Deontologia
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 24317 - pubb. 08/10/2020
Rimozione disciplinare del magistrato quando l'illecito abbia compromesso irrimediabilmente i valori connessi alla funzione giudiziaria e al prestigio personale
Cassazione Sez. Un. Civili, 03 Settembre 2020, n. 18302. Pres. Camilla Di Iasi. Est. Loredana Nazzicone.
Rimozione del magistrato - Presupposti - Valutazione - Sindacato di legittimità - Limiti
La sanzione della rimozione disciplinare del magistrato può essere irrogata, oltre che al verificarsi di una delle tre fattispecie tipiche previste dall'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006 (nel qual caso va disposta obbligatoriamente), in ogni altra ipotesi in cui l'illecito abbia compromesso irrimediabilmente i valori connessi alla funzione giudiziaria e al prestigio personale del magistrato, anche in relazione allo "strepitus fori", secondo l'apprezzamento di merito della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici. (massima ufficiale)
Fatti
Il Dott. A.B. propone impugnazione avverso la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura del 19 dicembre 2019, n. 133, con la quale è stato condannato alla sanzione della rimozione, in relazione all'illecito di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. c), per la violazione dell'obbligo di astensione dal ruolo di pubblica accusa all'udienza preliminare tenutasi in data 11 marzo 2009 innanzi al G.u.p. del Giudice di Pace di * nel procedimento n. 9134/07, essendovi coinvolto, in veste di difensore, l'avv. C.D., con il quale il magistrato aveva un risalente legame di amicizia, e, in veste di imputato con altri per il delitto di diffamazione, il sig. A.G., padre del suddetto.
La sezione disciplinare ha, invece, assolto il Dott. A. dalle ulteriori incolpazioni, per esserne rimasti esclusi gli addebiti.
La sentenza impugnata ha ritenuto che:
i) non sussiste la violazione del principio del ne bis in idem e la conseguente improcedibilità del giudizio, con riguardo alla sentenza disciplinare pronunciata dalla competente Sezione consiliare il 24 marzo 2015, n. 95, passata in giudicato, nella parte in cui essa ha assolto il A. dai fatti di mancata astensione, per i procedimenti penali trattati anteriormente al 30 maggio 2011;
ii) non si è verificata la decadenza dall'azione disciplinare, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 2, in quanto non era decorso il termine biennale dall'esercizio dell'azione al momento della richiesta di discussione formulata dalla procura generale il 5 maggio 2018, in ragione della sospensione ex lege, prevista dal comma 8 medesimo articolo: sospensione che ha operato, perchè si tratta del "medesimo fatto", inteso anche come "medesima vicenda storica", per il quale è stata esercitata l'azione penale, emergendo la sussistenza dell'elemento della fattispecie, di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 8, lett. a), dal raffronto fra le incolpazioni e l'imputazione: ossia, la mancata osservanza dell'obbligo di astensione, per i rapporti con l'avv. A., nel procedimento n. 9134/07 alle udienze dell'11 marzo 2009 e del 23 maggio 2011;
iii) nè, si aggiunge, la norma si applica alle sole ipotesi di illecito D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 4, lett. d), relative alla contestazione di un illecito disciplinare costituente reato;
iv) nel merito, è integrato l'illecito disciplinare contestato, essendo stata pronunciata sentenza penale di condanna per il medesimo fatto integrante il reato ex art. 323 c.p., giudicato efficace in sede disciplinare ai sensi del D.Lgs. n. 106 del 2006, art. 20: infatti, la Corte d'appello di Messina con la sentenza del 9 dicembre 2015, n. 1679, divenuta irrevocabile a seguito del rigetto del ricorso in sede di legittimità ad opera di Cass. 23 febbraio 2017, n. 38991, ha accertato la sussistenza del dovere di astensione del P.A. all'udienza dell'11 marzo 2009; l'integrazione di tale obbligo derivava non già dal mero rapporto di amicizia con l'avvocato, ma dall'essere questi difensore dell'imputato A.G., suo padre, e, pertanto, dall'essere il predetto avvocato direttamente interessato al procedimento; mentre la consapevolezza dell'antigiuridicità della condotta deriva dal non potere il Dott. A. non conoscere le circostanze di fatto presupposto dell'obbligo in questione (avendo, fra l'altro, formalizzato una dichiarazione di astensione in altro procedimento coevo); resta, invece, irrilevante che, in detta udienza, non siano stati compiuti atti di favore verso l'imputato, in quanto essa si concluse con la declaratoria d'incompetenza per territorio in favore del Tribunale di *;
v) non può accogliersi la richiesta del P.G. di riqualificazione del fatto contestato anche nell'illecito D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 4, lett. d), quale illecito disciplinare conseguente al reato accertato in sede penale, perchè ciò determinerebbe violazione del principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, dato che una porzione della condotta costitutiva del reato non fu contestata in sede disciplinare;
vi) il fatto non è "di scarsa rilevanza" D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 3-bis trattandosi di un illecito volto a tutelare l'adempimento del dovere di imparzialità, bene che, insieme all'immagine del magistrato e dell'intero ordine giudiziario, è stato compromesso nel caso concreto, alla luce della condanna definitiva alla pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di abuso d'ufficio, che ha fattispecie dolosa, di cui all'art. 323 c.p.; si tratta, inoltre, di reato che, ex art. 31 c.p., comporta la pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici, onde, sebbene questa in concreto non sia stata irrogata dal giudice penale, in sè concretizza i presupposti per la sanzione della rimozione, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 3; dunque, è proporzionata la sanzione della rimozione, alla luce delle circostanze concrete, potendo la sanzione essere graduata secondo i criteri di cui all'art. 133 c.p., di pacifica applicabilità in sede disciplinare.
Gli intimati Ministero della giustizia e Procuratore generale presso la Corte di Cassazione non hanno svolto attività difensiva.
Il ricorrente ha depositato la memoria di cui all'art. 378 c.p.c.
Motivi
1.1. - Il ricorso propone sei motivi.
Il primo motivo deduce la violazione del divieto di ne bis in idem (con nullità della sentenza, per violazione dell'art. 649 c.p.p., commi 1 e 2, anche in relazione all'art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 17, comma 2 e art. 19, nonchè agli artt. 6, par. 2, e 4 del Protocollo n. 8 aggiuntivo alla Cedu), per l'esistenza del procedimento disciplinare n. 61/2014/D, già definito con la sentenza della competente Sezione n. 95 del 2015, avente ad oggetto la mancata astensione dell'incolpato in più procedimenti penali, ivi compreso quello recante il n. 9134/2007 innanzi al g.u.p. del Tribunale di *, condotte per le quali egli è stato assolto con riguardo ai fatti avvenuti in epoca anteriore al 30 maggio 2011.
Nè rileva lo stralcio del detto procedimento dal novero di quelli in origine cumulativamente considerati, posto che, dapprima, era stato comunque configurato un unico contesto fattuale, sia pure articolato in diverse condotte e tempi: ma il giudicato relativo ad un insieme di condotte unitariamente considerate - perchè integranti un unico illecito per legge a reiterazione necessaria, o perchè nella valutazione del titolare dell'iniziativa disciplinare riguardante una fattispecie unitaria - investe ogni episodio ricadente nel medesimo arco temporale o nel novero delle condotte indicato in incolpazione. Infatti, ove fosse proseguito l'originario procedimento disciplinare, l'episodio in questione sarebbe rimasto privo di rilievo, nel quadro complessivo di quelli anteriori al rapporto di locazione, e solo a causa dello stralcio è stato assunto quale separato oggetto di un nuovo giudizio e trattamento sanzionatorio, in mera dipendenza di un accertamento processuale successivo. Tanto è vero che, in tal modo, l'episodio ha finito per ricevere un trattamento sanzionatorio assai più gravoso di quello conseguito alla prima condanna disciplinare, che, pure, attiene a tre episodi di omessa astensione.
Ricorda che la Corte Edu, al fine di escludere l'indebita duplicazione dei giudizi, esige l'esistenza di requisiti cumulativi (la distinzione delle finalità, la prevedibilità del secondo, l'esclusione della duplice valutazione, la considerazione della sanzione già irrogata nel procedimento pregresso), nella specie assenti.
Inoltre, l'assenza del rilievo dell'istituto della continuazione nel sistema disciplinare si presta ad una valutazione di illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 25 e 27 Cost.
In sostanza, l'episodio de quo avrebbe potuto costituire oggetto di un nuovo giudizio solo ove si fosse individuata una fattispecie oggettivamente diversa, come sembra avere avvertito anche il P.G., quando ne ha chiesto la riqualificazione al giudice del merito.
La violazione del principio avrebbe dovuto condurre ad una sentenza di improcedibilità o non luogo a procedere, oppure al proscioglimento, con conseguente cassazione senza rinvio, ai sensi dell'art. 620 c.p.p., comma 1, lett. a), e art. 382 c.p.c., comma 3.
1.2. - Il primo motivo è infondato.
1.2.1. - Il principio del ne bis in idem, consacrato in sede penale dall'art. 649 c.p.p., ed applicabile alla sanzione disciplinare rispetto alle pronunce pregresse aventi la medesima natura, esclude un secondo giudizio con riguardo al "medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze".
Ai fini della preclusione per il "medesimo fatto", ai sensi della norma, occorre avere riguardo al "fatto storico" alla stregua degli elementi che lo individuano, costituiti dalla condotta, dall'evento naturalistico, ove esistente, e dal relativo nesso causale (Cass. pen., sez. V, 19 giugno 2018, n. 50496).
Occorre valutare il "concreto oggetto del giudicato e della nuova contestazione, senza confrontare gli elementi delle fattispecie astratte di reato" (Cass. pen., sez. II, 6 dicembre 2018, n. 1144; Cass. pen., sez. V, 4 ottobre 2016, n. 47683).
Si puntualizza, quindi, che il meccanismo della preclusione connessa al principio del ne bis in idem esige, ai fini dell'identità del fatto, la "corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona" (Cass. pen., sez. IV, 3 novembre 2016, n. 12175; Cass. pen., sez. IV, 6 dicembre 2016, n. 3315; Cass. pen., sez. I, 15 marzo 2016, n. 39746; nonchè ancora Cass. pen., sez. II, 31 ottobre 2018, n. 52606; Cass. pen., sez. V, 19 giugno 2018, n. 50496, cit.; Cass. pen., sez. V, 15 febbraio 2018, n. 25651; Cass. pen., sez. III, 1 febbraio 2018, n. 21994).
E, anche ove si tratti di più illeciti in concorso formale fra di loro, la preclusione opera solo se sussista l'identità del fatto storico, "inteso sulla base della triade condotta-nesso causale-evento" (Cass. pen., sez. IV, 24 ottobre 2017, n. 54986; conformi n. 3755 del 1999, n. 39746 del 2016, n. 12175 del 2017).
Infatti, il giudice può affermare (v. Corte Cost. 31 maggio 2016, n. 200) che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti i predetti elementi di condotta-nesso causale-evento naturalistico (Cass. pen., sez, III, 19 dicembre 2019, n. 9988).
Ne deriva che l'individuazione del concetto, sia pure inteso nella sua massima estensione, richiede che sussista lo stesso fatto storico, che, allora, non potrà essere sottoposto a nuovo giudizio.
Onde ciò non si verifica quando l'atto processuale, dal quale il magistrato avrebbe dovuto astenersi, è diverso da quello altrove giudicato.
1.2.2. - Giova precisare come, invece, resti estraneo alla presente vicenda il diverso principio, pur richiamato dal motivo, secondo cui "Il divieto di bis in idem, alla luce della giurisprudenza costituzionale e convenzionale, non opera allorquando i diversi procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, in particolare consistendo il primo nel perseguimento di finalità complementari, nella prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, nel grado di coordinamento probatorio tra essi e nella circostanza che, nel commisurare la seconda sanzione, possa tenersi conto della sanzione irrogata per prima, in modo da evitare un eccessivo carico sanzionatorio per il medesimo fatto" (Cass. pen., sez. III, 7 febbraio 2019, n. 22033; Cass. pen., sez. IV, 13 febbraio 2018, n. 12267; e cfr. Corte Cost. 2 marzo 2018, n. 43).
Infatti, ivi si tratta della diversa questione, sottoposta anche al giudice delle leggi, secondo cui l'art. 649 c.p.p. non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell'imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell'ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e dei relativi Protocolli.
Al riguardo, la Corte costituzionale ha evidenziato che "si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l'uno dall'altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell'oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un'unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all'entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata".
Ma, appunto, il presupposto là necessario è l'esistenza di illeciti e sanzioni di natura distinta per lo stesso fatto: non di un illecito e sanzione della medesima natura, per un fatto diverso.
1.2.3. - Nella specie, dalla decisione impugnata risulta che l'iniziale incolpazione atteneva al procedimento disciplinare n. 106/12/D, da essa quindi concluso nel merito; da questo fu, però, separato (con provvedimento del P.G. del 17 aprile 2014) il procedimento disciplinare n. 62/14/D, avente ad oggetto "fatti non compresi nei capi di imputazione del procedimento penale" (p. 6 dell'impugnata sentenza); per i capi di imputazione compresi in quelli penali, invece, l'azione disciplinare fu sospesa (p. 13 sentenza).
Rileva, altresì, il giudice del merito che - in particolare - nel procedimento disciplinare n. 62/14/D non fu contestata la violazione dell'obbligo di astensione per la condotta tenuta dal p.A. all'udienza dell'11 marzo 2009, n. 9134/2007 r.g.n. r., violazione che rimase oggetto del procedimento disciplinare originario n. 106/12/D, pervenuto ora a decisione.
In sostanza, furono stralciati, in quanto non soggetti a sospensione, gli episodi estranei al capo di imputazione penale, proseguendo essi il loro percorso.
La vicenda del procedimento disciplinare n. 62/14/D è nota: dapprima, la Sezione competente ha pronunciato sentenza di assoluzione n. 95 del 2015, per tutti i fatti, anteriori e successivi al 30 maggio 2011; tale sentenza è stata, quindi, cassata dalle Sezioni unite n. 10502 del 2016, limitatamente ai fatti, relativi al ricorso del Ministero, avvenuti dopo il 30 maggio 2011; infine, per i fatti posteriori a tale data, la sentenza della Sezione disciplinare n. 25 del 2017, resa in sede di rinvio, ha pronunciato condanna alla sanzione della perdita dell'anzianità per un anno e del trasferimento d'ufficio.
Si tratta del procedimento disciplinare contrassegnato con il n. 62/14/D, derivato dalla separazione dall'originario procedimento n. 106/12/D, nel quale furono contestati, parimenti, gli illeciti disciplinari D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, ex art. 1 e ex art. 2, comma 1, lett. c), per violazione dell'obbligo di astensione dal ruolo di pubblica accusa in svariati procedimenti penali, in cui era coinvolto l'avv. C.D., legato al predetto da rapporti di amicizia ed economici.
Tale procedimento si è concluso, in sede di merito, con la sentenza del 24 marzo 2015, n. 95, recante assoluzione dell'incolpato, con riguardo sia ai procedimenti anteriori, sia posteriori al 30 maggio 2011, data considerata una sorta di spartiacque, per essere stato allora concluso un contratto di locazione tra società rispettivamente partecipate dal Dott. A. e dal Dott. A..
Se, quanto ai procedimenti penali successivi a tale data, la decisione è stata riformata dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza 20 maggio 2016, n. 10502 - di rinvio innanzi alla sezione disciplinare e conseguente sentenza di condanna del 16 marzo 2017, n. 25, divenuta irrevocabile - quanto ai procedimenti penali anteriori alla data del 30 maggio 2011, invece, la prima sentenza disciplinare di assoluzione in data 24 marzo 2015, n. 95 è passata in giudicato, non avendo all'epoca il Ministro della giustizia impugnato la parte in cui si negava l'esistenza dell'obbligo di astensione.
La ragione per la quale la sentenza ora impugnata ha ritenuto non violato il principio del ne bis in idem risiede nell'affermazione secondo cui, quanto alla mancata astensione del p.A. nel procedimento penale n. 9134/07, non vi fu nessuna contestazione nel procedimento disciplinare de quo conclusosi con la sentenza assolutoria; nè, aggiunge la sentenza impugnata, la contestualità delle condotte può in sè precludere la cognizione del fatto diverso, estraneo al procedimento già definito.
La sentenza rileva, altresì, come l'affermazione contenuta in Cass., sez. un., 20 maggio 2016, n. 10502 - secondo cui non sussisteva l'obbligo di astensione per i procedimenti ante 30 maggio 2011, non essendo tale obbligo integrato dal mero rapporto di amicizia con l'avvocato - non sia decisiva nel nuovo procedimento disciplinare intrapreso, nel quale deve accertarsi uno specifico e concreto illecito.
Al riguardo, occorre chiarire come queste S.U. abbiano, nella menzionata sentenza, espresso non un proprio convincimento (cosa che avrebbe costituito un vero e proprio obiter, atteso il thema decidendum, limitato ai procedimenti penali trattati dal p.A. dopo il mese di maggio del 2011), ma semplicemente riportato, per chiarezza, il contenuto dei capi della decisione disciplinare n. 95 del 2015 non impugnati innanzi a sè: posto che era, appunto, la decisione disciplinare passata in giudicato che aveva, per quella parte, "escluso gli addebiti relativi al capo a) in relazione ai procedimenti, risalenti ad epoca anteriore alla stipulazione del contratto fra le società riferibili all'incolpato e all'avv. A., in relazione ai quali non era configurabile un obbligo di astensione a carico del Dott. A., in quanto il mero rapporto di amicizia tra lui e il predetto avvocato, interessato a vario titolo ai menzionati procedimenti, rapporto al quale risultavano estranei interessi di natura economica, non era idoneo a determinare la sussistenza di un siffatto obbligo". Dunque, era una mera presa d'atto delle ragioni che avevano condotto la prima sentenza disciplinare ad assolvere l'incolpato da tale accusa; presa d'atto che, nell'argomentare delle Sezioni unite, si estende alla formazione del giudicato relativo.
1.2.4. - Sostiene il ricorrente che, in virtù della originaria contestazione disciplinare e della configurazione in essa di episodi reiterati in un contesto unitario, sarebbe violato il principio del ne bis in idem, per il fatto che uno di essi, pur oggetto di procedimento separato per il quale ora è causa, sarebbe stato a suo tempo contemplato insieme agli altri.
La tesi non può condividersi.
E' vero, infatti, che l'originaria decisione disciplinare n. 95 del 2015 (come rileva anche Cass., sez. un., 20 maggio 2016, n. 10502) non fu impugnata dal Ministero della giustizia, nella parte in cui quella aveva escluso gli addebiti relativi ai procedimenti, risalenti ad epoca anteriore alla stipulazione del contratto di locazione in data 30 maggio 2011. E, tuttavia, detta decisione non ebbe ad oggetto lo specifico fatto di omessa astensione, oggetto invece della sentenza oggi impugnata.
Non la mera contestazione del fatto, ma l'avere giudicato sul fatto crea, invero, preclusione.
Una volta che manchi la corrispondenza storico-naturalistica degli illeciti disciplinari, come identificati in tutti i loro elementi costitutivi e con riguardo alle specifiche circostanze di tempo, luogo e persona, non può avere spazio il principio del ne bis in idem, perchè manca l'identità del fatto.
Neppure convince il richiamo al precedente di questa Corte, relativo all'illecito omissivo del ritardo nel deposito dei provvedimenti giudiziari, ritenuto coprire ogni episodio ricadente nell'arco temporale considerato (Cass., sez. un., 29 settembre 2014, n. 20450): perchè il divieto di trattare procedimenti in conflitto di interessi attiene a ciascuno specifico procedimento in cui il magistrato non si sia astenuto, non essendo illecito a condotta necessariamente reiterata.
Mentre in altra vicenda, pure richiamata dal ricorrente nella memoria (conclusasi con la pronuncia Cass., sez. un., 19 agosto 2009, n. 18374), si dà bensì atto dell'esistenza, nella sentenza disciplinare ivi impugnata, della considerazione di vari fatti, di cui il magistrato era stato dichiarato responsabile, che vennero reputati come singoli episodi di un medesimo illecito disciplinare e per il quale fu irrogata un'unica sanzione.
Tuttavia, in tal caso l'illecito - l'uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sè o per altri D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 3, lett. a), - era consistito nell'avere egli utilizzato la sua qualità di procuratore della Repubblica per ottenere vantaggi riconnessi al subito sequestro di un immobile, in seguito ad interventi edilizi abusivi: ed esso si era concretato nelle pressioni poste in essere a tal fine verso diversi soggetti (la richiesta d'informazioni al comandante dei Vigili del Fuoco, l'invio di una nota al legale del condominio confinante, l'assunzione a verbale delle dichiarazioni del responsabile dell'ufficio edilizio del comune, una conversazione polemica nei confronti del p.A. del sequestro, l'invito a recarsi in ufficio rivolto al direttore provinciale del lavoro intervenuto sul luogo di esecuzione dei lavori), ma pur integranti un illecito unico.
Diverso è il caso della violazione dell'obbligo di astensione nei procedimenti ove risulti un conflitto di interessi, che attiene ai singoli procedimenti trattati.
2.1. - Il secondo motivo si duole del rigetto dell'eccezione di decadenza dall'azione, per essere decorso il termine biennale (con nullità della sentenza e violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 8, lett. a) e art. 16, comma 4, ultimo periodo): infatti, la sospensione ex lege dei termini procedimentali, prevista nell'ipotesi di esercizio dell'azione penale per il medesimo fatto, si determina esclusivamente nel momento in cui al magistrato sia contestata, quale illecito disciplinare, la commissione di un reato, perchè solo allora il giudicato penale è idoneo ad incidere sull'ambito materiale della cognitio disciplinare. Mentre la sospensione per legge non opera, laddove la condotta sia contestata in sede disciplinare a prescindere dalla sua rilevanza penale ed, in sede penale, essa figuri quale mero presupposto storico della commissione del reato: come nella specie, in cui la mancata astensione, nell'imputazione penale per le condotte in udienza integranti abuso d'ufficio per la commistione con un interesse privato, rappresenta un mero presupposto fattuale.
Onde la sospensione disposta dal P.G. avvenne D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 16 con effetto dal provvedimento e non dall'esercizio dell'azione penale.
2.2. - Il secondo motivo non è fondato.
2.2.1. - il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 8, lett. a), prevede che il corso dei termini del procedimento disciplinare resti sospeso "se per il medesimo fatto è stata esercitata l'azione penale... riprendendo a decorrere dalla data in cui non è più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere ovvero sono divenuti irrevocabili la sentenza o il decreto penale di condanna".
Questa Corte, con principio enunciato nell'interpretazione della fattispecie dell'abrogato D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, art. 59, u.c., ma mai smentito, reputa che la disposizione - secondo cui i termini previsti per il procedimento disciplinare a carico dei magistrati sono sospesi "se per il medesimo fatto viene iniziata l'azione penale" - non possa ricevere un'interpretazione restrittiva: la norma opera non solo in caso di identità tra i fatti oggetto dei due procedimenti, ma anche in presenza della loro comune riferibilità ad una "medesima vicenda storica" (Cass., sez. un., 28 marzo 2014, n. 7310).
Torna, dunque, seppur ad altri fini, la nozione di "medesimo fatto", sopra esaminata; ed occorre, al fine dell'applicazione della norma, esaminare l'oggetto dei giudizi.
2.2.2. - La fattispecie dell'art. 323 c.p., che contempla l'illecito del pubblico ufficiale con l'espressione "omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto", fonda il dovere generale di astensione in ogni ipotesi che configuri oggettivamente un conflitto, anche solo potenziale, di interessi.
Il D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. c), dal suo canto, "non richiede sotto il profilo soggettivo uno specifico intento trasgressivo, tantomeno finalizzato a favorire o danneggiare una delle parti, essendo sufficiente la consapevolezza nell'agente di quelle situazioni di fatto, in presenza delle quali l'ordinamento esige, al fine della tutela dell'immagine del singolo magistrato e dell'ordine di appartenenza nel suo complesso, che lo stesso non compia un determinato atto" (cfr. Cass., sez. un., 11 marzo 2019, n. 6962, la quale menziona i precedenti n. 5942/2013, n. 10502/2016 e n. 21974/2018).
2.2.3. - Il ricorrente sostiene che la sospensione ex lege dei termini del procedimento disciplinare esiga la contestazione di un reato pure in sede disciplinare, in quanto, solo in tal caso, vi sarebbe il vincolo dell'accertamento reso dal giudicato penale che giustifica la sospensione.
Egli evoca il citato precedente di questa Corte (Cass., sez. un., 11 marzo 2019, n. 6962), il quale - in risposta al motivo, che lamentava il mancato accoglimento dell'istanza di sospensione in attesa del processo penale, alla luce dell'identità della vicenda causativa anche del dibattimento penale - ha negato i presupposti della sospensione in attesa della definizione del procedimento penale, argomentando, in motivazione, nel senso che "(i) fatti oggetto di incolpazione disciplinare possono e devono essere autonomamente valutati in sede di disciplinare, ancorchè gli stessi siano anche oggetto del procedimento penale. Si procede, infatti, all'accertamento degli illeciti disciplinari secondo un metro totalmente diverso rispetto a quello utilizzato per la declaratoria di responsabilità penale. Si consideri, a riguardo, la diversità di bene tutelato che è da ravvisare nelle fattispecie di reato contestate al magistrato l'interesse alla buona amministrazione ed, invece, con riferimento alla procedura disciplinare la tutela del prestigio del magistrato e dell'ordine giudiziario".
Nello stesso senso, si ricordano in memoria altre decisioni (in particolare, Cass. 31 maggio 2019, n. 15048), che ribadiscono il medesimo concetto.
Esse, peraltro, riguardano il tema della necessaria sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione del giudizio penale, dunque attengono al rilievo della diversa prospettiva ed ai (parzialmente) differenti beni tutelati in sede penale ed in sede disciplinare; fermo restando che l'istituto della sospensione, di cui all'art. 15, comma 8, lett. a), opera anche se le fattispecie dell'illecito disciplinare e quella dell'illecito penale non siano per intero coincidenti, ad esempio quanto all'evento.
Il principio, correttamente inteso, è dunque nel senso che, per quanto attiene al rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare dei magistrati, il giudicato penale non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità: tuttavia "fermo restando il solo limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità - e dunque, della ricostruzione dell'episodio posto a fondamento dell'incolpazione - operato nel giudizio penale" (cfr. Cass., sez. un., 9 luglio 2015, n. 14344; Cass., sez. un., 24 novembre 2010, n. 23778; Cass., sez. un., 19 settembre 2005, n. 18451): che è quanto giustifica la sospensione del procedimento.
Dal suo canto, la ratio del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 8, risiede nell'esigenza di coordinamento dei due procedimenti.
Al riguardo, le regole sono fissate dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20 il quale sancisce l'indipendenza di promovimento dell'azione disciplinare rispetto all'azione penale relativa allo stesso fatto, "ferme restando le ipotesi di sospensione dei termini di cui all'art. 15, comma 8"; ed aggiunge che la sentenza penale irrevocabile di condanna ha autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare, quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell'affermazione che l'imputato lo ha commesso.
Ciò viene confermato dall'autonoma previsione di cui al medesimo art. 15, comma 8, lett. d-bis) secondo cui solo per taluni illeciti disciplinari (quelli dell'art. 2, comma 1, lett. "g" ed "h": grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile e travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile) il corso dei termini procedimentali è sospeso, se "all'accertamento del fatto costituente illecito disciplinare è pregiudiziale l'esito di un procedimento civile, penale o amministrativo", con il quale, in tal caso, si accerti la violazione di legge o il travisamento dei fatti.
2.2.4. - Il giudice disciplinare ha esplicitato la propria valutazione (con le argomentazioni espresse alle p. 15 ss. della sentenza impugnata), ritenendo che la sussistenza dell'elemento della fattispecie costituito dal "medesimo fatto", di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 8, lett. a), emerga dal raffronto fra le incolpazioni e l'imputazione.
La sentenza impugnata ha individuato i fatti oggetto di contestazione in sede penale e, al fine della verifica del se e in quale misura tali fatti coincidessero con quelli oggetto delle contestazioni disciplinari, ha specificamente indicato gli uni e gli altri: giungendo, attraverso la loro specifica comparazione, all'affermazione che la condotta rilevante sotto il profilo disciplinare è la medesima di quella che, sia pure insieme ad altre, forma oggetto dell'imputazione in ambito penale.
Nella specie, l'identità attiene proprio al fatto, contemplato in sede disciplinare come mancata astensione, ed in sede penale come mancata astensione seguita da ulteriori condotte. Si tratta di un particolare episodio, oggetto sia del processo penale, sia del procedimento disciplinare de quo: la mancata osservanza dell'obbligo di astensione, per i rapporti con l'avv. A., nel procedimento n. 9134/07 all'udienza dell'11 marzo 2009, caratterizzato da una sua peculiarità: ovvero, l'essere ivi imputato il padre dell'avvocato, legato con il magistrato della procura da rapporti tali, da doverlo indurre all'astensione.
Non rileva, al riguardo, che la contestazione penale involgesse anche la mancata astensione all'udienza del 23 maggio 2011, con riguardo al medesimo procedimento penale: il fatto contestato con il capo "A" dell'illecito disciplinare e con l'imputazione penale, qui di rilievo, è lo stesso.
Nè può essere condiviso l'argomento, secondo cui l'imputazione penale vedrebbe la mancata astensione quale "mero presupposto" dell'abuso d'ufficio contestato ex art. 323 c.p. La norma punisce il pubblico ufficiale che, omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sè o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto. La condotta configurata in capo all'agente, penalmente rilevante, nella specie è dunque perfettamente coincidente con quella oggetto del procedimento disciplinare, quale elemento costitutivo primario del delitto de quo.
3.1. - Il terzo motivo censura la ritenuta vincolatività dell'accertamento penale sull'illiceità del fatto e la pretermissione del giudicato disciplinare assolutorio (con nullità della sentenza, per violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, comma 2, lett. a) e art. 24, artt. 648,649 c.p.p. e art. 653 c.p.p., comma 1-bis, art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c.): infatti, da un lato, contrariamente a quanto opinato dalla impugnata decisione, la sentenza penale passata in giudicato ha escluso la rilevanza penale della partecipazione del p.A. alla citata udienza dell'11 marzo 2009, senza che modifichi la conclusione la circostanza che, nel presente procedimento, l'avvocato amicus fosse anche il figlio dell'imputato; dall'altro lato, il giudicato assolutorio disciplinare ha riguardato tutti i fatti anteriori al maggio 2011, in cui esisteva un mero rapporto di amicizia tra il magistrato e il difensore, reputato - con effetto vincolante, ove presupposto giuridico anche dei fatti oggetto di successiva decisione - inidoneo a fondare l'obbligo di astensione rilevante.
3.2. - Il motivo è infondato.
3.2.1. - Il fatto di omessa astensione all'udienza dell'11 marzo 2009 fu considerato ricompreso nei capi dell'imputazione penale e, come tale, restò nel procedimento disciplinare, che ebbe tale oggetto separato e fu sospeso.
Dalla stessa geometria di concetti, pertanto, deriva che il giudicato penale di condanna sia vincolante, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, comma 2, lett. a), "quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell'affermazione che l'imputato lo ha commesso"; mentre il giudicato disciplinare non sia vincolante, non riguardando il fatto in questione.
3.2.2. - Sostiene il ricorrente che la sentenza penale d'appello, divenuta definitiva, abbia escluso la rilevanza penale della condotta di mancata astensione alla predetta udienza innanzi al g.u.p., in quanto inidonea ad integrare la fattispecie dell'art. 323 c.p..
Pur avendo il giudice penale ricostruito l'intera fattispecie della norma stessa, ai fini dell'accertamento del reato, onde, a quel proposito, in effetti la sola condotta omissiva tenuta alla udienza dell'11 marzo 2009 indica ancora solo un frammento di detta fattispecie di reato, il giudice disciplinare era vincolato all'accertamento dell'esistenza del fatto storico e della commissione ad opera dell'incolpato; la sua illiceità disciplinare, invece, doveva farsi oggetto di specifico accertamento.
In tal senso, la sentenza impugnata richiama la valutazione del giudice penale, relativa all'esistenza dell'obbligo di astensione ed alla sua violazione.
Ed è questo l'ambito dell'accertamento penalistico, al quale il giudice disciplinare si è ritenuto vincolato; mentre il medesimo ha proseguito, poi, con l'accertamento - al giudice del merito riservato - della consapevolezza dell'agente con riguardo alle circostanze concrete atte ad illuminarlo circa l'antigiuridicità della condotta omissiva.
3.2.3. - Quanto al precedente disciplinare, non può valere il principio, dal ricorrente richiamato, formulato nella diversa ipotesi di illecito costituito dal ritardo nel deposito dei provvedimenti (Cass., sez. un., 29 settembre 2014, n. 20450): posto che questo, e non l'illecito istantaneo di omessa astensione in un procedimento specifico, integra illecito omissivo permanente, sicchè solo allora può operare la preclusione per ne bis in idem di un'ulteriore incolpazione circa le porzioni del contestato ritardo intercorrenti tra la data di riferimento dell'incolpazione già delibata e la data della relativa decisione.
4.1. - Il quarto motivo critica la sentenza impugnata, per non avere ritenuto che la mancata astensione del magistrato del pubblico ministero può integrare illecito disciplinare, solo ove determini il perseguimento di un interesse privato: profilo invero estraneo all'incolpazione ed alla decisione disciplinare impugnata (con violazione dell'art. 323 c.p., art. 52 c.p.p., comma 1, e D.Lgs. n. 109 del 2006, 2, comma 1, lett. c)).
4.2. - Il quarto motivo è infondato.
4.2.1. - Il divieto di agire in conflitto di interessi costituisce un principio generale dell'ordinamento.
La nozione di conflitto di interessi compare nel diritto sostanziale, in una tale vastità di norme da rendere ardua l'elencazione (oltre alla norma generale dell'art. 97 Cost. per i pubblici uffici, a mero titolo di esempio: artt. 320,347,360 c.c. sulla tutela e curatela; artt. 1394 e 1395 c.c. sulla rappresentanza nei contratti; art. 2373 c.c. per il socio in conflitto con la società; artt. 2390,2391 e 2391-bis c.c. per gli amministratori di società; nell'agire degli esponenti aziendali ex art. 2634 c.c.; ecc.) e processuale (cfr. art. 78 c.p.c.).
Esso si impone ogni volta che un interesse secondario (privato o personale) possa interferire con l'agire di un soggetto nel perseguimento dell'interesse primario affidato, ove su questi gravi il dovere - derivante dalla legge, da un contratto o da regole di correttezza - di curare l'interesse altrui.
E', dunque, possibile, pur nella diversità dei contenuti specifici, ricavare un principio generale, secondo cui l'ordinamento intende impedire che il soggetto, il quale ha il potere di decidere ed agire con effetti su interessi alieni, possa continuare ad operare, allorchè sussista in capo allo stesso una situazione di interessi contrastanti, con il conseguente pericolo di soccombenza all'interesse estraneo di quello per il cui perseguimento il potere è stato conferito.
Il conflitto di interessi può darsi, oltre che per conto proprio, anche per conto di terzi, del quale il soggetto onerato si faccia o possa comunque farsi portatore.
Onde la nozione assume particolare rilievo per i soggetti che svolgono private, o, ancora di più, pubbliche funzioni.
4.2.2. - Per il magistrato, il principio mira a scongiurare il rischio che l'attività giudiziaria compiuta possa anche solo apparire dettata da fini diversi da quelli di giustizia.
In particolare, al magistrato del pubblico ministero - svolgendo questi, nel processo, funzioni di parte pubblica - la legge impone di agire esclusivamente per il perseguimento dei fini istituzionali di giustizia assegnati dall'ordinamento: donde, come questa Corte ha da tempo sancito, il dovere di avanzare formale istanza di astensione, a norma dell'art. 52 c.p.p., ogniqualvolta nel processo in cui interviene si manifestino situazioni obiettivamente suscettibili di fare (anche solo) ipotizzare che la sua condotta possa essere ispirata a fini diversi da quelli previsti, nel possibile conseguimento di obiettivi e soddisfacimento di interessi personali (Cass. civ., sez. un., 27 dicembre 2018, n. 33537; Cass., sez. un., 5 dicembre 2012, n. 21853; Cass., sez. un., 12 maggio 2010, n. 11431; Cass., sez. un., 29 gennaio 2007, n. 1821; Cass., sez. un., 24 gennaio 2003, n. 1088).
Infatti, non è richiesto uno specifico intento trasgressivo, ma è sufficiente l'adozione cosciente e volontaria dell'atto: il dovere di astensione, previsto dal D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. c), consiste nella "consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge" e, dunque, non richiede - sotto il profilo soggettivo - uno specifico intento finalizzato a favorire o danneggiare una delle parti, essendo sufficiente la consapevolezza nell'agente di quelle situazioni di fatto, in presenza delle quali l'ordinamento esige che lo stesso non compia un determinato atto, versando in una situazione tale da ingenerare, se non il rischio, quantomeno il sospetto di parzialità di chi lo compie, con la conseguenza che ad integrare l'elemento psicologico dell'illecito non è necessaria la "coscienza dell'antigiuridicità" del comportamento di violazione del precetto, ma è sufficiente la conoscenza di quelle circostanze di fatto, nonchè l'adozione, cosciente e volontaria, dell'atto medesimo, pur versandosi in quella situazione (Cass., sez. un., 20 maggio 2016, n. 10502, emessa con riguardo al medesimo ricorrente e che, a sua volta, cita Cass., sez. un., n. 5942 del 2013, n. 21853 del 2012 e n. 11431 del 2010).
Pertanto, non sono richiesti, non essendo la fattispecie tipica del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. c), "connotata da dolo specifico, l'espresso intento di favorire qualcuno, oppure di danneggiare le rispettive controparti, nè, a fortiori, l'avveramento di siffatti eventi, costituendo questi ultimi un elemento oggettivo soltanto dell'illecito penale, dal quale quello disciplinare mutua, ai fini dell'integrazione del precetto, la sola condotta tipica" (Cass., sez. un., 20 maggio 2016, n. 10502; Cass., sez. un.,11 marzo 2013, n. 5942).
In conclusione, il magistrato del p.A. ha lo specifico obbligo, disciplinarmente rilevante, di astenersi dalla cura di procedimenti affidati, ove la sua attività possa risultare influenzata, anche in via solo potenziale, da un interesse personale e sussista il sospetto di un conflitto d'interessi, configurabile ove egli sia portatore - accanto a quello imposto dalla pubblica funzione - di un secondo interesse, purchè attuale ed oggettivo, alla stregua dell'accertamento operato dal giudice del merito: interesse alieno, rispetto a quello istituzionale della funzione, del quale egli sia portatore o in proprio o per conto di terzi, come sopra esposto.
In presenza di tale potenziale conflitto, il magistrato è obbligato ad astenersi, commettendo illecito qualora tratti, invece, il procedimento stesso, senza che la legge richieda il dolo specifico, nè un concreto pregiudizio agli interessi affidati alla sua cura: questa è la portata del principio, per il quale il conflitto è sufficiente che sia "potenziale".
L'illecito commissivo de quo si caratterizza, pertanto, per essere privo di evento naturalistico: l'obbligo di astensione in capo al pubblico ministero è violato dalla trattazione del procedimento in conflitto: senza necessità che ne derivi altresì uno sviamento di potere od un vantaggio, in favore di sè medesimo oppure del terzo, del cui interesse il magistrato si sia reso illecitamente portatore.
Sotto tale profilo, si tratta di illecito di pura condotta, che viene integrato dalla violazione dell'obbligo di astensione, mediante la condotta commissiva di partecipazione a quell'attività d'ufficio, che doveva invece vedere il magistrato astenersi in adempimento dello specifico dovere in tal senso.
Il punto, dunque, oggetto di necessario accertamento, ai fini della configurazione dell'illecito D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 2, comma 1, lett. c), non è il concreto raggiungimento del vantaggio o interesse alieno perseguito: ma la mera coesistenza, in capo al magistrato, di un duplice interesse, ponendosi in conflitto tra loro l'interesse pubblicistico della funzione e quello privato suscettibile, anche in mera potenzialità, di influenzare il perseguimento del primo; onde accertati, ad opera del giudice disciplinare, i due interessi coesistenti e la mancata astensione, ne deriva l'integrazione della fattispecie disciplinare.
5.1. - Il quinto subordinato motivo lamenta l'errata applicazione dell'art. 521 c.p.p., D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 3-bis e 19: infatti, nel valutare il disdoro determinato dalla condanna penale, la sentenza impugnata ha riferito quest'ultima all'omessa astensione, laddove riguardava il reato di abuso d'ufficio, e l'astensione ne era mero presupposto.
5.2. - Il motivo non può essere accolto.
5.2.1. - il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis esclude l'integrazione dell'illecito disciplinare, allorchè il fatto sia di "scarsa rilevanza", alla stregua del cd. principio di offensività.
Questa Corte ha chiarito che si tratta di quei casi in cui, pur perfezionata la fattispecie tipica, il fatto, per le particolari circostanze del caso concreto, non sia lesivo del bene tutelato (Cass., sez. un., 8 ottobre 2018, n. 24672), onde l'illecito non sussiste, ove manchi la lesione o la messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto effettuato ex post: bene giuridico considerato unico per tutte le ipotesi di illecito disciplinare ed identificabile, D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 3, lett. h) e art. 4, lett. d), con la compromissione dell'immagine del magistrato (Cass., sez. un., 13 dicembre 2010, n. 25091).
Invero, l'accertamento della condotta disciplinarmente irrilevante in applicazione dell'esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis deve identificarsi in quella che, riguardata ex post ed in concreto, non comprometta l'immagine del magistrato (Cass., sez. un., 27 novembre 2019, n. 31058).
Onde la valutazione, esclusivamente di merito, non può che essere rimessa alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, ed è sottoposta al sindacato di legittimità soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica, oppure motivata in modo insufficiente o illogico (Cass., sez. un., 13 luglio 2017, n. 17327; v. pure Cass., sez. un., 18 gennaio 2019, n. 1416; Cass., sez. un., 29 marzo 2013, n. 7934).
5.2.2. - Il giudice del merito ha ritenuto non integrata la fattispecie, perchè vi è stata una condanna, divenuta definitiva, alla pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di abuso d'ufficio ex art. 323 c.p., comminata al magistrato.
Tale motivazione non merita la censura proposta, non palesando errori di diritto, nè motivazione inadeguata, neppure sotto il profilo, evidenziato dal motivo, secondo cui l'omessa astensione non costituisce di per sè il reato di abuso d'ufficio, alla cui integrazione concorrevano anche altri elementi, valutati solo dal giudice penale.
Ed invero, non ha valore, al fine di escludere la "scarsa rilevanza" del fatto e la lesione agli interessi tutelati, che la condotta disciplinarmente illecita, contestata al magistrato, integri solo uno degli elementi costitutivi della fattispecie penale, allorchè per quest'ultima, dunque comprensiva anche della condotta predetta, sia stata comminata la sanzione della reclusione da sentenza penale irrevocabile.
Non vi sono dunque gli elementi per rimettere in discussione l'accertamento circa la mancata offensività del fatto commesso.
6.1. - Il sesto motivo, del pari subordinato, deduce l'errata applicazione dell'art. 133 c.p., artt. 521 e 648 c.p.p., D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 5 e 19 avendo la sentenza impugnata annesso rilievo, nell'individuare la sanzione da irrogare, alla condanna penale per un fatto diverso da quello di cui alla incolpazione disciplinare e ad elementi di fatto già valutati nella precedente pronuncia disciplinare, con conseguente violazione del principio di proporzionalità.
6.2. - Il motivo è inammissibile.
6.2.1. - La sentenza impugnata ha ritenuto sanzione adeguata quella della rimozione dal ruolo della magistratura, considerando: la sentenza irrevocabile di condanna per il delitto di cui all'art. 323 c.p.; la circostanza che tale reato preveda la pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici, ai sensi dell'art. 31 c.p.; la previsione della sanzione della rimozione, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 3, per i casi in cui il magistrato incorra nell'interdizione dai pubblici uffici, sebbene questa, in concreto, non sia stata irrogata dal giudice penale.
Dunque, conclude la Sezione, è proporzionata la sanzione della rimozione, alla luce delle circostanze concrete, potendo la sanzione essere graduata secondo i criteri di cui all'art. 133 c.p., di pacifica applicabilità in sede disciplinare: ed il magistrato, nella specie, ha dimostrato spregio per i suoi doveri, come palesato anche da precedente condanna disciplinare della perdita dell'anzianità per un anno e trasferimento d'ufficio, con riguardo alla mancata astensione in tre diversi procedimenti penali, nonostante i rapporti con l'avv. C.D., all'epoca già condannato a seguito di patteggiamento per concorso in rivelazione di segreto d'ufficio ed accesso abusivo a sistema informatico; tutto ciò, in una con le doglianze manifestate, al riguardo, dal Consiglio dell'ordine degli avvocati di *.
6.2.2. - il D.Lgs. n. 109 del 200, art. 12, commi 5 e 6 impone la sanzione disciplinare della rimozione per il magistrato che: a) sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall'art. 3, comma 1, lett. "e"; b) incorra nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale; c) incorra in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia sospesa.
Si tratta, come è già stato precisato, di tre diverse ipotesi alternative tra di loro, ricorrendo una sola delle quali va disposta obbligatoriamente la rimozione del magistrato (Cass., sez. un., 25 giugno 2019, n. 16984).
Ma nessuna di tali fattispecie è integrata nella situazione in esame.
Anche la misura dell'interdizione, menzionata dall'art. 31 c.p., non è stata nella specie comminata dal giudice penale.
Peraltro, si è altresì chiarito come tale radicale sanzione possa essere comminata anche al di fuori delle fattispecie tipiche, di cui all'art. 12, comma 5, cit., proprio con riguardo alle ipotesi in cui l'illecito abbia compromesso irrimediabilmente i valori connessi alla funzione giudiziaria e al prestigio personale del magistrato, anche in relazione allo strepitus fori, secondo l'apprezzamento di merito della sezione disciplinare del C.s.A., insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua, immune da vizi logico-giuridici, con riguardo all'adeguatezza della sanzione della rimozione (Cass., sez. un., 21 settembre 2018, n. 22427, non mass.; Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23677; Cass., sez. un., 8 aprile 2009, n. 8615).
Si tratta, in sostanza, dei criteri di cui all'art. 133 c.p., che detta parametri oggettivi di apprezzamento della gravità dell'illecito: tenuto conto di ogni modalità dell'azione, del danno o pericolo cagionato, dell'intensità del dolo o del grado della colpa, nonchè della cd. capacità a delinquere del colpevole, desunta dai motivi, dal carattere, dai precedenti penali e giudiziari, dalla generale condotta e dalla vita antecedenti e successive, nonchè dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
Con riferimento all'illecito disciplinare del magistrato, dovranno valutarsi i fatti, l'elemento psicologico, i motivi, la personalità dell'incolpato nel suo complesso (Cass. 20 marzo 2019, n. 7928).
E tale valutazione deve essere particolarmente approfondita, specie qualora la scelta si rivolga alla più grave delle sanzioni, sul presupposto che l'illecito contestato al magistrato sia di tale entità che ogni altra sanzione risulti insufficiente alla tutela di quei valori che la legge intende perseguire costituiti dalla fiducia e dalla considerazione di cui il magistrato deve godere, nonchè dal prestigio dell'Ordine giudiziario (Cass. 20 marzo 2019, n. 7928; Cass., sez. un., 4 luglio 2012, n. 11137).
6.2.3. - Nella specie, la sentenza impugnata ha motivato la scelta della sanzione, valutando le circostanze della condanna penale per il delitto di cui all'art. 323 c.p., nonchè l'astratta comminatoria della pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici, che avrebbe, ove in concreto comminata, comportato la rimozione obbligatoria dall'ufficio. Essa ha, altresì, considerato gli specifici precedenti, ossia la condanna disciplinare della perdita dell'anzianità per un anno e trasferimento d'ufficio, i rapporti con l'avv. C.D., all'epoca già condannato a seguito di patteggiamento per concorso in rivelazione di segreto d'ufficio ed accesso abusivo a sistema informatico, nonchè la situazione venutasi a creare, a seguito della reazione del Consiglio dell'ordine degli avvocati di *.
Pertanto, la sentenza impugnata dà adeguato conto dei parametri seguiti, donde il particolare discredito nell'ambito giudiziario, con compromissione del prestigio del medesimo e dell'ordine giudiziario, restando così sul punto non sindacabile.
7. - Pertanto, il ricorso è respinto. Non vi è luogo alla liquidazione delle spese.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 7 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 3 settembre 2020.