Societario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 04/12/2024 Scarica PDF
Quale natura giuridica degli studi legali (e non solo) associati?
Angelo Bonetta, Avvocato in Milano - Partner BonelliEredeSommario: 1. Dubbi sulla pertinenza dello schema dell’associazione non riconosciuta - 2. Approdo alla società semplice - 3. Questioni pratiche e alcune soluzioni - 4. Conclusioni: tradizione e innovazione nello stesso modello.
1. Dubbi sulla pertinenza dello schema dell’associazione non riconosciuta.
La Corte di cassazione è tornata, anche recentemente, ad affermare che lo studio legale associato è (sarebbe) regolato dagli artt. 36, 37 e 38 del Codice civile, pensati per quelle organizzazioni collettive non personificate e costituite per perseguire, con un fondo comune, scopi super-individuali leciti e possibili. Si consideri già, in termini di generale premessa, che la scelta di utilizzare la definizione fondo comune (art. 37 c.c.) anziché patrimonio rifletteva il convincimento del legislatore del 1942 di regolare nel Libro I del Codice civile una comunione fra più individui e non un soggetto di diritto e, tanto meno, un soggetto naturalmente destinato a svolgere un’attività economica, essendo per questa concepite, invece, le società del Libro V alle quali invece era normalmente riferito un patrimonio. Appunto: le associazioni per le quali furono inizialmente dettati gli artt. 36 ss. c.c. erano, in quella logica assai datata e certamente non più attuale, le aggregazioni con finalità culturali, filantropiche, sportive e simili.
La polverosa legge 25 novembre 1939, n. 1815, fino alla sua abrogazione con la legge 7 agosto 1997, n. 266 (c.d. Legge Bersani), escluse espressamente la possibilità che gli studi legali si costituissero in forma societaria. Peraltro, quella disciplina speciale del 1939 era stata emanata nel novero delle odiose leggi razziali: nacque per regolare gli studi legali associati, ma anche notoriamente per impedire che avvocati ebrei potessero esercitare la professione in forma schermata da altri colleghi, ed anche per questo il legislatore dell’era fascista prescrisse che gli studi non potessero adottare denominazioni o insegne collettive di fantasia e che, al contrario, riportassero ai terzi i cognomi di tutti gli avvocati partecipanti.
Oggi, l’attuale legge professionale emanata il 31 dicembre 2012, n. 247, dedica alle forme collettive di svolgimento della professione due articoli. Al n. 4 (Associazioni tra avvocati e multidisciplinari) si legge al comma 1 che “La professione forense può essere esercitata individualmente o con la partecipazione ad associazioni tra avvocati. L'incarico professionale è tuttavia sempre conferito all'avvocato in via personale. La partecipazione ad un'associazione tra avvocati non può pregiudicare l'autonomia, la libertà e l'indipendenza intellettuale o di giudizio dell'avvocato nello svolgimento dell'incarico che gli è conferito. È nullo ogni patto contrario.” Nessuno degli altri commi si pronuncia sulla natura giuridica dell’organizzazione; la norma non compie neppure alcun larvato tentativo definitorio, limitandosi a prendere atto che esistono già le associazioni professionali e se ne possono creare di nuove. Nulla aggiunge nemmeno in ordine alle regole di costituzione, funzionamento e scioglimento, sebbene il comma 10 avverta, in chiusura, la necessità di precisare che “Le associazioni che hanno ad oggetto esclusivamente lo svolgimento di attività professionale non sono assoggettate alle procedure fallimentari e concorsuali”. Non si tratta dunque di imprese commerciali cui, invece, notoriamente si applica per intero il c.d. Statuto dell’imprenditore con il corredo di norme sull’insolvenza e sulla crisi.
Il successivo articolo 4bis della legge n. 247/2012, invece, afferma subito al comma 1 che “L'esercizio della professione forense in forma societaria è consentito a società di persone, a società di capitali o a società cooperative iscritte in un'apposita sezione speciale dell'albo tenuto dall'ordine territoriale nella cui circoscrizione ha sede la stessa società; presso tale sezione speciale è resa disponibile la documentazione analitica, per l'anno di riferimento, relativa alla compagine sociale. E' vietata la partecipazione societaria tramite società fiduciarie, trust o per interposta persona. La violazione di tale previsione comporta di diritto l'esclusione del socio”.
Se l’approvazione fosse stata contestuale, si sarebbe potuto pensare che la declinazione di due articoli diversi derivasse dalla scelta legislativa consapevole di congegnare due modelli diversi di organizzazione. Invece, è notorio che l’articolo 4bis è stato introdotto dalla legge 4 agosto 2017, n. 124, quattro anni dopo il precedente, all’esito di un iter parlamentare alquanto dibattuto e accidentato.Dunque, si può solo muovere dalla più circoscritta constatazione che l’articolo 4bis ha voluto applicabile alle società tra avvocati tutti i modelli societari del Libro V, mentre l’articolo 4 ha pensato (??) applicabile agli studi associati uno schema diverso da quello riservato alle imprese commerciali. Dal perimetro dei modelli societari del Libro V si potrebbe ripescare solo quello della società semplice, non commerciale per definizione.
Invece, probabilmente più per assonanza nominalistica che per approfondita riflessione, la Suprema Corte ha continuato ad affermare che l’articolo 4 in tema di associazioni professionali rimanda agli articoli 36 ss. del Codice civile in tema di associazioni non riconosciute, al pari di quanto accade per sindacati o associazioni esponenziali di imprenditori. L’equivoco interpretativo è stato alimentato, forse, anche dal fatto che la Corte è stata prevalentemente investita del problema di riconoscere allo studio professionale associato una soggettività giuridica ed una legittimazione ad agire, più che di regolare la responsabilità degli aderenti per le obbligazioni contratte verso i terzi (ad es. Cass. 10 aprile 2018, n. 8768; Cass. 22 luglio 2022, n. 22955). Allora, l’applicazione delle regole delle associazioni non riconosciute – già elevate dalla giurisprudenza, fin dagli Anni 80 del secolo scorso, a “centri autonomi di imputazione di interessi” in grado di contrarre obbligazioni con i terzi e di rendersi creditrici delle parcelle – rispondeva allo specifico scopo contingente e non destava particolari aporie sistemiche (cfr., ex multis e più recentemente, Cass. 24 maggio 2019, n. 14321: “L'associazione professionale costituisce un centro di imputazione di situazioni giuridiche autonomo e distinto da quello del singolo associato, con la conseguenza che quest'ultimo non è legittimato a proporre in proprio l'opposizione allo stato passivo contro l'esclusione di un credito di cui è titolare l'associazione”).
2. Approdo alla società semplice
Tuttavia, anche affermando che lo studio professionale costituisca un’associazione sui generis perché contemplato in una legge speciale (prima la n. 1815/1939, ora la n. 247/2012), i soli articoli 36-37-38 c.c. non sono realmente appaganti – o perlomeno non sempre lo sono – per chi voglia rinvenire le norme per regolarne tutti gli aspetti, dalla costituzione, al recesso di un partecipante, fino alla cessazione dell’intero sodalizio.
Occorre invero distinguere, prima, quale sia il reale oggetto del contratto istitutivo dello studio associato: solamente ripartire fra gli aderenti i costi logistici, senza rilevanza esterna verso i clienti, oppure (anche) operare come centro unico degli incassi – diretti o per cessione o delegazione dei singoli associati – al fine di gestire un patrimonio comune e di ripartire l’utile? Infatti, questo secondo caso, probabilmente divenuto oggi il più frequente, pone almeno due gravi ed evidenti problemi: alle associazioni ex artt. 36 ss. c.c. sono assolutamente vietate – a pena di essere riqualificate come società di fatto (rectius: irregolari) – la distribuzione degli utili in vigenza del vincolo e la restituzione dei conferimenti o di una quota del fondo comune tanto in caso di recesso individuale, quanto in caso di liquidazione. La giurisprudenza ritiene applicabile analogicamente l’art. 24 c.c. secondo il quale “Gli associati, che abbiano receduto o siano stati esclusi o che comunque abbiano cessato di appartenere all'associazione, non possono ripetere i contributi versati, né hanno alcun diritto sul patrimonio dell'associazione” (più in generale, sul divieto di ripartire utili e patrimonio, v. già Galgano, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, sub artt. 36-42, in Commentario al Codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1976, pag. 61; Ponzanelli, Gli enti collettivi senza scopo di lucro, Torino, I ed. 1996, pag. 102 ss.). Proprio cosi: l’associazione che ripartisse utili – direttamente o indirettamente, nel corso dell’esercizio o in sede di scioglimento – dovrebbe essere qualificata come società irregolare perché non tanto il conseguimento dell’utile oggettivo, bensì la distribuzione dell’utile soggettivo è una connotazione essenziale del contratto di società (cfr. anche Cass. 11 gennaio 2023, n. 546, in tema di ripresa a tassazione commerciale dell’attività svolta dall’associazione). In altre parole ancora: se l’elemento che realmente distingue le associazioni del Libro I dalle società del libro V è il tassativo divieto di distribuzione dell’utile, risulta difficile concepire un’associazione che, pur dichiarata speciale, ripartisca utili fra i professionisti aderenti, con ciò vulnerando il principale (se non l’unico, ormai) tratto caratteristico essenziale della categoria.
Allora, non è così eccentrico alla riflessione indagare come proprio la normativa fiscale si sia approcciata al medesimo problema. E non stupisce affatto che secondo l’art. 5, co. 3, lett. C), del TUIR: “Ai fini delle imposte sui redditi: […] le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni sono equiparate alle società semplici”. Il fisco, appunto, non ha dubbi: può civilisticamente anche chiamarsi associazione, ma è tassata come una società semplice. Isolato e settoriale, ma è l’unico dato normativo positivo ad esprimersi in termini inequivoci.
V’è dunque da chiedersi se abbia (ancora) senso applicare agli studi legali associati la disciplina degli art. 36 ss. c.c., salvo appurarne l’incompletezza e, soprattutto, l’assoluta inconciliabilità con la necessità (per lo meno per chi scrive) di distribuire gli utili e di liquidare, prima o poi, la quota, anziché prendere atto che gli artt. 2251 ss. c.c. in tema di società semplice offrono una soluzione organica per tutte le questioni: disciplinano un centro autonomo di imputazione di interessi, con un proprio patrimonio, organizzato secondo le regole approvate tempo per tempo dai partecipanti (senza particolari requisiti di forma, anche in deroga a quelle del Codice civile, anche con riguardo alla possibilità di ripartire l’utile in ragione dei diversi apporti). Anzi: forse conviene considerare il rischio elevato che, in caso di controversie, sia il giudice a riqualificare la fattispecie quando è ormai tardi per derogare pattiziamente alle norme di legge (cfr. già App. Milano, 19 aprile 1996: “In caso di decesso dell’associato, la liquidazione della quota agli eredi del partecipante ad una associazione professionale trova il suo specifico referente normativo nell’articolo 2284 c.c., dettato in tema di società semplice, la cui disciplina è applicabile, in via diretta e non analogica, all’associazione tra professionisti, prevista dalla legge 23 novembre 1939, n. 1815, essendo tale associazione una delle più rilevanti concrete manifestazioni di detto tipo di società”). Non sembra affatto una pura coincidenza la scelta compiuta in molti patti associativi, e tipicamente quelli degli studi più strutturati con molti soci e molti avvocati-collaboratori, di demandare la soluzione delle controversie interne ad arbitrati di equità che di fatto esonerano l’arbitro da (ritenute scomode) scelte di stretto diritto.
3. Questioni pratiche e alcune soluzioni
Dall’applicazione diretta degli articoli del Libro V del Codice civile derivano alcune implicazioni non secondarie, tanto che davvero non sembra fuori luogo ripercorrere pur concisamente alcune norme, anche per tornare sulle possibili deroghe.
Art. 2247: con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili. Appunto.
Art. 2249: le società che hanno per oggetto l'esercizio di un'attività diversa [da quella commerciale] sono regolate dalle disposizioni sulla società semplice, a meno che i soci abbiano voluto costituire la società secondo uno degli altri tipi regolati nei capi III e seguenti di questo titolo. Come riconosciuto nel citato precedente in tema di liquidazione del socio.
Art. 2251: nella società semplice il contratto non è soggetto a forme speciali, salve quelle richieste dalla natura dei beni conferiti. Bastano quindi deliberazioni assunte a maggioranza o demandate ad organi interni se nel patto associativo si sono fissate tali regole.
Art. 2264: la determinazione della parte di ciascun socio nei guadagni e nelle perdite può essere rimessa ad un terzo. La determinazione del terzo può essere impugnata soltanto nei casi previsti dall'articolo 1349 e nel termine di tre mesi dal giorno in cui il socio, che pretende di esserne leso, ne ha avuto comunicazione. L'impugnazione non può essere proposta dal socio che ha volontariamente eseguito la determinazione del terzo. Quindi, pragmaticamente, come accade per molti studi strutturati influenzati dall’esperienza di altri stati esteri, la quantificazione dell’utile spettante al singolo socio può essere legittimamente affidata ad un organo interno diverso dall’assemblea a ciò deputato (o anche ad un solo socio, purché la sua discrezionalità non sia totale, ma si muova nell’alveo di alcune regole di massima prestabilite).
Quanto, poi, ai casi di recesso o esclusione, l’Art. 2289 dispone che la liquidazione della quota avvenga in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno di efficacia; ed è vero che anche nella società semplice la Suprema Corte ha contemplato la (possibile) presenza di un c.d. avviamento civile, cioè un particolare valore patrimoniale espressione della capacità del sodalizio di imporsi agli occhi dei potenziali clienti in misura maggiore dei suoi singoli associati (molto chiara, ex multis, Cass. 8 ottobre 2018, n. 24769: “In tema di valutazione della quota sociale ex art. 2289 c.c., occorre tener conto anche del valore dell'avviamento e, secondo una stima di ragionevole prudenza, della futura redditività dell'azienda, considerato che la norma, facendo riferimento allo scioglimento del rapporto nei confronti di un solo socio, presuppone la continuazione dell'attività sociale che non può riferirsi solo ad un compendio statico e disaggregato di beni, ma deve essere valutata anche avuto riguardo alla sua fisiologica e naturale propensione verso il futuro”). Tuttavia, il rischio che, stimando il c.d. fair value della società, i soci superstiti debbano sobbarcarsi ingenti oneri per liquidare il socio receduto o escluso ovvero gli eredi di quello defunto va davvero indagato in concreto, con riferimento alle singole situazioni. Il problema potrebbe restare tutto sommato circoscritto e, in ogni caso, esso potrebbe essere specificamente regolato dal patto associativo con soluzioni molto più duttili di quelle previste per le società di capitali, a maggior ragione in considerazione delle peculiarità del settore, nel quale – ad esempio – è raro che l’ammissione alla compagine sociale presupponga un versamento in denaro, così come appare raro che – operando per cassa e non per competenza in regime di c.d. trasparenza fiscale – lo studio associato non ripartisca periodicamente tutto l’utile senza trattenere alcuna riserva. Insomma: se non si conferisce nulla in fase d’ingresso e se l’avviamento dipende dalle competenze e capacità professionali dei soci, potrebbe escludersi uno specifico credito in fase d’uscita, e il modello della società semplice non appare poi realmente ostico neppure sotto questi profili. O per lo meno: non è questa tematica a rendere inadeguato o sconveniente il modello, anche solo pensando a quanto accadrebbe adottando invece quello di una società commerciale.
Un ulteriore aspetto interessante è, poi, legato all’applicazione dell’Art. 2267: i creditori della società possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale; per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci; il patto deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza, la limitazione della responsabilità o l’esclusione della solidarietà non è opponibile a coloro che non ne hanno avuto conoscenza.
Nelle associazioni non riconosciute, chi opera e assume obbligazioni verso i terzi risponde in prima persona e illimitatamente (art. 38 c.c.) senza neppure il beneficio della preventiva escussione del fondo comune. Invece, lo studio associato che voglia conformarsi allo schema della società semplice, portando a conoscenza dei terzi con mezzi idonei il patto associativo, da un lato, può rendere primariamente responsabile il patrimonio sociale anziché quello del socio che ha contrattato all’esterno e, dall’altro, può limitare in misura fissa la responsabilità degli altri soci che non hanno agito, oppure può limitarla in misura proporzionale alla loro quota (rendendo la responsabilità parziaria e non più solidale), secondo clausole già note alla prassi notarile.
Beninteso, detta limitazione non opererebbe per quelle responsabilità verso il cliente derivanti dalla carente o difettosa esecuzione del mandato professionale, che la legge n. 247/2012 prescrive espressamente come illimitata anche adottando il modello di società di capitali (si vedano i commi 3 e 4 dell’art. 4bis: “3. Anche nel caso di esercizio della professione forense in forma societaria resta fermo il principio della personalità della prestazione professionale. L'incarico può essere svolto soltanto da soci professionisti in possesso dei requisiti necessari per lo svolgimento della specifica prestazione professionale richiesta dal cliente, i quali assicurano per tutta la durata dell'incarico la piena indipendenza e imparzialità, dichiarando possibili conflitti di interesse o incompatibilità, iniziali o sopravvenuti. // 4. La responsabilità della società e quella dei soci non esclude la responsabilità del professionista che ha eseguito la specifica prestazione”. Questo comma 4 viene interpretato nel senso che, per le prestazioni professionali difettose, possano concorrere ex lege una responsabilità limitata della società ed illimitata del prestatore d’opera specificamente incaricato).
La limitazione opererebbe, invece, per le spese a carico dello studio professionale – ad es. sedi, forniture, logistica, dipendenti, collaboratori – che peraltro talvolta sono ingenti e possono anche non lasciare tranquillo il singolo socio. Né, ancora una volta, il contraltare costituito dal requisito della preventiva comunicazione ai terzi del patto limitativo della responsabilità appare particolarmente gravoso, al netto del rilievo che la legge prevede l’obbligo di deposito presso il Registro delle Imprese del contratto costitutivo delle società semplici (in regime di c.d. mera pubblicità-notizia). Come per la vaccinazione, potrebbe trattarsi di un accorgimento assai poco invasivo per prevenire mali peggiori.
4. Conclusioni: tradizione e innovazione nello stesso modello.
In effetti, in assenza di considerazione da parte del legislatore, convivono fenomeni tra loro molto diversi: studi unipersonali, studi associati con una base personale più circoscritta e fortemente connotata dall’intuitus personae, fino ad arrivare a studi con varie decine di partner e centinaia di associates i quali ultimi, a dispetto del nome di prassi, non sono associati in senso tecnico (tantomeno associati in partecipazione, anche se la legge lo consente), sono esclusi dal patto e vengono remunerati come collaboratori precari (da ultimo: v. Cass. 4 novembre 2024, n. 28274, sulle pretese risarcitorie verso un’associazione professionale e sulla natura non-subordinata del rapporto di lavoro intercorrente fra essa e i suoi avvocati-collaboratori).
Al contempo, anche per gli studi-aziende non sempre è conveniente la scelta del modello della società di capitali, per tutta una serie di implicazioni anche economiche e tributarie (costo della quota in ingresso, conferimento di patronimici e segni distintivi, valorizzazione dell’avviamento commerciale in senso stretto, passaggio dal regime per cassa a quello per competenza, necessità di contabilizzare le attività in corso, ecc.).
In fondo, davvero lo schema della società semplice sembra idoneo per gestire tutti gli aspetti di uno studio professionale che non voglia costituirsi in forma di società commerciale, o accedendo ad una concezione più ...romantica e ancora suggestiva della libera professione (veste non commerciale) o privilegiando la duttilità organizzativa (anche di una realtà che abbia assunto la natura di impresa). Ancora una volta il legislatore del 1942 ci stupisce per la sua lungimiranza nell’elaborazione di soluzioni che finiscono per essere senza tempo, a dispetto di proposte più recenti, uscite da iter macchinosi, ma in buona misura incompiute, così da risultare scarsamente apprezzate dalla prassi.
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