Bancario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 09/06/2005 Scarica PDF
"Equo trattamento" e cura dell'interesse nella prestazione dei servizi di investimento
Daniele Maffeis, Professore Ordinario di Diritto Privato* L'articolo rappresenta una prima stesura di un più completo articolo in corso di preparazione da parte dell'Autore.
1. Cura dell'interesse di ciascun cliente o parità di trattamento dei clienti
Interpreto il precetto di "equo trattamento in situazioni di conflitto di
interessi" contenuto nell'art. 21, comma 1 lett. c) del T.U.F. nel senso
che la banca deve curare nella sostanza l'interesse di ciascun singolo
cliente[1].
Ma da taluno si afferma[2] che "equo trattamento" significherebbe
"pari trattamento dei clienti"[3].
Se il significato del precetto fosse quello di parità di trattamento, la banca
potrebbe, a seconda della situazione del mercato (bad state of nature), in
situazioni non predeterminate di "conflitto di interessi",
sacrificare l'interesse di un cliente nella misura richiesta dall'esigenza di
tutelare contemporaneamente l'interesse degli altri clienti[4]. In altre
parole, la banca sarebbe adempiente sol che evitasse "che il conflitto si
risolva in trattamenti privilegiati di uno o più clienti, a danno di altri"[5]
(tenuto conto ovviamente della disuguaglianza di fatto tra le diverse categorie
di clienti, com'è tipico di qualsiasi applicazione del principio di
uguaglianza, anche in diritto privato[6]).
Conviene muovere dalla rilettura dell'art. 21, comma 1, lett. c), il quale
detta una disciplina dell'attività ed una disciplina dell'atto, prevedendo che
il prestatore del servizio di investimento, se non può evitare situazioni di
conflitto di interessi, deve "organizzarsi in modo tale da ridurre al
minimo il rischio di conflitti di interesse" e che "in situazioni di
conflitto, (deve) agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza
ed equo trattamento".
È utile invertire l'ordine della norma ed esaminare la disciplina dell'atto - e
così l'obbligo di equo trattamento -.
2. Le regole in materia di conflitto di interessi nel contratto e l'esclusione
dell'applicazione della teoria comunitaria della parità di trattamento
Per argomentare a sostegno della "parità di trattamento" un peso è
stato attribuito alla lettera ed all'argomento a contrario, cioè a criteri
ermeneutici che, deboli di per sé, nella nostra materia sono anche facilmente
sovvertibili. Si è sostenuto, così, che, interpretato come "cura
dell'interesse del cliente", il precetto nulla aggiungerebbe al generale
precetto di agire nell'interesse del cliente anche fuori da situazioni di
conflitto di interessi[7].
L'argomento è facilmente sovvertibile considerando che l'art. 21, comma 1,
lett. c), quando prescrive che i soggetti abilitati alla prestazione dei
servizi di investimento devono, in situazioni di conflitto, agire in modo da
assicurare ai clienti trasparenza ed equo trattamento, utilizza l'espressione "comunque"
la quale potrebbe in realtà indicare che il precetto dell'"equo
trattamento" sia quello stesso che vale in via generale anche fuori da
situazioni di conflitto di interessi, e dunque sia il precetto di agire
nell'interesse.
Ma non è sul piano delle disquisizioni lessicali che è utile confrontarsi.
Piuttosto, la tesi della "parità di trattamento" sembra affondare le
radici nelle c.d. teorie comunitarie della parità, che si richiamano al
principio aristotelico, analizzato nell'Etica a Nicomaco[8], della giustizia
distributiva[9].
L'idea è che il soggetto tenuto a certe prestazioni omogenee o di identica
natura nei confronti di più soggetti debba osservare un criterio di "pari
trattamento" in situazioni in cui non tutti i diversi creditori possono
essere soddisfatti pienamente.
Il fondamento delle teorie comunitarie della parità di trattamento è ravvisato
in una "crisi della concorrenza" che determinerebbe in quello
specifico mercato l'insorgenza di un rapporto comunitario fra i più creditori
di uno stesso debitore (nel nostro caso, si tratterebbe dei clienti della
banca) e consentirebbe al debitore (nel nostro caso, la banca) di liberarsi
osservando, appunto, la parità di trattamento[10].
Era stata all'inizio del ventesimo secolo (1914) la giurisprudenza tedesca[11],
spesso richiamata dalla dottrina tedesca[12] ed anche da quella italiana[13],
ad identificare una "comunità" fra i creditori di un medesimo
debitore di più prestazioni aventi ad oggetto cose rientranti in un genus
limitato[14]. Il corollario di quella teoria era che il debitore, in caso di
perimento parziale, non avrebbe dovuto considerarsi inadempiente nei confronti
di alcuno dei creditori, quando avesse ripartito in maniera uguale fra tutti i
suoi creditori le cose non perite[15].
Applicata oggi alla nostra materia, la teoria comporterebbe che i clienti della
banca costituiscano una "comunità" e che quindi in presenza di un
determinato "conflitto di interessi" si giustifichi una "parità
di trattamento"[16].
Un sostegno a siffatta lettura potrebbe giungere dal testo della Direttiva
93/22/CEE del Consiglio del 10 maggio 1993 (art. 10) ed ora della Direttiva
2004/39/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 (art. 19
comma 1) le quali contengono un riferimento ai "conflitti di
interesse", non solo "fra imprese e clienti", bensì anche
"fra due clienti"[17].
Il "conflitto di interessi fra clienti" di cui al fraseggio del
legislatore comunitario potrebbe essere ricondotto al concetto di
"convergenza di una pluralità di aspirazioni verso una risorsa o un
beneficio almeno potenzialmente insufficiente a soddisfarle tutte", cioè
al concetto di fondo al quale si ispira la dottrina comunitaria della parità di
trattamento[18].
La teoria della comunità è stata generalmente respinta in quanto contraria alle
regole in materia di responsabilità contrattuale[19].
Ai nostri fini essa può essere respinta facendo corretta applicazione delle
regole che governano il conflitto di interessi nel contratto.
Quando il soggetto tenuto ad adempiere nei confronti di più creditori non è un
normale contraente, ma è un sostituto (cooperatore), quello che a prima vista -
o ad un approccio di carattere economico - può apparire un "conflitto di
interessi" fra i creditori è, a ben vedere, dal punto di vista giuridico,
un conflitto di interessi tra il sostituto e ciascun singolo sostituito.
Non è affatto inusuale che il conflitto di interessi nel contratto si presenti,
dal punto di vista economico, come un conflitto di interessi fra uno ed altro
dominus di un comune gestore. Ad un caso come questo è dedicato l'art. 1395
cod.civ., che disciplina il conflitto di interessi del doppio rappresentante.
Non solo. Il caso normale di applicazione giurisprudenziale dell'art. 1394
cod.civ. è quello in cui l'interesse di cui il gestore si fa portatore, in
conflitto con quello del dominus, è riconducibile ad un soggetto diverso dal
gestore[20]. Resta quindi fermo che la formula "conflitto di interessi fra
clienti" di cui alle Direttive indica semplicemente la situazione in cui
la banca deve curare l'interesse di ciascun cliente e pertanto che la banca è
responsabile per l'inadempimento del contratto sottostante e la singola
operazione è impugnabile se, in caso di conflitto con l'interesse di un
cliente, la banca si sia fatta portatrice dell'interesse di un altro cliente.
Quali esempi di conflitto nel senso economico fra gli interessi di più clienti
consideriamo quello della pluralità di incarichi e dell'esecuzione per conto di
uno o di alcuni clienti di operazioni che possono influire sul prezzo di valori
mobiliari e quindi sulle condizioni delle operazioni da compiersi per conto di
altri clienti; consideriamo altresì l'esempio della selezione fra clienti per
operazioni su valori mobiliari molto convenienti, ma effettuabili soltanto in
ammontare limitato.
Questi esempi sicuramente comportano dal punto di vista economico un conflitto
di interessi tra clienti, ma, dal punto di vista giuridico, comportano una
pluralità di situazioni di conflitto di interessi tra i singoli clienti ed il
prestatore di servizi[21]; il quale, sembrerebbe superfluo evidenziarlo, non si
trova in una situazione di atarassia rispetto alle scelte che è chiamato a
compiere, bensì sarà sempre condotto da considerazioni di tornaconto
imprenditoriale a favorire l'uno o l'altro cliente (normalmente, quello che gli
affida il patrimonio più cospicuo o il cliente private rispetto al
risparmiatore).
[1] D. MAFFEIS, Conflitto di interessi nel contratto e rimedi, Milano, 2002,
487; D. MAFFEIS, Conflitto di interessi nella prestazione di servizi di
investimento: la prima sentenza sulla vendita a risparmiatori di obbligazioni
argentine, Banca borsa tit.cred., 2004, II, 464.
[2] L'osservazione è formulata da F. ANNUNZIATA, La disciplina del mercato
mobiliare, Torino, 2001, 109 il quale sottolinea che, per essere espressamente
prevista dalla legge per le sole ipotesi in cui sussista una situazione di
conflitto di interessi, la norma deve rivestire un significato autonomo
rispetto a quello del generale obbligo del prestatore di agire correttamente,
con trasparenza e con diligenza professionale nell'interesse del cliente.
[3] Il riferimento all'"equo trattamento" è "assolutamente
oscuro" secondo M. DE POLI, Politica del diritto e drafting
nell'attuazione delle direttive comunitarie in materia di consumatore, in G.
SICCHIERO (cur.), Autonomia contrattuale e diritto privato europeo, Padova,
2005, 110 nt. 50.
[4] Non si tratta ovviamente di dubitare che la banca sia tenuta nei confronti
di tutti i clienti ad agire con la stessa diligenza professionale (G. ALPA,
Nuovi aspetti della tutela del risparmiatore. L'esperienza italiana tra diritto
comunitario e diritto interno, in R. Alessi (cur.), Diritto Europeo e autonomia
contrattuale, Palermo, 1999, 87). Se fosse questo il significato del precetto
di equo trattamento, la previsione sarebbe inutile, perché l'uguaglianza dei
clienti di fronte alla banca è già la conseguenza del fatto che il dovere di
diligenza professionale vincola la banca nei confronti di ciascun cliente. In
altre parole, non si tratterebbe di un obbligo privatistico di pari trattamento
a carico della banca, bensì del principio costituzionale di uguaglianza formale
- qui, dei clienti della banca - davanti alla legge, cioè agli artt. 1218, 1176
cod.civ., 21 e 23 T.U.F. e così via (art. 3, comma 1 Cost.). Neppure si tratta
di richiamare in vita la previsione legislativa dell'obbligo della banca di
"assicura(re) integrale parità di trattamento nei confronti dei clienti
della stessa azienda o istituto, a parità di condizioni soggettive dei
clienti" (Art. 8 l. 1 marzo 1986, n. 64, rubricato "Uniformità del
trattamento praticato da aziende ed istituti di credito": "Le aziende
e gli istituti di credito, salve le disposizioni della presente legge, debbono
praticare, in tutte le proprie sedi principali e secondarie, filiali, agenzie e
dipendenze, per ciascun tipo di operazione bancaria, principale o accessoria,
tassi e condizioni uniformi, assicurando integrale parità di trattamento nei
confronti dei clienti della stessa azienda o istituto, a parità di condizioni
soggettive dei clienti, ma esclusa, in ogni caso, la rilevanza della loro
località di insediamento o della loro sfera di operatività territoriale".
La paternità di questa "parità di trattamento" era da attribuire a
Gustavo Minervini e caratterizzava il "nuovo ordinamento bancario":
R. COSTI, L'ordinamento bancario, Bologna, 1994, 521 ss. e cfr. 473 al richiamo
della nota 81 e nella nota stessa.): previsione già abrogata parecchio tempo
prima che la banca svolgesse servizi di investimento (Art. 4 l. 19 dicembre
1992, n. 488: "Ferme restando le autorizzazioni di spesa di cui
all'articolo 1, comma 1, della legge 1° marzo 1986, n. 64, e l'applicazione
fino al 31 dicembre 1993 delle norme di cui all'articolo 17, commi 1 e 10,
della legge medesima, sono soppressi con decorrenza 1° maggio 1993 gli articoli
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 16, 17 e 18 della citata legge 1 marzo 1986, n.
64"), rimasta comunque pressoché lettera morta (Ma tredici anni dopo la
sua abrogazione avvenuta in data 1 maggio 1993 Cass., 25 febbraio 2005 (in www.dirittobancario.it)
ha avuto occasione di applicare l'art. 8 l. 64/1986 essendo chiamata a decidere
intorno alla validità di una clausola contenuta in un contratto concluso in
data 25 giugno 1991. La Corte Suprema ha dichiarato la nullità della clausola
di determinazione degli interessi "uso piazza" - per il periodo tra
il 25 giugno 1991 e l'entrata in vigore della legge 154/1992, che ha imposto la
forma scritta ad substantiam della clausola - motivando che l'art. 8 sarebbe
norma imperativa che imponeva la parità di trattamento e quindi vietava
"la differenziazione dei tassi d'interesse in relazione alle singole zone
del territorio (con salvezza solo dei tassi più favorevoli espressamente
previsti dalla legge stessa per le zone svantaggiate")) e la cui ratio era
di evitare trattamenti diversificati, in ragione della collocazione
territoriale dei clienti, sul piano della predisposizione da parte della banca
delle condizioni economiche e normative dei rapporti.
[5] F. ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare, Torino, 2001, 109. M.
MIOLA - P. PISCITELLO, in G.F. Campobasso, L'Eurosim, Milano, 1997, 120
sembrano opinare per l'interpretazione del precetto come obbligo di parità di
trattamento all'interno delle diverse categorie di clienti allorché osservano
che "l'equità non potrebbe essere intesa come esigenza di parità di
trattamento in senso assoluto (...) posto che lo stesso d.lgs. 415/1996,
conformandosi all'art. 11, ult.comma, della Direttiva, prevede la
differenziazione delle modalità di comportamento a seconda che si tratti di
clienti che siano investitori professionali o meno"; "la
differenziazione di trattamento non costituirà violazione dell'equità, allorché
sia giustificata dalla diversa qualifica dei clienti e da apposite disposizioni
in tal senso. Nel contempo, allorché la differenziazione si dimostri
arbitraria, la mancata previsione del criterio dell'equità non esclude la
ricomprensione di tale situazione tra le violazioni della clausola generale di
correttezza". Contra G. VISENTINI, La disciplina del conflitto d'interessi
nel mercato mobiliare, in Nuova giur. civ. comm., 2002, II, 486 che così si
esprime: è "ambiguo (...) il principio indicato nell'equo trattamento: il
gestore deve avere di mira l'esclusivo interesse del cliente. (...) Certamente
se affido al gestore il mio patrimonio, intendo che faccia il mio interesse,
non che operi l'equo trattamento (il corsivo è dell'A.) del mio patrimonio con
quello degli altri clienti"; F. SARTORI, Le regole di condotta degli
intermediari finanziari, Milano, 2004, 292; P. MOROZZO DELLA ROCCA, Appunti
sulla responsabilità dell'intermediario nel rapporto di gestione personalizzata
di portafogli, in Riv. crit. dir. priv., 1991, 892. Secondo G. ALPA,
Svolgimento dei servizi, in F. Capriglione (cur.), La disciplina degli intermediari
e dei mercati finanziari, Padova, 1996, 141 il significato di "equo
trattamento" è di cura dell'interesse del cliente; successivamente (G.
ALPA, Nuovi aspetti della tutela del risparmiatore. L'esperienza italiana tra
diritto comunitario e diritto interno, in R. Alessi (cur.), Diritto Europeo e
autonomia contrattuale, Palermo, 1999, 87) l'A. ha chiarito che "equità
(...) può voler dire parità di trattamento tra tutti gli investitori della
medesima categoria (perché) nella ripartizione dei rischi, nell'esecuzione
degLi ordini, nella soddisfazione del cliente non vi possono essere
"favoritismi"" ed ha precisato che "Equità significa anche
tenere conto degli interessi dei clienti, sia dal punto di vista della perfetta
esecuzione del servizio, sia dal punto di vista della loro promozione".
Per diritto tedesco il
precetto è tradotto nelle parole seguenti (§ 32 par. 1, n. 2 WpHG) "An
investment firm shall (...) try to avoid conflicts of interest and, when they
cannot be avoided, ensure that the client's order is executed with due observance
of the client's interest".
[6] In materia di servizi di investimento M. MIOLA - P. PISCITELLO,
L'Eurosim, in G.F. Campobasso, L'Eurosim, Milano, 1997, 120. Costituisce
nozione di base di ogni teoria dell'uguaglianza che il trattamento diverso può
giustificarsi anche in considerazione di distinzione formali tra categorie di
soggetti; D. CARUSI, Principio di eguaglianza, diritto singolare e privilegio.
Rileggendo i saggi di Pietro Rescigno, Napoli, 1998, 12. Adde V. ROPPO,
Questioni in tema di formazione del consenso, obbligo legale a contrarre e pari
trattamento degli utenti di un'impresa monopolista (A proposito di contratti
standard per la somministrazione di energia elettrica), in Giur.it., 1979, I,
1, 157.
[7] L'obbligo sancito dall'art. 21, comma 1, lett. a) è di "agire
nell'interesse dei clienti (al plurale: il corsivo è mio).
[8] V, 5, 1130, b ove accanto alla giustizia distributiva - che presuppone una
comunità degli individui - compare, come è noto, la giustizia correttiva, che
mira a pareggiare vantaggi e svantaggi volontari o involontari nei rapporti, in
generale, fra gli uomini.
[9] E. HEINITZ, Il principio del "trattamento eguale"
(Gleichbehandlung) nel diritto del lavoro tedesco, in Riv.trim.dir.proc.civ.,
1959, 177 ed in particolare 189: "Il dovere di non riservare
arbitrariamente un trattamento peggiore ad uno dei lavoratori in confronto con
gli altri, presuppone che il datore di lavoro e i prestatori d'opera si trovino
in una comunione quale è quella costituita dall'azienda: altrimenti il giudizio
comparativo sul trattamento dei lavoratori perde la sua ragion d'essere".
Adde M. DELL'UTRI, Poteri privati, interessi legittimi e forme di tutela, in
Riv.dir.civ., 1997, II, 54.[
[10] Cfr. D. CARUSI, Principio di eguaglianza, diritto singolare e privilegio.
Rileggendo i saggi di Pietro Rescigno, Napoli, 1998, 19.
[11] La giurisprudenza del Reichsgericht e la dottrina tedesca fondavano la
soluzione anche su di un generico dovere di buona fede.
[12] GOETZ HUECK, Der
Grundsatz del gleichmässigen Behandlung im Privatrecht, München u. Berlin,
1958, 188 ss.
[13] P. RESCIGNO, Il principio di eguaglianza nel diritto privato, già
pubblicato in Riv.trim.dir.proc.civ., 1959, 515 ss., ora in P. Rescigno, Per
una biblioteca di diritto privato (la seconda metà del novecento), Napoli,
2004, 20.
[14] Non si tratta di Drittwirkung del principio costituzionale di uguaglianza.
Lo chiarisce P. RESCIGNO, Sul cosiddetto principio costituzionale d'uguaglianza
nel diritto privato, in Foro it., 1966, I, 1, col. 668. La soluzione del
Reichsgericht del 1914 - Reichsgericht, 3. II. 1914, la cui motivazione è
riportata in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, Gruppe I
Bürgerliches Rechts, Recht des Schuldverhältnisse - è richiamata, per essere
criticata, da L. MOSCO, voce "Impossibilità sopravvenuta", in Enc.dir.,
s.d. ma Milano, 1970, 434. Analoga alla soluzione del Reichsgericht è una delle
soluzioni che si trovano in common law dove, in tema di frustration, in
presenza di more than one contract si ipotizza l'adozione del c.d. principle of
pro rata division che, tuttavia, appare criticabile perché condurrebbe ad una
modify del contract, anzi che ad un discharge; cfr. G. TREITEL, The law of
contract, London, 10 ed., 1999, 817.
[15] La ripartizione pro quota costituisce pacificamente il criterio per la
distribuzione fra più soggetti di beni o servizi in presenza di un obbligo di
parità di trattamento; così, il monopolista legale o il soggetto in posizione
dominante devono accogliere solo parzialmente le eventuali richieste anormali
che potrebbero impedire la futura soddisfazione di nuove richieste ed in caso
di più richieste simultanee incompatibili devono soddisfare tutte le richieste
in misura proporzionale. Si vedano in dottrina M. LIBERTINI - P.M. SANFILIPPO,
voce Obbligo a contrarre, in Digesto IV, Disc.priv., s.d. ma Torino, 1995, 502
i quali sostengono (503, nota 161) che "dovrebbe (...) ravvisarsi, in tal
caso, una causa di giustificazione dei correlativi inadempimenti
parziali"; si veda anche Comm. CE, 19 aprile 1977, ABG/Società petrolifere
operanti nei paesi bassi, in Giur.ann.dir.ind., 1977, n. 991.[
16] Secondo P. RESCIGNO, Il principio di eguaglianza nel diritto privato, già
pubblicato in Riv.trim.dir.proc.civ., 1959, 515 ss., ora in P. Rescigno, Per
una biblioteca di diritto privato (la seconda metà del novecento), Napoli,
2004, 20 "la parità di trattamento in diritto privato suppone in ogni caso
una "comunità" ora volontaria (...) ora legale (...) ora riconosciuta
dalla legge soltanto con riguardo alla soluzione di un determinato conflitto di
interessi (...)". L'opinione è ripresa da D. CARUSI, Principio di
eguaglianza, diritto singolare e privilegio. Rileggendo i saggi di Pietro
Rescigno, Napoli, 1998, 14. La nozione di "comunità" come base della
"parità di trattamento" è ripresa da GOETZ HUECK, Der Grundsatz del
gleichmässigen Behandlung im Privatrecht, München u. Berlin, 1958, 153, 169 ss.
Ma già nel suo fondamentale studio L. RAISER, Il principio d'eguaglianza nel
diritto privato, prolusione del 30 novembre 1946 all'Università di Göttingen,
ora in L. RAISER, Il compito del diritto privato, a cura di C.M. Mazzoni,
Milano, 1990, 22 discorreva di "comunanza causale e ordinaria derivante
dalla dipendenza dalla stessa fonte d'acquisto".
[17] In questo contesto, il sintagma "conflitto di interessi" non
richiama l'istituto tipico delle ipotesi di sostituzione nel compimento di atti
giuridici né assume significato normativo; esso si limita ad indicare dal punto
di vista economico la presenza di più interessi cui corrisponde una prestazione
omogenea, quella del prestatore di servizi, e che sono, dal punto di vista
economico, "in conflitto", perché si assume che il prestatore di
servizi non potrà assicurare la cura di tutti gli interessi, bensì dovrà
sacrificarne, in qualche misura, tutti od alcuni. Il problema riguarda i
servizi di investimento per i quali non sono previste norme specifiche per
disciplinare questi casi. Dunque il problema riguarda principalmente il
contratto di gestione (ma anche nel servizio di collocamento si può porre il
problema del conflitto, in senso economico, fra interessi di diversi clienti;
sul punto F. SARTORI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari,
Milano, 2004, 87) caratterizzato dalla discrezionalità del potere decisionale
che il cliente attribuisce al prestatore del servizio per la migliore
valorizzazione del patrimonio, dal momento che norme specifiche sulle modalità
ed i tempi di esecuzione dei diversi ordini esistono per i servizi di
negoziazione e di ricezione e trasmissione ordini. L'art. 32, comma 1 del
Regolamento Consob 11522 del 1998 dispone che "Nella prestazione dei
servizi di negoziazione, gli intermediari autorizzati eseguono gli ordini
rispettando la priorità di tempo nella loro ricezione". L'art. 33, comma 1
e 2 dispone che "Nella prestazione del servizio di ricezione e
trasmissione di ordini gli intermediari autorizzati trasmettono tempestivamente
gli ordini ricevuti (...) nello stesso ordine con cui sono stati
ricevuti". In questi casi, il criterio di soluzione del conflitto risiede
nell'imputazione ex lege dei risultati dell'operazione al cliente secondo i
criteri previsti dalla normativa sicché l'operazione più vantaggiosa posta in
essere infedelmente dall'intermediario deve essere imputata al cliente che,
seguendo i criteri imposti per l'esecuzione degli ordini, vi ha diritto: D.
MAFFEIS, Conflitto di interessi nel contratto e rimedi, Milano, 2002, 511 ss.
in particolare 513.
[18] Così, per spiegare il fondamento della nozione di "comunità", D.
CARUSI, Principio di eguaglianza, diritto singolare e privilegio. Rileggendo i
saggi di Pietro Rescigno, Napoli, 1998, 19. Per la verità, resterebbe l'aporia
logica, di equiparare un conflitto di interessi al suo esatto opposto, cioè una
comunione di interessi, nozione assai vicina a comunità di interessi;
l'osservazione è in W. DE BOOR, Die Kollision von Forderungsrechten,
Berlin-Wien, 1928, 20 ss.; P. BYDLINSKI, Der Gleichheitsgrundsatz im
österreichischen Privatrecht, in Verhandlungen des ersten österreichischen
Juristentages, Wien, 1961, I, 37.
[19] Nel criticare la soluzione offerta dalla giurisprudenza tedesca e ripresa
dalla dottrina successiva, sottolinea D. CARUSI, Principio di eguaglianza,
diritto singolare e privilegio. Rileggendo i saggi di Pietro Rescigno, Napoli,
1998, 35 che "nel caso (...) dell'impossibilità di adempimento integrale
di una pluralità di debiti del medesimo genere, dovrebbe riconoscersi - alla
luce delle esposte considerazioni sulla disciplina della responsabilità del
debitore - l'insindacabilità degli atti di adempimento eseguiti secondo l'ordine
delle richieste o comunque a discrezione del debitore, purché si tratti di
adempimento di obbligazioni già scadute e respingersi dunque la soluzione
prospettata in Germania, della proporzionale falcidia di tutti i crediti".
La soluzione è criticata e respinta anche da F.D. BUSNELLI, L'obbligazione
soggettivamente complessa, Milano, 1974, 373 ss. il quale pone esattamente in
rilievo come non sia individuabile una comunità a fronte di "più crediti
autonomi" seppure "convergenti verso lo stesso genus limitato".
Anche G. PASETTI, Parità di trattamento e autonomia privata, Padova, 1970, 27
evidenzia la mancanza fra i creditori di "legami comuni riconosciuti
giuridicamente" e (135 ss.) e così esclude (139) "la soluzione
paritaria nell'ipotesi (...) di più obbligazioni autonome seppure in qualche
modo connesse dal riferimento a uno stesso genus limitatum" così, tra
l'altro, argomentando (146): "(Non) sembra che una soluzione paritaria
potrebbe qui essere fondata sulla analogia con il fallimento, secondo quanto
sostenuto dalla dottrina tedesca, e ciò non soltanto (...) per le esigenze di
carattere pubblico di questo istituto, o per la difficoltà di realizzare in
concreto la parità di trattamento, ma soprattutto perché in virtù di
quell'analogia si dovrebbe disapplicare la regola prior tempore mentre il
fondamento e la finalità della par condicio nella esecuzione concorsuale non
sono isolabili dall'essenziale presupposto della insolvenza, che comunque non
sussiste quando si versi in materia di estinzione e non di inadempimento
dell'obbligazione". G. OPPO, Eguaglianza e contratto nelle società per
azioni, in Riv.dir.civ., 1974, I, 639 evidenzia, nel caso della "pluralità
di creditori dello stesso debitore", la mancanza di un "legame
giuridicamente avvertibile". Si è anche osservato che la nozione di
"comunità" sarebbe inservibile perché eccessivamente vaga o
addirittura contradditoria: P. BYDLINSKI, Der Gleichheitsgrundsatz im
österreichischen Privatrecht, in Verhandlungen des ersten österreichischen
Juristentages, Wien, 1961, I, 43 ss.; G. PASETTI, Parità di trattamento e
autonomia privata, Padova, 1970, 136; G. OPPO, Eguaglianza e contratto nelle
società per azioni, in Riv.dir.civ., 1974, I, 639; adde F.D. BUSNELLI,
L'obbligazione soggettivamente complessa, Milano, 1974, 372 ss. La teoria
appare fortemente deficitaria sul piano della individuazione dei rimedi e delle
tutele conseguenti, com'è del resto riconosciuto dall'autorevole dottrina che,
da noi, ne ha ricevuto, dagli studiosi tedeschi, i fondamenti: P. RESCIGNO, Il
principio di eguaglianza nel diritto privato, già pubblicato in
Riv.trim.dir.proc.civ., 1959, 515 ss., ora in P. Rescigno, Per una biblioteca
di diritto privato (la seconda metà del novecento), Napoli, 2004, 35:
"Meno agevole (...) riesce cogliere il modo d'operare del principio
d'uguaglianza e le reazioni del sistema quando la parità di trattamento sia
violata".
[20] Cass., 3 luglio 2000, n. 8879, in Foro it., Rep. 2000, voce
"Rappresentanza nei contratti", n. 8 ed in Arch.civ., Mass. 2001,
633; Cass., 17 aprile 1996, n. 3630, in Foro it., Rep. 1996, voce
"Rappresentanza nei contratti", n. 14; Cass., 16 febbraio 1994, n.
1498, in Foro it., Rep. 1994, voce "Rappresentanza nei contratti", n.
9; Cass., 19 settembre 1992, n. 10749, in Giust.civ., 1993, I, 3055; Cass., 25
gennaio 1992, n. 813 in Foro it., Rep. 1992, voce "Rappresentanza nei
contratti", n. 13; Cass., 25 giugno 1985, n. 3836, in Giur. it., 1986, I,
col. 886. Era la Relazione al Re che considerava il solo "interesse
proprio" del rappresentante come suscettibile di porsi in
"conflitto" - o: in "opposizione" - con l'interesse del
rappresentato.
[21] Non a caso gli esempi riportati nel testo sono abitualmente ricondotti al
conflitto di interessi fra cliente e gestore; si veda A. MASI, Le condotte
illecite degli intermediari finanziari, Torino, 1998, 66 s.
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