Diritto Societario e Registro Imprese
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6867 - pubb. 01/08/2010
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Cassazione civile, sez. I, 23 Luglio 2007, n. 16211. Est. Plenteda.
Società - Di capitali - Società per azioni - Organi sociali - Amministratori - Responsabilità - In genere - Riduzione del capitale al di sotto del limite legale - Scioglimento della società - Divieto di compiere nuove operazioni - Violazione - Danni - Liquidazione - Criteri.
Nel caso in cui l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società trovi fondamento nella violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall'art. 2447 cod. civ., non è giustificata la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l'attivo ed il passivo accertati in sede fallimentare, non essendo configurabile l'intero passivo come frutto delle nuove operazioni intraprese dagli amministratori, ma dovendosi ascrivere lo stesso, almeno in parte, alle perdite pregresse che avevano logorato il capitale. (massima ufficiale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARNEVALE Corrado - Presidente -
Dott. PLENTEDA Donato - rel. Consigliere -
Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere -
Dott. NAPPI Aniello - Consigliere -
Dott. CULTRERA Maria Rosaria - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
ANCILLAI FRANCO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA ELEONORA DUSE 35, presso gli avvocati SCURO UGO, CARMINE DI ZENZO che lo rappresentano e difendono unitamente, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
FALLIMENTO DI EUROSEFIN - EUROPEA SERVIZI FINANZIARI S.P.A., in persona del Curatore Prof. Dott. MISUCCI IRENE, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE DELL'UNIVERSITÀ 27, presso l'avvocato TEDESCHI DARIO, Che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce ai controricorso;
- controricorrente -
contro
MANCUSO FULVIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA BELLUNO 1, presso l'avvocato TIRABOSCHI GIUSEPPE MARIA, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;
- controricorrente -
contro
FRATTAROLO LORENZO, BIAMONTE ANGELO;
- intimati -
avverso la sentenza n. 2546/03 della Corte d'Appello di ROMA, depositata il 29/05/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/06/2007 dal Consigliere Dott. Donato PLENTEDA;
udito, per il ricorrente, gli Avvocati Di ZENZO e SCURO che hanno chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito, per il resistente FALLIMENTO, l'Avvocato TEDESCHI che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atti del 10/12.7.1996 il curatore del fallimento della soc. Euroeefin s.p.a., dichiarato il 16.2.1995, propose dinanzi al Tribunale di Roma giudizio di responsabilità ex artt. 2393 e 2394 c.c., contro Frattarolo Lorenzo, Ancillai Franco, Mancuso Fulvio, Biamonte Angelo e Morshataghi Farsshadtra e gli eredi di Musanti Ariani Emilio, nonché nei confronti di Leoni Dario, i primi quali ex componenti del consiglio di amministrazione della società e quest'ultimo quale amministratore di fatto, prima di diventare il 29.4.1994 amministratore unico.
Dedusse che la società aveva accumulato negli anni 1991-1994 ingenti perdite di esercizio, occultate, cui non erano seguite le iniziative previste dagli artt. 2446 e 2447 c.c.; e ciò in particolare con riguardo ai debiti nei confronti dei finanziatori, per erogazioni gravate da interessi elevati, e alla mancata costituzione di un adeguato fondo svalutazione crediti - che era stato di circa L. 98.000.000 a fronte di crediti per circa L. diciannove miliardi - pur in presenza di circostanze che rendevano assai dubbio il loro soddisfacimento.
I convenuti negarono di avere conosciuto la esistenza di contratti con terzi finanziatori, non riportati in contabilità, stipulati dal Leoni; mentre quest'ultimo contestò che le circostanze esposte in citazione giustificassero l'azione di responsabilità nei propri confronti.
Il tribunale condannò con sent. 10.12.1999 i convenuti in solido - fatta eccezione per gli eredi Musanti, con cui il fallimento aveva concluso una transazione - a pagare la somma di L. 30.340.058.056, pari alla differenza tra attivo e passivo fallimentare, oltre accessori.
Accertò perdite di esercizio per oltre 13 miliardi - il triplo del capitale sociale - in gran parte riferite ad esercizi precedenti quello chiuso il 31.12.1993, nel corso de quali i risultati della gestione erano stati occultati; nonché la irrisoria entità numeraria indicata nel bilancio al 31.12.1992, quale svalutazione dei crediti.
La sentenza, impugnata da Frattarolo Lorenzo, Ancillai Franco, Biamonte Angelo e Mancuso Fulvio, è stata riformata in parte dalla Corte di Appello di Roma con decisione del 29.5.2003, che ha accolto l'appello del Mancuso e respinto la domanda proposta nei suoi confronti dal fallimento, compensando tra loro le spese processuali. Ha respinto gli appelli di Ancillai e Biamonte e quello di Frattarolo, tranne che per il sequestro conservativo disposto nei suoi confronti, che ha dichiarato inefficace; ha condannato in solido alle spese processuali.
Ha disatteso le censure mosse da questi ultimi alle modalità operative della consulenza tecnica e alla affidabilità delle conclusioni raggiunte, osservando che l'esame dei dati non contenuti nella contabilità ufficiale della società era giustificato dal fatto che l'attività di impresa della società si era protratta nonostante il capitale sociale fosse andato perduto; che comunque le irregolarità, formali e sostanziali, erano emerse in sede di verifica dello stato passivo fallimentare e prima ancora dalle relazioni di alcuni professionisti incaricati da una "assemblea ufficiosa" dei soci di accertare la effettiva situazione economico finanziaria della società, oltreché da alcune deposizioni testimoniali rese in primo grado da dipendenti della stessa. Ha escluso che a latere, rispetto all'impresa societaria, avesse operato una impresa personale del Leoni non imputabile alla fallita ed ha rilevato - a fronte della contestazione degli appellanti, che non era stato indicato il concreto comportamento loro addebitabile e non si era considerato che essi non avevano la possibilità di venire a conoscenza della esistenza di finanziamenti non ufficiali - che dalla natura dell'azione esercitata dal fallimento, sociale e dei creditori, era derivato che l'attore era tenuto a dimostrare le violazioni degli amministratori e il nesso di causalità con il danno provocato, mentre la prova della non imputabilità del fatto, con la inosservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi, andava a carico degli amministratori.
E poiché dagli atti di causa era emerso che i bilanci di esercizio, a far tempo da duello al 31.12.1990, avevano occultato perdite rilevanti, cui sarebbero dovuti seguire lo scioglimento della società ed il divieto per gli amministratori di iniziare nuove operazioni, era onere dei predetti dimostrare di avere controllato la veridicità dei dati forniti, a loro dire, dal Leoni - che aveva ammesso di avere tenuto una contabilità non aderente alla realtà - circostanza questa nemmeno dedotta.
In senso contrario era anzi risultato che essi avevano avuto - in quanto componenti del comitato esecutivo che si era riunito ogni settimana e non poteva non avere deliberato sugli impieghi e sulla raccolta della provvista - conoscenza delle irregolarità commesse e della violazione delle norme di bilancio; e con riguardo all'Ancillai - per quanto ancora qui rileva - la corte ha osservato, alla stregua di quanto dichiarato da Leoni, che egli aveva avuto un peso determinante nelle decisioni all'interno della gestione sociale, anche per effetto del cospicuo finanziamento accordato con interessi elevati, a lui intestato presso la società, e di un conto corrente bancario utilizzato dalla madre, che era stata di fatto estranea alla gestione dei contratti non riportati in contabilità, che avevano gravato, per la misura elevata degli interessi, sulla società. Quanto al danno lo ha determinato nella differenza tra attivo e passivo fallimentare, perché il dissesto era stato conseguenza immediata e diretta del protrarsi delle operazioni. Propone ricorso con un motivo Ancillai Franco, notificato al fallimento, a Biamonte Angelo, a Frattarolo Lorenzo e a Mancuso Fulvio.
Resistono con controricorso quest'ultimo e il fallimento. MOTIVI DELLA DECISIONE
Denunzia il ricorrente vizio di motivazione della sentenza impugnata con riguardo alle censure mosse alle modalità operative e alla attendibilità delle conclusioni della consulenza tecnica; alla negata esistenza di una impresa a latore della fallita, personalmente esercitata da Leoni Dario; al criterio di quantificazione del danno. Quanto al primo punto, lamenta che la corte territoriale non abbia dato adeguate risposte alle censure mosse alla consulenza, sia sotto il profilo della assenza di contraddittorio con i consulenti di parte, sia perché non erano stati indicati i contratti di raccolta dei fondi presi a campione, ne' era stata precisata la ragione della loro attribuzione alla società, visto che non erano stati contabilizzati, sia perché non erano state spiegate le ragioni perché i dati extracontabili comparati con quelli di bilancio rivelassero differenze reali, benché i primi non fossero attendibili per quanto dedotto con l'atto di appello.
In ordine al secondo, rileva che nessuna motivazione era stata fornita in merito alla possibilità di configurare una impresa a latere esercitata dal Leoni, da lui ignorata, e che era consistita nella raccolta di fondi gestiti parallelamente a quelli raccolti per la Eurosefin e per i quali aveva esclusiva responsabilità. Lamenta ancora che la sentenza non abbia distinto le posizioni dei convenuti, ritenendoli responsabili, sebbene gli accadimenti fossero riferibili solo al Leoni.
Quanto al terzo profilo, deduce che, sebbene esso ricorrente avesse ricoperto la carica sino al giugno 1993, la sentenza non abbia spiegato perché il danno debba essere liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo, ne' compiuto alcuna distinzione tra le posizioni degli amministratori, apoditticamente affermando che il dissesto era stato pari alla differenza tra attivo e passivo e che era derivato dall'illegittimo protrarsi dell'attività della società.
La prima censura, di cui alla lett. a) del motivo di ricorso, è inammissibile.
La corte territoriale ha ritenuto provate le irregolarità formali e sostanziali della contabilità della soc. Eurosefin, sia sulla base della indagine svolta dal consulente tecnico di ufficio nel presente giudizio, sia, prima ancora, in base agli accertamenti compiuti nella formazione dello stato passivo fallimentare, sia, infine, in forza dei risultati della verifica compiuta da alcuni professionisti incaricati dai soci, nel corso dell'anno 1994, di accertare la effettiva situazione economico - finanziaria della società, individuare gli strumenti necessari per il prosieguo dell'attività di impresa e predisporre la bozza di bilancio relativo all'esercizio 1993.
A tale riguardo la corte ha rilevato che le irregolarità formali e sostanziali erano in particolar modo consistite nell'occultamento delle perdite che man mano si erano accumulate nella gestione, mentre i vai bilanci si chiudevano in utile, con relativo aggravio di imposte, senza che fossero mai stati riportati nei bilanci gli interessi sui depositi.
Di tali risultanze la sentenza impugnata ha infine trovato conferma nelle dichiarazioni testimoniali rese da tre dipendenti della fallita, ai quali il Leoni aveva affidato tutte le pratiche della società, comprese quelle dei finanziamenti concessi dai soci, non riportati nella contabilità ufficiale.
Il ricorrente, nelle sue critiche alla sentenza impugnata e alla consulenza tecnica di ufficio, ha del tutto ignorato i passaggi, che costituiscono una autonoma ratio decidendi, relativa agli elementi di riscontro rinvenuti nella indagine dei professionisti incaricati dai soci, prima della manifestazione del dissesto che aveva portato alla apertura della procedura concorsuale, e nella verifica dei crediti, che le irregolarità sostanziali e formali hanno evidenziato;
riscontri che costituiscono di per sè valido sostegno alle conclusioni raggiunte dai Giudici di merito.
Infondata è anche la seconda censura, di cui al punto b) del motivo. Le considerazioni che precedono giovano, infatti, a disattendere la tesi della esistenza di una impresa, personale ed autonoma di Leoni Dario, che abbia operato parallelamente a quella della società poi fallita.
La corte di merito ha osservato che da tutti gli accertamenti eseguiti - quelli richiamati con riguardo al punto a) del motivo - era risultata la imputabilità alla società anche della attività non ufficiale, agevolata verosimilmente dal fatto che la provvista era stata fornita soprattutto dai soci, quasi che la società avesse svolto una attività di raccolta di risparmio. E la circostanza, non controversa, che il Leoni abbia amministrato di fatto la società, priva di qualunque fondamento la tesi, legata ad una mera supposizione, di una impresa a latere e svaluta comunque l'addebito di motivazione insufficiente mosso alla sentenza impugnata. Del pari senza fondamento è la doglianza secondo cui immotivatamente è stata ascritta agli amministratori in carica, indistintamente, la responsabilità del dissesto, dal momento che ad essi può essere addebitato solo il mancato uso della ordinaria diligenza nella esecuzione dei controlli, atteso che la gestione dei fondi occulti è riferibile solo al Leoni.
La sentenza sul punto non si discosta dal principio di diritto sostenuto dal ricorrente, giacché ne individua la responsabilità proprio con riguardo al mancato esercizio del controllo sulla veridicità dei dati della gestione forniti dal Leoni e rileva che nemmeno era stata allegata la circostanza che il controllo fosse stato svolto senza che fossero emerse irregolarità, posto che gli amministratori si erano limitati a dichiarare di essere stati estranei alla gestione u in tal modo ammettendo di essersi limitati ad accettare passivamente i dati che venivano loro sottoposti dal Leoni, sostanzialmente abdicando ai doveri di gestione e controllo loro legislativamente imposti" (f. 13 sentenza).
Ha considerato inoltre la corte territoriale che la omissione di diligenza era ancora più riprovevole per il fatto che gli amministratori. Quali componenti del comitato esecutivo, era risultato - come riferito dai testi escussi - che si erano riuniti regolarmente ogni settimana per deliberare sugli impieghi e sulla raccolta della provvista, compresa quella non ufficiale, in gran parte proveniente dagli stessi soci; e con specifico riguardo all'Ancillai ha rilevato che aveva avuto un peso determinante nella assunzione delle decisioni all'interno della società, anche in conseguenza del rilevante deposito e cioè del cospicuo finanziamento, a lui intestato presso la società e che la madre era stata titolare di uno dei conti correnti bancari utilizzati sino all'ottobre 1991 per la gestione dei contratti di finanziamento non riportati in contabilità, circostanze che, per il fatto che era del tutto pacifica la assoluta effettiva estraneità di quest'ultima alla gestione, dimostravano ulteriormente non solo la consapevolezza dell'Ancillai delle irregolarità gestionali, ma la piena sintonia e collaborazione esistente sul punto tra lui ed il Leoni. Va invece accolto il terzo aspetto della censura.
La corte di appello ha determinato la misura del risarcimento nella differenza tra attivo e passivo accertati in sede fallimentare, dal momento che il dissesto era derivato dall'illegittimo protrarsi della attività di impresa della società, nonostante quest'ultima avesse da tempo completamente perduto il capitale sociale. In tal modo gli amministratori avevano, aggiunge la corte di merito, violando il divieto di procedere a nuove operazioni posto dall'art. 2449 c.c., determinato l'incremento dello stato di dissesto finanziario e quindi contribuito al formarsi della ingente massa passiva verificata nella procedura concorsuale (f. 9 sentenza). Tale accertamento appare però contraddittorio con la conclusione raggiunta in ordine alla misura del risarcimento, poiché, al di là delle necessario differenziazioni in relazione alla incidenza sul danno della durata delle cariche - che la sentenza afferma essere cessata per l'Ancillai nel giugno 1993 - e alle derivate conseguenze patrimoniali, la decisione non ha tenuto conto proprio della premessa, posta a base del giudizio di responsabilità, giacché se la violazione del divieto di nuove operazioni, a fronte del capitale sociale assorbito dalle perdite, costituisce il fondamento della responsabilità, non trova giustificazione la misura del danno nella predetta differenza, non essendo l'intero passivo frutto della intrapresa delle nuove operazioni, in parte dovendosi ascrivere alle perdite pregresse che avevano logorato il capitale, dalla cui riduzione oltre i limiti previsti dall'art. 2447 c.c., era derivato lo scioglimento della società, cui poi erano seguite le operazioni in violazione del divieto suindicato.
La sentenza va per tale aspetto cassata, con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese di cassazione.
Nulla va disposto con riguardo alla posizione di Mancuso Fulvio, per il quale la decisione della corte di appello, di segno a lui favorevole, è passata n giudicato, privandolo di qualunque interesse alla assunzione di difese, in difetto di richieste nei suoi confronti formulate dal ricorrente, il quale si è limitato a notificargli il ricorso a norma dell'art. 332 c.p.c..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso per quanto attiene ai punti a) e b);
accoglie il punto c), cassa la sentenza impugnata in relazione al punto accolto e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese di cassazione.
Così deciso in Roma, il 25 giugno 2007.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2007