CrisiImpresa
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 06/08/2015 Scarica PDF
L'ipertrofica legislazione concorsuale fra nostalgie e incerte contaminazioni ideologiche
Massimo Fabiani, ProfessoreI. Dal 1942 al 2005 il r.d. 16 marzo 1942 n. 267, ha subito minime varianti, per lo più dettate dalla necessità (i) di adeguare i valori numerari all’inflazione della moneta e (ii) di assicurare omogeneità fra il tessuto normativo fallimentare e le continue modifiche del sistema fiscale.
Le alterazioni più significative del corpo normativo, nei decenni che scorrono dal 1960 al 2000 sono imputabili, invece, ai plurimi interventi della Corte costituzionale che in più occasioni rilevò il contrasto fra le disposizioni della legge fallimentare e la sopravvenuta costituzione repubblicana. Nella maggior parte dei casi le incursioni del giudice delle leggi si concentrarono sull’assetto processuale (sent. 41/1981 sull’art. 26 l.fall.), ma talora investirono anche le regole di matrice sostanziale (sent. 570/1989 sull’art. 1 l.fall.)
Al contrario, dal 2005 ad oggi, quasi ogni anno l’Esecutivo ha propinato una serie di varianti senza però mai demolire il contenitore che resta, ancora, il r.d. 267/1942. Ci fu, sì, un tentativo di riscrittura sistematica (cfr. Commissione Trevisanato /bis), ma il vero processo di riforma si attestò su decretazioni d’urgenza e legislazioni delegate.
Se si guarda al d.l. 35/2005 si nota che in quelle poche disposizioni si racchiuse il germe delle successive riforme dirette a rendere più liberale la regolazione della crisi dell’impresa. Un atteggiamento che si può definire liberale per comodità espressiva, nel senso che è stata offerta maggiore autonomia al debitore nella composizione negoziale, si sono affievolite le conseguenze afflittive del fallimento (della persona fisica in particolare), si sono attribuiti maggiori poteri ai creditori nel fallimento e spazi di autogoverno gestorio, fuori da un controllo pervasivo del giudice delegato.
Ma come sempre accade nel nostro Paese, a determinate riforme si susseguono continue contro-riforme.
Il d.lgs. 169/2007 corresse il d.lgs. 5/2006; così pure la legge 134/2012 tornò indietro rispetto al d.l. 83/2012, a sua volta modificato dal d.l. 69/2013, convertito nella legge 98/2013.
Talora queste correzioni sono state il frutto della necessità di migliorare la formulazione opaca (e finanche contraddittoria delle disposizioni), ma il più delle volte alle primitive aperture dei decreti-legge, sono conseguite correzioni restrittive nelle leggi di conversione e nelle leggi successive. È noto, infatti, che le Commissioni parlamentari sono il luogo dove più facilmente trovano diritto di tribuna le varie lobbies e le plurime corporazioni, talché le leggi di conversione si presentano, sempre, come esempi di legislazione più prudente.
La vicenda del d.l. 83/2015 non offre spunti di novità, perché su molte innovazioni si è fatto un passo indietro.
Queste (davvero) brevi considerazioni che seguiranno sono concepite proprio nella fase temporale dell’incertezza su quelli che saranno i contenuti conclusivi di questo ennesimo passaggio normativo sulla crisi d’impresa.
Ed allora, proprio la collocazione spazio-temporale, spiega la ragione per la quale non mi cimenterò nel commentare né il d.l. 83/2015 (perché l’esperienza mi ha insegnato che è sempre preferibile attendere qualche giorno in più per meditare su regole che forse neppure avranno un solo giorno di concreta applicazione), né tanto meno gli emendamenti, trasfusi in un testo definitivo per la cui approvazione non è mancato il consueto ricorso alla fiducia parlamentare.
A maggior ragione mi asterrò dal prendere posizione sulla qualità della tecnica redazionale delle norme per la cui critica altri si sono spesi con certosine analisi grammaticali, sintattiche e storiche. Il lettore resterà forse deluso ma non incontrerà un commento tecnico alle nuove disposizioni e di molte neppure vi sarà un fugace cenno. Questa scelta germina dal fatto che, a mio avviso è preferibile concentrare le forze e l’attenzione sui principi di valore che la nuova legislazione potrebbe esprimere.
II. Da qualche tempo - memore della devastante stagione di riforme che hanno riguardato e continuano a riguardare il processo civile (non a caso, ancora toccato proprio dal d.l. 83/2015 nel Libro III sull’esecuzione forzata) senza avere prodotto risultati concreti che non siano marginali riduzioni delle pendenze giudiziarie, persino pericolose (se si vuole) là dove se ne volesse far discendere un compiacimento da spendere nella lotta politica e in quella giudiziaria -, coltivo la tesi che le plurime modifiche della legge fallimentare rappresentano un costo per l’economia di gran lunga superiore ai benefici che si assume possano ricavarsene. Tale è la convinzione che ho preferito rinunciare a partecipare ai vari consessi, ufficiali e semi-occulti, che in questi mesi sono stati costituiti per parlare ancora di riforma della legge fallimentare.
Sono ben consapevole che il diritto dell’economia deve “correre” perché deve cercare di stare al passo delle imprese e delle reazioni che le imprese assumono al cospetto di una certa nuova normativa, ma reputo velleitaria questa continua rincorsa. Anche la riforma del diritto delle società di capitali, dopo una gestazione comunque più meditata di quella affrettata dei micro-interventi dal 2010 in poi in materia di crisi, ha ricevuto non poche critiche, non di rado proprio per la assunta eccessiva vocazione autonomo-liberale dell’ente societario. Tuttavia il fermento interpretativo è stato quasi sempre sufficiente a sedimentare un assetto di regole che appare oggi, pur nel pluralismo delle letture, un patrimonio condiviso sul quale vi sono più certezze che incertezze. L’impostazione ideologica del 2003, ancorché fondata su una economia globale in crescita non è stata contaminata dalle recessioni post-2008. Le alternative che furono messe in campo nel 2003 sono state sperimentate; le società talora hanno ritenuto opportuno avvalersi delle novità, per poi rivedere quelle scelte, come è dimostrato dalle notizie di stampa che narrano della decisione di una delle più importanti banche domestiche di passare dal sistema di amministrazione duale a quello monistico. Ma tutto ciò, in un clima non conflittuale; clima conflittuale che ha, invece, da sempre agitato le riforme sulla crisi d’impresa.
Ed infatti, all’opposto, la disciplina delle crisi dell’impresa ha visto un fermento interpretativo quasi soccombente rispetto alla bulimia dei Governi, e ciò perché non si è mai voluta prendere una posizione dogmatica su quelli che dovessero essere i principi fondativi del diritto delle imprese in crisi.
Si vuole un sistema debtor o creditor oriented? Si vuol provare una via italiana al compromesso fra i due approcci ideologici? Il legislatore può far tutto (ovviamente con la salvaguardia del baluardo costituzionale), ma: (i) deve avere il coraggio di prendere una posizione e di difenderla; (ii) deve avere la consapevolezza che certo si può tornare indietro di fronte ad una scelta fatta, ma questo deve accadere senza infingimenti.
Dopo che l’autonomia aveva preso il sopravvento, un ritorno all’eteronomia è lecito ma purché se ne faccia una consapevole e dichiarata ostensione. Non sono affatto persuaso della bontà di una scelta di questo tenore perché provocherà un impatto negativo sul funzionamento della macchina della giustizia: meno concordati e più fallimenti vorrà dire, di sicuro, più attività per gli uffici giudiziari, più processi, maggiori lentezze, perché certo imporre per legge che il programma di liquidazione (art. 104-ter, novellato) debba contemplare una finalizzazione delle attività entro un biennio dall’apertura della procedura, è misura velleitaria perché non sono, per lo più, i curatori ad essere indolenti, ma la burocrazia della liquidazione, per quanto deformalizzata, è necessariamente lenta perché sconta una serie di adempimenti che ritardano la conclusione dei procedimenti.
È raro che a qualcuno venga in mente quale sia il costo economico di questa gestione burocratica, tanto è vero che si rifiuta l’idea che un concordato fallimentare possa essere più vantaggioso della liquidazione dei beni, anche per quanto toglie agli uffici giudiziari di adempimenti.
Ma, ripeto, se ci si “mette la faccia” e si dichiara apertamente che la stagione dei molti concordati ha prodotto più guai che utilità, è di certo astrattamente giustificabile un ritorno al passato, ma la nostalgia dovrà comunque essere calibrata per le ragioni che, a breve, cercherò di illustrare.
I promotori dei cambiamenti, sia in senso più liberale, sia in senso più dirigistico, ci hanno, forse, fornito una seria base statistica sulla quale ragionare? Credo che la risposta debba essere negativa, perché se è vero che talune informazioni sono disponibili, resta oscuro un panorama comparativo sulle alternative. Mi chiedo, cioè, se siamo in grado di misurare, aldilà delle suggestioni, le perdite economiche del sistema e le perdite economiche dei creditori in un raffronto con altre soluzioni praticabili.
Se non si dispone di queste informazioni, quando si modificano le norme si possono, solo, fare delle previsioni ma con il rischio, piuttosto evidente, di imboccare una via in “contromano”.
Quello che non mi pare affatto condivisibile è una restrizione dei concordati sulla assunzione che l’imprenditore che accede al concordato è un bancarottiere (o, meglio, purtroppo da autorevoli magistrati ho sentito pubblicamente affermare che lo sono tutti e proprio tutti) e che se la legge non piace, non la si applica (è il caso di un recente provvedimento che, nel revocare il concordato e dichiarare il fallimento, ci dice che la regola del divieto di nominare come curatore il precedente commissario giudiziale – contenuta nel d.l. 83/2015 - può essere disattesa, perché nel momento in cui la decisione viene assunta, è “noto” che quella regola non sopravviverà…; un caso di applicazione di legge futura che mi era, per vero, sconosciuto; ma quanto è stato preveggente quel tribunale, visto che quella incompatibilità è, a mio modo di sentire, inopinatamente caduta).
Deve essere rifiutata l’idea che anche la giustizia possa vivere e prosperare con gli slogan, meglio se urlati come nei talk show. La giustizia, sia quella spicciola che quella con la “G” maiuscola meriterebbe un maggiore studio da parte di tutti i protagonisti, più approfondite riflessioni, minori bizzarre interpretazioni fondate sulla grammatica, e, soprattutto distacco dai corporativismi e dall’autoreferenzialità. Senza confronto privo di pregiudizi, il diritto della crisi d’impresa finirà su un binario morto e le aspettative di un miglioramento del nostro P.I.L. come effetto della riforma delle regole sulla crisi, saranno destinate ad evaporare.
Continueremo ad assistere a periodiche modifiche alla ricerca di un sistema perfetto che, come è noto, non può albergare nella nostra legislazione. La migliore delle legislazioni possibili non ci aiuterebbe ad uscire dalla crisi. Senza indulgere in un atteggiamento necessariamente pessimistico, l’esperienza mi sembra andare in un’altra direzione. La legge deve essere applicata ed è nell’applicazione che il nostro Paese sconta un deficit impegnativo con i Paesi dell’Unione e con gli Stati Uniti d’America. Sarebbe ipocrita continuare a nascondere che la malsana applicazione della legge fallimentare deriva da un approccio alla crisi largamente insufficiente sul piano etico da parte dei debitori, da una evidente diffidenza dei giudici verso il sistema nato nel 2005, da un carente assetto organizzativo degli uffici con i conseguenti problemi in tema di efficienza temporale delle risposte, da un eccesso di concentrazione di potere nei luoghi di, assunta, gestione delle crisi.
Se non si scardinano, ad uno ad uno, questi fattori di insuccesso, resta del tutto velleitario discutere delle regole introdotte dal d.l. 83/2015 e dalla legge di conversione.
Ma procediamo ad un esame su alcuni nodi che potrebbero rivelarsi di impatto sistemico, per verificare se un sistema di concorso-concordatario sia ancora attuale, fermo restando che poi, in caso di insuccesso, le vie della regolazione della crisi potranno divergere clamorosamente a seconda delle dimensioni dell’impresa o delle caratteristiche qualitative dell’attività d’impresa, posto che quando entrano in gioco amministrazioni straordinarie e liquidazioni coatte amministrative, tutto cambia.
III. Una assunzione diffusamente condivisa è quella che vuole che un’emersione tempestiva della crisi sia un obiettivo di un sistema concorsuale moderno, perché prima si interviene e più è probabile che l’impresa conservi valore e che i creditori possano essere soddisfatti in una misura maggiore.
Questa è la ragione per la quale, sin dal 2003 si gira attorno al tema delle misure di allerta e prevenzione. A suo tempo e cioè all’epoca dei lavori della prima “Commissione Trevisanato” fui fra i pochi a sostenerne l’introduzione, ma il manipolo di quanti erano a favore venne drasticamente sconfitto dalla maggioranza e in particolare da chi rappresentava il ceto degli imprenditori. Le misure di allerta venivano guardate come un corpo estraneo rispetto al cono visivo dell’imprenditore, arbitro di scegliere se, come e quando partecipare ad un nucleo più ristretto di creditori o all’intera collettività il proprio stato di crisi.
L’unico strumento di stimolo all’anticipazione dell’ostensione della crisi mi parve da riscontrare nell’ambito della riforma del 2006, nell’art. 124 l.fall., là dove si innestava la previsione che il concordato fallimentare potesse essere proposto da un terzo nell’immediatezza del post-fallimento. Il rischio che il debitore vedesse definitivamente perduto il controllo sull’impresa avrebbe dovuto incentivarlo a cercare con maggiore tempestività un accordo con i creditori. Poiché sono stato uno dei fautori di quel teorema debbo ammettere di avere sbagliato perché l’esperienza ci ha dimostrato che una volta che l’impresa è fallita, nella maggior parte dei casi il valore imprenditoriale è disperso e non vi è più un interesse competitivo sull’impresa, residuando solo i concordati speculativi che una certa utilità ce l’hanno ma che vengono tendenzialmente rifiutati dalla giurisprudenza e comunque vengono, a loro volta, disincentivati se si guarda a quel formante che predica che i diritti del fallito non possono essere pregiudicati quando l’offerta del terzo gli fa conseguire vantaggi che renderebbero il concordato una espropriazione.
Le misure di allerta sembrano ora pronte per essere riproposte (nei lavori della “Commissione Rordorf) e, per converso, nel d.l. 83/2015 l’addizione apposta all’art. 163 l.fall. sulle proposte concorrenti sembra andare nella medesima direzione, ma “anticipata al quadrato”, dell’art. 124 l.fall.
Anche in questo caso poiché sono stato fra i pochissimi a proporre l’apertura al concordato preventivo da parte di terzi non posso negare che la disposizione sia astrattamente pregevole.
Nel frattempo, essendomi occupato a lungo delle azioni di responsabilità, ho anche maturato la convinzione che queste andrebbero semplificate e per ciò solo rafforzate con un effetto riflesso, ancora una volta, sulla facilitazione alla emersione tempestiva della crisi.
Se davvero si vuole che il teorema del “più presto è, meglio è” sia efficace nella sua declinazione concreta, non vedo alcuna controindicazione a far convivere, magari previo un loro coordinamento anche tecnico, regole sulle allerte, competizione sulle proposte e responsabilità coerenti con i poteri degli organi societari.
Sulle allerte esogene, si scelgano pure i coefficienti di allarme che si reputano più congrui, purché il relativo procedimento per la contestazione al debitore sia, tanto nell’avvio che nel suo dipanarsi, il più semplice e flessibile possibile, evitando costruzioni barocche che renderebbero nei fatti questi procedimenti esercizio di burocrazia e non strumenti di agevolazione nella soluzione della crisi.
Quanto mai opportuna è l’opzione di affidare questi procedimenti a soggetti distinti dall’autorità giudiziaria ma alla indefettibile condizione che si tratti di soggetti autorevoli, preparati e rappresentativi del pluralismo degli interessi coinvolti nella crisi d’impresa, quindi composti, perché no, anche da magistrati specializzati nelle liti d’impresa.
Questi soggetti-organismi dovrebbero porsi come dei “facilitatori” nella soluzione della crisi, con la possibilità di intervenire in modo flessibile. Quest’attività dovrebbe svolgersi in modo da tutelare la riservatezza ma nel rispetto di principi di trasparenza le quante volte vengano a palesarsi rischi di pregiudizio su terzi inconsapevoli. E, per evitare che una eventuale ostensione stimoli le aggressioni dei creditori una provvisoria e circoscritta protezione sul patrimonio potrebbe essere giustificata, o come effetto automatico o come decisione, qui però, del giudice. Certo, occorre trovare un punto di equilibrio fra riservatezza e protezione del patrimonio, ma non pare compito impossibile.
La chiusura di questa fase dovrebbe, anche, lasciare al debitore - che non abbia già composto la crisi sotto la vigilanza dell’organismo – una piena libertà su come reagire, anche non facendo nulla, ma sottoponendolo al rischio che qualcuno in sua vece si proponga per risolvere la crisi.
Qui si apre, appunto, il tema delicato delle proposte concorrenti che trova, oggi, ospitalità nell’art. 163.
Perché fra i più è diffuso un sentimento di ripulsa verso questa previsione? Perché, si postula, l’imprenditore non insolvente non può essere espropriato della sua impresa senza indennizzo e si declama la violazione dell’art. 42 cost., secondo il quale “La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale”, talché, senza indennizzo ciò non potrebbe accadere, salvo quando già vi sia stata una espropriazione derivante dallo spossessamento.
Ma, l’impresa insolvente e per la quale già sia stato giudizialmente accertato tale stato con un decreto di ammissione del tribunale, è ancora un’impresa che appartiene al suo titolare (o ai suoi soci) o non appartiene, forse, ai creditori?
È ormai un comune sentire che l’impresa insolvente, dove non c’è più valore, è di fatto un bene destinato ad assolvere solo a funzioni di garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.), e quindi è in realtà un bene ormai nella piena disponibilità dei creditori. Se si condivide questa postulazione l’art. 42 cost., viene invocato in modo non condivisibile, perché, in verità, sono i creditori che sono stati espropriati del loro credito. Pertanto, quando le proposte concorrenti si muovono all’interno di un procedimento nel quale è stato giudizialmente acclarato lo stato di insolvenza, non credo vi sia alcuna ragione di ordine costituzionale per ostacolare l’introduzione del meccanismo.
Ma, si dice, giammai a questo risultato è possibile pervenire quando l’imprenditore non è in stato di insolvenza ma in stato di crisi. In tale situazione il debitore non può essere espropriato. Pur nella consapevolezza di quanto sia diffusa questa affermazione, reputo che sia ampiamente controvertibile.
In primo luogo, sul piano dell’esperienza, mi chiedo se si sia mai visto un imprenditore accedere al concordato quando non è già in stato di insolvenza. Ma anche ammesso che ciò possa accadere, visto che l’art. 160 l.fall., lo consente, dovremmo in secondo luogo chiarirci bene le idee su cosa si intende per stato di crisi perché è ragionevole che uno stato di crisi dal punto di vista delle scienze economiche, dal punto di vista giuridico possa già equivalere a stato di insolvenza.
Tuttavia è doveroso lasciare aperto il campo al fatto che vi sia vera crisi diversa dall’insolvenza; se così accade il tema della compatibilità costituzionale sembrerebbe riproporsi. Sennonché, la forza anche immaginifica dell’art. 42 cost. andrebbe rivista al lume del fatto che l’art. 41 cost. narra che l'iniziativa economica privata è libera e non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale.
Ed allora sarebbe utile verificare se lasciare all’imprenditore una totale autonomia nella gestione della crisi, senza poter fantasticare su una possibile alternativa che venga dal mercato, significhi garantire l’utilità sociale dell’impresa e più di qualche dubbio mi permetterei di nutrirlo.
Se l’impresa rappresenta anche un valore etico, forse non è eretico pensare che l’autonomia decisionale del debitore non debba essere assoluta, perlomeno le quante volte il processo di ristrutturazione preveda uno stralcio dei crediti perché in tal caso si ha un bel dire che l’imprenditore è solo in crisi, ma se non paga i suoi creditori i maestri del diritto commerciale ci hanno insegnato che quell’imprenditore è bellamente insolvente.
In tale cornice, per come è congegnato il meccanismo, non mi par proprio che venga posto in discussione il profilo dell’autonomia del debitore che si trova in stato di crisi. Infatti, nell’art. 163 si stabilisce che le proposte concorrenti non possono trovare spazio quando la proposta di concordato assicura il pagamento di almeno il quaranta (o del trenta nel caso di piano di continuità aziendale) per cento dei crediti chirografari; ma allora, non si può parlare di crisi in presenza di uno stralcio significativo dei crediti. Il che ci porta a riconoscere che le digressioni teoriche su crisi e insolvenza rispetto alle proposte concorrenti, si rivelano del tutto sterili. Non possiamo, infatti, pensare che uno stralcio del 60% dei crediti sia compatibile con uno stato di crisi.
Sdoganato questo tema ideologico, meritano un po’ di attenzione altri due temi.
Da una parte ci si chiede se il debitore possa, ancora, coltivare l’interesse a proporre un concordato sapendo che potrà sopraggiungere qualcun altro che, già ammortizzati i costi informativi della predisposizione del piano, tutti a carico del debitore, potrà formulare una proposta migliore. È ben vero che si tende ad offrire una risposta negativa ma a mio avviso sulla scorta di una visione distorta.
Il concordato preventivo è un procedimento volto alla regolazione del concorso concordatario e non è (né deve essere vissuto come) un salvacondotto per il debitore; non a caso, da tempo vado ripetendo che è decettivo far credere agli organi sociali che col concordato saranno al riparo da rischi penali (qui si dovrebbe spalancare una distesa digressione sul tema del ritardo col quale la tutela penale va al traino delle modifiche civilistiche) e dalle azioni di responsabilità.
Ed il concorso concordatario dovrebbe avere come obiettivo quello di massimizzare i risultati attesi dai creditori, senza che ciò sia condizionato dal fatto che l’attività d’impresa prosegue o cessa e dal fatto che la continuità d’impresa sia assicurata dal debitore o da un terzo. È ormai passato molto tempo da quando si è avvertito che le sorti dell’impresa e del suo imprenditore vanno tenute distinte, o comunque possono non coincidere.
In tale contesto, se qualcuno è in grado di presentare ai creditori una proposta più credibile, non vedo la ragione per la quale questo percorso non sia da reputare virtuoso e non credo che ciò spinga il debitore verso il crinale del fallimento, non fosse altro che per il fatto che una volta dichiarato il fallimento, il terzo ha dei vantaggi competitivi importanti (accesso temporale agevolato, limitazione di responsabilità e acquisizione delle azioni di massa) sul fallito quanto a proponibilità del concordato fallimentare.
Al contrario, il rischio delle proposte ostili dovrebbe costituire un incentivo a che il debitore formuli, da subito, la sua migliore proposta possibile, così evitandosi stucchevoli rilanci endoconcordatari che il più delle volte incardinano inappropriati negoziati tra il debitore e gli organi della procedura.
Non condivido l’obiezione di chi assume che sarebbe necessario che le proposte siano comparabili per omogeneità. Se, infatti, lo spirito della competizione è quello di mettere sul piano una proposta migliore per i creditori, non vedo la ragione per la quale un concordato liquidatorio proposto dai creditori debba essere penalizzato rispetto al concordato con piano di continuità avanzato dal debitore, se il primo offre qualcosa di più.
Dobbiamo avere ben presente che, con tutti i favori del caso (viste le opportunità di cui all’art. 186-bis e, soprattutto la piena e totale libertà di contenuti della proposta, non ancorata ad un valore minimo), il concordato non è uno strumento di risanamento delle imprese, ma una procedura di concorso per il soddisfacimento dei creditori.
Se si vuole trasformare il concordato preventivo in una amministrazione straordinaria negoziata lo si dica, ma sino a quando così non sarà, è inutile declamare i valori della continuità; per i creditori meglio un concordato preventivo liquidatorio ricco (quanto basta), che un concordato in continuità povero. Per tale ragione le proposte concorrenti ben possono avere un contenuto del tutto disomogeneo da quella del debitore. Ed ancora non vedo proprio perché la concorrenza andrebbe inibita in presenza di un piano di continuità. Il fatto che così sia conformato il piano, certo non vuol dire che l’impresa sia in crisi e non, insolvente; né, d’altra parte, il fatto che l’attestazione certifichi come vuole l’art. 186-bis che la continuazione dell’attività sia coerente col miglior interesse dei creditori, cambia il quadro perché se dalla liquidazione nulla di più si può ricavare, chi e cosa esclude che un terzo grazie a sinergie con la propria impresa possa proporre un piano migliore?
Dall’altra parte, però, occorre interrogarsi sul fatto se le tecnicalità normative siano allineate agli scopi perseguiti e sul punto più di qualche perplessità si impone. Non mi convince e non si spiega, nel raffronto con l’art. 124 l.fall., che le proposte possano provenire solo dai creditori (pur se si ammettono interventi collaterali di terzi). Né mi convince la tesi che se la proposta proviene dai creditori costoro possano votare; è ben vero che questa soluzione si traccia sul precedente costituito da Cass. 3274/2011, ma sarebbe stato preferibile elidere il voto e non acquietarsi per la scelta della necessaria formazione di una classe ad hoc che, francamente, mi appare un’opzione assente la quale neppure si sarebbe dovuto cominciare a discutere di proposte concorrenti. Ancora una volta, nel sistema è stato ripudiato un principio sacrosanto, quello del divieto di agire in conflitto di interessi, che nel nostro ordinamento stenta a decollare ovunque.
Sempre per restare sul piano delle tecnicalità, il meccanismo di confluenza delle proposte concorrenti mi pare eccessivamente farraginoso. Un termine “secco” dall’apertura del procedimento sarebbe stato preferibile e poi, in caso, di presentazione di proposte concorrenti, affidamento di una valutazione comparativa istruttoria del commissario giudiziale da destinare ai creditori.
Le modifiche all’art. 177 sono importanti, sia perché da una parte è ripristinato il sistema di voto del consenso esplicito, così superandosi il metodo del silenzio-assenso, sia perché ci si deve occupare del voto sulle proposte concorrenti.
Non v’è dubbio che tornare al sistema del voto esplicito per manifestare il consenso rappresenti un chiaro indizio della sfiducia verso i concordati e, ancora una volta, una soluzione distonica col concordato fallimentare; di sicuro vi saranno molti concordati che non risulteranno approvati perché ai creditori apatici tornerà comodo andare al traino dei creditori più importanti, e tuttavia la modifica non mi appare rilevante in chiave sistemica.
Piuttosto, risulta un poco complicato il meccanismo di voto per le offerte concorrenti. Innanzi tutto va chiarito che la pluralità delle proposte non abbassa il quoziente di approvazione, nel senso che la maggioranza vi sarà sempre e soltanto se si raggiungerà almeno la metà dei crediti ammessi al voto; peraltro, poiché le più proposte potrebbero provocare una dispersione del voto, si è immaginato che qualora, al termine del primo round, nessuna proposta abbia superato la soglia di maggioranza, la proposta meglio piazzata, andrebbe ad una sorta di barrage, per vedere se, eliminati i concorrenti, sulla proposta unica rimasta in competizione si può coagulare il voto di maggioranza. A tal proposito, a me pare che in presenza di proposte diverse, talune con suddivisione dei creditori in classi ed altre senza tale suddivisione, la prevalenza nella “fase eliminatoria” vada assicurata a quella che ha raggiunto la maggioranza totale più elevata, ma a condizione che vi sia la maggioranza delle classi (così, se il quoziente percentuale più elevato lo raggiunge la proposta A, ma in questa proposta vi sono più classi dissenzienti che assenzienti, escluderei che la proposta A, possa passare alla fase ulteriore).
Le complicazioni sopra accennate, impingono nel fatto che un creditore possa, legittimamente, esprimere consenso a più proposte, quando a suo avviso il concordato sia comunque preferibile rispetto al fallimento. Resta, però, che le complicazioni di una doppia votazione sono destinate ad allungare i tempi del procedimento; tempi già molto lunghi, in barba all’art. 181, visto che non raramente le votazioni sopraggiungono a distanza di oltre dodici mesi dall’avvio del procedimento.
Ci si è chiesti se di fronte alla presentazione di proposte concorrenti, il debitore possa ancora rinunciare alla domanda di concordato. Sino a quando non si è formato un consenso con la platea dei creditori a me pare che la rinuncia sia sicuramente praticabile anche se porta con sé la caducazione delle proposte concorrenti che presuppongo che sia aperto un procedimento di concordato. Sarà il debitore a valutare se sia per lui preferibile eliminare i concorrenti ritirando la domanda ma così esponendosi, credo ineluttabilmente, al fallimento, ovvero beneficiare dell’esdebitazione a seguito dell’omologazione ai sensi dell’art. 184.
IV. Assai maggiore condivisione mi sembra abbia raccolto il nuovo art. 163-bis che disciplina le “offerte concorrenti”, tant’è che se non mi inganno, non ha ricevuto correzioni di sorta nel passaggio parlamentare se non in direzione ampliativa.
È giusto che formulata una proposta di concordato da parte del debitore e avente un contenuto specifico in ordine al trasferimento di valori ad un soggetto determinato, si debba aprire una competizione?
La disposizione muove, all’evidenza, da alcuni, per vero sporadici, casi pratici che avevano visto offerte di terzi che i giudici hanno ritenuto di porre in competizione sul mercato. Orbene, sono noti i casi virtuosi, nei quali effettivamente è accaduto che il mercato abbia proposto soggetti diversi disponibili ad erogare somme maggiori ai creditori, ma sono assai meno noti tutti i casi, e sono di gran lunga la maggioranza, per i quali il mercato non abbia restituito alcun risultato utile.
Senza, dunque, indulgere in eccessive aspettative, occorre interrogarsi sulla valenza sistematica della novità, la cui cogenza perplime perché in tanti casi il sondaggio del mercato si rivelerà, solo una perdita di tempo.
Quando si postula che la proposta concordataria è una partizione di un atto di autonomia negoziale (la proposte formulata ai creditori di vedere regolata la crisi secondo le regole disciplinari del concorso concordatario), ben si comprende che l’imposizione di un segmento di proposta derivante dal mercato può conculcare il principio di autonomia negoziale.
Si stabilisce, infatti, che all’esito della gara “il debitore deve modificare la proposta e il piano di concordato in conformità all’esito della gara”. Tale disposizione non persuade affatto se non la si interpreta (perlomeno) nel senso che il debitore deve essere libero, prima che si formi il consenso dei creditori, di poter rinunciare alla domanda di concordato. Un conto sono le proposte concorrenti nelle quali taluno si presenta come il regolatore della crisi assumendosene tutti gli impegni e con l’estraniazione del debitore dalla gestione dell’impresa (questo è quanto si può ricavare dall’art. 185 l.fall. che avrebbe più semplicemente dovuto prevedere, di default, che in caso di proposta concorrente la gestione dell’impresa è affidata ad un commissario ad acta che deve dialogare col terzo proponente), altro conto sono le offerte concorrenti che si pongono in competizione con un terzo e non col debitore. Il debitore deve “ingozzare” l’offerta concorrente, quasi che operasse un meccanismo simile e quelle dell’etero-integrazione negoziale in presenza di clausole nulle, ma qui ci muoviamo in un campo che non ha contaminazioni con le nullità.
Per quanto, poi, pertiene all’organizzazione della gara, ancora una volta pare che un approccio fortemente burocratico faccia premio sull’efficienza. Una volta aperta la procedura concorsuale, i giochi debbono sbocciare subito e si deve conseguire il più rapidamente possibile una certezza sullo sviluppo del procedimento. Qui il nostro sistema sconta un handicap rilevante perché in nome della trasparenza i procedimenti si conformano a modelli tutt’altro che snelli e rapidi. Se c’è una azienda che può essere contesa, e se questa azienda può sopravvivere solo con investimenti e con il sostegno di finanziatori esterni, è chiaro che l’intervento per il passaggio della titolarità (ancorché, anche, provvisoria) deve essere immediato. Si stabiliscano le cautele del caso, ma nella consapevolezza della distanza fra funzionamento dell’impresa e diritto.
Le note vicende di queste settimane sui difficili rapporti fra magistratura ed economia con riferimento al prisma della tutela penale, offrono un quadro molto articolato sul quale è necessario formulare delle riflessioni di sistema, certo replicabili nella cornice dei rapporti fra magistratura e crisi d’impresa.
Occorre dissociare i fenomeni repressivi dalle emergenze economiche. Se da una parte di fronte alle responsabilità non debbono essere tollerati sconti, dall’altra parte le sorti dell’impresa debbono essere sganciate dalle responsabilità, ferme restando anche le responsabilità delle società.
Una volta chiarito che la frode evocata nell’art. 173 l.fall. (una disposizione paradigma al punto da avere formato una generazione di commissari giudiziali che si autoproclamano “specialisti in 173”) rileva tanto sul piano soggettivo (dell’inganno ai creditori), quanto sul piano oggettivo (della preparazione scientifica del dissesto), le responsabilità vanno considerate per tali e dunque da addebitare ai protagonisti, ma senza che ciò impatti necessariamente sull’impresa se questa può essere salvata perché, diversamente dislocata, può ancora generare valore.
V. In tale contesto comprendo l’introduzione di norme dirette a premiare la continuità aziendale, quale quella che non pone limiti di sorta alla misura del soddisfacimento dei creditori quando il piano concordatario prevede la continuità d’impresa ai sensi dell’art. 186-bis. Preoccupa, però, il fatto che per poter contare su questo beneficio (la non necessità di assicurare il pagamento del 20% dei crediti chirografari), molti debitori e molti professionisti reclutati alla bisogna si indirizzeranno verso la presentazione di concordati in continuità velleitari o, peggio, tali conformati solo sulla carta. Un serio piano di concordato che prevede una vera continuità d’impresa è esercizio molto complesso ed anche molto rischioso perché può provocare una distruzione delle aspettative dei creditori concorsuali a beneficio di creditori prededucibili.
Per una sorte di eterogenesi dei fini si può ipotizzare che molti concordati in continuità non potranno ricevere la valutazione di coerenza con l’obiettivo del miglior interesse dei creditori, perché il miglior interesse sarebbe allocato in un concordato liquidatorio ma improponibile perché non supportato da un’offerta pari al 20% delle passività chirografarie.
L’introduzione della soglia minima di soddisfacimento dei creditori chirografari è, all’evidenza, il frutto di pressioni di ceti imprenditoriali scompaginati dalla presentazione di proposte numerarie inaccettabili.
Non mi scandalizza affatto questo nostalgico ritorno al passato, purché si abbia la cura di dichiarare apertamente che non si otterrà in concreto alcun risultato positivo in termini di effettività nella tutela del credito. Se si vuole che la proposta abbia una misura minima, ciò avrà un significato solo in chiave punitiva, non in chiave propulsiva.
Il non accorto legislatore si è sicuramente dimenticato che sino al 2005, alle proposte concordatarie che si infrangevano sul limite del 40% del soddisfacimento dei creditori chirografari, faceva seguito, sempre, la dichiarazione di fallimento, ma di un fallimento nel quale un ruolo preminente era giocato dalle azioni revocatorie. Senza il polmone compensativo delle azioni revocatorie, cosa resterà ai creditori dei concordati liquidatori insufficienti? Una liquidazione più burocratica e, in casi davvero marginali, qualche spicciolo di azione revocatoria.
L’aver voluto imporre al commissario giudiziale (nuovo art. 172) ciò che, in verità, sempre avrebbe dovuto fare e cioè prospettare ai creditori i potenziali vantaggi comparativi del fallimento, è frutto di buone intenzioni ma di inadeguate consapevolezze. Le azioni revocatorie nel decennio 2005-2015 sono sostanzialmente scomparse (frutto del pluralismo delle esenzioni e dell’addizione del dimezzamento del periodo sospetto), mentre quelle risarcitorie, se per esse si intendono le azioni di responsabilità, sono di sicuro praticabili anche nel concordato preventivo. Ma, al contempo, avremo tanti stati passivi in più, tante impugnazioni, tante istanze dei curatori e tante interlocuzioni col giudice.
Ed allora, se la scelta è di impronta sanzionatoria, se ne prenda atto e la si accetti come tale. Ma se la si intende come funzionale ad ottenere per i creditori migliori risultati, credo sia meglio non farsi illusioni. Se un concordato liquidatorio offre ai creditori il 10% e il fallimento lo zero, perché non debbono essere i creditori a deciderlo?
Ma, il nuovo segmento dell’art. 160 disturba ancor di più per la scelta di aver voluto marcare che ai creditori deve essere offerto il “pagamento”, termine assai preciso che espunge altre possibili forme di soddisfacimento come l’accollo o la datio in solutum. Tra l’altro questo innesto marginalizza un altro innesto, nell’art. 161, volto a prevedere che il debitore debba dar conto di quale utilità offre a ciascun creditore con la proposta concordataria.
Diversamente da quanti hanno opinato il contrario, l’avere utilizzato il lemma “utilità”, consentiva al debitore di frazionare ancor di più le modalità di soddisfacimento dei creditori, posto che si potevano ricomprendere il beneficio immediato degli “scarichi” fiscali, così come la contrattualizzazione di nuovi rapporti commerciali, così come, ancora, modalità estintive dell’obbligazione diverse dal denaro, col risultato di legittimare pienamente la formazione di classi di creditori ai quali può non essere promesso neppure un euro in pagamento, ma ai quali deve, invece, essere promesso qualcosa di diverso economicamente misurabile.
Messa da parte la sciocca obiezione che sarebbe stato troppo esigere questa valutazione per ciascun creditore, visto che all’evidenza l’utilità andava valutata categoria per categoria di creditori (essendo all’interno della medesima categoria identica l’utilità), oggi la previsione sembra divenire coerente nel solo caso del piano concordatario con continuità aziendale, o nel solo caso di un surplus nel concordato liquidatorio. Mi spiego meglio: se la proposta di concordato prevede il pagamento del 25% dei crediti chirografari, è chiaro che l’utilità è il pagamento; si potrebbe, però, ipotizzare che a taluni creditori, in ragione della previsione di suddivisione in classi, sia possibile offrire il 20% in denaro e un surplus mediante una diversa utilità.
VI. Ove, prima del d.l. 83/2015, si fosse organizzato un quiz fra gli operatori su quale norma del concordato avesse provocato nell’ultimo biennio più attenzione da parte dei giudici, la risposta sarebbe stata scontata: l’art. 169-bis.
I provvedimenti che hanno come oggetto la sorte dei contratti pendenti nel concordato preventivo non si contano. L’art. 169-bis è stato sezionato, lemma per lemma, col risultato di un approdo giurisprudenziale ancora frastagliato, in assenza di un intervento del giudice di legittimità. Conscio di tale congerie di problemi, molti dei quali a mio avviso creati artatamente, il legislatore ha operato alcune correzioni ed in primo luogo ha definito il perimetro applicativo dei contratti omogeneizzandolo con quello di cui all’art. 72 (anche se proprio così non è, perché la regola dell’art. 169-bis si giustappone alle singole discipline dei contratti nel fallimento).
La nuova disciplina contiene, però, un errore di fondo. Infatti, quando si ammette che lo scioglimento del contratto possa essere richiesto anche dopo l’ammissione alla procedura, per ciò solo si rinnega la concorsualizzazione dell’indennizzo; l’indennizzo aveva una sua base razionale nel fatto che lo scioglimento del contratto risalisse al momento dell’ingresso in procedura, mentre se lo scioglimento può essere oggetto di una richiesta successiva, le obbligazioni maturate non possono più considerarsi concorsuali e debbono essere trattate col favore della prededuzione (ciò di cui, in verità, proprio si parla nel novellato articolo), talché non si vede per quale motivo possa avere un diverso trattamento l’indennizzo.
Risulta opportuno che la legge preveda espressamente l’instaurazione del contraddittorio con la parte in bonis, anche se si poteva fare riferimento al modello del processo cautelare per consentire una efficacia immediata al decreto di scioglimento con un provvedimento adottato inaudita altera parte e sottoposto a successiva verifica. Ma, una volta introdotto il contraddittorio, come può il contraente difendersi da quello che sembra uno stato di soggezione mera se non si spiega per quali ragioni lo scioglimento è ammesso? Bastava, senza grandi intuizioni, rendere omogenea la valutazione sullo scioglimento a quella dettata altrove e sintetizzata nel miglior interesse dei creditori; così si offrirebbe al contraente la chance di dimostrare che lo scioglimento non persegue affatto tale interesse ma è, soltanto, punitivo nei confronti del mantenimento di una determinata obbligazione ritenuta soggettivamente “pesante”.
VII. Il d.l. 83/2015 contiene, però, anche degli istituti nuovi che vanno ad irrobustire ulteriormente il palinsesto degli strumenti di composizione negoziale della crisi. Non mi soffermerò sull’ennesimo caso di finanziamento allocato nell’art. 182-quinquies, se non per osservare che presto occorrerà una sorta di testo unico perché le sovrapposizioni sono così tante che chiunque fatica a comprendere, di ciascuno, l’esatto spettro applicativo. Piacerebbe, però, che al cospetto di così tante ipotesi disciplinari, finalmente gli istituti finanziari decidessero, davvero, di erogare i finanziamenti per la ristrutturazione.
Ma, si diceva, vi sono anche due nuovi modelli di negoziazione assistita per la gestione della crisi.
In senso ascendente nell’approccio alla crisi (ma discendente nella stesura dell’art. 182-septies), non ho colto interesse per gli accordi di moratoria. Poiché sono stato uno dei pochi che si sia occupato di questi accordi assai diffusi nella prassi ma sconosciuti al legislatore, debbo esprimere apprezzamento per il fatto che, in modo davvero poco invasivo, si sia voluto offrire una disciplina normativa soft, volta però a cercare di dare una svolta a questi accordi che presentano delle sicure utilità, specie per le imprese in funzionamento, ma che scontavano, quasi sempre, tempi di gestazione troppo lunghi, quasi sempre causati da quale istituto finanziatore free rider. Mi pare che dare rilievo ad una maggioranza qualificata di creditori da un lato, senza comprimere le specificità di singole posizioni dall’altro, possa costituire un adeguato punto di equilibrio. È ben vero che si va ad incidere sul dogma della relatività degli effetti del contratto, ma non va trascurato che è la legge che consente delle deroghe.
Così pure si superano i limiti soggettivi del contratto nella nuova release degli accordi di ristrutturazione che potremmo qualificare come “gli accordi di ristrutturazione finanziaria a maggioranza”; una definizione che pare quasi un ossimoro, ma che vuole subito porre in evidenza che può concorrere alla formazione della soglia di adesioni anche qualche creditore finanziario riluttante, che però si trova in una posizione di (direi “perfetta”) omogeneità con altri creditori finanziari aderenti.
Sappiamo che dal 2010, quando si decretò che la prededuzione era nozione compatibile con gli accordi di ristrutturazione, si è aperto il dibattito (con stimoli normativi assai più congrui che in precedenza) sulla permanente possibilità di annoverare gli accordi di ristrutturazione come uno strumento estraneo al perimetro delle procedure concorsuali.
Man mano che le riforme si sono implementate si è assistito ad un processo, quasi inesorabile, di concorsualizzazione degli accordi ex art. 182-bis. Benché il colpo assestato col nuovo art. 182-septies sia di rilevantissimo impatto, il guado che separa gli accordi dalla concorsualità a me pare ancora netto perché il debitore non è spossessato, perché non esiste un provvedimento di apertura di un procedimento, perché i creditori aderenti possono essere trattati differentemente (anche se ora, forzatamente), perché non c’è un organo che vigila sul procedimento, perché non esiste una regola parallela a quella dell’art. 184 l.fall.
VIII. Nel d.l. 83/2015 compare una disposizione che taluno ha definito al pari di una azione revocatoria semplificata. L’art. 2929-bis c.c. stabilisce, infatti, che l’esecuzione è possibile anche contro beni che più non appartengono al debitore quando sono stati oggetto di negozi traslativi della proprietà (o della disponibilità) senza corrispettivo in danno dei creditori. Senza entrare nel merito della accettabilità di questo nuovo strumento di garanzia per i creditori, va preso atto che il legislatore consapevole della forzatura ha previsto che si possa proporre opposizione all’esecuzione secondo il modello di cui agli artt. 615 e 619 c.p.c.
Nella sostanza si assiste ad una inversione dell’iniziativa processuale: anziché essere il creditore che deve agire per ottenere la dichiarazione di inefficacia dell’atto per poi agire esecutivamente, si ribaltano le posizioni ed è il debitore (o il terzo) che debbono agire per impedire che il bene sia assoggettato ad espropriazione. Si resta, quindi, perfettamente all’interno della tutela giurisdizionale tipica e il debitore può affrontare in un ordinario giudizio di cognizione (quali solo gli incidenti cognitivi di natura oppositoria all’interno del processo esecutivo) il tema dell’esistenza del suo diritto.
Forse “scopiazzando” tale nuova norma, il legislatore concorsuale si è fatto ingolosire ed ha stabilito che la trascrizione della sentenza di fallimento produce l’effetto dell’inefficacia ex lege per gli atti a titolo gratuito. Premesso che questa soluzione concerne solo una fetta degli atti a titolo gratuito (ovverosia quelli che sono soggetti a pubblicità), a me pare davvero inaccettabile il rimedio offerto al terzo che subisce l’effetto di inefficacia dell’atto. Il nuovo art. 64 prevede, così, che il terzo possa dolersi dell’inefficacia proponendo reclamo ex art. 36 l.fall.; viene, dunque, offerto al terzo un rimedio lontano anni luce dai principi in tema di tutela giurisdizionale, visto che il reclamo contro gli atti del curatore pertiene agli atti di amministrazione mentre questo è, all’evidenza, un atto che comporta la sottrazione di un diritto.
Sarebbe bastato applicare il rimedio innestato nell’art. 2929-bis c.c., per porre un freno alla deriva a-giurisdizionale, ma non si è voluto ascoltare nessuno e si è preferito seguire la via del voto di fiducia con la caduta degli emendamenti correttivi.
Si tratta, è vero, di una fattispecie un po’ di nicchia ma è esemplificativa della disattenzione verso le tematiche della tutela giurisdizionale.
Il principio della certezza delle regole processuali non può essere messo in discussione.
Il dibattito sulla giurisprudenzializzazione del nostro ordinamento è noto; che questo dipenda dalla desertificazione della politica o dalla pervasiva esuberanza dei giudici, poco rileva qui, ed ora. La questione è, nella sua declinazione concorsuale, drammaticamente attuale.
Il diritto fallimentare conosce incessantemente una incandescente stagione di predominio della giurisprudenza perché è nelle cose che il diritto vivente di una materia così sempre evolvente sia rimesso ai giudici e a quelli di merito in particolare, posto che le pronunce della Suprema Corte spesso arrivano tardivamente. Ma allora per bilanciare questo fattore non vedo alcuna seria alternativa ad immaginare (e di questo spero la “Commissione Rordorf” se ne voglia occupare, cosa che al momento non sembra) che di fronte ad una decisione del tribunale su una lite sulla crisi d’impresa siano offerti rimedi rapidi ma soprattutto efficaci.
Nel d.l. 83/2015 le buone intenzioni sono palesi: qui e là si stabilisce di accelerare il corso delle procedure (dalla durata della liquidazione alla chiusura del fallimento) e persino si è introdotta, nell’art. 43 l.fall., una norma che invita i giudici a trattare prioritariamente le liti fallimentari.
Il vero nodo, però, non è questo ma quello rappresentato dalle decisioni sull’ingresso in procedura e sull’uscita dalle procedure. Sono queste le decisioni che incidono sull’assetto degli interessi dell’impresa e dei soggetti che con essa intrattengono relazioni. È qui che bisogna intervenire; si deve dare effettività alle pronunce, ma, soprattutto, occorre che un altro giudice possa esercitare un controllo sulla decisione quando questo è ancora utile per la vitalità dell’impresa.
Oggi il diritto fallimentare è un diritto ultra-municipalizzato e privo di una seconda opportunità reale; se viene ingiustamente dichiarato il fallimento di una impresa, si può tornare indietro davvero o si deve, come accade oggi, mettere in bacheca, al modo di un trofeo, una mera vittoria processuale?
Per molti anni tanti hanno creduto di poter agire sul giocattolino del processo civile per pervenire a soluzioni celeri delle liti; ma poi ci si è accorti che non solo questo obiettivo era non perseguibile, ma, peggio, la stratificazione di norme processuale si era risolta nella creazione di un percorso fatto di trappole disseminate ovunque e tali da favorire decisioni in rito, anziché decisioni sul diritto in contesa.
Ecco, allora, che nello spicchio della tutela giurisdizionale dei procedimenti concorsuali, servono poche regole processuali, certe ma effettive e tali da far resuscitare il principio della strumentalità del processo, in modo che la parte che ha ragione, dal processo possa ottenere tutto e proprio tutto ciò che il diritto sostanziale gli garantisce.
Da ultimo, una conclusione che funga da assist per la “Commissione Rordorf”. Una volta dichiarato il fallimento o lo stato di insolvenza, dovremmo immaginare una impugnativa immediata (il nome poco importa), a cura di chiunque vi abbia interesse ma che sia parte del processo svoltosi davanti al tribunale, da proporre in tempi ristrettissimi (3/5 gg.), con termini a difesa altrettanto brevi per garantire un minimo di contraddittorio, in modo da giungere ad una decisione entro 10/15 gg.
Questa impugnazione dovrebbe avere la funzione di rimuovere provvisoriamente, o già definitivamente, il provvedimento adottato dal tribunale. La parte che impugna può avvalersi dei nomali termini di gravame e del mezzo ordinario (reclamo?), ma può anche ritenere preferibile una cognizione deformalizzata e sommaria che gli possa dare meno garanzie in termini di accertamento del diritto ma, al contempo, una vera seconda opportunità sul piano della rapidità.
Il giudice del gravame avrebbe la possibilità di decidere definitivamente nel caso di manifesta fondatezza, infondatezza, ammissibilità o inammissibilità dell’impugnazione, oppure di re-indirizzare il procedimento sul binario ordinario. Ma, almeno la speranza che una decisione non sia valore da “collezionisti”, sarebbe assicurata. Chiamatelo, se volete, reclamo sommario…
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