un qualche significato, e, poi, al contempo, sostenere che lo stesso art. 43 l. fall. vada applicato in forza dell'art. 80 comma 6 T.U.B. Occorre dunque attribuire un senso all'omesso richiamo del disposto del terzo comma dell'art. 43 l. fall. Dal punto di vista sistematico, l'art. 83 cit. segue infatti l'art. 80 cit., e dunque si deve ritenere che il legislatore, con la disposizione collocata successivamente, abbia inteso meglio specificare la precedente previsione generale, escludendo espressamente l'applicazione dell'art. 43 l. fall. Già sul piano lessicale l'art. 80 cit., che prevede una generica 'applicazione' delle «disposizioni della legge fallimentare», si differenzia dall'art. 83 cit. (come modificato dall'art. 64 comma 11 d.lgs. 415/1996), ove, in luogo dell'originaria formulazione in cui era utilizzato il termine 'applicare', viene fatto espresso agli 'effetti' previsti soltanto dagli articoli 42, 44, 45 e 66, nonché dalle disposizioni del titolo II, capo III, sezione II e sezione IV della legge fallimentare. L'art. 43 comma 3 l. fall., in quanto speciale e derogatoria della disciplina di cui agli artt. 299 e 300 c.p.c., non può trovare applicazione a preferenza della normativa generale se non espressamente richiamata e, per converso, il mancato richiamo comporta l'applicazione della normativa generale. Né assume particolare rilievo il fatto che l'art. 43 comma 3 l. fall. è sopravvenuto rispetto alla norma del T.U.B., sia perché, se il legislatore avesse voluto introdurla anche con riferimento alla liquidazione coatta amministrativa, avrebbe modificato anche le relative norme, sia perché la sopravvenienza di una norma speciale non comporta la restrizione dell'ambito applicativo di quella generale se non per i casi espressamente previsti. Ancora, tale ricostruzione è avvalorata dalla circostanza che l'art. 43 l. fall. non è richiamato nemmeno dall'art. 200 comma 1 l. fall. («Da. data del provvedimento che ordina la liquidazione si applicano gli artt. 42, 44, 45, 46 e 47...»), che, unitamente all'art. 201 comma 1 l. fall. («Da. data del provvedimento che ordina la liquidazione si applicano le disposizioni del titolo II, capo III, sezione II e sezione IV e le disposizioni dell'art. 66»), costituisce l'omologo, nella legge fallimentare, dell'art. 83 comma 3 T.U.B. e che ha una formulazione assai simile. A tal proposito, e per creare un'analogia, si osserva che la giurisprudenza di legittimità ha pacificamente affermato che la messa in liquidazione coatta amministrativa di una società di capitali (diversa da istituto bancario) configura l'evento della perdita della capacità di stare in giudizio, ai sensi dell'art. 299 c.p.c., atteso che, a norma dell'art. 200 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, detto stato comporta (fra l'altro) la cessazione delle funzioni dell'assemblea e degli organi amministrativi e di controllo della società medesima e, comunque, l'attribuzione al commissario liquidatore – e non più, quindi, alla persona fisica che la rappresentava fin quando era in bonis – della capacità di stare in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale (Cass. 2527/2004 rv. 570028). Tuttavia, la perdita della capacità in genere (e quindi anche di quella a stare in giudizio) degli organi societari in dipendenza della sottoposizione alla procedura di liquidazione l'interruzione del processo ai sensi e alle condizioni di cui all'art. 300 c.p.c. (Cass. 1010/2004, in motivazione; Cass. 10714/2010, in motivazione; Cass. 15080/2002, in motivazione; così anche T.. Bo. 724/2014 e Cass. 18351/2013 rv. 627363). La messa in l.c.a. di una società di capitali, che non abbia natura bancaria, non determina dunque l'automatica interruzione del processo, trovando applicazione l'art. 300 c.p.c. secondo cui l'interruzione del processo a seguito della perdita della capacità della parte costituita si verifica soltanto quando il procuratore della stessa dichiari in udienza o notifichi alle altre parti l'evento interruttivo. Inoltre, la generale disciplina della liquidazione coatta amministrativa ha subito modificazioni sia nel 2006 successivamente alla pubblicazione del d.lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003 (cfr. d.l. n. 181 del 2006 convertito con modificazioni dalla l. n. 233 del 17 luglio 2006), sia nel 2012 (d.l. n. 95 del 2012 convertito con modificazioni dalla l. n. 135 del 2012), ma il legislatore non ha ritenuto di inserire alcun richiamo al disposto dell'art. 43 comma 3 l. fall. Nel senso dell'applicabilità delle norme codicistiche, e non della norma fallimentare agli effetti del provvedimento che ordina la liquidazione, si sono espressi T.A.R. Emilia Romagna n. 724/2014, Cons. Stato n. 1437 del 24.3.2014, Trib. Arezzo 16.06.2014 e Trib. Milano – Sezione specializzata in materia di impresa 24.10.2014. Essendo l'art. 43 comma 3 l. fall. norma speciale produttiva di effetti particolarmente gravi sul piano processuale, non può esserne ammessa né l'applicazione analogica né l'applicazione sulla scorta di un estremamente ampio rinvio alle «disposizioni della legge fallimentare». In definitiva, in difetto della dichiarazione da parte del procuratore finalizzata al conseguimento dell'effetto interruttivo oppure dei necessari requisiti formali previsti dall'art. 300 c.p.c. (ossia la formulazione in udienza o in atto notificato alle altre parti), il processo prosegue tra le parti originarie.
1.2. Il presente giudizio attiene, in buona sostanza, all'interpretazione delle disposizioni testamentarie di Be. Et. . Egli, deceduto in data ...2008 senza lasciare alcun erede legittimario, disponeva delle proprie sostanze con due distinti testamenti olografi, entrambi pubblicati (doc. 1 di parte attrice). Il primo, datato 08.10.2008, è del seguente tenore letterale: «6.06.2008 Testamento olografo in data odierna in piena lucidità di mente lascio l'immobile di Contrà Pa. 14 al mio caro pronipote Al. Ko. Et. Be. ». Nel successivo testamento del 03.07.2008 così il de cuius disponeva: «3.07.2008 Il sottoscritto Et. Be. nato a * ed ivi residente dichiara che alla sua morte la morte la sua quota nei depositi presso Banca Intesa e Banca Popolare di Vicenza venga liquidata alla Signora Br. Be. pure cointestata negli stessi istituti bancari. La Signora Br. Be. provvederà alla destinazione della somme in deposito secondo le disposizioni del dott. Be. Et. Be. ». Ora, Be.-Co. Lo. è parente di terzo grado collaterale di Be. Et. in quanto di lui nipote ex sorere. Il Ko., figlio della Be.-Co., è pertanto parente di quarto grado in linea collaterale del de cuius, suo prozio. Tanto premesso, si tratta di qualificare le mentovate disposizioni testamentarie. Parte attrice ritiene che il Ko. sia l'unico erede del de cuius, oppure, in subordine e alternativamente, che egli sia legatario e che erede legittima sia la Be.-Co.. In tesi attorea, la Be. sarebbe esecutrice testamentaria nonché legataria con modus. Muovendo da tali premesse, gli attori hanno impugnato per nullità l'intera disposizione testamentaria contenuta nel testamento del 03.07.2008, deducendo che da essa non risulterebbe alcuna volontà del testatore circa la destinazione delle somme oggetto di tale disposizione e che l'onere, unico motivo essenziale del lascito, sarebbe impossibile in quanto privo di esplicita indicazione dei destinatari dei benefici ed illecito in quanto apposto in violazione dell'art. 631 c.c. Inoltre, gli attori eccepivano l'inadempimento della convenuta agli obblighi nascenti dall'onere. In ogni caso, il fine ultimo degli attori è, in definitiva, di essere risarciti – o comunque di ottenere la restituzione – delle somme corrisposte dalla Be. a terzi. La prospettazione della convenuta è del tutto divergente, atteso che costei qualifica il Ko. come legatario e se stessa come erede. In data 15.12.2008 il Ko. accettava l'eredità (doc. 3 di parte attrice). In data 19.11.2008 la Be. accettava la carica di esecutore testamentario del Be. (doc. 4 di parte attrice). Nella dichiarazione di successione la Be. si qualificava legataria (doc. 5 di parte attrice). Innanzitutto, si osserva che ogni qualificazione resa dalle parti o da terzi (quale, ad esempio, un notaio) non è vale a superare l'effettiva volontà del testatore, la cui interpretazione, in ipotesi di controversia, spetta istituzionalmente all'autorità giudiziaria (v. Cass. 5625/1985 rv. 442815, secondo cui «La qualità di erede non può essere desunta che dal contenuto obiettivo del testamento, essendo irrilevante a tal fine l'indagine sul comportamento degli eredi o dei legatari e sull'interpretazione che gli stessi abbiano dato al testamento»; così anche Cass. 3751/1976 rv. 382449). A tal proposito, giova premettere che, come noto, l'art. 588 c.c. – nel dettare il criterio distintivo tra le disposizioni testamentarie a titolo universale e quelle a titolo particolare – stabilisce, nel primo comma, che, indipendentemente dall'espressione o dalla denominazione usata dal testatore, sono attributive della qualità di erede quelle disposizioni le quali comprendono l'universalità dei beni o una parte determinata di essi, considerata in funzione di quota del patrimonio ereditario, mentre attribuiscono la sola qualità di legatario le disposizioni che assegnano i beni singolarmente in modo determinato. Il secondo comma precisa, tuttavia, che anche l'assegnazione di beni determinati (institutio ex re certa) o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, ove risulti che il testatore abbia inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio, cioè nel loro rapporto con il tutto. Accanto al criterio obiettivo dell'interpretazione desunta dal contenuto dell'atto (modo dell'attribuzione dei beni fatta dal testatore) la legge ha posto, quindi, quello soggettivo dell'interpretazione ricavata dall'intenzione del testatore di attribuire o meno beni determinati, intesi come quota della universalità del suo patrimonio. L'interpretazione del testamento è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più penetrante ricerca, al di là della mera dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, d'altronde, alla stregua dell'art. 1362 c.c., va individuata sulla base dell'esame globale della scheda testamentaria, e non di ciascuna singola disposizione, con riferimento anche ad elementi estrinseci alla scheda stessa, come la cultura, la mentalità e l'ambiente di vita del testatore medesimo e salvo il divieto di integrazione ab extrinseco di tale volontà, diversa da quella effettiva del de cuius (Cass. 7025/1986 rv. 449105). Ciò detto, deve escludersi che il Ko. sia erede testamentario di Be. Et. . All'epoca della redazione del testamento olografo del 06.06.2008, il patrimonio attivo del de cuius era costituito non soltanto dall'immobile oggetto della disposizione testamentaria in favore del pronipote, ma anche da titoli e denaro depositati presso due istituti bancari: si trattava dunque di un complesso di beni economicamente rilevante comprendente unità eterogenee. La disposizione testamentaria, invero assai laconica («lascio l'immobile di Contrà Pa. 14 al mio caro nipote»), non consente, in assenza di elementi di segno contrario, di ritenere che il de cuius abbia inteso istituire il Ko. quale suo erede, assegnandogli un determinato e specifico bene immobile come quota del suo patrimonio, considerandolo cioè nel suo rapporto con il tutto. L'utilizzo della parola «lascio» anziché «lego» non appare significativo né decisivo, trattandosi di testamento olografo, predisposto senza il previo confronto con alcun esperto nell'ambito giuridico e da soggetto che non risulta avesse alcuna particolare cognizione tecnico-giuridica circa la differenza semantica dei due termini. Nell'interpretazione di un testamento si deve infatti mirare a stabilire il senso in cui le espressioni sono state intese dal testatore, il cui reale intendimento non può escludersi per l'uso di una espressione impropria: d'altra parte, occorre ribadire che, qualunque sia l'espressione usata dal testatore, le disposizioni testamentarie sono a titolo universale, ed attribuiscono la qualità di erede, soltanto se comprendono l'universalità od una quota di beni del testatore. Alle parole usate dal testatore può dunque essere attribuito un significato diverso da quello tecnico e letterale qualora dalla valutazione complessiva dell'atto, nel caso di specie peraltro circoscritta ad una sola proposizione, non risulti una contrastante ed antitetica intenzione del de cuius, neppure ricavabile aliunde. Anzi, a ben vedere, tale volontà del Be. emerge da due lettere prodotte in giudizio dalla stessa parte attrice, nelle quali il testatore ha manifestato chiaramente il proprio legame con l'abitazione oggetto della disposizione testamentaria in favore del Ko. nonché le ragioni sottese al lascito (doc. 27 di parte attrice). Nella prima missiva, risalente al 1995 ed indirizzata dalla sorella Wa., nonna dell'odierno attore, il Be. ha così testualmente scritto: «… Tu sai bene che la passione della mia vita è stata la mia casa. È stata per me come quel figlio che non ho avuto. Per legami di affetto e per umani diritti spetterebbe a te la diretta successione: lo faccio scavalcando qualche gradino nella persona di tuo nipote Al. mio pronipote. Il tuo cuore di mamma, come è giusto pensare, avrebbe lasciato quanto fosse stato suo in parti eguali ai suoi eredi con la conseguente necessità della alienazione, cosa che mi turba al solo pensiero. Al. abiterà questa casa con la sua famiglia e vi riceverà ancora parenti ed amici». Nella lettera rivolta invece direttamente al pronipote Al., il de cuius ribadiva in data 03.07.2008 quanto segue: «… La mia vita è stata tutta dedicata allo studio e la mia passione che si può paragonare in affetti filiali è stata la mia casa. L'ho voluta quando era in tristissime condizioni… Sarò contento dall'aldilà sentire dire a quell'ospite che con Al. si complimentasse per la casa 'Era di un mio vecchio zio che mi voleva bene e me l'ha lasciata'». È pertanto evidente che il Be., che provava un profondo sentimento verso la propria abitazione, volesse evitare che tale bene – e solo questo – sfuggisse alla successione legittima e, giungendo alla sorella Wa., potesse poi, dopo di lei, essere ceduto a terzi dagli eredi di quest'ultima, la quale aveva due figli, Ma. e Lo.: infatti, qualora il bene fosse pervenuto in successione al Ma., privo di successibili, egli avrebbe potuto lasciarlo ad 'estranei'; ugualmente, anche dopo i decessi di Wa. (in data ...2001) e di Ma. (in data ....2004), e dunque prima della seconda lettera e del testamento del 06.06.2008, il bene avrebbe comunque potuto perdere la destinazione 'familiare' qualora fosse pervenuto in successione a Lo., madre di Al., la quale era tuttavia coniugata (doc. 3 di parte attrice). L'intenzione del Be. era chiaramente disporre con testamento soltanto di tale bene immobile, derogando alla successione ex lege e fermo ogni altro effetto da essa derivante. Quanto ai restanti beni, egli non ha infatti escluso in alcun modo la sorella Wa., sostituendola, nell'ordine previsto dalla legge, con il pronipote. In tale prospettiva, la disposizione in esame appare finalizzata esclusivamente a garantire la permanenza della propria abitazione nel patrimonio 'di famiglia' mediante l'attribuzione a colui che riteneva potesse soddisfare al meglio tale volontà, ossia il pronipote Al.. L'istituzione di erede non è compatibile con la volontà del de cuius e con il valore simbolico da esso assegnato al bene, che prescinde dal suo valore economico. L'attribuzione testamentaria non può pertanto essere intesa come quota del patrimonio. Ne consegue che Ko. Al., da qualificarsi come legatario, è privo di interesse all'impugnazione, sotto ogni profilo, della disposizione testamentaria contenuta nel distinto testamento del 03.07.2008, poiché nessun concreto vantaggio potrebbe a lui derivare dall'eventuale accoglimento dell'azione proposta. Be.-Co., madre di Ko. Al., ha spiegato, in via subordinata ed alternativa, ossia nell'ipotesi che il figlio non fosse ritenuto erede, le medesime domande, sull'assunto che la veste di erede legittima spetterebbe a lei. Ora, la Be.-Co. esprimeva, con dichiarazione ricevuta da notaio in data 15.12.2008, «la propria acquiescenza alle disposizioni testamentarie del defunto Sig. Be. Et. » (doc. 3 di parte attrice), sull'esplicitato presupposto che il figlio, che contestualmente accettava l'eredità del prozio, fosse unico erede. Tuttavia, il testamento olografo del 03.07.2008 conteneva già una istituzione di erede, ma in favore dell'odierna convenuta, Be. Br., cui il de cuius, che aveva con quest'ultima cointestati alcuni rapporti bancari, aveva attribuito «la sua quota nei depositi presso Banca Intesa e Banca Popolare di Vicenza». Che si tratti di disposizione a titolo universale non pare revocabile in dubbio, tenuto conto che – a quell'epoca e, in particolare, dopo il legato disposto con il precedente testamento – i depositi e conti esistenti presso le due predette banche esaurivano l'asse ereditario. A ciò si aggiunga che l'esplicito utilizzo del termine 'quota' è indicativo dell'intenzione della delazione ereditaria in favore della Be. e che a quest'ultima è stato attribuito un intero (ed invero l'unico e residuo) compendio di beni omogenei (v. Cass. 6516/1986 rv. 448673, secondo cui «quando l'attribuzione di quota del patrimonio, ancorché individuata quanto al suo aspetto materiale nei componenti, avviene per classi o gruppi di beni (come, ad es.: tutti i mobili o tutti gli immobili, e/o quote di essi) è da ritenere, se altri elementi intrinseci della scheda non depongano chiaramente in contrario, che l'attribuzione stessa abbia luogo a titolo universale, onde il beneficiato acquista la qualità di erede e non già quella di legatario»). La Be., con testamento in data 03.07.2008, è stata dunque istituita unica erede. Ne consegue che nessuna delazione ereditaria può configurarsi nei confronti della Be.-Co., che, con l'acquiescenza prestata in data 15.12.2008, ha reso una dichiarazione sostanzialmente priva di ogni effetto, in quanto effettuata sull'erroneo presupposto che il figlio fosse l'unico erede del Be. e comunque successivamente all'accettazione (implicita) dell'eredità da parte della Be., che, in quel momento, aveva già ampiamente disposto dei beni ereditari del de cuius (v. doc. 9 di parte attrice). Anche l'impugnazione dell'attrice, sotto ogni profilo dedotto, è pertanto inammissibile per difetto di legitimatio ad causam. Infine, si osserva che, quand'anche dovesse ritenersi che all'istituzione di erede della Be. il Be., con il secondo periodo della scheda testamentaria, abbia apposto un onere impossibile od illecito, quest'ultimo non inficerebbe comunque l'intera disposizione testamentaria, atteso che non risulta essere stato l'unico motivo determinante (art. 647 comma 3 c.c.). Ag. accertamenti (incidentali) che precedono non consegue alcuna esplicita statuizione in assenza di corrispondente domanda da parte della convenuta, che si è limitata a contrastare l'azione attorea proponendo soltanto una diversa interpretazione delle disposizioni testamentarie de quibus.
2. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano secondo i parametri dettati dal D.M. n. 55 del 2014, le cui disposizioni, ai sensi dell'art. 28, si applicano alle «liquidazioni successive alla sua entrata in vigore» (v. anche S.U. 17405/2012 rv. 623533). In particolare: a) alla luce del valore indeterminabile e della complessità della controversia, si applica lo scaglione da € 26.001,00 ad € 52.000,00; b) le fasi da prendere in considerazione sono quelle di studio, introduttiva, trattazione/istruttoria e decisoria; c) non si ravvisano ragioni per discostarsi dai valori medi, e pertanto si stima equo liquidare a favore di parte convenuta un compenso pari a complessivi € 7.254,00, come peraltro chiesto con nota spese dalla difesa della stessa Be.. Nel rapporto tra gli attori e la BPV convenuta, in ragione della contumacia di quest'ultima, le spese vanno dichiarate non ripetibili.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa e ulteriore istanza, eccezione e deduzione disattesa, così giudica: 1. dichiara il difetto di interesse ad agire di Ko. Al. ; 2. dichiara il difetto di legittimazione ad agire di Be.-Co. Lo. ; 3. condanna Ko. Al. e Be.-Co. Lo., in solido, al pagamento in favore di Be. Br. delle spese del presente giudizio, che si liquidano in 7.254,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, CPA ed IVA come per legge; 4. dichiara irripetibili le spese di lite nel rapporto processuale tra gli attori e la Banca Popolare di Vicenza soc. coop..
Così deciso in Vicenza, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile, il 12 ottobre 2017.