Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 16/01/2006 Scarica PDF
Il contraente e la disparità di trattamento delle controparti
Daniele Maffeis, Professore Ordinario di Diritto Privato1 - In via di
principio: insindacabilità della scelta se ed a quali condizioni contrattare
Secondo la disciplina dei "contratti in generale" (titolo II, libro
IV cod.civ.) il contraente - salvo il divieto di discriminazione a causa della
razza, etnia, nazionalità o religione - è libero di riservare alle sue
controparti una disparità di trattamento. Il contraente può contrattare con
Tizio ma non con Caio. Il contraente può determinare nel contratto con
Sempronio un prezzo diverso rispetto al contratto con Mevio. Neppure la teoria
"comunitaria" della parità di trattamento - che è stata
definitivamente accantonata anche negli ambiti del diritto privato in cui si
riprometteva di operare - ha mai scalfito il principio di autonomia privata
negli scambi di mercato.
La libertà di riservare alle controparti una disparità di trattamento si
manifesta - secondo le indicazioni della migliore dottrina - nella scelta se ed
a quali condizioni contrattare e costituisce manifestazione dell'autonomia
contrattuale (art. 1322 cod.civ.) all'interno di una disciplina, quella del
libro IV, che considera i rapporti contrattuali atomisticamente senza
attribuire rilevanza alla pluralità di vincoli contrattuali dello stesso
contraente.
Dunque, in via di principio la scelta del contraente di riservare una disparità
di trattamento alle sue controparti è insindacabile.
2 - La parità di trattamento tra disciplina generale e discipline speciali
Ma, istintivamente, il richiamo all'insindacabilità delle scelte del contraente
non appare risolutivo.
Sul piano delle linee evolutive del sistema va osservato che il fatto stesso
che il "mercato" esprima il "confine di liceità dell'iniziativa
economica" sembra non consentire di giustificare l'esercizio
dell'autonomia contrattuale all'infuori di un criterio di razionalità economica
o reasonableness.
Oggi "non basta una generica menzione della libertà contrattuale per
giustificare", ad es., "ogni rifiuto di contrarre", sicché
riesce difficile spiegare la libertà contrattuale con l'arbitrio ed appare
decisamente forzato il ricorso al (tranquillizzante) brocardo stat pro ratione
voluntas.
Quanto al dato più strettamente esegetico e positivo, l'affermazione di
principio secondo cui il contraente è libero di riservare alle sue controparti
una disparità di trattamento in particolare scegliendo se ed a quali condizioni
contrattare soffre di un'eccessiva generalizzazione.
Non solo bisognerebbe operare analitiche distinzioni - sempre restando sul
piano della disciplina del "contratto in generale" - a seconda che la
tecnica alla quale il contraente si sia affidato per accedere al mercato
consista in una pluralità di proposte individualizzate, o di inviti a proporre
individualizzati, o in offerte o inviti al pubblico (distinzioni più difficili
in fatto che in diritto: e già sulla questione se il comune negoziante possa
insindacabilmente rifiutare di vendere a Tizio una merce esposta si registra un
importante dissenso in dottrina).
Ciò che a noi qui maggiormente importa, bisogna procedere, tenendo ferma
l'affermazione di principio, dall'esame della disciplina del "contratto in
generale" all'esame delle discipline, contenute in leggi speciali o in
codici di settore, che concernono di volta in volta il contratto concluso dalla
pubblica amministrazione, dall'impresa con altra impresa (B2B), dall'impresa
con il consumatore (B2C), dal privato con altro privato (P2P).
Si scopre così che, in queste leggi speciali e codici di settore, ritorna
spesso una regola di parità di trattamento nel contratto.
È così possibile rendersi conto che il principio della libertà del contraente
di riservare alle controparti una disparità di trattamento è al centro di forti
tensioni, al punto che il capitolo della parità di trattamento sembra destinato
ad assumere una posizione centrale nelle riflessioni sul contratto del terzo
millennio.
3 - Un chiarimento preliminare sul significato di una regola di parità in
materia contrattuale
Oltre all'accortezza, già raccomandata dalla migliore dottrina, di non
confondere tra il preteso problema della parità ("equilibrio") fra le
parti dello stesso contratto ed il problema, che qui esaminiamo, della parità -
dipendente dal comportamento di uno stesso contraente - tra controparti
contrattuali, l'ulteriore equivoco da evitare, nell'avviare una riflessione
sulla parità di trattamento, è di intendere la parità anche o esclusivamente in
senso sostanziale (arg. ex art. 3, comma 2 Cost.), così pretendendo di fare del
contraente un veicolo di parità sostanziale fra le sue controparti che
contribuisca a rimuovere ostacoli all'uguaglianza di fatto (Gleichberechtigung),
secondo il modello della c.d. discriminazione indiretta nel rapporto di lavoro.
Una simile idea è infatti inaccettabile, posto che il contratto - nel nostro
ordinamento - è uno strumento dell'economia di mercato, e, quale che sia il
modello di economia di mercato che si assuma a base dell'indagine, comunque una
regola che fosse incentrata sulla parità sostanziale esigerebbe il controllo da
parte del contraente della meritevolezza degli interessi che ciascuna
potenziale o attuale controparte contrattuale si ripromette di soddisfare con
la conclusione (o l'adempimento) del contratto; e poi esigerebbe un confronto
tra la (meritevolezza degli) interessi di ciascuna controparte e la redazione
di una scala gerarchica, in base alla quale dovrebbe poi essere determinata la
condotta da adottare sul mercato. Senonché, correttamente, di un siffatto
genere di controllo è già stato scritto che sarebbe inconcepibile - notiamo:
inconcepibile già se affidato ad un organo terzo ed imparziale, non al contraente
- posto che "le infinite relazioni di scambio, in che il mercato si
risolve, non sono sottoposte ad alcun controllo di merito" ed "è
proprio l'assenza di fini comuni prescritti a rendere possibile una società di
uomini liberi".
La rimozione degli ostacoli all'uguaglianza sostanziale a favore delle persone
povere o derelitte o escluse non può essere affidata al contratto e sarà invece
affidata - nei modi e nelle misure corrispondenti alla contingente volontà
politica - a norme diverse da quelle che costituiscono il diritto dei
contratti, e così ad es. a misure fiscali e di assistenza, ai servizi pubblici.
Profondamente differente è il significato di una regola di parità in materia
contrattuale.
La parità di trattamento nel contratto deve intendersi come obbligo da parte
del contraente di adottare uguali comportamenti nei confronti di più
controparti, così da garantire alle controparti pari opportunità - secondo il
modello nordamericano della equal opportunity - nell'accesso al mercato.
Pertanto, quando noi discutiamo se si applichi al contraente la parità di
trattamento, noi ci chiediamo se il contraente debba trattare in maniera uguale
le sue controparti; si tratta di Gleichbehandlung che coincide - se si vuole
ricorrere per sveltezza del ragionamento alle categorie pubblicistiche
dell'uguaglianza formale o sostanziale - con gli esiti di un approccio in
termini di parità formale (arg. ex art. 3, comma 1 Cost.).
La parità di trattamento in materia contrattuale potrà dunque comportare a
carico del contraente l'obbligo di adottare comportamenti uguali nei confronti
delle controparti.
Così, per fare solo alcuni esempi, l'impresa, non potrà essere tenuta, oltre i
limiti del dovere di buona fede, ad inserire condizioni diverse e peggiori nel
contratto con l'impresa in condizioni di dipendenza economica o potrebbe esser
tenuta ad adottare nei confronti di tutti i consumatori indistintamente la
stessa politica nella sostituzione dei beni non conformi (cfr. art. 130
cod.cons.); il rivenditore non potrà utilizzare la lingua vernacolare,
nell'offerta al pubblico, nelle trattative o nei moduli contrattuali, con
l'effetto di escludere all'accesso ai beni una parte consistente della
potenziale clientela. Mentre è escluso che il contraente sia tenuto ad adottare
comportamenti diversi, calibrati su specifiche esigenze o sulla situazione
economica di ciascuna controparte. E così l'impresa non potrà essere tenuta ad
inserire nel contratto con l'impresa Alfa, in condizioni di dipendenza
economica, le condizioni contrattuali - diverse da quelle inserite nei
contratti con altre imprese - più rispondenti all'interesse di Alfa o ad
adottare nei confronti del consumatore la condotta più confacente al suo
peculiare interesse; il rivenditore, che parli italiano, non potrà esser tenuto
ad utilizzare anche la lingua vernacolare di ciascun singolo consumatore e
potrà legittimamente utilizzare per tutti i consumatori moduli redatti in lingua
italiana.
Con questo chiarimento preliminare conviene ora procedere ad esaminare la
regola di parità di trattamento nel contratto quale appare nei diversi settori
speciali.
4 - Parità di trattamento e contratti della pubblica amministrazione
Un regime speciale caratterizza innanzitutto i contratti della pubblica
amministrazione la quale, ai sensi dell'art. 97 Cost., deve agire con
"imparzialità".
Sebbene una parte della dottrina costituzionalistica abbia considerato i
precetti di "buon andamento" e di "imparzialità"
dell'amministrazione come mere "regole generali circa i pubblici uffici,
prive di ogni preciso contenuto giuridico", oggi si riconosce che in forza
del precetto costituzionale di "imparzialità" sussiste un obbligo di
"pari trattamento fra più privati".
É stato significativamente evidenziato proprio dalla dottrina
costituzionalistica che, storicamente, una delle prime applicazioni
dell'imparzialità è stata la legislazione in tema di contratti pubblici.
Dal canto suo la dottrina civilistica afferma che il precetto di imparzialità
comporta per la P.A. un preciso obbligo di parità di trattamento delle
controparti contrattuali.
L'opinione della dottrina costituzionalistica più recente e della dottrina
privatistica appare confortata dalla vicenda giurisprudenziale della parità di
trattamento nel contratto di lavoro. Qui infatti l'affermazione - tutto sommato
tormentata, ma ad oggi dominante - secondo cui non esiste un principio generale
di parità di trattamento è limitata ai lavoratori privati, mentre l'esatto
contrario si trova statuito per i dipendenti pubblici - anche sulla scorta di
una testuale previsione legislativa -, e la ragione risiede proprio nel dovere
costituzionale di imparzialità.
5 - Parità di trattamento e contratti B2B
Nei contratti fra imprese, i casi tradizionalmente rilevanti di deroga al
principio della libertà di scegliere se ed a quali condizioni contrattare sono
quelli dell'obbligo di contrattare a parità di condizioni che incombe sul
monopolista legale (art. 2597 cod.civ.) o sul concessionario di pubblico
servizio (art. 1679 cod.civ.). Un ruolo a sé giocano un numero non indifferente
di previsioni di settore che prevedono singoli obblighi di contrattare o
singoli obblighi di parità.
Fuori da questi casi, l'impresa non è tenuta ad una parità di trattamento delle
imprese sue controparti.
Tuttavia, una deroga legislativa al generale principio di libertà è contenuta,
oltre che negli artt. 2 e 3 della legge antitrust (l. 10 ottobre 1990, n. 287),
nell'art. 9 l. 18 giugno 1998, n. 192 a mente del quale "è vietato l'abuso
(...) che consiste (...) nella imposizione di condizioni contrattuali
ingiustificatamente (...) discriminatorie".
In forza dell'art. 9, nel contratto con un'impresa in condizioni di dipendenza
economica l'impresa contraente non può imporre condizioni contrattuali
ingiustificatamente discriminatorie.
Ad una prima lettura, il riferimento contenuto nell'art. 9 a "condizioni
discriminatorie" potrebbe indurre a ritenere che requisito della
fattispecie legislativa delineata dalla norma sia un intento discriminatorio
quale quello ad es. fondato sui fattori di discriminazione della razza,
dell'etnia, della religione o della nazionalità, e dunque che si sia in
presenza di una fattispecie di discriminazione nel contratto, non di parità di
trattamento nel contratto. Si potrebbe quindi ritenere che l'art. 9 vieti
all'impresa di imporre ad altra impresa in condizioni di dipendenza economica
condizioni contrattuali peggiori rispetto a quelle normalmente adottate,
allorquando l'atto sia ispirato da un intento di discriminazione (dolo
generico), ad es. dalla consapevolezza e dalla volontà di riservare un
trattamento peggiore ad un'impresa che si sia rivelata litigiosa.
Ma l'impressione che si tratti di una fattispecie di discriminazione sarebbe
fallace.
Non è decisivo l'argomento lessicale, posto che il legislatore utilizza spesso
l'espressione "discriminazione" per indicare una parità di
trattamento o all'inverso l'espressione "parità di trattamento" per
indicare una discriminazione.
Nel nostro caso, poiché la fattispecie riguarda la dinamica dei rapporti
commerciali fra imprese, e la sua ratio, duplice, è la tutela dell'impresa
debole e dell'efficienza del mercato, si deve escludere che l'elemento
dequalificante della disparità di trattamento sia l'intento discriminatorio e
si deve considerare rilevante la circostanza oggettiva della disparità di
trattamento, che si manifesti in presenza di una situazione di dipendenza
economica.
Pertanto, il divieto di "imposizione di condizioni contrattuali
ingiustificatamente (...) discriminatorie" va interpretato come divieto di
disparità ingiustificata di trattamento, in breve divieto di applicare
condizioni diverse senza una giustificazione.
La conclusione è che nei contratti B2B il principio della libertà di
contrattare riservando alle controparti una disparità di trattamento opera
soltanto all'infuori della fattispecie della dipendenza economica fra le
imprese: perché in presenza di una situazione di dipendenza economica
l'esercizio dell'autonomia contrattuale non è insindacabile bensì è soggetto ad
un controllo in termini di giustificazione (economica) della disparità di
trattamento.
Bisogna esser consapevoli dell'autentica difficoltà che ad oggi i giudici
incontrano nell'individuare i rimedi applicabili nel caso di violazione
dell'art. 9 l. 192/1998, segnatamente quando si tratta di fattispecie di
rifiuto di un'impresa di proseguire il rapporto contrattuale in corso con
un'altra impresa.
Ma, con questa consapevolezza, occorre registrare che un controllo in termini
di giustificazione (economica) della disparità di trattamento si rivela in
linea con gli esiti dei recenti studi di diritto regolatorio ed antitrust i
quali hanno evidenziato che l'impresa in posizione dominante è sempre tenuta a
contrattare con l'impresa che lo richieda se "non sia in grado di
presentare motivazioni commerciali che giustifichino il rifiuto".
Emblematica della tendenza qui richiamata è una recente ordinanza del Tribunale
di Napoli, la quale, per escludere che sussistesse a carico del distributore di
farmaci un divieto di rifiutare di contrattare con la singola farmacia
richiedente, ha declamato con vigore in motivazione l'incompatibilità del
prospettato obbligo di contrattare con le più elementari prerogative del
vigente principio generale della libertà contrattuale, ma, poi, ha posto a
fondamento della statuizione di rigetto l'accertamento, in fatto, che nella
fattispecie il rifiuto di contrattare rispondeva ad una precisa esigenza organizzativa
dell'impresa.
E così il dato che proviene dagli studi e dalla giurisprudenza in materia di
diritto regolatorio ed antitrust può fondatamente indurre a ritenere che un
giudizio in termini di giustificazione economica della disparità di trattamento
possa trovare nei giudici una minore resistenza rispetto a quanto è accaduto
fino ad oggi nell'applicazione dell'art. 9 a fattispecie di rifiuto di
proseguire un rapporto contrattuale.
6 - Parità di trattamento e contratti B2C
A differenza dei contratti B2B, il discorso sulla parità di trattamento nei
contratti B2C non prende le mosse da una previsione testuale.
Al solito, l'individuazione di una regola sostanziale nei contratti B2C è
particolarmente delicata, posto che la regola è destinata ad esser veicolata
dalle azioni collettive delle associazioni dei consumatori (cfr. art. 140
cod.cons.).
Il dato empirico per cui le imprese spesso tendono spontaneamente a trattare
ugualmente i consumatori che si trovano nella stessa situazione non esclude la
rilevanza della riflessione. Sia perché esiste una tendenza spontanea contraria
- che si manifesta nel miglior trattamento riservato ai clienti migliori, ai
clienti abituali, ai clienti meno (o punto) litigiosi - sia perché la stessa
tendenza spontanea al pari trattamento si manifesta sovente con la
predeterminazione di condizioni diverse per "categorie" di clienti ed
il criterio di distinzione è, a sua volta, suscettibile di controllo.
Non a caso, varie, variamente ispirate ma tutte molto intense sono le ragioni
addotte nel tempo dalla dottrina contro l'accoglimento di un generale principio
di libertà dell'impresa di riservare una disparità di trattamento ai
consumatori.
Anche qui, il primo passo consiste nell'esclusione di un'applicazione
generalizzata del precetto di parità contenuto nell'art. 2597 cod.civ.
Dopodiché, dal secondo dopoguerra la nobile tradizione di pensiero avviata
dalle pagine di Raiser invoca de iure condito un principio di giustizia secondo
cui le imprese dovrebbero applicare, nei confronti dei consumatori "di
merci di massa", la parità di trattamento.
Meno astrattamente, negli anni 60 anche parte della nostra dottrina
industrialistica ha preso ad auspicare l'accoglimento de iure condendo della
regola secondo cui gli imprenditori sarebbero tenuti ad osservare una parità di
trattamento nei confronti delle controparti contrattuali non professionali.
E di recente, in dottrina è stata prospettata un'interpretazione dell'art. 2,
comma 2 lett. e) cod.cons. - laddove riconosce quale diritto fondamentale dei
consumatori quello alla "equità nei rapporti contrattuali" - nel
senso di imporre la "parità di trattamento" dei consumatori, che
sarebbe destinata ad applicarsi tanto al momento della conclusione, quanto
della esecuzione del contratto.
Alle voci che si succedono in dottrina senza soluzione di continuità si
aggiunge, a mio avviso, una regola occulta di parità che si va affermando in
giurisprudenza con riguardo alle condizioni normative - non economiche - dei
contratti dei consumatori.
Invero i giudici statuiscono che le clausole dei contratti con i consumatori,
derogatorie dello ius dispositivum, sarebbero inefficaci perché abusive, in
ragione dello squilibrio di potere tra impresa e consumatore e dell'assenza di
una trattativa.
La regola, soprattutto perché veicolata dalle azioni collettive, è orientata ad
incentivare le imprese a modificare preventivamente i contratti eliminando le
clausole difformi dallo ius dispositivum, alternativamente o sostituendole con
clausole riproduttive dello ius dispositivum ovvero eliminando qualsiasi
disciplina volontaria così da lasciare spazio all'applicazione della regola
suppletiva. In questo modo, ad una tendenziale parità di trattamento spontanea,
consistente nell'adozione, nei confronti della generalità dei clienti
consumatori, di clausole liberamente predisposte dall'impresa, si sostituisce
una parità di trattamento imposta, che consiste nell'applicazione a tutti i
clienti consumatori delle regole suppletive di legge.
L'uguaglianza, che ne deriva, dei contraenti davanti alle norme dispositive
integra, a mio avviso, una regola curiale (occulta) di parità alimentata
dall'opinione - presente in dottrina - secondo cui il consumatore non sarebbe
in grado di avviare e condurre con successo una trattativa con l'impresa. Non a
caso la constatazione dell'assenza di potere contrattuale del "consumatore
di massa" già costituiva il punto di partenza delle riflessioni di Raiser.
Di fronte a queste voci dottrinali ed a questa tendenza giurisprudenziale,
ritengo siano opportune alcune osservazioni.
Un obbligo di pari trattamento dei consumatori non sembrerebbe potere essere
disgiunto da una fissazione autoritativa ex ante (amministrativa) o da un
controllo autoritativo ex post (giudiziale) sulla misura del corrispettivo,
perché, altrimenti, l'obbligo di pari trattamento potrebbe tradursi in un
potere generalizzato dell'impresa di ottenere un corrispettivo esoso se del
caso contrattando con i primi consumatori un prezzo di comodo al fine di
ottenere poi da tutti lo stesso prezzo.
La prospettiva di una fissazione autoritativa ex ante del prezzo comporterebbe
la conseguenza dell'applicazione a qualsiasi contratto di consumo della norma
penale di cui all'art. 19 r.d.l. 22 aprile 1943, n. 245 la quale dispone che a
chi esercita un'attività commerciale o uno spaccio aperto al pubblico è fatto
divieto del rifiuto di vendere merci il cui prezzo sia stato fissato
dall'autorità.
Quanto ad un controllo ex post, da parte del giudice, ad esso non potrebbe
sfuggire il corrispettivo: non a caso l'autorevole dottrina che di recente ha
proposto di interpretare l'"equo trattamento" (anche) come "pari
trattamento" ha proposto contestualmente di interpretare
"equità" anche come "equità del corrispettivo". E qui
bisogna registrare che, allo stato, la dottrina assolutamente prevalente ha
respinto la proposta di assoggettare il corrispettivo a controllo.
Non solo.
L'accoglimento di un generale principio di parità di trattamento nei contratti
dei consumatori può rivelarsi incompatibile con l'esercizio dell'attività
d'impresa - pur tenuto conto del limite dell'utilità sociale (art. 41, comma 2
Cost.) - poiché, in assenza di disposizioni speciali di legge o regolamento che
siano giustificate da esigenze pubblicistiche attinenti a specifici mercati, si
pensi al costo dell'energia elettrica, oggetto di controllo e di intervento da
parte di un'Autorità indipendente, l'esercizio della libertà d'impresa richiede
la libertà di modulare le condizioni economiche e normative del contratto a
seconda delle esigenze e delle convenienze del momento e richiede altresì che
il consumatore sia incentivato costantemente a ricercare sul mercato, oltre
alla qualità del bene o del servizio, anche le migliori condizioni economiche e
normative - che presuppongono la diversità delle condizioni offerte dalle
diverse imprese - così da esercitare appieno il ruolo, che l'economia di
mercato gli assegna, di arbitro della produzione e del commercio.
Alcuni esempi semplici consentono di illustrare questo fenomeno. Il falegname
riceve in un giorno tre proposte di appalto di servizi per la ristrutturazione
di tre appartamenti in costruzione. Egli sa che accettando le tre proposte ed
iniziando immediatamente l'esecuzione dei tre lavori potrà, il giorno successivo,
accettarne una eventuale quarta soltanto se potrà apporre una clausola
contenente un termine iniziale che differisca di almeno quaranta giorni
l'inizio dei lavori. È ovvio che ciò dipende dalla sua organizzazione, ed è, a
mio avviso, altrettanto impensabile che il quarto cliente possa pretendere di
eliminare il termine iniziale per la ragione che esso era assente nei primi tre
contratti o che il falegname sia tenuto per ogni singolo contratto a fornire la
prova della sussistenza di una ragione della disparità di trattamento. Ancora.
Due giorni prima della festa del santo patrono la pasticceria riceve dal
milionario del borgo, che intende celebrare il compleanno con alcuni amici, una
richiesta anomala di acquisto di torte e dolciumi. Il pasticcere sa che se
soddisfa la richiesta del milionario gaudente non potrà poi soddisfare quella
che il giorno dopo gli perverrà dal curato per la festa dell'oratorio. Anche
qui il pasticcere è libero di soddisfare la richiesta del milionario e degli
amici di quello e, col ricavato, andare al mare con gli amici suoi, proprio il
giorno del santo patrono, mentre all'oratorio si celebra, senza torte.
Gli esempi mostrano anche che un obbligo di parità di trattamento, ancorché
disgiunto da un obbligo di contrattare, finirebbe sempre per imporre
all'impresa una specifica attività preparatoria analoga a quella che l'impresa
è tenuta a porre in essere per assicurare a tutti i richiedenti l'erogazione
del servizio, ciò che non si giustifica in presenza di un'impresa operante in regime
di concorrenza (cfr. art. 2597 cod.civ.).
Queste semplici osservazioni mostrano che il controllo in termini di parità tra
il prezzo o un termine di consegna inserito nel contratto predisposto ieri ed
in quello predisposto oggi potrebbe irrigidire al punto da snaturare l'attività
dell'impresa e potrebbe essere contrario alla primaria esigenza che il mercato
determini in maniera tendenzialmente libera l'incontro tra domanda ed offerta.
L'accoglimento di una regola di parità nei contratti B2C appare dunque
fortemente problematico: forse la dottrina industrialistica degli anni 60,
quando auspicava de iure condendo l'adozione di una regola di parità, pensava
ad una ingiustificata disparità di trattamento - come poi perspicuamente reso
esplicito e chiarito dalla migliore dottrina civilistica - e forse il suo
auspicio era di prevenire abusi ai danni dei consumatori, auspicio accolto
dalla legislazione consumeristica di derivazione prevalentemente comunitaria,
senza bisogno di una rigida regola di parità.
7 - Parità di trattamento e contratti P2P
Dove sembra resistere una generalizzata libertà di trattare diversamente le
controparti contrattuali - non però di discriminare - è nei contratti fra
privati, settore conservativo del diritto dei contratti, dominato
principalmente - com'è stato acutamente osservato - dai contratti di
compravendita (o locazione) immobiliare.
8 - La parità di trattamento nelle leggi speciali: sintesi. Conviene
sintetizzare ciò che abbiamo sin qui esposto
La pubblica amministrazione, soggetta all'art. 97 Cost., non può trattare
diversamente le sue controparti contrattuali.
L'impresa monopolista legale e concessionaria di servizio pubblico è tenuta
alla parità di trattamento delle sue controparti, siano esse imprese o consumatori.
Varie discipline di settore prevedono obblighi di contrattare; un obbligo di
parità di trattamento era previsto per i contratti bancari.
Fra imprese, l'insindacabilità dell'atto di esercizio della libertà
contrattuale non opera nel diritto regolatorio ed antitrust ed in presenza di
una dipendenza economica, perché l'impresa deve allegare una giustificazione
economica dell'applicazione alle sue controparti di condizioni diverse.
Nei contratti dei consumatori, una regola di parità è invocata dalla dottrina e
statuita (occultamente) dai giudici.
Solo fra privati sembra operare senza eccezioni - ma sempre con il limite del
divieto di discriminazione etnica, razziale, nazionale o religiosa - il
principio generale dell'insindacabilità della scelta se ed a quali condizioni
contrattare.
9 - Conclusione del contratto, contenuto, adempimento, esercizio dei poteri
contrattuali
La parità di trattamento - secondo le indicazioni della migliore dottrina - è
un capitolo della conclusione e del contenuto del contratto: e dunque, come
abbiamo anticipato in premessa, sono certamente fattispecie rilevanti il
rifiuto di contrattare e la determinazione di clausole diverse.
Ciò è ben visibile nella lettera dell'art. 2597 cod.civ., il quale prevede due
obblighi, il primo di concludere il contratto - perché non concludere il
contratto con Tizio rappresenterebbe la più evidente disparità di trattamento -
, il secondo di osservare la parità di trattamento nella determinazione del
contenuto.
Senonché, a mio avviso, la parità di trattamento, se sussiste al momento della
conclusione e della determinazione del contenuto, deve estendersi anche
all'adempimento del contratto ed all'esercizio dei poteri contrattuali.
Innanzitutto, accade non di rado che la distinzione tra il rifiuto di
contrattare del contraente e l'inadempimento appaia come una mera tecnicalità.
È così quando i beni o servizi con i quali il nostro contraente si rivolge al
mercato sono oggetto alternativamente di un invito ad offrire rivolto al
pubblico (in tal caso, il trattamento diverso e peggiore consisterà in un
rifiuto) o di un'offerta al pubblico (in tal caso, il trattamento diverso e
peggiore consisterà in un inadempimento). La (labilissima) distinzione di già
mostra, a me pare, che la parità di trattamento non riguarda la sola
conclusione bensì riguarda anche l'adempimento.
Inoltre, la disciplina dell'inadempimento e quella dell'adempimento delle
obbligazioni mostrano che possono darsi rilevanti casi di disparità.
Così, se il contraente rifiuta, consapevolmente, di adempiere nei confronti di
Tizio (cfr. art. 1225 cod.civ.), quando invece adempie regolarmente nei
confronti di Caio e Sempronio.
Così, se il contraente adempie nei confronti di Tizio con diligenza media (art.
1176 cod.civ.) o con cose di qualità non inferiore alla media (art. 1178
cod.civ.) mentre nei confronti degli altri clienti adempie con diligenza o cose
di qualità superiore.
Così, l'art. 1218 non disciplina la scelta del contraente quale debito
adempiere e l'art. 2901, comma 3 cod.civ., stabilendo che l'adempimento di un
debito scaduto non è soggetto a revocatoria, consente di inferire che essa è
libera, salva la responsabilità del contraente nei confronti dei creditori
insoddisfatti. Dunque, la scelta quale debito adempiere può nascondere una
disparità di trattamento: non sarà inutile ricordare che, all'inizio del secolo
scorso, la teoria "comunitaria" della parità di trattamento aveva
preso le mosse proprio da un caso in cui si era posto il problema della parità
nell'adempimento, in particolare nell'adempimento da parte del contraente nei
confronti di più controparti contrattuali creditrici di cose di genere
(limitato) che erano parzialmente perite così da rendere impossibile
l'integrale adempimento di tutti i debiti.
Molti altri sono i rilevanti profili di una possibile disparità
nell'adempimento in executivis, che in questo scritto non è possibile
richiamare.
A mio avviso, la ragione prima e sufficiente per cui la riflessione sulla
parità di trattamento deve estendersi anche all'adempimento del contratto ed
all'esercizio dei poteri contrattuali è che, se chi non può riservare alle
controparti una disparità di trattamento in fase di conclusione e di
determinazione del contenuto del contratto potesse però riservare una disparità
di trattamento nell'adempimento e più in generale in fase di esecuzione,
l'obbligo di parità sarebbe beffardo, posto che la controparte contrattuale cui
sia riservato un trattamento peggiore in executivis sarebbe sempre priva - o
subirebbe un pregiudizio nel godimento - del bene o del servizio che le serve.
In breve, una regola di parità non richiederebbe soltanto regole sostanziali
inderogabili, bensì anche enforcement, e così - senza sostituire o anteporre i
rimedi all'attribuzione dei diritti - effettività della tutela dell'interesse
giuridicamente rilevante.
Certo in un'ottica formalistica si potrebbe osservare che mentre in via di
principio qualsiasi contraente è libero di scegliere con chi contrattare, in
presenza dell'obbligo di parità il contraente è tenuto a contrattare con chi
gliene faccia richiesta e, mentre in via di principio qualsiasi contraente è
libero di determinare il contenuto del contratto, è l'obbligo di parità ad
attribuire alle controparti un diritto al pari contenuto del contratto. E così
si potrebbe osservare che un obbligo di parità di trattamento in executivis non
si giustifica, dal momento che già in via di principio qualsiasi contraente ha
diritto all'adempimento del contratto: a differenza della conclusione e della determinazione
del contenuto del contratto, l'adempimento è un atto non libero, bensì oggetto
di un obbligo.
Ma un simile approccio sarebbe spiegabile con la non commendevole tendenza ad
assegnare "al diritto il centro della scena" così trascurando il modo
come "si concreta l'esercizio del diritto o l'adempimento del
dovere". Si tratterebbe quindi di un approccio formalistico, in quanto
teso a risolvere ogni questione di parità con la semplice attribuzione di
diritti.
Basta pensare che, se è vero che la prestazione oggetto dell'obbligazione
contrattuale è dovuta, e così che tutte le controparti contrattuali già si
trovano in una situazione di parità perché possono attivare i rimedi per
l'inadempimento, tuttavia soltanto l'esecuzione spontanea soddisfa l'interesse
primario del creditore e lo pone al riparo dal rischio dell'insolvenza (cfr.
art. 2740 cod.civ.). Per fare alcuni esempi, l'impresa che riceve puntualmente
la fornitura di materie prime è in situazione diversa dall'impresa che riceve
le materie prime con ritardo; il consumatore che acquista un impianto stereo e
lo utilizza con piena soddisfazione appena rientrato in casa è in situazione
diversa dal consumatore che deve attivarsi per chiederne la riparazione o la
sostituzione e c'è pure un'apprezzabile disparità fra il consumatore che riceve
puntualmente la sostituzione del bene ed il consumatore che deve attendere per
giorni la riparazione. Ed è acquisito che "la somma di denaro (che integra
il risarcimento per equivalente) (non) corrisponde alla valutazione pecuniaria
della prestazione inadempiuta: essa invece corrisponde alla valutazione
pecuniaria del danno che è stato conseguenza dell'inadempimento".
Insomma, adempimento spontaneo ed adempimento coattivo o risarcimento per
equivalente non sono equivalenti.
Occorre poi riflettere che la posizione contrattuale è caratterizzata da
ulteriori diritti potestativi, azioni, aspettative connessi alla qualità di
contraente.
Sia l'esecuzione della prestazione sia gli atti di esercizio di una situazione
attiva quale il potere di risoluzione, di eccezione dilatoria, di recesso
possono costituire l'occasione per una disparità di trattamento.
Così, è ben chiaro che la situazione delle imprese in situazione di dipendenza
economica i cui contratti contengono un'identica clausola che prevede il
recesso ad nutum a favore dell'impresa predisponente è ben diversa, a seconda
che l'impresa predisponente eserciti, o meno, il diritto di recesso. Lo stesso
vale per una clausola risolutiva espressa. Ed è pure chiaro che il differente
grado di tolleranza degli inadempimenti, ad es., dei franchisee, da parte del
franchisor, incide profondamente sui diversi rapporti contrattuali e
rappresenta un indice molto significativo del trattamento uguale o diverso che
il franchisor riserva ai franchisee.
10 - (segue) L'estensione dell'obbligo di parità all'adempimento ed
all'esercizio dei poteri contrattuali nei contratti del monopolista legale e
nell'abrogata disciplina dei contratti bancari
Per saggiare le difficoltà di una possibile estensione dell'obbligo di parità
all'adempimento ed all'esercizio dei poteri contrattuali è utile muovere dalla
considerazione dei contratti del monopolista legale e dei contratti bancari.
Per i contratti del monopolista legale l'obbligo di parità nella conclusione e
nella determinazione del contenuto è testuale.
Il significato e la portata dell'art. 2597 cod.civ. possono ben dirsi
ampiamente sviscerati. Ciò che nell'esame dell'art. 2597 cod.civ. è stato ben
ponderato è la questione se la parità di trattamento sia una mera ancella
dell'obbligo di contrattare, come opinano i più, o se, come pure taluno ha
affermato, sia l'obbligo di contrattare ancillare dell'obbligo di parità di
trattamento. Per la soluzione della questione non fornisce argomenti la littera
legis dove compare il gerundio "osservando", riferito alla parità di
trattamento, che legittimerebbe sia l'interpretazione per cui il precetto di
parità dipenda da quello di contrattare e sia ad esso subordinato, sia che
invece sia il precetto di parità sia ad esso coordinato e, dunque, che sia
autonomo ed ulteriore.
Eppure né nella dottrina specialistica né nei precedenti giurisprudenziali si
trova la formulazione del quesito, se il soggetto che, per espressa previsione
di legge, non può riservare alle controparti una disparità di trattamento al
momento della conclusione del contratto - cioè, deve contrattare, e deve
contrattare a parità di condizioni - possa riservare una disparità di
trattamento in fase di esecuzione. In altre parole, è assente il quesito se,
oltre che erogare a tutti il servizio, l'impresa monopolista debba anche
trattare in maniera uguale, nell'esecuzione dei contratti, tutti i clienti,
indipendentemente che ciò influisca o meno sull'obbligo di erogare il servizio.
Si pensi al caso in cui l'Enel eserciti nei confronti di taluni clienti, ma non
di altri, la facoltà, prevista nelle condizioni generali di contratto, di
sospendere l'erogazione del servizio decorsi ad es. 8 giorni dal ricevimento,
della fattura senza che sia intervenuto il pagamento oppure per qualsiasi
inadempimento anche relativo a rapporti diversi od a precedenti forniture
cessate.
Conviene indugiare sulle conclusioni alle quali si giunge nell'interpretazione
dell'art. 2597 cod.civ.
Costituisce opinione accreditata che nell'art. 2597 l'obbligo della parità di
trattamento sia meramente funzionale all'obbligo di erogare il servizio,
quindi, di contrattare con chiunque; in altre parole, che la parità di
trattamento in tanto si giustifichi, qui, in quanto occorre evitare che il
monopolista introduca disparità in senso lato vessatorie per un potenziale
cliente aspirante al servizio al fine di eludere l'obbligo di contrattare.
La Corte di cassazione ha avuto occasione di statuire che "Nei contratti
di fornitura attinenti a servizi pubblici essenziali, deve ritenersi consentita
la previsione di un termine, con facoltà dell'ente fornitore di disdetta alla
relativa scadenza, al fine di evitare la rinnovazione tacita del rapporto,
senza che siffatta clausola sia soggetta ad autorizzazione od approvazione
dell'autorità di vigilanza (posto che limiti alla libertà negoziale sono
contemplati solo per le tariffe e gli altri corrispettivi); peraltro, tenendo
conto dell'obbligo di contrattare e di osservare la parità di trattamento, di
cui all'art. 2597 c.c., l'esercizio di detta facoltà è legittimo solo se
funzionale alla stipulazione di una nuova fornitura, secondo condizioni
conformi a quelle praticate agli altri utenti, ed altresì obiettivamente
ragionevoli ed eque". La massima assoggetta al controllo di parità
l'esercizio della facoltà di disdetta. Il limite è sempre strumentale
all'obbligo di non interrompere la fornitura del servizio.
La Corte di cassazione ha anche avuto occasione di richiamare l'obbligo di
esecuzione del contratto secondo buona fede a sostegno della tesi secondo cui
il monopolista dovrebbe riservare un trattamento equo a ciascun cliente.
Un conforto, sul piano sistematico, all'estensione della regola di parità dal
momento della conclusione e della determinazione del contenuto a quello
dell'esecuzione giunge anche dall'abrogata disciplina vigente per i contratti
bancari.
L'espressione "parità di trattamento" era nota al legislatore
speciale che la utilizzava all'art. 8 l. 1 marzo 1986, n. 64, rubricato
"Uniformità del trattamento praticato da aziende ed istituti di
credito", il quale disponeva che "Le aziende e gli istituti di
credito, salve le disposizioni della presente legge, debbono praticare, in
tutte le proprie sedi principali e secondarie, filiali, agenzie e dipendenze,
per ciascun tipo di operazione bancaria, principale o accessoria, tassi e
condizioni uniformi, assicurando integrale parità di trattamento nei confronti
dei clienti della stessa azienda o istituto, a parità di condizioni soggettive
dei clienti, ma esclusa, in ogni caso, la rilevanza della loro località di
insediamento o della loro sfera di operatività territoriale".
Questa "parità di trattamento" - la cui paternità era da attribuire a
Gustavo Minervini - appariva riferita, nell'ambito suo proprio di applicazione,
e cioè nei contratti bancari, non solo al momento della conclusione del
contratto, bensì anche al momento della sua esecuzione.
Invero l'obbligo di parità disciplinava l'esercizio dello ius variandi delle
condizioni economiche e normative, che alla banca spettava in forza della
clausola contenuta nei contratti da essa predisposti: la portata del precetto
era di vincolare la banca, tanto a predisporre contratti uguali, quanto a
procedere a variazioni uguali, generalizzate così rideterminando paritariamente
il contenuto del contratto.
11 - Alcune considerazioni conclusive
Nel secolo scorso la parità di trattamento era oggetto della dottrina
"comunitaria" che, da un lato, ne escludeva l'operatività negli
scambi di mercato, dall'altro, concepiva la regola, anche nei settori in cui la
riteneva operante, come derogabile. Infatti, la parità non era concepita come
una regola di protezione, bensì come una regola residuale destinata a risolvere
conflitti di diritti in situazioni di scarsità dell'offerta dipendenti,
normalmente, da una "crisi" della concorrenza. Se solo si guarda al
precedente del Reichsgericht del 1914 dal quale la dottrina
"comunitaria" ha preso le mosse - i creditori di cose di genere limitato
parzialmente perite subiscono un'identica riduzione pro quota del credito - si
comprende che la parità era concepita come una mera tecnica per disciplinare
una situazione di scarsità (l'analogia con la par condicio creditorum è
evidente).
Oggi dalle plurime fonti che individuano regole di parità emerge che le regole
hanno sempre natura inderogabile. E ciò si comprende, posto che ratio delle
regole è sempre l'esigenza di protezione delle controparti contrattuali dalla
parzialità della P.A., delle imprese in situazione di dipendenza economica
dall'approfittamento da parte di altre imprese, dei consumatori dagli abusi e
dagli squilibri a vantaggio dell'impresa.
L'obbligo di parità di trattamento della P.A. nei confronti della controparte
contrattuale integra un preciso obbligo civilistico, da considerarsi
inderogabile.
È sanzionata testualmente con la nullità la clausola ingiustificatamente
diversa (art. 9, comma 2 l. 192/1998).
È un "diritto fondamentale" - e dunque è inderogabile - il diritto
dei consumatori all'"equo" - interpretato come "pari" -
trattamento".
Dunque regole non residuali che attribuiscono un diritto indisponibile ad un
trattamento uguale o non ingiustificatamente diverso.
Assumendo che la parità di trattamento esprima la "negazione dell'arbitrio",
è importante notare da subito la differenza di fondo tra la regola di parità
nei contratti B2B e B2C.
Se il trattamento deve essere non ingiustificatamente diverso (B2C), è la
giustificazione economica ad esprimere la "negazione dell'arbitrio".
Sicché l'impresa, che abbia predisposto condizioni diverse per l'impresa Alfa e
per l'impresa Beta, oltre a provare che Alfa e Beta non si trovano in
situazione uguale, potrà giustificare l'inserimento di una condizione diversa e
più svantaggiosa nei contratti con Alfa sulla base, ad esempio, delle proprie
esigenze organizzative o di produzione o delle condizioni di mercato. Nell'art.
9 l. 192/1998, la disparità di trattamento opera come una presunzione semplice
dell'"abuso" - recte approfittamento - della situazione di dipendenza
economica, salva la prova di una giustificazione economica. Non occorre, perché
si applichi l'art. 9, che la clausola contrattuale diversa sia
"gravosa" (perché la "imposizione di condizioni contrattuali
ingiustificatamente gravose" è una fattispecie ulteriore e diversa di cui
allo stesso art. 9): è sufficiente che la clausola contrattuale sia diversa sia
più svantaggiosa. Resta da indagare se - contro la stretta lettera - la
disparità di trattamento nell'art. 9 operi come una presunzione semplice
dell'approfittamento, oltre che nell'"imposizione di condizioni
contrattuali", anche nel "rifiuto di vendere o di comprare" o
nell'"interruzione delle relazioni commerciali in atto".
Se invece il trattamento deve essere uguale (B2C), siamo in piena Etica
nicomachea, dove è proprio la parità di trattamento ad esprimere la
"negazione dell'arbitrio". Ne discende che l'impresa deve inserire la
stessa condizione nei contratti con i consumatori Tizio e Caio, salvo soltanto
provare che Tizio e Caio non si trovano in una situazione uguale. Il che
significa tra l'altro che l'impresa non può pretendere di far valere contro
Tizio, per giustificare il suo trattamento diverso e più svantaggioso, le
proprie esigenze organizzative (ragione, questa, tra le più delicate e che -
come ho evidenziato sopra - suggeriscono cautela nell'individuazione di una
regola di parità nei contratti B2C).
Sul piano dei rimedi, mentre la dottrina "comunitaria" della parità
di trattamento si era dimostrata molto carente, la ricostruzione dei rimedi è
oggi al centro dell'indagine, sulla scorta innanzitutto delle singole
previsioni testuali, ma senza rinunciare alla ricerca di principi e regole
costanti.
Una conclusione, non definitiva, si impone.
Nel terzo millennio il tema della parità di trattamento nel contratto non è,
non è più, il tema del futuro segnalato da Rodolfo Sacco sin dall'edizione del
"Contratto" del 1975.
Il tema della parità di trattamento nel contratto è un tema del presente.
* Il saggio qui pubblicato rappresenta una prima stesura di un saggio, corredato di note, in corso di preparazione da parte dell'Autore.
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