Diritto e Procedura Civile
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20299 - pubb. 31/07/2018
Responsabilità dello Stato per violazione di Direttive europee: condanna emessa dal giudice di pace secondo equità
Cassazione civile, sez. III, 28 Giugno 2018, n. 17058. Est. Spaziani.
Responsabilità dello Stato per violazione di Direttive europee - Condanna emessa dal giudice di pace secondo equità - Appello a motivi limitati - Ammissibilità
E' ammissibile l'appello avverso la sentenza di condanna dello Stato italiano al risarcimento del danno derivante dalla violazione di una Direttiva europea, emessa dal giudice di pace nell'ambito di un giudizio di equità cd. necessaria, ai sensi dell'art. 113, comma 2, c.p.c., atteso che la ragione di impugnazione fondata sull'erronea applicazione della Direttiva rientra tra i motivi "limitati" di cui all'art. 339, comma 3, c.p.c. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -
Dott. IANNELLO Emilio - Consigliere -
Dott. POSITANO Gabriele - Consigliere -
Dott. DELL’UTRI Marco - Consigliere -
Dott. SPAZIANI Marco - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Svolgimento del processo
L.P. convenne la Presidenza del Consiglio dei Ministri dinanzi al giudice di pace di Civitacastellana, deducendo che:
- con la Direttiva 98/83/CE del Consiglio dell'Unione Europea, recepita nel nostro ordinamento con D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 31, era stato stabilito, con decorrenza dal 25 dicembre 2003, il valore limite di 10 mg/1 per l'arsenico contenuto nell'acqua potabile;
- lo Stato italiano, dopo aver autorizzato con decreti ministeriali due deroghe triennali consecutive (per il triennio 2004-2006 e per il triennio 20072009) ai valori di parametro fissati dalla Direttiva al fine di consentire l'erogazione di acqua potabile con valori di arsenico sino a 50 mg/l, con lettera del 2 febbraio 2010 aveva richiesto alla Commissione Europea di esprimere il prescritto parere in funzione dell'autorizzazione della terza deroga triennale in relazione alle forniture di acqua di alcune regioni, prorogando unilateralmente, dopo la scadenza, la deroga precedentemente disposta;
- in data 28 ottobre 2010, la Commissione Europea si era peraltro pronunciata negativamente, ritenendo di non poter accordare la deroga richiesta per l'arsenico in concentrazioni superiori a 20 mg/l;
- il mancato adeguamento, in alcune zone del territorio nazionale, dei valori di concentrazione di arsenico ai limiti stabiliti dalla Direttiva comunitaria aveva pertanto determinato, nell'anno 2010, una violazione della Direttiva medesima, dalla quale era derivata la responsabilità dello Stato per i danni subiti dagli utenti;
- egli, in quanto abitante ed intestatario di utenza di acqua potabile nel Comune di Nepi, ricompreso nelle zone in cui la concentrazione di arsenico superava i valori massimi, aveva subito, nel predetto periodo e per effetto della predetta violazione, un danno quantificabile in Euro 900,00, corrispondenti alla spesa sostenuta da una famiglia media italiana per l'approvvigionamento di acqua minerale ovvero per ricorrere a rimedi casalinghi di depurazione dell'acqua corrente, e comunque da liquidarsi a titolo di danno non patrimoniale in ragione dello stato d'ansia e di stress che gli era stato provocato.
Sulla base di queste deduzioni, L.P. domandò pertanto la condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento della somma in parola, ovvero di quella minore ritenuta di giustizia.
Il giudice di pace, decidendo secondo equità, ai sensi dell'art. 113 c.p.c., comma 2, condannò la convenuta a pagare all'attore la somma complessiva di Euro 500,00, oltre interessi.
Il tribunale di Roma, in accoglimento dell'appello proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha invece rigettato la domanda, sul rilievo che nessuna violazione della Direttiva comunitaria era stata commessa e che comunque non era stato dimostrato il nesso causale tra il danno asseritamente subito e il mancato rispetto dei limiti di concentrazione dell'arsenico dovuto alla mancanza di una deroga consentita dall'ordinamento comunitario.
Ha proposto ricorso per cassazione L.P., affidandosi a tre motivi di censura. La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha depositato atto di costituzione in funzione dell'eventuale partecipazione all'udienza di discussione.
Il pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte con cui ha invocato il rigetto del ricorso. Il ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo ("Violazione e/o falsa applicazione di legge: artt. 339 e 113 c.p.c.; Direttiva Consiglio Unione Europea 98/83/CE"), il ricorrente si duole che il giudice di appello non abbia rilevato l'inammissibilità dell'impugnazione proposta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Deduce che la sentenza di primo grado, in quanto pronunciata dal giudice di pace a norma dell'art. 113 c.p.c., comma 2 (c.d. "equità necessaria"), era soggetta ad appello per i soli motivi previsti dall'art. 339 c.p.c., u.c., tra cui figura la violazione di norme comunitarie. Sostiene che, nel caso di specie, l'appellante non si era attenuta ai "motivi limitati" di cui alla predetta norma, giacchè non aveva indicato le specifiche norme comunitarie asseritamente violate dal giudice di pace nell'emissione del giudizio equitativo, ma aveva chiesto un nuovo giudizio, deducendo la mancanza della violazione della Direttiva comunitaria da quel giudice ritenuta invece sussistente. Asserisce che il tribunale erroneamente avrebbe ritenuto ammissibile il motivo di appello fondato sull'"erronea applicazione delle direttive comunitarie e delle leggi di recepimento", in quanto la violazione della Direttiva costituiva la causa petendi della domanda risarcitoria e non la ragione del vizio del giudizio equitativo.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. Il Tribunale - dopo aver correttamente dato atto che il giudizio formulato dal giudice di pace rientrava tra quelli cc.dd. "ad equità necessaria", ai sensi dell'art. 113 c.p.c., comma 2 (in considerazione del limitato valore della causa, non derivante da rapporto contrattuale regolato dall'art. 1342 c.c.) e che pertanto l'appello era ammissibile esclusivamente per i motivi "limitati" di cui all'art. 339 c.p.c., comma 3 - ha evidenziato che la Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva dedotto, tra i motivi di impugnazione, l'"erronea applicazione delle direttive comunitarie", oltre che delle leggi di recepimento, dolendosi del fatto che il giudice di pace, proprio sulla base di un'erronea lettura della fonte comunitaria, avesse indebitamente ascritto allo Stato italiano una condotta illecita in realtà insussistente.
1.3. Alla luce di tale evidenziazione, deve ritenersi che i motivi di appello non esorbitassero dai limiti stabiliti dall'art. 339 c.p.c., u.c. (tra cui rientra la violazione di norme comunitarie), atteso che la critica della sentenza era stata esplicitamente fondata sull'erronea applicazione della Direttiva n. 98/83/CE (oltre che della normativa interna di attuazione), per avere il giudice di pace tratto da tale fonte nottnativa conseguenze giuridiche (la qualificazione di illiceità della condotta dello Stato, erroneamente ritenuto inadempiente rispetto agli obblighi stabiliti dalla Direttiva medesima) incompatibili con la sua corretta interpretazione.
2. Con il secondo motivo ("Violazione e/o falsa applicazione di legge: Direttiva Consiglio Unione Europea 98/83/CE, Decisione Commissione Europea del 28/10/2010; D.Lgs. n. 31 del 2001, artt. 13, 15 e 16; Allegato 1 al D.Lgs. n. 31 del 2001") il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto insussistente la denunciata violazione della Direttiva n. 98/83/CE da parte dello Stato italiano. Sostiene che le argomentazioni svolte dal tribunale - secondo cui lo Stato, nel disporre le prime due deroghe e nel richiedere il parere della Commissione Europea in vista della terza, aveva correttamente osservato il procedimento previsto nell'art. 9 della Direttiva e nell'art. 13 della legge di recepimento, ottenendo, tra l'altro, dopo la decisione negativa del 28 ottobre 2010, il positivo parere a derogare ai valori di parametro fino alla concentrazione di 20 mg/l, espresso con successiva decisione del 22 marzo 2011 - sarebbero errate in diritto, in quanto non terrebbero conto, per un verso, della circostanza che lo Stato, alla scadenza della seconda deroga, ne aveva arbitrariamente prorogato gli effetti sino alla pronuncia della Commissione (con ciò disponendo, di fatto, un terza deroga unilaterale in violazione del richiamato procedimento) e, per altro verso, dell'ulteriore circostanza che il parere fornito dalla Commissione in data 22 marzo 2011 (peraltro concernente valori limite sensibilmente inferiori a quello precedentemente richiesto) non aveva efficacia retroattiva e non sanava dunque la violazione consumatasi nell'anno precedente.
2.1. Anche questo motivo è infondato.
2.2. La sentenza impugnata, ricostruendo i termini della vicenda, ha posto in evidenza che il Governo italiano aveva attivato, secondo quanto previsto dall'art. 9 dell'invocata direttiva e dall'art. 13 del decreto legislativo di recepimento, due periodi triennali di proroga, l'uno dal 2004 al 2006 e l'altro dal 2007 al 2009. Perdurando la situazione di superamento del tasso soglia di 10 mg/l, fissato dalla direttiva, il Governo italiano aveva chiesto alla Commissione Europea un terzo periodo di proroga, invocando l'applicazione del tasso soglia di 50 mg/l.
La sentenza ha aggiunto che la Commissione Europea aveva emesso due decisioni: la prima in data 28 ottobre 2010, con cui non aveva concesso la deroga, sul rilievo essa fosse ammissibile fino al massimo di 20 mg/l; la seconda in data 22 marzo 2011, con cui aveva autorizzato la deroga temporanea "fino all'anno successivo" (vale a dire sino al 31 dicembre 2012), per valori di arsenico non superiori a 20 mg/l.
Sulla base di tale ricostruzione, il Tribunale ha ritenuto, per un verso, sul piano formale, che fosse stata debitamente rispettata la procedura prevista dall'art. 9 della direttiva comunitaria e dall'art. 13 del decreto legislativo di recepimento; per altro verso, sul piano sostanziale, che nessuna violazione del diritto comunitario fosse stata perpetrata, evidentemente sull'implicito (ma chiaro) assunto che l'autorizzazione a derogare ai valori soglia concessa dalla Commissione Europea con l'ultima decisione del 22 marzo 2011 "fino all'anno successivo" operasse per l'intero triennio 2010-2012.
2.3. Alla tesi formulata dal Tribunale, fondata su una perspicua - ancorchè implicita - interpretazione della portata della decisione della Commissione Europea, il ricorrente contrappone l'opposta tesi, secondo cui la predetta decisione, conformemente a quanto già ritenuto dal giudice di pace, non aveva effetto retroattivo e dunque non sanava la violazione consumatasi nel precedente anno 2010.
2.4. La doglianza non si risolve semplicemente in una ricostruzione alternativa dei fatti più favorevole alla parte ricorrente e non è pertanto inammissibile, in quanto le decisioni della Commissione Europea, ancorchè prive dei requisiti della generalità ed astrattezza, costituiscono fonte di produzione del diritto (in tema, v., di recente, Cass. 19 gennaio 2018, n. 1325) per modo che la questione del loro ambito di operatività e dei limiti, anche temporali, della loro efficacia, si traduce in un problema di interpretazione di norme giuridiche che può essere ammissibilmente posto in sede di legittimità.
2.5. Essa doglianza è peraltro infondata, in quanto l'interpretazione data dal tribunale alla portata della decisione della Commissione Europea del 22 marzo 2011 appare pienamente condivisibile.
Deve infatti ritenersi che, dopo le prime due deroghe triennali, possibili su iniziativa unilaterale dello Stato interessato, la terza deroga triennale (che richiedeva invece l'approvazione della Commissione Europea) fosse destinata ad operare senza soluzione di continuità rispetto alle precedenti, in vista del progressivo adeguamento dello Stato alle nuove disposizioni comunitarie, e quindi del progressivo raggiungimento del limite finale fissato dalla direttiva.
La suddetta deroga, sebbene concessa solo nel marzo 2011, era di conseguenza efficace anche per il periodo anteriore alla data di emissione del provvedimento (ovviamente con decorrenza dalla scadenza della precedente deroga triennale, e quindi per tutto l'anno 2010).
Correttamente, pertanto, il tribunale ha ritenuto che la diversa conclusione del giudice di pace, secondo cui la deroga non aveva effetti retroattivi (e come tale non era operante per il 2010), costituisse violazione delle disposizioni comunitarie invocate dalla stessa parte attrice, ed ha quindi - previa riforma della decisione di primo grado, ai sensi dell'art. 339 c.p.c., comma 3 - proceduto ad una nuova delibazione della domanda proposta, escludendo la sussistenza dell'illecito ascritto allo Stato, in applicazione dell'esposta differente interpretazione della decisione della Commissione Europea.
3. Con il terzo motivo ("violazione e/o falsa applicazione di legge: artt. 339 e 113 c.p.c.; artt. 1226, 2043, 2697 c.c.; artt. 115 e 116 c.p.c.; Direttiva Consiglio Unione Europea 98/83/CE") il ricorrente lamenta che il giudice di appello abbia escluso la prova del nesso causale tra il pregiudizio da lui subito e il mancato rispetto dei limiti di concentrazione dell'arsenico nell'acqua potabile per l'anno 2010. Deduce che, nel ritenere che fossero rimaste indimostrate sia la circostanza che egli, nell'anno 2010, avesse affrontato spese per l'acquisto di acqua minerale e la depurazione di acqua corrente, sia la circostanza che, in seguito alla decisione negativa della Commissione Europea, avesse subito un paterna d'animo ristorabile a titolo di danno non patrimoniale, il tribunale avrebbe indebitamente sindacato il giudizio operato dal giudice di pace in tema di riparto dell'onere della prova e di idoneità dei mezzi di prova addotti per l'assolvimento di tale onere, giudizio fondato sulle regole di diritto sostanziale contenute nel Titolo 2^ del Libro 6^ del codice civile (artt. 2697 e segg.), la cui violazione darebbe luogo ad errores in iudicando non rilevabili in relazione a pronunce emesse dal giudice di pace secondo equità.
3.1. Il motivo è inammissibile.
3.2. In primo luogo, la censura, sebbene formalmente riferita all'asserita violazione dei limiti entro i quali può essere fatta oggetto di appello una sentenza emessa dal giudice di pace nell'ambito dei giudizi ad equità necessaria, nella sostanza riguarda la diversa valutazione delle prove effettuata dal tribunale, la quale rientra appieno nei poteri del giudice di appello; in altre parole, la circostanza che l'appello contro le sentenze pronunciate secondo equità, a norma dell'art. 113 c.p.c., comma 2, sia consentito esclusivamente per violazione di norme sul procedimento (oltre che per violazione di norme costituzionali e comunitarie, nonchè dei principi regolatori della materia) non impedisce al giudice di appello di sindacare la valutazione delle prove compiuta dal giudice di pace, la quale non può ritenersi esclusa in ragione del fatto che le norme sul riparto dell'onere della prova e sui singoli mezzi di prova abbiano natura sostanziale.
3.3. In secondo luogo, il motivo in esame, proprio in quanto critica la valutazione delle prove operata dal giudice di appello a fronte della diversa valutazione operata dal primo giudice in ordine al nesso di causa tra il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale asseritamente subito dal ricorrente e la violazione ascritta allo Stato italiano, si risolve nella prospettazione di profili di fatto e tende a suscitare un nuovo e diverso apprezzamento di merito in contrapposizione a quello insindacabilmente formulato dal tribunale.
4. Il quarto motivo ha ad oggetto la "richiesta, in via subordinata, di formulazione di quesito interpretativo alla Corte di Giustizia CE, ex art. 267 TFUE (già art. 234 TCE)".
4.1. Questo motivo deve ritenersi assorbito dal rigetto dei primi tre, in ragione dell'irrilevanza della sollecitata remissione, essendo evidente che l'eventuale risposta ai quesiti non avrebbe effetti decisivi nella soluzione della controversia. In ogni caso ad avviso della Corte, nel caso di specie, la corretta applicazione del diritto comunitario è così evidente da non lasciare spazio ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata.
5. Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo avuto riguardo alla circostanza che l'intimata Presidenza del Consiglio dei Ministri si è limitata a depositare atto di costituzione in funzione dell'eventuale partecipazione all'udienza di discussione.
7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 500,00, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 9 aprile 2018.
Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2018.