Bancario


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 09/06/2005 Scarica PDF

"Equo trattamento" e cura dell'interesse nella prestazione dei servizi di investimento

Daniele Maffeis, Professore Ordinario di Diritto Privato


* L'articolo rappresenta una prima stesura di un più completo articolo in corso di preparazione da parte dell'Autore.



1. Cura dell'interesse di ciascun cliente o parità di trattamento dei clienti
Interpreto il precetto di "equo trattamento in situazioni di conflitto di interessi" contenuto nell'art. 21, comma 1 lett. c) del T.U.F. nel senso che la banca deve curare nella sostanza l'interesse di ciascun singolo cliente[1].

Ma da taluno si afferma[2] che "equo trattamento" significherebbe "pari trattamento dei clienti"[3].


Se il significato del precetto fosse quello di parità di trattamento, la banca potrebbe, a seconda della situazione del mercato (bad state of nature), in situazioni non predeterminate di "conflitto di interessi", sacrificare l'interesse di un cliente nella misura richiesta dall'esigenza di tutelare contemporaneamente l'interesse degli altri clienti[4]. In altre parole, la banca sarebbe adempiente sol che evitasse "che il conflitto si risolva in trattamenti privilegiati di uno o più clienti, a danno di altri"[5] (tenuto conto ovviamente della disuguaglianza di fatto tra le diverse categorie di clienti, com'è tipico di qualsiasi applicazione del principio di uguaglianza, anche in diritto privato[6]).


Conviene muovere dalla rilettura dell'art. 21, comma 1, lett. c), il quale detta una disciplina dell'attività ed una disciplina dell'atto, prevedendo che il prestatore del servizio di investimento, se non può evitare situazioni di conflitto di interessi, deve "organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse" e che "in situazioni di conflitto, (deve) agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento".


È utile invertire l'ordine della norma ed esaminare la disciplina dell'atto - e così l'obbligo di equo trattamento -.

2. Le regole in materia di conflitto di interessi nel contratto e l'esclusione dell'applicazione della teoria comunitaria della parità di trattamento

Per argomentare a sostegno della "parità di trattamento" un peso è stato attribuito alla lettera ed all'argomento a contrario, cioè a criteri ermeneutici che, deboli di per sé, nella nostra materia sono anche facilmente sovvertibili. Si è sostenuto, così, che, interpretato come "cura dell'interesse del cliente", il precetto nulla aggiungerebbe al generale precetto di agire nell'interesse del cliente anche fuori da situazioni di conflitto di interessi[7].

L'argomento è facilmente sovvertibile considerando che l'art. 21, comma 1, lett. c), quando prescrive che i soggetti abilitati alla prestazione dei servizi di investimento devono, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare ai clienti trasparenza ed equo trattamento, utilizza l'espressione "comunque" la quale potrebbe in realtà indicare che il precetto dell'"equo trattamento" sia quello stesso che vale in via generale anche fuori da situazioni di conflitto di interessi, e dunque sia il precetto di agire nell'interesse.


Ma non è sul piano delle disquisizioni lessicali che è utile confrontarsi.

Piuttosto, la tesi della "parità di trattamento" sembra affondare le radici nelle c.d. teorie comunitarie della parità, che si richiamano al principio aristotelico, analizzato nell'Etica a Nicomaco[8], della giustizia distributiva[9].

L'idea è che il soggetto tenuto a certe prestazioni omogenee o di identica natura nei confronti di più soggetti debba osservare un criterio di "pari trattamento" in situazioni in cui non tutti i diversi creditori possono essere soddisfatti pienamente.

Il fondamento delle teorie comunitarie della parità di trattamento è ravvisato in una "crisi della concorrenza" che determinerebbe in quello specifico mercato l'insorgenza di un rapporto comunitario fra i più creditori di uno stesso debitore (nel nostro caso, si tratterebbe dei clienti della banca) e consentirebbe al debitore (nel nostro caso, la banca) di liberarsi osservando, appunto, la parità di trattamento[10].


Era stata all'inizio del ventesimo secolo (1914) la giurisprudenza tedesca[11], spesso richiamata dalla dottrina tedesca[12] ed anche da quella italiana[13], ad identificare una "comunità" fra i creditori di un medesimo debitore di più prestazioni aventi ad oggetto cose rientranti in un genus limitato[14]. Il corollario di quella teoria era che il debitore, in caso di perimento parziale, non avrebbe dovuto considerarsi inadempiente nei confronti di alcuno dei creditori, quando avesse ripartito in maniera uguale fra tutti i suoi creditori le cose non perite[15].

Applicata oggi alla nostra materia, la teoria comporterebbe che i clienti della banca costituiscano una "comunità" e che quindi in presenza di un determinato "conflitto di interessi" si giustifichi una "parità di trattamento"[16].

Un sostegno a siffatta lettura potrebbe giungere dal testo della Direttiva 93/22/CEE del Consiglio del 10 maggio 1993 (art. 10) ed ora della Direttiva 2004/39/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 (art. 19 comma 1) le quali contengono un riferimento ai "conflitti di interesse", non solo "fra imprese e clienti", bensì anche "fra due clienti"[17].


Il "conflitto di interessi fra clienti" di cui al fraseggio del legislatore comunitario potrebbe essere ricondotto al concetto di "convergenza di una pluralità di aspirazioni verso una risorsa o un beneficio almeno potenzialmente insufficiente a soddisfarle tutte", cioè al concetto di fondo al quale si ispira la dottrina comunitaria della parità di trattamento[18].

La teoria della comunità è stata generalmente respinta in quanto contraria alle regole in materia di responsabilità contrattuale[19].

Ai nostri fini essa può essere respinta facendo corretta applicazione delle regole che governano il conflitto di interessi nel contratto.

Quando il soggetto tenuto ad adempiere nei confronti di più creditori non è un normale contraente, ma è un sostituto (cooperatore), quello che a prima vista - o ad un approccio di carattere economico - può apparire un "conflitto di interessi" fra i creditori è, a ben vedere, dal punto di vista giuridico, un conflitto di interessi tra il sostituto e ciascun singolo sostituito.


Non è affatto inusuale che il conflitto di interessi nel contratto si presenti, dal punto di vista economico, come un conflitto di interessi fra uno ed altro dominus di un comune gestore. Ad un caso come questo è dedicato l'art. 1395 cod.civ., che disciplina il conflitto di interessi del doppio rappresentante.

Non solo. Il caso normale di applicazione giurisprudenziale dell'art. 1394 cod.civ. è quello in cui l'interesse di cui il gestore si fa portatore, in conflitto con quello del dominus, è riconducibile ad un soggetto diverso dal gestore[20]. Resta quindi fermo che la formula "conflitto di interessi fra clienti" di cui alle Direttive indica semplicemente la situazione in cui la banca deve curare l'interesse di ciascun cliente e pertanto che la banca è responsabile per l'inadempimento del contratto sottostante e la singola operazione è impugnabile se, in caso di conflitto con l'interesse di un cliente, la banca si sia fatta portatrice dell'interesse di un altro cliente.

Quali esempi di conflitto nel senso economico fra gli interessi di più clienti consideriamo quello della pluralità di incarichi e dell'esecuzione per conto di uno o di alcuni clienti di operazioni che possono influire sul prezzo di valori mobiliari e quindi sulle condizioni delle operazioni da compiersi per conto di altri clienti; consideriamo altresì l'esempio della selezione fra clienti per operazioni su valori mobiliari molto convenienti, ma effettuabili soltanto in ammontare limitato.

Questi esempi sicuramente comportano dal punto di vista economico un conflitto di interessi tra clienti, ma, dal punto di vista giuridico, comportano una pluralità di situazioni di conflitto di interessi tra i singoli clienti ed il prestatore di servizi[21]; il quale, sembrerebbe superfluo evidenziarlo, non si trova in una situazione di atarassia rispetto alle scelte che è chiamato a compiere, bensì sarà sempre condotto da considerazioni di tornaconto imprenditoriale a favorire l'uno o l'altro cliente (normalmente, quello che gli affida il patrimonio più cospicuo o il cliente private rispetto al risparmiatore).


[1] D. MAFFEIS, Conflitto di interessi nel contratto e rimedi, Milano, 2002, 487; D. MAFFEIS, Conflitto di interessi nella prestazione di servizi di investimento: la prima sentenza sulla vendita a risparmiatori di obbligazioni argentine, Banca borsa tit.cred., 2004, II, 464.
[2] L'osservazione è formulata da F. ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare, Torino, 2001, 109 il quale sottolinea che, per essere espressamente prevista dalla legge per le sole ipotesi in cui sussista una situazione di conflitto di interessi, la norma deve rivestire un significato autonomo rispetto a quello del generale obbligo del prestatore di agire correttamente, con trasparenza e con diligenza professionale nell'interesse del cliente.
[3] Il riferimento all'"equo trattamento" è "assolutamente oscuro" secondo M. DE POLI, Politica del diritto e drafting nell'attuazione delle direttive comunitarie in materia di consumatore, in G. SICCHIERO (cur.), Autonomia contrattuale e diritto privato europeo, Padova, 2005, 110 nt. 50.
[4] Non si tratta ovviamente di dubitare che la banca sia tenuta nei confronti di tutti i clienti ad agire con la stessa diligenza professionale (G. ALPA, Nuovi aspetti della tutela del risparmiatore. L'esperienza italiana tra diritto comunitario e diritto interno, in R. Alessi (cur.), Diritto Europeo e autonomia contrattuale, Palermo, 1999, 87). Se fosse questo il significato del precetto di equo trattamento, la previsione sarebbe inutile, perché l'uguaglianza dei clienti di fronte alla banca è già la conseguenza del fatto che il dovere di diligenza professionale vincola la banca nei confronti di ciascun cliente. In altre parole, non si tratterebbe di un obbligo privatistico di pari trattamento a carico della banca, bensì del principio costituzionale di uguaglianza formale - qui, dei clienti della banca - davanti alla legge, cioè agli artt. 1218, 1176 cod.civ., 21 e 23 T.U.F. e così via (art. 3, comma 1 Cost.). Neppure si tratta di richiamare in vita la previsione legislativa dell'obbligo della banca di "assicura(re) integrale parità di trattamento nei confronti dei clienti della stessa azienda o istituto, a parità di condizioni soggettive dei clienti" (Art. 8 l. 1 marzo 1986, n. 64, rubricato "Uniformità del trattamento praticato da aziende ed istituti di credito": "Le aziende e gli istituti di credito, salve le disposizioni della presente legge, debbono praticare, in tutte le proprie sedi principali e secondarie, filiali, agenzie e dipendenze, per ciascun tipo di operazione bancaria, principale o accessoria, tassi e condizioni uniformi, assicurando integrale parità di trattamento nei confronti dei clienti della stessa azienda o istituto, a parità di condizioni soggettive dei clienti, ma esclusa, in ogni caso, la rilevanza della loro località di insediamento o della loro sfera di operatività territoriale". La paternità di questa "parità di trattamento" era da attribuire a Gustavo Minervini e caratterizzava il "nuovo ordinamento bancario": R. COSTI, L'ordinamento bancario, Bologna, 1994, 521 ss. e cfr. 473 al richiamo della nota 81 e nella nota stessa.): previsione già abrogata parecchio tempo prima che la banca svolgesse servizi di investimento (Art. 4 l. 19 dicembre 1992, n. 488: "Ferme restando le autorizzazioni di spesa di cui all'articolo 1, comma 1, della legge 1° marzo 1986, n. 64, e l'applicazione fino al 31 dicembre 1993 delle norme di cui all'articolo 17, commi 1 e 10, della legge medesima, sono soppressi con decorrenza 1° maggio 1993 gli articoli 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 16, 17 e 18 della citata legge 1 marzo 1986, n. 64"), rimasta comunque pressoché lettera morta (Ma tredici anni dopo la sua abrogazione avvenuta in data 1 maggio 1993 Cass., 25 febbraio 2005 (in www.dirittobancario.it) ha avuto occasione di applicare l'art. 8 l. 64/1986 essendo chiamata a decidere intorno alla validità di una clausola contenuta in un contratto concluso in data 25 giugno 1991. La Corte Suprema ha dichiarato la nullità della clausola di determinazione degli interessi "uso piazza" - per il periodo tra il 25 giugno 1991 e l'entrata in vigore della legge 154/1992, che ha imposto la forma scritta ad substantiam della clausola - motivando che l'art. 8 sarebbe norma imperativa che imponeva la parità di trattamento e quindi vietava "la differenziazione dei tassi d'interesse in relazione alle singole zone del territorio (con salvezza solo dei tassi più favorevoli espressamente previsti dalla legge stessa per le zone svantaggiate")) e la cui ratio era di evitare trattamenti diversificati, in ragione della collocazione territoriale dei clienti, sul piano della predisposizione da parte della banca delle condizioni economiche e normative dei rapporti.
[5] F. ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare, Torino, 2001, 109. M. MIOLA - P. PISCITELLO, in G.F. Campobasso, L'Eurosim, Milano, 1997, 120 sembrano opinare per l'interpretazione del precetto come obbligo di parità di trattamento all'interno delle diverse categorie di clienti allorché osservano che "l'equità non potrebbe essere intesa come esigenza di parità di trattamento in senso assoluto (...) posto che lo stesso d.lgs. 415/1996, conformandosi all'art. 11, ult.comma, della Direttiva, prevede la differenziazione delle modalità di comportamento a seconda che si tratti di clienti che siano investitori professionali o meno"; "la differenziazione di trattamento non costituirà violazione dell'equità, allorché sia giustificata dalla diversa qualifica dei clienti e da apposite disposizioni in tal senso. Nel contempo, allorché la differenziazione si dimostri arbitraria, la mancata previsione del criterio dell'equità non esclude la ricomprensione di tale situazione tra le violazioni della clausola generale di correttezza". Contra G. VISENTINI, La disciplina del conflitto d'interessi nel mercato mobiliare, in Nuova giur. civ. comm., 2002, II, 486 che così si esprime: è "ambiguo (...) il principio indicato nell'equo trattamento: il gestore deve avere di mira l'esclusivo interesse del cliente. (...) Certamente se affido al gestore il mio patrimonio, intendo che faccia il mio interesse, non che operi l'equo trattamento (il corsivo è dell'A.) del mio patrimonio con quello degli altri clienti"; F. SARTORI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari, Milano, 2004, 292; P. MOROZZO DELLA ROCCA, Appunti sulla responsabilità dell'intermediario nel rapporto di gestione personalizzata di portafogli, in Riv. crit. dir. priv., 1991, 892. Secondo G. ALPA, Svolgimento dei servizi, in F. Capriglione (cur.), La disciplina degli intermediari e dei mercati finanziari, Padova, 1996, 141 il significato di "equo trattamento" è di cura dell'interesse del cliente; successivamente (G. ALPA, Nuovi aspetti della tutela del risparmiatore. L'esperienza italiana tra diritto comunitario e diritto interno, in R. Alessi (cur.), Diritto Europeo e autonomia contrattuale, Palermo, 1999, 87) l'A. ha chiarito che "equità (...) può voler dire parità di trattamento tra tutti gli investitori della medesima categoria (perché) nella ripartizione dei rischi, nell'esecuzione degLi ordini, nella soddisfazione del cliente non vi possono essere "favoritismi"" ed ha precisato che "Equità significa anche tenere conto degli interessi dei clienti, sia dal punto di vista della perfetta esecuzione del servizio, sia dal punto di vista della loro promozione".
Per diritto tedesco il precetto è tradotto nelle parole seguenti (§ 32 par. 1, n. 2 WpHG) "An investment firm shall (...) try to avoid conflicts of interest and, when they cannot be avoided, ensure that the client's order is executed with due observance of the client's interest".
[6] In materia di servizi di investimento M. MIOLA - P. PISCITELLO, L'Eurosim, in G.F. Campobasso, L'Eurosim, Milano, 1997, 120. Costituisce nozione di base di ogni teoria dell'uguaglianza che il trattamento diverso può giustificarsi anche in considerazione di distinzione formali tra categorie di soggetti; D. CARUSI, Principio di eguaglianza, diritto singolare e privilegio. Rileggendo i saggi di Pietro Rescigno, Napoli, 1998, 12. Adde V. ROPPO, Questioni in tema di formazione del consenso, obbligo legale a contrarre e pari trattamento degli utenti di un'impresa monopolista (A proposito di contratti standard per la somministrazione di energia elettrica), in Giur.it., 1979, I, 1, 157.
[7] L'obbligo sancito dall'art. 21, comma 1, lett. a) è di "agire nell'interesse dei clienti (al plurale: il corsivo è mio).
[8] V, 5, 1130, b ove accanto alla giustizia distributiva - che presuppone una comunità degli individui - compare, come è noto, la giustizia correttiva, che mira a pareggiare vantaggi e svantaggi volontari o involontari nei rapporti, in generale, fra gli uomini.
[9] E. HEINITZ, Il principio del "trattamento eguale" (Gleichbehandlung) nel diritto del lavoro tedesco, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1959, 177 ed in particolare 189: "Il dovere di non riservare arbitrariamente un trattamento peggiore ad uno dei lavoratori in confronto con gli altri, presuppone che il datore di lavoro e i prestatori d'opera si trovino in una comunione quale è quella costituita dall'azienda: altrimenti il giudizio comparativo sul trattamento dei lavoratori perde la sua ragion d'essere". Adde M. DELL'UTRI, Poteri privati, interessi legittimi e forme di tutela, in Riv.dir.civ., 1997, II, 54.[
[10] Cfr. D. CARUSI, Principio di eguaglianza, diritto singolare e privilegio. Rileggendo i saggi di Pietro Rescigno, Napoli, 1998, 19.
[11] La giurisprudenza del Reichsgericht e la dottrina tedesca fondavano la soluzione anche su di un generico dovere di buona fede.
[12] GOETZ HUECK, Der Grundsatz del gleichmässigen Behandlung im Privatrecht, München u. Berlin, 1958, 188 ss.
[13] P. RESCIGNO, Il principio di eguaglianza nel diritto privato, già pubblicato in Riv.trim.dir.proc.civ., 1959, 515 ss., ora in P. Rescigno, Per una biblioteca di diritto privato (la seconda metà del novecento), Napoli, 2004, 20.
[14] Non si tratta di Drittwirkung del principio costituzionale di uguaglianza. Lo chiarisce P. RESCIGNO, Sul cosiddetto principio costituzionale d'uguaglianza nel diritto privato, in Foro it., 1966, I, 1, col. 668. La soluzione del Reichsgericht del 1914 - Reichsgericht, 3. II. 1914, la cui motivazione è riportata in Entscheidungen des Reichsgerichts in Zivilsachen, Gruppe I Bürgerliches Rechts, Recht des Schuldverhältnisse - è richiamata, per essere criticata, da L. MOSCO, voce "Impossibilità sopravvenuta", in Enc.dir., s.d. ma Milano, 1970, 434. Analoga alla soluzione del Reichsgericht è una delle soluzioni che si trovano in common law dove, in tema di frustration, in presenza di more than one contract si ipotizza l'adozione del c.d. principle of pro rata division che, tuttavia, appare criticabile perché condurrebbe ad una modify del contract, anzi che ad un discharge; cfr. G. TREITEL, The law of contract, London, 10 ed., 1999, 817.
[15] La ripartizione pro quota costituisce pacificamente il criterio per la distribuzione fra più soggetti di beni o servizi in presenza di un obbligo di parità di trattamento; così, il monopolista legale o il soggetto in posizione dominante devono accogliere solo parzialmente le eventuali richieste anormali che potrebbero impedire la futura soddisfazione di nuove richieste ed in caso di più richieste simultanee incompatibili devono soddisfare tutte le richieste in misura proporzionale. Si vedano in dottrina M. LIBERTINI - P.M. SANFILIPPO, voce Obbligo a contrarre, in Digesto IV, Disc.priv., s.d. ma Torino, 1995, 502 i quali sostengono (503, nota 161) che "dovrebbe (...) ravvisarsi, in tal caso, una causa di giustificazione dei correlativi inadempimenti parziali"; si veda anche Comm. CE, 19 aprile 1977, ABG/Società petrolifere operanti nei paesi bassi, in Giur.ann.dir.ind., 1977, n. 991.[
16] Secondo P. RESCIGNO, Il principio di eguaglianza nel diritto privato, già pubblicato in Riv.trim.dir.proc.civ., 1959, 515 ss., ora in P. Rescigno, Per una biblioteca di diritto privato (la seconda metà del novecento), Napoli, 2004, 20 "la parità di trattamento in diritto privato suppone in ogni caso una "comunità" ora volontaria (...) ora legale (...) ora riconosciuta dalla legge soltanto con riguardo alla soluzione di un determinato conflitto di interessi (...)". L'opinione è ripresa da D. CARUSI, Principio di eguaglianza, diritto singolare e privilegio. Rileggendo i saggi di Pietro Rescigno, Napoli, 1998, 14. La nozione di "comunità" come base della "parità di trattamento" è ripresa da GOETZ HUECK, Der Grundsatz del gleichmässigen Behandlung im Privatrecht, München u. Berlin, 1958, 153, 169 ss. Ma già nel suo fondamentale studio L. RAISER, Il principio d'eguaglianza nel diritto privato, prolusione del 30 novembre 1946 all'Università di Göttingen, ora in L. RAISER, Il compito del diritto privato, a cura di C.M. Mazzoni, Milano, 1990, 22 discorreva di "comunanza causale e ordinaria derivante dalla dipendenza dalla stessa fonte d'acquisto".
[17] In questo contesto, il sintagma "conflitto di interessi" non richiama l'istituto tipico delle ipotesi di sostituzione nel compimento di atti giuridici né assume significato normativo; esso si limita ad indicare dal punto di vista economico la presenza di più interessi cui corrisponde una prestazione omogenea, quella del prestatore di servizi, e che sono, dal punto di vista economico, "in conflitto", perché si assume che il prestatore di servizi non potrà assicurare la cura di tutti gli interessi, bensì dovrà sacrificarne, in qualche misura, tutti od alcuni. Il problema riguarda i servizi di investimento per i quali non sono previste norme specifiche per disciplinare questi casi. Dunque il problema riguarda principalmente il contratto di gestione (ma anche nel servizio di collocamento si può porre il problema del conflitto, in senso economico, fra interessi di diversi clienti; sul punto F. SARTORI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari, Milano, 2004, 87) caratterizzato dalla discrezionalità del potere decisionale che il cliente attribuisce al prestatore del servizio per la migliore valorizzazione del patrimonio, dal momento che norme specifiche sulle modalità ed i tempi di esecuzione dei diversi ordini esistono per i servizi di negoziazione e di ricezione e trasmissione ordini. L'art. 32, comma 1 del Regolamento Consob 11522 del 1998 dispone che "Nella prestazione dei servizi di negoziazione, gli intermediari autorizzati eseguono gli ordini rispettando la priorità di tempo nella loro ricezione". L'art. 33, comma 1 e 2 dispone che "Nella prestazione del servizio di ricezione e trasmissione di ordini gli intermediari autorizzati trasmettono tempestivamente gli ordini ricevuti (...) nello stesso ordine con cui sono stati ricevuti". In questi casi, il criterio di soluzione del conflitto risiede nell'imputazione ex lege dei risultati dell'operazione al cliente secondo i criteri previsti dalla normativa sicché l'operazione più vantaggiosa posta in essere infedelmente dall'intermediario deve essere imputata al cliente che, seguendo i criteri imposti per l'esecuzione degli ordini, vi ha diritto: D. MAFFEIS, Conflitto di interessi nel contratto e rimedi, Milano, 2002, 511 ss. in particolare 513.
[18] Così, per spiegare il fondamento della nozione di "comunità", D. CARUSI, Principio di eguaglianza, diritto singolare e privilegio. Rileggendo i saggi di Pietro Rescigno, Napoli, 1998, 19. Per la verità, resterebbe l'aporia logica, di equiparare un conflitto di interessi al suo esatto opposto, cioè una comunione di interessi, nozione assai vicina a comunità di interessi; l'osservazione è in W. DE BOOR, Die Kollision von Forderungsrechten, Berlin-Wien, 1928, 20 ss.; P. BYDLINSKI, Der Gleichheitsgrundsatz im österreichischen Privatrecht, in Verhandlungen des ersten österreichischen Juristentages, Wien, 1961, I, 37.
[19] Nel criticare la soluzione offerta dalla giurisprudenza tedesca e ripresa dalla dottrina successiva, sottolinea D. CARUSI, Principio di eguaglianza, diritto singolare e privilegio. Rileggendo i saggi di Pietro Rescigno, Napoli, 1998, 35 che "nel caso (...) dell'impossibilità di adempimento integrale di una pluralità di debiti del medesimo genere, dovrebbe riconoscersi - alla luce delle esposte considerazioni sulla disciplina della responsabilità del debitore - l'insindacabilità degli atti di adempimento eseguiti secondo l'ordine delle richieste o comunque a discrezione del debitore, purché si tratti di adempimento di obbligazioni già scadute e respingersi dunque la soluzione prospettata in Germania, della proporzionale falcidia di tutti i crediti". La soluzione è criticata e respinta anche da F.D. BUSNELLI, L'obbligazione soggettivamente complessa, Milano, 1974, 373 ss. il quale pone esattamente in rilievo come non sia individuabile una comunità a fronte di "più crediti autonomi" seppure "convergenti verso lo stesso genus limitato". Anche G. PASETTI, Parità di trattamento e autonomia privata, Padova, 1970, 27 evidenzia la mancanza fra i creditori di "legami comuni riconosciuti giuridicamente" e (135 ss.) e così esclude (139) "la soluzione paritaria nell'ipotesi (...) di più obbligazioni autonome seppure in qualche modo connesse dal riferimento a uno stesso genus limitatum" così, tra l'altro, argomentando (146): "(Non) sembra che una soluzione paritaria potrebbe qui essere fondata sulla analogia con il fallimento, secondo quanto sostenuto dalla dottrina tedesca, e ciò non soltanto (...) per le esigenze di carattere pubblico di questo istituto, o per la difficoltà di realizzare in concreto la parità di trattamento, ma soprattutto perché in virtù di quell'analogia si dovrebbe disapplicare la regola prior tempore mentre il fondamento e la finalità della par condicio nella esecuzione concorsuale non sono isolabili dall'essenziale presupposto della insolvenza, che comunque non sussiste quando si versi in materia di estinzione e non di inadempimento dell'obbligazione". G. OPPO, Eguaglianza e contratto nelle società per azioni, in Riv.dir.civ., 1974, I, 639 evidenzia, nel caso della "pluralità di creditori dello stesso debitore", la mancanza di un "legame giuridicamente avvertibile". Si è anche osservato che la nozione di "comunità" sarebbe inservibile perché eccessivamente vaga o addirittura contradditoria: P. BYDLINSKI, Der Gleichheitsgrundsatz im österreichischen Privatrecht, in Verhandlungen des ersten österreichischen Juristentages, Wien, 1961, I, 43 ss.; G. PASETTI, Parità di trattamento e autonomia privata, Padova, 1970, 136; G. OPPO, Eguaglianza e contratto nelle società per azioni, in Riv.dir.civ., 1974, I, 639; adde F.D. BUSNELLI, L'obbligazione soggettivamente complessa, Milano, 1974, 372 ss. La teoria appare fortemente deficitaria sul piano della individuazione dei rimedi e delle tutele conseguenti, com'è del resto riconosciuto dall'autorevole dottrina che, da noi, ne ha ricevuto, dagli studiosi tedeschi, i fondamenti: P. RESCIGNO, Il principio di eguaglianza nel diritto privato, già pubblicato in Riv.trim.dir.proc.civ., 1959, 515 ss., ora in P. Rescigno, Per una biblioteca di diritto privato (la seconda metà del novecento), Napoli, 2004, 35: "Meno agevole (...) riesce cogliere il modo d'operare del principio d'uguaglianza e le reazioni del sistema quando la parità di trattamento sia violata".
[20] Cass., 3 luglio 2000, n. 8879, in Foro it., Rep. 2000, voce "Rappresentanza nei contratti", n. 8 ed in Arch.civ., Mass. 2001, 633; Cass., 17 aprile 1996, n. 3630, in Foro it., Rep. 1996, voce "Rappresentanza nei contratti", n. 14; Cass., 16 febbraio 1994, n. 1498, in Foro it., Rep. 1994, voce "Rappresentanza nei contratti", n. 9; Cass., 19 settembre 1992, n. 10749, in Giust.civ., 1993, I, 3055; Cass., 25 gennaio 1992, n. 813 in Foro it., Rep. 1992, voce "Rappresentanza nei contratti", n. 13; Cass., 25 giugno 1985, n. 3836, in Giur. it., 1986, I, col. 886. Era la Relazione al Re che considerava il solo "interesse proprio" del rappresentante come suscettibile di porsi in "conflitto" - o: in "opposizione" - con l'interesse del rappresentato.
[21] Non a caso gli esempi riportati nel testo sono abitualmente ricondotti al conflitto di interessi fra cliente e gestore; si veda A. MASI, Le condotte illecite degli intermediari finanziari, Torino, 1998, 66 s.



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