Diritto Civile


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 407 - pubb. 01/07/2007

Presunzione di responsabilità della P.A. per cose in custodia

Tribunale Foggia, 17 Agosto 2006. Est. Carmela Romano.


Responsabilità della pubblica amministrazione per cose in custodia – Presunzione di responsabilità – Sussistenza – Ripartizione dell’onere della prova.



In tema di applicabilità alla pubblica amministrazione della presunzione di responsabilità prevista dall’art. 2051 c.c. in relazione a quelle categorie di beni – come le strade pubbliche - oggetto di utilizzo generale e diretto da parte di terzi, si osserva che presupposti applicativi della fattispecie di responsabilità descritta dall’art. 2051 c.c. sono la custodia e la derivazione del danno dalla cosa e non gli 'indici', elaborati dalla giurisprudenza, della notevole estensione del bene e dell’uso generale della cosa da parte di terzi. Conseguentemente, tenuto conto che la norma introduce una 'responsabilità presunta' a carico del soggetto che si trovi in una determinata relazione di fatto con la cosa, avendone il potere di 'effettiva disponibilità e controllo', l’onere probatorio gravante sul danneggiato si esaurisce nella prova dei descritti presupposti, incombendo sul presunto responsabile l’onere di dimostrare – diversamente dal paradigma generale di responsabilità di cui all’art. 2043 c. c. - l’assenza di colpa e, quindi, che 'il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con l’adeguata diligenza, cioè con lo sforzo diligente dovuto in relazione alle circostanze del caso concreto'. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)


 


 r.g. 1792/1997

(omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 31-10-97, XXXX ha convenuto in giudizio il COMUNE di XXXX per sentirlo dichiarare responsabile dell’evento dannoso occorsole in data 18-11-96 e, per l’effetto, condannare al risarcimento del danno patito, quantificato in £. 47.823.250, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali; con vittoria di spese.

Ha, al riguardo, esposto che: il 18-11-96, mentre percorreva a piedi via Roma, in XXXX, cadeva in terra a causa di una buca presente sul marciapiedi della predetta via; in conseguenza del sinistro, riportava lesioni personali, che le cagionavano una invalidità temporanea totale di 49 giorni e parziale di 73, nonché postumi permanenti nella misura del 10%; la responsabilità dell’evento era ascrivibile, in via esclusiva, al Comune, che, in qualità di proprietario della strada, avrebbe dovuto provvedere alla manutenzione della stessa.

Si è costituito il COMUNE di XXX, contestando la domanda nell’an come nelquantum debeatur e chiedendone il rigetto, attesa la insussistenza - nel caso di specie - di una situazione di pericolo integrante gli estremi della <<insidia stradale>> e l’eccessività della pretesa risarcitoria.

Esaurita l’istruttoria, le parti sono state invitate alla precisazione delle conclusioni e, all’udienza del 25 gennaio 2006, la causa è stata trattenuta in decisione, con termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La domanda è fondata e va, per quanto di ragione, accolta.

1.1. Invero, giova, prima d’altro, dar atto del revirement giurisprudenziale che ha interessato la vexata quaestio dell’applicabilità, alla pubblica amministrazione, della presunzione di responsabilità prevista dall’art. 2051 c. c. per quelle categorie di beni – come le strade pubbliche - che sono oggetto di utilizzo generale e diretto da parte di terzi.

Ripercorrendo l’evoluzione degli orientamenti interpretativi sviluppatisi in subiecta materia, emerge come, in una fase iniziale, i giudici di legittimità abbiano escluso radicalmente l’ applicabilità dell’art. 2051 c. c., indicando il referente normativo della responsabilità nella norma generale di cui all’art. 2043 c.c. (Cass. 2806-66; 385-69; 260-75), e siano andati elaborando il concetto di <<insidia>> o <<trabocchetto>> determinante un <<pericolo occulto>> per il carattere oggettivo della non visibilità e soggettivo della non prevedibilità (Cass. 2244-69; 5539-97; 2850-98; più di recente, 1571-04), ritenuto <<indice tassativo ed ineludibile della responsabilità della pubblica amministrazione>> (Cass. 10654-04; 11250-02; 2850-98).

Solo a partire dagli anni ’80 si è aperta una breccia nell’orientamento tradizionale, che ha portato la Suprema Corte ad affermare l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. anche nei confronti della p.a., seppure <<limitatamente ai beni demaniali o patrimoniali di non notevole estensione e non suscettibili di generalizzata e diretta utilizzazione da parte della collettività>> (Cass. 5567-84), quali, ad esempio, la villa comunale (Cass. 58-82), la rete fognaria (Cass. 2319-85), le pertinenze della stazione ferroviaria, il trefolo e la fune di guardia di una linea elettrica di proprietà dell’Enel (Cass. 265-96).

Tale approdo ermeneutico ha ricevuto l’avallo della Consulta, la quale, con la pronuncia n. 156 del 1999, ha ritenuto che non violi il dettato costituzionale l’interpretazione dell’art. 2051 c.c. che ne esclude l’applicabilità alla p.a. <<allorché sul bene di sua proprietà non sia possibile – per la notevole estensione di esso e le modalità d’uso, diretto e generale da parte di terzi – un continuo, efficace controllo, idoneo ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo per gli utenti>>.

Gli spunti offerti da questa pronuncia - secondo cui, peraltro, la notevole estensione del bene e l’uso generale e diretto costituiscono <<meri indici>> dell’impossibilità di un concreto esercizio del potere di controllo sul bene, da riscontrarsi attraverso un’indagine svolta caso per caso - hanno portato i giudici di legittimità ad un nuovo esame della questione, che ha fatto riemergere differenze ormai sopite.

In particolare, il contrasto si è polarizzato tra l’interpretazione favorevole ad escludere la presunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c. per quei beni demaniali (come le strade pubbliche) oggetto di utilizzazione generale e diretta da parte della collettività (v. Cass. 2410-05) e la diversa interpretazione orientata nel senso di evitare quello che è stato definito un <<automatismo interpretativo>> (Cass. 19653 e 6515 del 2004).

Ebbene, è quest’ultimo l’indirizzo interpretativo che la terza sezione civile della Cassazione, con le sentenze n. 3651 del 20-02-06 e 5445 del 14-03-06, ha scelto di seguire ed al quale questo giudice ritiene di aderire.

Ed invero, presupposti applicativi della fattispecie di responsabilità descritta dall’art. 2051 c.c. sono la custodia e la derivazione del danno dalla cosa, non altro (nemmeno, in particolare, i suindicati <<indici>>, di fonte giurisprudenziale, della notevole estensione del bene e dell’uso generale della cosa da parte di terzi).

Ora, tenuto conto che la norma introduce una <<responsabilità presunta>> a carico del soggetto che si trovi in una determinata relazione di fatto con la cosa, avendone il potere di <<effettiva disponibilità e controllo>>, l’onere probatorio gravante sul danneggiato si esaurisce nella prova dei descritti presupposti, incombendo sul presunto responsabile l’onere di dimostrare – diversamente dal paradigma generale di responsabilità di cui all’art. 2043 c. c. - l’assenza di colpa e, quindi, che <<il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con l’adeguata diligenza, cioè con lo sforzo diligente dovuto in relazione alle circostanze del caso concreto>>.

1.2. Tanto premesso, in diritto, procedendo al vaglio del caso di specie, gli esiti istruttori hanno confermato la prospettazione dei fatti descritta nell’atto di citazione.

E’ quanto emerge, in particolare, dalla deposizione del teste XXX, il quale ha riferito di aver visto l’attrice cadere in una “buca” presente nella pavimentazione del marciapiedi di via Roma, in XXX, aggiungendo altresì che il manto stradale si presentava sconnesso e con mattonelle divelte (cfr. verbale d’udienza del 26-09-00), circostanza quest’ultima risultante dalla documentazione fotografica in atti, non disconosciuta dal convenuto.

Peraltro, tale ricostruzione trova indiretta conferma nelle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, il quale, con argomentazioni esaustive ed immuni da censure logiche, ha ritenuto sussistente la derivazione causale della caduta dalla esistenza della “buca” (cfr. relazione peritale del 26-02-03, a firma dell’ing. XXX).

Deve quindi ritenersi acclarato, in base alle esposte risultanze istruttorie, che sia stata la particolare condizione, potenzialmente lesiva, del manto stradale a determinare la caduta della XXX.

Si impone, pertanto, la declaratoria di responsabilità del Comune di XXX per l’evento dannoso occorso all’attrice, non avendo l’amministrazione comunale fornito la prova (liberatoria) di aver adottato tutte le misure idonee ad evitarlo.

Di contro, la rappresentazione fotografica dei luoghi di causa costituisce la prova più evidente che la p.a. non ha tenuto il comportamento diligente richiesto in relazione alle condizioni del bene posto sotto la sua custodia ed all’uso dello stesso (si tratta di una strada del centro cittadino, come tale molto frequentata), avendo omesso di verificare se la strada versasse in condizioni tali da non recare nocumento agli utenti ed altresì di effettuare i necessari lavori di manutenzione, ciò in ottemperanza all’obbligo previsto dall’ art. 5 r.d. 15 novembre 1923, n. 2506, e, più in generale, dall’art. 2051 c.c. (Cass. 723-88).

Ebbene, considerato peraltro che la violazione di una specifica norma di condotta costituisce prova sufficiente della colpa della p.a. (cfr. cit. sent. 3651-06), deve ribadirsi, per tale ulteriore rilievo, la responsabilità dell’ente comunale per il danno sofferto dall’attrice in conseguenza del sinistro.

1.3. Passando alla determinazione del quantum debeatur, con riguardo al danno da lesione dell’integrità fisica (cd. danno biologico), il consulente tecnico d’ufficio ha accertato una invalidità temporanea totale della durata di 45 giorni, una parziale al 70% di 30 giorni ed una parziale al 50% di ulteriori 20 giorni, nonché postumi permanenti in misura compresa tra il 2 e il 3% (cfr. relazione peritale del 26-01-04, a firma del dott. XXX).

A tali conclusioni si aderisce integralmente e, quanto alla percentuale di invalidità permanente, essa deve riconoscersi nella misura del 3%, in considerazione della patologia descritta dal consulente e del complesso degli esiti invalidanti riscontrati sulla periziata.

Nella liquidazione del danno biologico si farà riferimento al criterio equitativo di cui all’art. 1226 c. c., da applicarsi tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e, specificamente, della gravità delle lesioni, dei postumi permanenti, dell’età, dell’attività svolta, delle condizioni sociali e familiari del danneggiato (tra le molte, Cass. 19057 e 8827 del 2003).

A tal fine, superato il criterio del triplo della pensione sociale, che la giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni ritenuto inadeguato alla liquidazione del danno alla salute (ex pluribus, Cass. 14874-00; 9835-96; 5271-95; 2008-93), si assumerà a parametro di calcolo quello del punto flessibile indicato dalle tabelle milanesi del 2005, in base al quale viene differenziato il valore del punto in relazione alla gravità della menomazione permanente ed all’età del danneggiato secondo un criterio - rispettivamente - progressivo e regressivo.

La somma scaturente dall’ applicazione delle tabelle risulta pari ad€2.143,01 (€1.107,50 x 3 x 0,645) ed è pienamente in grado – a parere di chi scrive – di dar conto delle peculiarità del caso concreto, quali risultanti da atti e documenti di causa.

Quanto al danno biologico temporaneo, assumendo come parametro sempre le tabelle milanesi, esso va liquidato nella misura di €4.925,00, di cui €2.925,00 per 45 giorni di invalidità totale (€65,00 al giorno), €1.350,00 per 30 giorni di invalidità parziale al 70 % (€45,00 al giorno) ed €650,00 per 20 giorni di invalidità parziale al 50% (€32,5 al giorno).

Con riguardo al danno morale, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima, nessun dubbio sussiste in ordine alla sua risarcibilità ove, come nell’ipotesi di specie, la colpa dell’ autore del danno si ritenga sussistente in base ad una presunzione di legge ed il fatto, ricorrendo la colpa, sarebbe qualificabile come reato (C. 12.5.2003 n. 7283: «appare incongruo ritenere che, in un contesto connotato da un onere probatorio posto a carico del danneggiante convenuto, evidentemente in funzione di tutela della posizione della vittima, ove lo stesso non sia soddisfatto e la prova liberatoria non sia data, il danneggiato attore possa ottenere o no il risarcimento del danno non patrimoniale a seconda che abbia o meno dato la prova di un fatto (colpa) che non gli compete e la cui mancanza va invece provata dall'altra parte. Posto che, se la colpa fosse sussistente, il fatto integrerebbe il reato ed il danno non patrimoniale sarebbe dunque risarcibile, la non superata presunzione di colpa altro non significa che essa agli effetti civili sussiste, sicché il fatto senz'altro corrisponde anche in tale ipotesi alla fattispecie astratta di reato […]. Deve conclusivamente enunciarsi, così innovando il precedente orientamento, il seguente principio di diritto: alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p. non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell'autore del danno se essa, come nei casi di cui all'art. 2054 c.c., debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato»; conf., C. 26 febbraio 2004 n. 3871).

Tanto premesso, tenuto conto dell’entità e tipologia dei postumi invalidanti, della durata della malattia e delle condizioni soggettive dell’attrice, si ritiene equo liquidare – a tale titolo – l’importo di €500,00, pari a circa 1/4 del danno biologico permanente.

Trattandosi di importi già comprensivi di rivalutazione monetaria, la somma finale di €7.568,01 deve essere devalutata all’epoca del fatto e l’importo così ottenuto rivalutato, in base agli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, dal 18-11-96 alla data della decisione, in considerazione della natura di debito di valore della obbligazione risarcitoria.

Sul valore della somma via via rivalutata spettano altresì alla creditrice gli interessi per ritardato pagamento maturati anno per anno, restando escluso che possano computarsi dalla data dell’illecito sull’intera somma rivalutata definitivamente (in tal senso, C. Sez. Un. 1712-95; conf. 2217-98; 11502-97; 339-96).

Ne consegue che la somma complessivamente dovuta all’attrice è pari ad €9.741,28 (di cui €6.201,15 quale capitale iniziale, devalutato alla data del 18-11-96, €1.384,61 per rivalutazione ed €2.155,52 per interessi legali sul capitale rivalutato annualmente).

Sull’ importo così liquidato decorrono ulteriori interessi, al saggio legale, dalla data della sentenza al saldo.

Sussistono giusti motivi per la compensazione integrale, tra le parti, delle spese di lite, tenuto conto della mancanza di una interpretazione giurisprudenziale consolidata della norma applicata al caso di specie, salvo per quelle di ctu, da porsi definitivamente a carico del convenuto, in ossequio al criterio generale della soccombenza.

P.Q.M.

Il Tribunale, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da XXX nei confronti del COMUNE di XXX, con atto di citazione notificato il 31-10-97, disattesa ogni contraria istanza, eccezione, deduzione, così provvede:

·  accertata la responsabilità del COMUNE di XXX per l’evento dannoso occorso, in data 18-11-96, a XXX, condanna il convenuto, in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di €9.741,28, a titolo di risarcimento del danno, oltre gli interessi legali sulla predetta somma dalla pubblicazione della sentenza al saldo;

· dichiara integralmente compensate, tra le parti, le spese di lite, ad esclusione di quelle liquidate ai consulenti tecnici d’ufficio, da porsi definitivamente a carico di parte convenuta.

Foggia, 17 agosto 2006.

IL GIUDICE dott. Carmela ROMANO