Bancario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 28/02/2019 Scarica PDF
Sull'obbligo delle banche-enti ponte di risarcire i danni agli investitori: la terza via ed il secondo no
Angelo Bonetta, Avvocato in Milano - Partner BonelliEredeSommario: 1. La logica di fondo della risoluzione delle banche in crisi. - 2. I dubbi applicativi in Italia: la tesi favorevole e quella contraria alla possibilità del danneggiato di agire contro la c.d. good company - 3. L’adesione del Tribunale di Ancona alla soluzione negativa con un diverso percorso motivazionale.
1. Il dibattito è noto: al problema delle crisi irreversibili degli istituti bancari di maggiori dimensioni, da par suo, il legislatore italiano non è riuscito ad applicare al meglio o comunque a tradurre in termini pratici lineari e incontroversi la Direttiva Europea2014/59 (Bank Recovery and Resolution Directive o BRRD). Come ricordavano molte nostre insegnanti di liceo, anche copiare è un’arte e non è per tutti.
Lo spirito della Direttiva era chiaro: ove ciò non peggiori la situazione dei singoli azionisti (come quando essi non abbiano alcuna aspettativa di soddisfo da una normale liquidazione coatta amministrativa), l’autorità preposta alla “risoluzione” può attribuire personalità giuridica all’azienda della banca in crisi trasformandola in un ente-ponte per consentire la prosecuzione dei rapporti bancari ed evitare ricadute sistemiche nel tessuto socio-economico di riferimento. Il capitale per costituire l’ente-ponte viene fornito da un Fondo Nazionale di Risoluzione gestito da Banca d’Italia, la quale poi rivende ad un privato terzo la società così costituita. Se lo scopo è dare continuità, nell’interesse di clienti, depositanti, creditori e dipendenti, la c.d. good company deve essere veramente good, cioè deve essere appetibile ai potenziali assuntori-compratori e - annotazione intimamente legata alla prima - deve dimostrare di poter proseguire in equilibrio economico. Pertanto, la logica del salvataggio, ancor prima che il diritto, vorrebbe che la good company non sia gravata delle stesse passività che hanno affossato la bad company, né di ulteriori passività occulte il cui timore disincentiverebbe qualsiasi imprenditore avveduto dal comprare l’ente-ponte. La logica economica ultima della risoluzione non è dissimile da quella di un (vecchio) curatore che confezionava il ramo d’azienda in cerca di un assuntore.
2. Tale finalità e le sue ricadute pratiche possono emergere da una lettura coordinata dei numerosi atti normativi ed attuativi succedutisi, con disposizioni neppure sempre esattamente sovrapponibili per i vari istituti bancari coinvolti, tanto che il trattamento riservato ai due casi più recenti, in Veneto, è divenuto ulteriore occasione di discussione. Per legge, gli investitori che lamentino di essere stati indotti in errore sulla convenienza di acquistare azioni o obbligazioni delle due banche venete decotte non possono agire in giudizio contro la good bank. Si tratta di una scelta legislativa diversa e in consapevole contrasto con la precedente, oppure è solo l’esplicitazione di una scelta già insita nei casi precedenti?
La speranza dei risparmiatori di agire non contro la banca decotta in liquidazione e certamente incapiente, bensì contro il nuovo istituto resosi cessionario dell’azienda bancaria si è legittimamente insinuata nelle pieghe di questo dibattito che non resta teorico, perché si confronta col dramma umano di molte famiglie che hanno davvero perso i risparmi di una vita. Gli operatori del diritto sono stati sollecitati a cercare un ristoro per un’esigenza di giustizia sostanziale.
Ad un orientamento più aderente alla logica della Direttiva Europea che negava la legittimazione passiva degli enti-ponte rispetto ai danni da misselling (ex multis, Trib. Bologna 12.7.2017 e 28.11.2017), se n’è contrapposto un altro favorevole a riconoscerla (fra le pronunce più articolate anche per spessore della motivazione, cfr. Trib. Milano 8.11.2017). In estrema sintesi, il filone maggioritario ha focalizzato l’attenzione principalmente sull’interpretazione dei provvedimenti ad hoc attuativi della risoluzione e del “confezionamento” del patrimonio iniziale dell’ente-ponte, per capire quali rapporti obbligatori ne fossero esclusi.
3. Arriva ora sulla scena il Tribunale di Ancona che risolve il problema attingendo ad un altro argomento frapposto dalle difese dagli enti-ponte: l’art. 2560 c.c.. La norma prevede che “l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all'esercizio dell'azienda ceduta anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. / Nel trasferimento di un'azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l'acquirente dell'azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori.
L’orientamento già contrario alla legittimazione passiva egli enti-ponte aveva ritenuto l’eccezione sostanzialmente assorbita, giungendo alla soluzione attraverso la semplice interpretazione delle norme della risoluzione. L’altro orientamento favorevole alla legittimazione, invece, ha escluso l’operatività dell’art. 2560 c.c. ritenendo che l’art. 58 del Testo Unico Bancario ponga la responsabilità del cessionario in piena continuità con quella della bad bank.
Secondo il passaggio motivazionale qui più rilevante del Tribunale di Ancona (sentenza 20.2.2019 n. 331), la disciplina della risoluzione emanazione della BRRD è, a propria volta, speciale e posteriore rispetto al Testo Unico Bancario e comporta l’inoperatività del predetto art. 58. Pertanto “alla stregua dell’art. 2560 c.c. per i debiti scaturiti dagli illeciti commessi dal cedente (sia sotto il profilo della violazione di specifici obblighi contrattuali, sia sotto il profilo della responsabilità c.d. da prospetto), la banca cessionaria non può dirsi passivamente legittimata rispetto a esposizioni per risarcimento non evincibili dalle scritture contabili”.
Sul piano pratico, viene salvata la coerenza economica dell’operazione di risoluzione, non gravando l’acquirente dell’ente-ponte di passività ignorate al momento dell’offerta di acquisto. I risparmiatori vedono però frustrata l’aspettativa di essere risarciti. Quest’ultimo aspetto potrebbe apparire iniquo. Tuttavia, considerando i normali effetti dell’art. 2560 c.c. (previsti in tempi non sospetti dal legislatore del 1942 c.c.), gli stessi danneggiati non si trovano in situazione deteriore rispetto a quella del creditore il cui credito non sia iscritto nei libri contabili al momento della cessione dell’azienda.
Certo: l’acquirente è uno solo, a dispetto del ben maggior numero dei risparmiatori, ma il numero degli aventi diritto non è mai stato un criterio di disapplicazione di una norma. Al massimo esso può orientare le scelte del legislatore al momento del bilanciamento degli interessi meritevoli e della valutazione delle forme di tutela. Il principio affermato dal Tribunale di Ancona vanifica tutte le pretese dei risparmiatori, ma il sostegno ad un disagio sociale diffuso (pur innegabile e meritevole di ogni attenzione e rispetto) non sembra competere al singolo giudice, vieppiù se ciò comporta il sacrificio del diritto di un imprenditore che, in ogni caso, ha interagito con una pubblica autorità per attuare una finalità pubblica di dare continuità all’azienda bancaria nel rispetto di principi condivisi a livello comunitario (quindi: fuori da una pura logica speculativa di guadagno). Anche in punto di bilanciamento di interessi, occorre confrontare quelli dei c.d. risparmiatori traditi non solo con quelli dell’unico imprenditore acquirente della good bank, ma anche con quelli dell’intero territorio che non subisce la liquidazione della banca: caricando l’ente-ponte di una massa significativa di debiti sopravvenuti, molte altre persone vedrebbero a rischio il loro futuro, come i clienti o i dipendenti di un istituto che ritornerebbe nella stessa precarietà dalla quale avrebbe dovuto uscire.
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